IHSAHN
The Adversary
2006 - Candelight Records

ALESSANDRA PULGA
29/04/2020











Introduzione recensione
L'avversario. Un strano titolo, per quello che rappresenta: a cinque anni dallo scioglimento degli Emperor, e dopo la conclusione del progetto Peccatum, Ihsahn inaugura con questo album la sua carriera solista. L'occasione perfetta per lui, che fin dagli esordi ha votato tutta la sua produzione musicale all'innovazione del suono, e sempre del tutto insofferente a qualsiasi pressione esterna, a chiunque si sentisse in diritto di scegliere per lui che forma dovesse avere la sua arte. Il primo album da solista dovrebbe essere come una sorta di liberazione, la possibilità di dare finalmente libero sfogo a tutte quelle influenze che erano rimaste in qualche modo ancora strozzate, nei lavori degli Emperor. Decide addirittura per la strada della self-production, in modo da non dover rendere conto a un'altra figura del suo lavoro, cosa che aveva mal sopportato durante la registrazione dei quattro album in studio con la sua storica band. E allora chi è, l'avversario? A chi è rivolto questo sentimento ostile, quando si direbbe che ora, in un progetto solista, l'avversario non c'è più? Può essere solo una persona, e cioè lui stesso. Lui che aveva sciolto gli Emperor, che non era rimasto fedele al sound tradizionale, che non produce ciò che i fan si aspettano da lui, è ora l'avversario dell'intera scena Black, da sempre con le idee molto chiare ed estremamente intransigenti su come deve essere inteso il trve norwegian black metal. Ma Ihsahn non c'è mai stato, a lasciare che la sua creatività fosse relegata a un solo modo di concepire la musica. Ciò che gli è sempre interessato è rompere gli schemi, e la scena Black, mossa inizialmente dal desiderio di spingersi sempre più in là, di sviluppare il sound più ostico possibile, è ora diventata troppo rigida, troppo chiusa alle innovazioni per non stargli stretta. Quello stesso sottogenere, fondato dai Venom e dalla loro necessità di ribellione, è ora diventato ciò a cui ribellarsi. Ma la riflessione diventa più ampia, andando a indagare il rapporto stesso tra pubblico e innovazione, tra società e arte: l'ostilità, il sospetto che viene dedicato a chi anticipa i tempi, al nuovo, la cui grandezza viene riconosciuta solo quando ormai è troppo tardi. Non è il primo, Ihsahn, a fare i conti con una situazione di questo tipo nell'ambito della musica estrema: ai Celtic Frost era capitato lo stesso, quando le critiche ai loro più grandi capolavori erano state così feroci da causare la caduta libera della loro carriera. Ma, se i Frost tentarono di assecondare le tendenze del pubblico, diventando protagonisti di un tragico cambio di sound, Ihsahn va avanti per la sua strada, accettando le ostilità di una scena di cui fa ancora parte, ma che non ha più l'esclusiva su di lui. Sulla copertina, dunque, non poteva che esserci Lucifero: l'angelo caduto, il ribelle per eccellenza, compare da solo, avvolto nell'oscurità tranne che per il volto, illuminato da una sinistra luce rossa, come se si trovasse sotto le impietose luci di un palcoscenico. Del resto, chi meglio di Lucifero, che scelse di rifiutare il piano già scritto in onore della libera scelta, della possibilità di trovare una via alternativa a quella già data; o di Prometeo, che per amore del progresso disubbidì agli dei, può rappresentare la decisione di Ihsahn di seguire la propria idea di musica come sperimentazione, come l'apertura di nuove strade e l'invenzione di nuovi generi, senza curarsi dell'aspettativa di un sound tradizionale che, da ex frontman degli Emperor, ci si aspetta da lui? Non sono pochi i riferimenti culturali di qualsiasi tipo che trovano spazio nei testi, ma ancora più importante è la cura dedicata alla composizione: la prima, primissima cosa che si nota in questo disco è la sua raffinatezza. È incredibile come si sia potuto mettere in relazione sound opposti tra di loro senza mai dare un risultato forzato o caotico. Ogni elemento è amalgamato alla perfezione, ogni pezzo è studiato a regola d'arte. Il lavoro sulla struttura dei brani e la loro disposizione nella tracklist è meticoloso, in modo da creare un costante contrasto tra le infinite diverse sonorità che dimorano nel disco, ma riuscendo comunque a rimanere lineare, fedele a se stesso. E proprio riguardo a questo, molto si deve al periodo nei Peccatum, il progetto Avant-garde che condivise con la moglie, Ihriel, e il cognato, e nel quale ha potuto esplorare le sonorità più disparate: dall'elettronica al gothic, passando per industrial e progressive. Il frutto di quel periodo di "allenamento" si nota anche in The Adversary: il Black, che nei lavori con i Peccatum era stato quasi completamente tralasciato, e ridotto solo ad una mera influenza tra le tante, fa finalmente ritorno, ma la sua freddezza quasi impersonale è stavolta mitigata da un'espressività che ci è nuova. Inoltre, si fanno più forti gli elementi sinfonici che avevamo già trovato spesso nei lavori degli Emperor, mentre un nuovo range di influenze di tutti i tipi si mescolano insieme, riuscendo comunque a creare un sound unitario e unico nel suo genere.

Invocation
Una prima traccia impeccabile su tutta la linea: sullo stampo di un'invocazione omerica, si tratta a tutti gli effetti di un proemio epico. Non sono però le muse ad essere pregate, ma l'apocalisse, la distruzione, il caos: è un vero inno all'oscurità e agli abissi. Ancora una volta, quegli stessi simboli così utilizzati nel Black sono invocati per assistere al suo cambiamento. Ma non è per il suo testo che Invocation diverrà una delle tracce di punta di Ihsahn: ciò che lascia sorpresi è il magistrale lavoro di composizione, che riesce a mettere a confronto non solo due generi differenti, ma le diverse "anime" dell'intero disco: una prima parte Black, che lascia poi spazio all'Heavy, su ispirazione di Judas e Mercyful Fate. Questa volta non abbiamo un intro strumentale e sinfonico, ma una violenta sfuriata. Già nel corso della prima strofa, però, ci si rende conto che non siamo proprio tornati ai vecchi tempi: si, la presenza del blast beat, eseguiti magistralmente da Asgeir Mickelson, e della voce nell'inconfondibile e unico scream di Ihsahn sono elementi familiari nell'ambiente estremo, e aleggia anche, velata, quella freddezza apatica che caratterizza il sound del Black, ma ci troviamo in realtà già subito gettati in un velocissimo gioco tra tastiere e chitarra, incastonate tra una strofa e l'altra, quasi come se prendessero il sopravvento ogni volta che la voce incontra una pausa. Stupendo è il modo in cui la chitarra è qui utilizzata, in uno stile che ricorda vagamente Dimebag. "Let it all come Down", è la frase che fa da spartiacque all'interno del pezzo. E da qui in poi lo scream si fa espressivo come raramente capita di sentire. Le tastiere prendono il sopravvento, l'atmosfera si fa solenne, mentre Ihsahn sembra quasi posseduto da una foga che stacca completamente da quella freddezza che percepivamo nella prima parte del brano. Non c'è messaggio più eloquente che porre una frase come questa come cesura tra il Black tradizionale e la sperimentazione di nuove sonorità: "lascia che tutto questo crolli", lascia che la musica vada avanti, e così che anche il Black si possa modificare. E poi, la calma: una parte strumentale dominata dalle tastiere, stavolta più rilassate, anticipa una serena strofa in clean. Le influenze si fanno molto vicine all'heavy dei Judas e dei Mercyful fate, fino ad arrivare ad un acuto in falsetto che riconsegna la conclusione del pezzo ad una ripresa della prima strofa e della sua furia, con cui Called By The Fire andrà a contrastare.

Called by the Fire
Se nel pezzo precedente ammiravamo un ritorno al Black, con buone influenze Heavy metal, qui la situazione si inverte: Ihsahn deve stimare davvero molto King Diamond, perché Called By The Fire può essere pensata come un omaggio ai Mercyful Fate. Istantaneamente, questo pezzo ci rigetta indietro di una trentina d'anni: ci accoglie un classico intro heavy e una prima strofa in clean che potrebbero tranquillamente aprire una traccia di Melissa. Ihsahn si lascia andare a quegli stessi virtuosismi propri di King Diamond, dando prova di una grandissima abilità vocale (su cui non avevamo mai avuto dubbi). Ma anche nel più profondo salto nel passato, il nostro non rinuncia a qualche piccola chicca di novità: è infatti il canto estremo che conclude la prima strofa e introduce il ritornello, ancora una volta molto classico, chiuso addirittura da un acuto falsetto. Ma quello che più attira l'attenzione dell'ascoltatore è ciò che accade subito dopo: è una sola parola sussurrata, "eternally", che introduce un riff di piano, e basta quello a portare la traccia su un crinale sinistro. Una strofa in toni quasi lirici dà un'impressione cristallina, irreale, ma quasi di disagio, che coinvolge anche la prima parte dell'assolo. Comunque, si rasserena in fretta, ributtandoci di nuovo sul ritornello. Quest'ultima parte del pezzo, però, pecca di qualche difetto che aveva coinvolto anche i Mercyful Fate, a loro tempo: questo falsetto risulta fin troppo forzato, e il pezzo, nel suo insieme, ripetitivo. Si sposa bene nel contesto dell'album, creando un ottimo spacco tra due tracce dal sound più violento, ma il ritornello, di per sé già molto ridondante, ripetuto più di una volta in conclusione al brano risulta forse un po' eccessivo. Comunque, un elogio va sicuramente al lungo assolo posto poco prima della conclusione, che vede un ottimo lavoro sul basso e sulla chitarra ritmica, elementi che danno quel quid di originale, indispensabile per non cadere nello scontato. Ma Called By the fire è anche la prima, nuova traccia, completamente discostata da ciò che eravamo abituati ad aspettarci da Ihsahn, che sorge quasi come una "spiegazione", una presa di posizione: questa "chiamata dal fuoco" non è altro che una necessità bruciante, quasi morbosa, da un lato, di tornare al metal, dopo una latitanza di ben cinque anni, ma dall'altro un bisogno di innovarsi continuamente, di non rimanere fermo in un punto, nonostante quella "ragnatela di sussurri" che sembra circondare ogni artista, che guarda con crescente maldicenza ogni ombra di cambiamento. Una ragnatela che si fa sempre meno importante, fino ad essere solo trasparente, di fronte alla sicurezza che quel fuoco regala a Ihsahn, ora abbastanza forte da guardare il cielo, diventato scuro sopra di sé, e riderne. (the black cloud is beneath me/ and i laugh).

Citizen
Blast Beats già subito nell'intro, e lo scream di Ihsahn ci travolge. Appare già istantaneamente il fortissimo contrasto con la traccia precedente: un black feroce, anche se mitigato dall'uso delle tastiere, ci sorprende in questa terza traccia. La furia non accenna a diminuire, anzi, la velocità del riff e della batteria aumenta sempre di più, padroneggiando il pezzo e gettandoci nella confusione, nella frenesia, nel caos?fino ad arrivare ad un forte break, che ci porta direttamente nel mezzo di un dolcissimo e cristallino instrumental: come una ninna nanna, il malinconico suono del piano stacca completamente, come una calma dopo la tempesta. La sensazione che dà è fortissima, come ricadere sulle proprie ginocchia dopo una rabbia bruciante, sotto l'assolo di chitarra che ricalca le stesse note del piano. Si apre un intenso dialogo diviso tra malinconia e rassegnazione, espresse dal clean in un tono amaro di completa disillusione, e uno scream disperato, straziante. Ma la ferocia del Black prende nuovamente il sopravvento, per concludere la traccia con ancora più rabbia, al culmine della foga. L'ultima parola, però, rimane a un breve, solenne assolo, che ci lascia con un senso di superiorità, quasi di vittoria, come se tutto il pezzo fosse stato un costante e frenetico duello; una vittoria, però, quasi triste, vana. Ma cosa ci racconta, questa traccia, al di là del tono rabbioso che esprime? Citizen è forse una delle tracce più forti ed eloquenti dell'intero album: riprendendo quella stessa critica sociale espressa in Called By the Fire, l'affronta da un diverso lato, scagliandosi direttamente contro il bigottismo, l'indifferenza, le maschere, l'ipocrisia di dire "we are all peers", già smascherato nel brano precedente. Solo nell'ultima strofa affronta il tema dell'arte e il complicato rapporto con il pubblico: la critica si sposta sulla condanna con cui sono puniti i migliori artisti: il rifiuto verso i pensatori rivoluzionari, verso coloro che cantano fuori dal coro, che si spingono oltre i confini, per poi essere riconosciuti come grandi solo quando ormai è troppo tardi. Ma il cittadino non impara dai suoi errori, e altri rivoluzionari verranno condannati, in nome di una grandezza passata, e già osteggiata a suo tempo. Così, in un circolo vizioso senza fine, rimangono intrappolate le più grandi menti. Anche Ihsahn si ritrova a dover fare i conti con questo: la sua capacità di pensare fuori dagli schemi e rivoluzionare costantemente la sua arte è una vittoria sulla massa, ma l'avversario che affronta è conservatore, ottuso e molto potente, e quello stesso pubblico capace di innalzare un artista può distruggerlo in un attimo e senza remore. Quella vittoria, quel fuoco che spinge Ihsahn sempre oltre i confini del suo sound può costituire la sua fine, e di questo è consapevole.

Homecoming
Dopo una delle tracce più feroci del disco, Homecoming è un momento di relax. Si può pensare come un intermezzo, che anticipa un cambio di registro che da qui in poi vediamo nello sviluppo dell'album. Per quest'unico brano, Ihsahn decide di cedere lo scettro a Garm, degli Ulver, che interpreta magistralmente la voce. È un pezzo, nuovamente, puramente Heavy, ma decisamente più moderno di quanto non fosse Called by the Fire. Si tratta di un ritorno alle origini, agli albori del metal stesso, dalle morbide influenze ancora legate al rock, sistemate però in una struttura per niente classica: ciò che caratterizza questo brano sono i continui cambi di ritmo lungo tutta la sua durata, quasi come fosse il mixaggio di una tipica canzone Heavy; inoltre, le strofe sono solamente due, e il modo in cui la voce si pone ricorda un accompagnamento alla parte strumentale, più che il contrario. Colpisce dapprima un intro possente, che anticipa ben altro dalla linea morbida che domina il brano. La prima strofa è infatti composta da un tono malinconico, vagamente teatrale ma più rilassato, quasi cullato dalle tastiere che reggono la base strumentale. Uno splendido crescendo di basso porta al punto culminante della strofa e dell'intero pezzo, che si risolve in un'accelerazione del ritmo, scandito dai piatti della batteria di Asgeir, e una grinta quasi rabbiosa nella voce, poi sfumata per lasciare spazio a un'alternanza tra la dolcezza della tastiera e il tono più deciso dell'assolo di chitarra. Curioso e molto originale è però il ruolo che gli viene dato: se nell'Heavy classico l'assolo è il punto chiave della traccia, qui fa invece da sfondo alla voce di Garm che inizia la seconda strofa, per poi riprendere potenza, spezzandola con un nuovo instrumental. Particolare è anche come qui la chitarra si inclini verso sfumature sinfoniche, quasi come una riscrittura in chiave metal di pezzi orchestrali. Poi, un nuovo rallentamento, che ci avvia verso la conclusione della traccia. La voce di Garm si trova di nuovo in balia delle tastiere, dando quasi una sensazione di mistica contemplazione, cornice perfetta al testo: se nella prima strofa la malinconia regnava sovrana, sancendo il fallimento, l'errore di riporre fiducia nell'uomo e nella società, in questa seconda fase troviamo un ritorno a se stessi, l'unica cosa su cui abbiamo il pieno controllo. Solo ricominciando da sé, con una nuova prospettiva, si può cogliere quello che, infine, il tono contemplativo che chiude la canzone celebra: "inesprimibile e senza nome è ciò che causa la dolcezza e il dolore nella mia anima".

Astera Ton Proinon
Una black metal ballad, come lo stesso Ihsahn l'ha definita, è il pezzo in cui le influenze dei Peccatum si fanno più sentire. Ci troviamo, infatti, veramente di tutto: da una base heavy contrapposta a una voce in scream, a influenze progressive di ogni tipo. Si tratta di una delle tracce più eloquenti e importanti dell'intero disco, l'unica esplicitamente dedicata all'entità raffigurata sulla copertina, e posta esattamente al centro della tracklist, a indicare il nodo concettuale che regge tutto l'album. Il contrasto con Homecoming è profondissimo e coinvolge l'intera composizione dei due brani: se il pezzo precedente presentava influenze classiche disposte in un modo completamente atipico, Astera Ton Proinon è il primo pezzo del tutto Avant-garde, ma dalla struttura più tradizionale. Il titolo in greco significa "stella del mattino", l'epiteto di Lucifero prima della sua caduta. Ancora una volta si tratta di un tributo ai pensatori rivoluzionari, personificati nella figura del Diavolo, visto come colui che, nel bene e nel male, ha comunque cambiato il volto del mondo. Ci accolgono toni sinfonici, che quasi pennellano l'atmosfera di un'avvolgente malinconia, che la prima strofa, completamente in clean, riprende in un tono straziante ma cristallino, calmo. Un lento, calibrato crescendo porta ad un ritornello in cui esplode lo scream, in un dialogo costante con elementi lirici che danno alla canzone un'aria lontanamente religiosa. Da qui in poi, tutto il resto della canzone vede una continua alternanza tra più elementi: la seconda strofa, una citazione biblica (dal libro di Isaia 14; 12-14, che narra il momento della caduta e della ribellione di Lucifero a Dio), alterna un calm down immediatamente successivo al ritornello, a uno scream, quando Lucifero prende parola in prima persona, per dichiarare la sua superiorità sui cieli, la sua grandezza nei confronti degli uomini, imperfetti e fallibili. Ancora tornano di nuovo le note del ritornello, incredibilmente espressive, che contrastano però con un nuovo oscurarsi dell'orizzonte: nella successiva strofa completamente in scream, fredda come il gelo, l'espressività della componente strumentale è ridotta completamente, ed è qui che Lucifero (o forse lo stesso Ihsahn?) esprime il suo pensiero, le ragioni sotto la sua ribellione: non c'è niente se non l'imperfezione nell'uomo, un essere senza alcuna speranza, senza alcuna prospettiva se non la miseria. E poi tutto sembra vertere su una drammatica, serrata battaglia scoppiata all'improvviso tra tutti gli elementi in gioco finora: un assolo di chitarra che fa da sfondo a cori lirici, in un dialogo con lo scream sulle stesse note del ritornello, qui quasi dipanato, scomposto, per fare spazio a più elementi insieme; una battaglia che richiama alla perfezione quella stessa guerra che colui che diventò Satana ingaggiò con le schiere angeliche. Ma tutto termina in una disperata, ultima parola, "Ascend", che sfuma, cade nel vuoto, in un outro scarno e oscuro.

Panem et Circenses
«[populus] duas tantum res anxius optat/panem et circenses»
"il popolo brama ansiosamente solo sue cose: il cibo e il divertimento"
Con questa citazione passata alla storia, il poeta satirico Giovenale bacchettava la plebe e i suoi bassi desideri. Ihsahn non poteva scegliere espressione migliore per il titolo di questo pezzo, nella quale critica ancora più aspramente il pubblico. Questa volta, però, non si riferisce alla società e all'arte in generale, ma va ancora oltre, lanciando una velenosa frecciata direttamente all'ambiente estremo: si riferisce proprio ai suoi fan, quelli rimasti legati ai lavori dal sound più scarno che aveva prodotto con gli Emperor. Panem et Circenses è una delle tracce più furiose del disco, come un balsamo per i nostalgici innamorati di In The Nightside Eclipse: un pezzo durissimo, che vede una ripresa di sintetizzatore e tastiere nello stesso modo in cui più di una volta avevano attraversato il sound feroce dell'album d'esordio e che lo avevano reso unico. Ma suona quasi come se una provocazione, come a dire "È questo, quello che volete? Bene, Eccovelo". Non è affatto gentile, infatti, soprattutto nel testo. A questo punto diventa chiaro che il nostro non si sta impegnando per niente per farsi amare dalla scena estrema, anzi sembra fiero di essere visto come un avversario e si impegna al massimo per aderire completamente a questo ruolo, in un sentimento di assoluta superiorità. Riprendendo costantemente l'allegoria con le arene nell'antica Roma, mostra quella stessa, inquietante emozione che portava il popolo romano ad amare il sangue nei giochi gladiatori, si scaglia contro l'amore per la violenza, contro il macabro così bramato dalle folle. Il punto di vista è quello di una delle "attrazioni", che si scontrano tra loro, che soffrono e muoiono per il divertimento della folla. E Ihsahn si chiede se è questo che i fan vogliono, che il pubblico ritrova nel metal estremo: un intrattenimento macabro, vuoto di qualunque significato se non quello del divertimento, con gli artisti a fare da mere attrazioni, e nulla di più. In tutta la canzone, c'è solo un momento più calmo, strappato alla ferocia del black, quasi come se il gladiatore stesse fronteggiando la folla, in attesa: quello stesso pubblico in visibilio è inconsapevole che "le ossa costruiranno scale verso il futuro", che la civiltà si baserà su fondamenta insanguinate per poi rinnegarle, per poter odiare la superficialità della massa attratta dal dolore; per poter odiare, prima o poi, anche il sound estremo, quando il suo tempo sfumerà.

And He Shall Walk in Empty Places
Questa volta abbiamo una continuità, invece che un contrasto: And He Shall Walk In Empty Places si prospetta, di nuovo, come un'esplosione di potenza. Ci troviamo nuovamente di fronte a un brano Black, non impersonale come il precedente, ma molto più espressivo, cosa che evinciamo già subito nell'intro, con una partecipazione delle chitarre che danno a tutta l'atmosfera un'aria quasi avvincente, drammatica. In generale presenta più influenze melodiche rispetto a Panem Et Circenses, anche nella feroce prima strofa: Asgeir si ritrova a fare gli straordinari e i suoi blast beats hanno decisamente il dominio. Un'importanza molto minore rispetto alle precedenti tracce, invece, tocca qui alle tastiere, totalmente assenti in questa prima parte. La struttura è molto particolare, perché a questo punto ci aspetteremmo un ritornello, e invece abbiamo un lungo momento dalle influenze groove che occupa tutta la parte centrale del pezzo: vediamo qui un rallentamento della batteria e una presa di posizione più forte della chitarra; la voce, invece, verte sul clean. C'è qui, oltretutto, una breve ripresa delle tastiere, ma solo per pochi secondi, per poi essere di nuovo sommerse dallo scream, con il quale, dopo un assolo che spezza l'ultima strofa, si conclude la traccia. Questa rappresenta una delle parti vocali più intense del disco, che vede uno scream disperato, rabbioso: da brividi. Ed è proprio qui che si nomina per la prima e ultima volta nell'album la figura dell'avversario. Questa traccia è del tutto dedicata a lui, che cammina in luoghi vuoti, con in mano la propria vita, in direzione del sorgere di una nuova era. Tutti gli altri sono rimasti indietro, intrappolati nel proprio tempo, incapaci di vedere oltre. L'avversario è colui che ce l'ha fatta, che ha avuto quello che tutti desiderano, ma che è odiato per questo. In suo onore, in onore del successo e di chi lo ottiene, Ihsahn compone questo disco, in celebrazione della forza d'animo, perché ci vuole una determinazione che non è comune per non lasciarsi schiacciare dal peso dell'aspettativa di altri sulle proprie spalle.

Will You Love Me Now?
Strano, stranissimo titolo per una canzone come questa. Addirittura Mickelson si è detto perplesso quando Ihsahn gli ha comunicato quale sarebbe stato. Perché Prospetta una canzone dolce, dai toni romantici e l'atmosfera calda?e invece non è nulla di tutto questo. Si conclude con questo pezzo un capitolo tutto Black iniziato con Astera Ton Proinon. Si può tranquillamente affermare che sia la traccia più feroce del disco, con clean quasi inesistente e influenze Avant-garde presenti, ma ridotte all'osso. Sarebbe stata davvero bene in Anthems to The Welkin at Dusk. Lo sviluppo delle strofe e la durezza del sound, freddo come il gelo, ricordano a tutti gli effetti un pezzo tradizionalmente Black, a parte forse per la prevalenza della voce sulla componente strumentale, meno preponderante di quanto non fosse nei primi lavori degli Emperor. Non esiste ritornello, ma abbiamo un break sul finire della traccia, che lascia al clean l'occasione di partecipare al brano, solo per qualche secondo, nel suo momento culminante. Il modo in cui la chitarra è utilizzata lungo tutta la durata della canzone è assolutamente perfetto, con un lieve, lievissimo sentore di Industrial e un'impronta molto vicina a una reminiscenza dall'elettronica, rendendo originali anche le parti dal sound più duro. L'influenza delle tastiere si fa sempre più forte lungo le prime strofe, fino ad arrivare a quel "will you love me now?", cantato in clean, in un tono quasi romantico, speranzoso, che catalizza in sé quel sentimento che muove tutto il disco: un amore non solo verso l'arte, al quale Ihsahn resta fedele per tutta la vita, ma anche ai suoi fan, e qui, con questa frase, vediamo la lacerazione che lo porta a rivolgersi direttamente a loro. Si tratta di una richiesta di continuare a credere in lui, nonostante la lontananza ormai incolmabile dal rigore del Black della prima ora. Questa traccia è la prima rivolta specificatamente al proprio pubblico, a cui Ihsahn parla direttamente. Citizen e Panem et Circenses tiravano delle frecciate, ma in qui i fan vengono chiamati in causa per rispondere a una domanda rivolta proprio a loro: "mi amerete ora?". Una domanda strana, ma indice di un dilemma profondo: è possibile che i fan ti amino comunque, che ti capiscano, se ti discosti da ciò che loro bramano, ma che tu non senti più tuo? È questo che Ihsahn chiede a sé e a loro. Con The Adversary si ripromette di scardinare dalle fondamenta qualunque forma di commercialità, di accondiscendenza verso gli ascoltatori, di inseguire l' innovazione e di mettere in musica quello che realmente prova. Ma dopo aver fatto questo, mettendo a nudo quale sia la piega che prenderà la sua arte da qui in poi, dopo aver dimostrato che anche ciò che il pubblico ritiene nuovo e sperimentale risponde sempre a canoni prestabiliti, a forme già prefabbricate, e dopo averle distrutte una dopo l'altra, scardinando le basi di un genere "sacro e intoccabile", come lo è il Black, sarà amato lo stesso? con una rabbia cieca in questo pezzo Ihsahn si scaglia in modo diretto contro quegli stessi ascoltatori che lo hanno seguito per tutta la sua carriera, e con sfida si apre a loro, smarcandosi da quel giogo sulle sue spalle che gli imponeva una fedeltà ad un genere che fin dall'esordio cercava di rinnovare. Un rischio, per lui, ma che accetta a testa alta, scegliendo di discostarsi completamente da tutto ciò che era stato fatto finora per intraprendere una nuova via. Ma il suo pubblico sarà abbastanza forte, abbastanza aperto da seguirlo lo stesso?

The Pain Is Still Mine
Siamo alla resa dei conti, alla traccia finale che tira le somme dell'intero disco. Spicca innanzitutto per la sua durata, quasi il doppio degli altri pezzi, per un totale di più di dieci minuti. Ci accoglie la malinconia profonda dell'intro, espressa con il solo suono del pianoforte, pacato ma velatamente solenne, in attesa. Neanche l'attacco delle chitarre e la presa di posizione sempre più forte delle tastiere distolgono il pezzo dalla sua vena teatrale. Già, perché quest'ultima traccia è un vero e proprio melodramma: più che un canto, siamo al cospetto di una recitazione. Basta addentrarsi nella prima strofa, anche solo di qualche secondo, per accorgersi quanto lo stile sia particolare: Ihsahn sta recitando questa traccia, ed è una scelta perfetta, perché riesce a trasmettere in modo del tutto originale un'incredibile espressività. Ma è il suo significato che la rende non solo una conclusione perfetta, ma anche strettamente legata a Will You Love Me Now. The Pain Is Still Mine è un cammino di redenzione: le prime otto tracce avevano espresso una forte, fortissima critica verso la società, e un concetto di superiorità dell'artista parecchio radicale, fino a risultare quasi arrogante. Ma la verità, il vero sentimento che Ihsahn prova di fronte all'ostilità del suo pubblico, viene fuori solo in quest'ultimo brano. È come se la forza devastante della traccia precedente abbia sollevato il velo di quella rabbia che Ihsahn provava nei confronti del suo pubblico, aprendo la strada alla scoperta di ciò che c'è sotto. Si tratta di un attimo, un solo istante e un dubbio amletico si insinua, si impossessa della voce, cambia il tono della traccia, e Ihsahn si domanda se il problema non sia lui, che non riesce ad aderire a questo mondo all'apparenza così semplice, superficiale, e al contempo così opprimente, fino a ridurre l'anima ad un grido distante. Una folgorazione sulla via di Damasco, un grido di orrore, e tutto acquista senso. Ed ecco che la realizzazione di questa inadeguatezza non del mondo, ma dell'artista, e della sua impotenza davanti al suo malessere, porta ad un tormento, a una disperazione profonda, e infine alla necessità di guardare con una luce diversa tutto ciò che si è fatto finora. Un clean non teatrale e controllato, ma sconvolto, anticipa un lungo assolo. C'è un rinnovato vigore che accompagna la riflessione, la presa di coscienza: come si può essere arrivati a essere avversari del proprio pubblico? Ed ecco che Ihsahn ripensa a come nasce un sognatore come lui, al modo in cui un artista si allontana dalla massa sperando di trovare pace, sentendosi come l'angelo maledetto, descritto in Astera Ton Proinon, o la bestia in Panem et Circenses, oppure come l'Avversario stesso, presentato in And He Shall Walk In Empty Places. Ma se queste sono maschere, cosa c'è davvero, se non un potenziale ancora latente, una rabbia ancora inesplosa e una frustrazione, un dolore ancora una volta solo suo? È solo questo il motivo di tutto, il dolore: il bisogno di esorcizzarlo è la spinta che porta Ihsahn a produrre musica di grande profondità. Ma quest'arte parla a troppe poche persone, perché non tutti possono arrivare a cogliere la vera essenza di un'opera, ciò che ha spinto l'artista a produrla. Ed ecco anche dove sta la chiave di questo disco: nella disperazione, che torna di nuovo dopo che il tormento sfuma nuovamente, nell'orrore di fronte alla verità, ma anche nella sua accettazione. Finalmente la vera anima dell'album viene tirata fuori e la rabbia lasciata indietro, esorcizzata in altre tracce: quello che resta è un dolore di fronte al quale si è impotenti. Il brano si chiude pacato, tranquillo, e "Il dolore è ancora mio", l'ultima frase del disco, è ripetuta sia in scream che in clean, come a sottolineare ancora una volta la sua doppia natura, sviluppata alla perfezione nel corso di tutti i brani, prima di un outro di piano che riprende quel tono malinconico con cui questa traccia era cominciata. Ed ecco, la furia non c'è più, ma il dolore, invece, resta.

Conclusioni
Se si dovesse riassumere questo disco in due parole, sarebbero sicuramente "drammaticità" e "raffinatezza". La prima perché tutto l'album è una grande rappresentazione teatrale, un'epopea che mette in scena l'eterno dramma dell'artista di fronte al suo pubblico e lo affronta da tutti i punti di vista: è come un monologo su un palco, con Ihsahn sotto i riflettori mentre mostra quasi con sfida un cambio radicale del suo sound, un nuovo e innovativo stile che ridefinisca tutto ciò che il pubblico in platea riteneva di sapere su di lui. Ihsahn ci si scaglia contro, rivolgendovisi direttamente, rinfacciando a esso la sua superficialità. Su quel palco c'è solo lui, che si espone per come è davvero: non ci sono i suoi precedenti lavori, non c'è la sua militanza negli Emperor né quella nei Peccatum. The Adversary non è una copia di ciò che è avvenuto prima, ma un'evoluzione, un rinnovamento completo, sbattuto in faccia, se vogliamo, al suo pubblico, con l'intento di scandalizzare quella stessa scena estrema nata per scuotere dalle fondamenta il suo tempo. Ma quel momento in cui il sound doveva essere il più radicale possibile e non erano ammessi sgarri è passato, almeno per Ihsahn, e la musica deve poter andare avanti. The Adversary però è anche una presa di coscienza, che passa da un sentimento di assoluta ostilità e di rabbia, al dolore, infine ammesso come ragione di tutto quanto, come motore per la ricerca di una pace con se stessi che solo la creazione di arte che lui sente come propria può in qualche modo esorcizzare. È in tre atti che questo disco si articola: il primo si chiude con Homecoming, ed è a tutti gli effetti una presentazione. Qui, Ihsahn scopre le sue carte, ci mostra quale sarà il senso di questo lavoro. Homecoming anticipa e narra di un ritorno alle origini, ma con una nuova prospettiva, e così è: il secondo atto vede quattro tracce tutte legate saldamente al black, il punto di partenza, il genere che ha dato il via alla carriera di Ihsahn quando lui aveva solamente diciotto anni. Ma sono brani caratterizzati da un black particolare, non più così sporco, né radicale. Tutte e quattro mostrano un differente modo di pensare il Black, a riprova che la musica è cambiata, e ci sono così tante frontiere ancora inesplorate che il pubblico si rifiuta di vedere. E poi l'ultimo, drammatico atto, che chiude il cerchio, riassumendo in se tutti gli elementi e impadronendosi di quella consapevolezza: il Black pretendeva di parlare a pochi, "evil music for evil people", per dirlo con parole famose. Ma alla fine di tutto, dopo più di dieci anni dallo sfumare della Second Wave, qual è il senso? Perché cercare il sound più difficile possibile, se viene svuotato del proprio significato? E se il motivo è solo compiacere i fan, qual è la differenza tra metal estremo e pop? Questo è quello su cui Ihsahn si scaglia lungo tutta la durata di questo album, la tendenza a un appiattimento, una cristallizzazione del tempo, che porta al soddisfacimento dei fan, ma al prezzo di sacrificare non solo l'originalità e il progresso, ma anche di perdere di vista il vero motivo dietro la propria arte, e così di perdere se stessi. The Pain Is Still Mine è questo, la presa di coscienza che la ragione per cui un artista crea è sfogare il proprio malessere, non compiacere il pubblico. È il suo dolore, non il loro. Ma in questa rivoluzione qualcosa del suo stile rimane, e lo stesso elemento che aveva caratterizzato tutta la sua produzione Black viene traghettato anche nella sua carriera solista, anche se in forma del tutto differente: la raffinatezza è sempre stata una prerogativa di ogni lavoro di Ihsahn, persino con gli Emperor, quando il loro sound tendeva quanto più vicino possibile a quello di una tradizionale band della Second Wave, quel tocco raffinato e impeccabile non mancava mai. Ora, finalmente solista, libero di discostarsi un po' dallo sporco del Black, questo lato caratteristico e inconfondibile pennella ogni nota del disco, regolando il modo in cui ogni elemento interagisce con gli altri. Il risultato è un sound ricchissimo, variegato, sempre originale, e mai confusionario. In un intenso gioco diviso tra furia e malinconia, tra le sonorità più pompose e quelle più scarne e fredde, ciò che non troviamo sono passaggi forzati: il sound fila liscio, lineare per tutta la durata del disco. Ma la sua raffinatezza non si ferma alla parte strumentale: i testi sono curati nei minimi dettagli, dal linguaggio usato ai personaggi che vengono descritti nei pezzi: tra protagonisti e antagonisti, attraverso cui vediamo raccontato il dramma del disco, e un lessico ricercato, amletico, la teatralità disegnata dalla sfera strumentale penetra in ogni parola, che sia in scream o in clean. le due anime che hanno contrassegnato l'intera produzione artistica di Ihsahn sono qui, per la prima volta, alla pari: non abbiamo il sound più estremo che domina con la sua furia, né quello più classico; il duello rimane aperto, sempre costantemente serrata, e nessuna delle due parti cede. In un'epica battaglia, quest'album mette in relazione due grandi modi di pensare la musica: una potente, furiosa scarica di adrenalina, che lacera l'anima di un ascoltatore con una forza devastante, contro una più riflessiva e profonda connotazione melodica, capace di spingere ad una riflessione quasi dolorosa. Ma entrambi, in fin dei conti, valgono allo stesso modo: sono due facce di una stessa medaglia, opposte ma parte di un unico intero. Ed è quando, finalmente, si accettano entrambe, che può iniziare la magia.

2) Called by the Fire
3) Citizen
4) Homecoming
5) Astera Ton Proinon
6) Panem et Circenses
7) And He Shall Walk in Empty Places
8) Will You Love Me Now?
9) The Pain Is Still Mine


