IHSAHN

angL

2008 - Candlelight Records

A CURA DI
ALESSANDRA PULGA
01/06/2020
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione recensione

Avevamo appena fatto i conti con l'idea di un cambiamento radicale, dopo che The Adversary ci era stato sbattuto in faccia con tutta la sua rabbiosa drammaticità; e l'avevamo accettato, questo cambiamento: il primo disco venne accolto straordinariamente bene, per essere così aggressivo e diverso. La sua aria di sfida e le sue sonorità quasi pompose fanno breccia nel cuore della scena estrema contro tutte le aspettative possibili; anche contro quelle, sembrerebbe, di Ihsahn stesso. A questo punto, è chiaro che l'attesa per il secondo capitolo della sua incredibilmente promettente carriera solista è tanta, e ci si aspetta un album che sia in linea con il cambiamento che il primo aveva annunciato: forse ancora più drammatico, oppure vicino ai lavori Avant-garde che erano stati propri dei Peccatum. Ma mai nessuno si sarebbe aspettato qualcosa come AngL. Si può pensare, addirittura, come un capovolgimento totale rispetto a The Adversary, quasi come se ne fosse l'altra faccia della medaglia. Il netto contrasto è evidente già dalla copertina: i riflettori colorati dell'album precedente si sono definitivamente spenti, fino a lasciare solo una flebile luce, in cui distinguiamo appena, l'angelo caduto, Lucifero, che fa ritorno immerso in ombre che ne sfocano l'immagine. È come se la ribellione violenta cantata due anni prima sia completamente sfiorita, lasciando un'aria malinconica, crepuscolare. Fedeli alla copertina, le sonorità del disco dipingono proprio questo: una nuova freddezza, molto più rassegnata di quanto non fosse lo slancio aggressivo dell'ultimo lavoro, è messa in luce con un bilanciamento più preciso degli elementi sperimentali fusi insieme. Ma cambia qualcosa anche su questo fronte: se in The Adversary Ihsahn gridava la sua rabbia con influenze Heavy e Groove, qui si preferisce la delicatezza del Jazz;  se prima avevamo un'esplosione di forza e sentimento collimati insieme in una teatralità vagamente epicheggiante, AngL è invece più freddo, scarno, dolorosamente apatico. Il Black fa decisamente un ritorno trionfale, dominando le sonorità Avant-garde non somiglianti a quelle che avevano attraversato The Adversary, ma che conservano una pacatezza soffice, quasi sussurrata. Tutto è, inoltre, avvolto da un'oscurità che non apparteneva al primo disco, ma che sembra ereditata dagli Emperor:  buio, quasi morboso, ricorda il sound che aveva caratterizzato IX Equilibrium e Prometheus, ma permeato da una sensazione ovattata, cristallina, data da quelle sonorità che in punta di piedi squarciano le tenebre, mostrandoci una tenerezza che, in più frangenti, ci fa domandare se Ihsahn non sia riuscito a rendere dolce persino il Black Metal. Il nuovo cambio di rotta è una sorpresa completamente inaspettata, e questa volta spacca la scena, rimasta inaspettatamente unita dopo il colpo che il primo disco pensava di assestarle, tra chi griderà al miracolo, trovandolo un lavoro più calibrato e lineare, e chi invece lo detesterà, accusando Ihsahn di disattendere la sua stessa promessa di cambiamento con un disco di ritorno agli ultimi Emperor. Ma dietro l'apparente occhiolino alle sonorità del passato, si cela un intero mondo nascosto, fatto di sfumature Jazz, sinfoniche e addirittura acustiche. The Adversary era un disco di molto più facile ascolto, ma più denso e rabbioso, con quella miriade di elementi quasi ostentati e sbattuti in faccia con sfida agli ascoltatori, come violentemente critici erano anche i testi; AngL, invece, è all'apparenza molto più estremo e gelido, con quello scream non solo prevalente, ma padrone dell'album, e questo rientra alla perfezione anche nella tranquillità inquieta che esprime nelle lyrics. È, inoltre, il lavoro sulla composizione che dà una marcia in più a tutto il disco: la struttura di The Adversary viene qui capovolta, creando tracce dalla molto più stabili, evitando il contrasto, ma in grado di risaltare molto meglio quella contraddizione tra il black più freddo e i toni sinfonici più soffici.  C'è lo zampino degli Opeth, tra queste note, e non solo come evanescente influenza artistica: Mikael Åkerfeldt partecipa come ospite nella terza traccia, Unhealer, una delle più potenti e da brividi dell'intero disco. Ihsahn decide di avvalersi, inoltre, della collaborazione del bassista Lars Norberg, che con il suo Fretless dalle linee pulite e raffinate dà un'aura più fluida e misteriosa a tutta la struttura compositiva. Se, poi, The Adversary è stato un album particolarmente raffinato, AngL rende questa caratteristica ancora più evidente, correggendo il tiro del primo disco e portando ogni elemento a legarsi ancora meglio nel contesto complessivo. Il risultato è un lavoro all'apparenza simile al sound più tradizionale da cui Ihsahn aveva cominciato la sua carriera, ma sotto cui si cela un sottobosco completamente nuovo e originale, fatto da suoni ombrosi, ricercati, ed elementi molto più amalgamati e calibrati, studiati fin nel più piccolo dettaglio per suggerire una sensazione malinconica e vagamente sinistra, ma infinitamente più pacata e sottile di ciò che ci eravamo aspettati. Quello che, anche se affrontato in modo molto diverso, non cambia, è il tema cardine di tutto il disco: ancora una volta Ihsahn ribadisce la differenza, la distanza incolmabile tra la massa e l'artista, ma in un atteggiamento molto, molto differente rispetto a quanto non fu per The Adversary: È come se il primo disco fosse una reazione di ribellione nei confronti del pubblico, e AngL tenga invece un atteggiamento di passiva superiorità, come di qualcuno che sia perfettamente consapevole della sua potenzialità, che guarda dall'ombra, con un sorriso quasi ironico e rassegnato, coloro che non possono comprenderlo. La rabbia di due anni prima non è sfumata, ma è rivolta altrove: non si tratta più di una forte presa di posizione, ma quasi una costatazione rassegnata della nera solitudine in cui si trova qualunque precursore, e un lavoro, stavolta solo interiore, per accettarla. Un sequel, quindi, che riprende da dove il disco precedente aveva lasciato per mostrare come va avanti la storia. The Adversary si presentava rabbioso, sconvolgente come quel primo momento di rabbia che coinvolge chi si trova per la prima volta a un'inaspettata e dolorosa svolta della propria vita, mentre AngL è l'inizio dell'elaborazione, dove non è l'ostilità del pubblico la cosa importante, ma la concentrazione interiore su di sé e l'accettazione del proprio destino. La riflessione si fa quindi molto più profonda, e stavolta sono i propri demoni quelli da sconfiggere.

Misanthrope

C'è così tanto degli Emperor in questa prima traccia, che colpisce come un pugno nello stomaco, veloce e cattiva come può esserlo solo il Black più oscuro. La sensazione che questo pezzo trasmette è la caduta libera: è così freddo come inizio, con questo ritmo impietoso e il riff più buio che fanno da sfondo a uno scream proveniente direttamente da sotto una lastra di ghiaccio. La reminiscenza a In the Nightside Eclipse è immediata, appena ci imbattiamo in toni sinfonici che fanno da sfondo alla durezza del pezzo, ma che non intralciano neanche per un secondo la sua ferocia; ricordano più una discesa negli abissi, che un momento per tirare il fiato. Si fanno sempre più importanti lungo la traccia, arrivando a quello che possiamo considerare il culmine della canzone, mentre la voce si fa ancora più acuta e un velo di espressività appena accennata sfiora il pezzo. Veniamo gettati in un gioco quasi confusionario tra la chitarra e i sintetizzatori, prima di un assolo di chitarra che non ci aspetteremmo, in un pezzo del genere. Persino questo, però, è capace di diventare freddo come il gelo, andando a ricalcare quella sinfonia, che sarebbe perfetta come colonna sonora per l'ingresso di un inquietante antagonista. Il punto chiave di questa traccia rimane il testo. Come già ci aveva preparato The Adversary, anche questo disco è intriso di cultura; qui, Ihsahn sceglie di lasciarsi ispirare da un autore che avrà sempre larga importanza per lui: Misanthrope è basata sull'aforisma "sulla via del creatore", contenuto in Così Parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. In esso, Nietzsche riflette sulla condizione dell'uomo, di colui in grado di anticipare i tempi, di conoscere la vera essenza della vita, ma anche la terribile solitudine che deriva da questa comprensione, comune a troppi pochi uomini per poter essere accettata. Misanthrope è dedicata a questo, alla solitudine e all'invidia che toccano in sorte come pegno per essersi distinti, per essere andati oltre a ciò che il proprio tempo concedeva. Zarathustra, rivolgendosi direttamente a questo "fratello" che si ritrova completamente solo e odiato, lo invita ad accettare questa condizione senza rabbia, senza lasciarsi prendere dallo sconforto che aveva caratterizzato The Adversary, ma accettare con superiorità il prezzo da pagare per il dono di una vita da precursore. Per presentare un disco all'insegna di questo singolo concetto, le parole di Nietzsche non potevano essere più perfette. 

Scarab

Scelta come singolo per anticipare l'uscita dell'album, si prospetta subito in continuità con Misanthrope, pur presentandosi, già nell'intro, più tranquilla. La base Black più tradizionale molla leggermente il colpo, permettendo brevi intermezzi di strumentale in dialogo con la voce. Se le influenze sinfoniche nella traccia precedente trasmettevano una sensazione tanto forte quanto gelida, qui la presenza costante della chitarra suggerisce un tiepido calore, che va a creare un ottimo contrasto con la rigidità dello scream. Poi il pezzo rallenta di colpo, catapultandoci in un'atmosfera completamente nuova. La voce in clean, dolce e quasi sussurrata, l'accompagnamento soltanto accennato e un brevissimo gioco di piatti spiazzano l'ascoltatore grazie a una sensazione cristallina, ma vagamente straniante, di disagio. La chitarra anticipa questo momento di calma, quasi scandendo i secondi con una singola nota ripetuta, creando una suspense che poi finisce per gettarci nel vuoto di una ritrovata ma inquieta serenità. La cornice perfetta per quello che questa canzone ci racconta: Il titolo, Scarab, racchiude il senso profondissimo della traccia in un simbolo, lo scarabeo egizio, emblema di eterna rinascita e rinnovazione. Si credeva che potesse rigenerarsi dopo ogni trauma, non importava quanto di lui rimanesse. Se Misanthrope invitava all'accettazione del dolore e dell'odio, qui Ihsahn riscopre una nuova e revitalizzante libertà, come se la pressione su di lui si fosse sollevata, e il sole fosse "risorto dalle ombre della notte". È incredibilmente rilassante, questa calma improvvisa, sotto la quale, però, rimane qualcosa di occultato. Si percepisce, sotto la pacatezza eterea, il palpitare di qualcosa che deve ancora esplodere. Il basso di Norberg è perfetto per creare quest'effetto. E infatti il pezzo riprende, poco dopo, di nuovo rabbioso, di nuovo tormentato: se qui si rappresenta la presa coscienza di una nuova vita, questa non si può avvenire senza dolore, un sacrificio non può mai essere solo positivo. Tornare in nuove vesti vuol dire strappare quelle precedenti, e Scarab, nella sua alternanza tra il tormento e la pace, non trasmette che questo. 

Unhealer

Non si dimentica, un pezzo come Unhealer. Non si dimentica soprattutto perché vede un dialogo tra due delle menti più innovative del metal estremo, cioè Ihsahn e Mikael Åkerfeldt. Qualcosa è cambiato, e ce ne accorgiamo immediatamente dall'intro, dove un assolo di chitarra non apatico, ma malinconico, anticipa la voce in clean di Mikael, con il suo velo di dolcezza triste, che si conserva alla perfezione lungo tutta la traccia. Quella sensazione quasi di sfioritura, di ombra appena accennata che smorza colori una volta vividi, caratteristica dello stile degli Opeth, è perfetta per una canzone come questa, rassegnata nella nuova consapevolezza, che Scarab aveva permesso di acquisire del fatto che non esiste serenità senza dolore. Questo effetto è reso ancora di più dalla scelta di affidarsi a una chitarra acustica appena accennata, e al basso fretless, che dipinge con la sua fluidità una malinconia senza confini, un crogiolarsi nella resa incondizionata alla tristezza che la prima strofa rappresenta. Ma il punto chiave del pezzo - e il più memorabile di tutto l'album - è racchiuso nel ritornello, dove un dialogo rabbioso tra il growl baritonale di Mikael e lo scream acuto di Ihsahn lascia senza parole, in un contrasto da brividi, divenuto celeberrimo. La struttura, invece, appare molto stabile e classica: la strofa successiva conserva il tono avvolgente della prima, ma stavolta la chitarra elettrica non rinuncia al suo ruolo, e accompagna Mikael fino a poco prima del nuovo ritornello, quando un rallentamento ci rigetta nel turbamento rassegnato che permea la traccia. Dura poco, però, perché di nuovo quella sensazione di assoluta maestosità che avevamo provato con quel dialogo tra entrambe le voci in canto estremo, eppure così diverse tra di loro, ritorna, facendoci gustare l'alternanza tra scream e growl che decisamente monopolizza il pezzo. L'assolo, poi, non può mancare, e quello di Unhealer si prospetta assolutamente imprevedibile dall'inizio alla fine, quasi sfidando l'ascoltatore a stargli dietro, per poi riallacciarsi con l'intro e concludendo il pezzo accompagnando la voce di Ihsahn in clean, che sfuma lentamente, assopendosi. I toni dal sapore così pacifico, si sposano alla perfezione con il testo: non si tratta di un'invettiva, ma di una costatazione. La differenza tra il pubblico e l'artista è incolmabile e totalizzante in tutti i campi, non c'è più niente che si possa fare per cambiare la situazione. È come il seppellimento dell'ascia di guerra, la rinuncia al tentativo di scuotere la scena, e invece una resa amara allo stato delle cose e la realizzazione della condanna alla solitudine. Sembra quasi che risuoni ancora la figura di Lucifero: vari sono infatti i riferimenti religiosi e la rinnegazione di Dio, come la dissociazione da tutto ciò in cui si crede, la speranza per un regno dove una figura opposta al creatore sorga e comandi sulla vita umana. Non si tratta di un'invocazione, ma una chiara certezza, come se la partita fosse chiusa e non ci sia veramente più nulla da fare.

Emancipation

Se finora l'album si è tenuto su una linea pacata e quasi vitrea, questa traccia è invece inondata da un'espressività a cui AngL ci ha disabituati. La profondità di Emancipation è uno splendido momento di respiro che spezza la latitanza emotiva che per ora ha caratterizzato questo disco. Continua il percorso di redenzione intrapreso dal nostro, quasi come se tutto l'album sia un cammino verso l'accettazione, e qui si potrebbe forse trovare  il momento culminante dal punto di vista concettuale, considerando anche che Ihsahn ha scelto di piazzare proprio Emancipation e il suo profondo significato al centro della tracklist. È splendido l'intro di questo pezzo, che vede la chitarra elettrica giocare su un'influenza vagamente elettronica, e la potenza della batteria di Asgeir, che anticipa con una furia che quasi trae in inganno, sonorità in realtà molto più rilassate e, a sorpresa, velatamente drammatiche. Ci si prospetta una prima strofa, sorprendentemente, in un clean quasi sussurrato, malinconico. Tutto è riscaldato dalla chitarra, che non abbandona neanche per un attimo quel sound triste e al contempo epico che così raramente sentiremo in altri passaggi del disco, ma che spadroneggia in questa traccia. Il ritornello, invece, è una pura esplosione: la voce cambia, passando al canto estremo, ma l'inflessione nello scream lo rende incredibilmente acuto e quasi disperato, mentre un' intensa espressività coinvolge anche la parte strumentale della traccia. Toni sinfonici fanno qui una nuova apparizione, e ci troviamo anche un brevissimo accenno di voce in clean in un'inflessione quasi lirica. La struttura è perfettamente stabile, eppure il capovolgimento tra il normale uso di scream e clean le regala una particolarità tutta sua. Una menzione speciale, sicuramente, va poi all'assolo, uno dei più riusciti dell'album, espressivo fino a commuovere e perfetto per una traccia come questa. Il tono estremamente malinconico che caratterizza le strofe torna nuovamente subito dopo, e qui troviamo il vero senso di questa traccia, quando l'artista sembra comprendere davvero ed esprimere, in un sussurro rassegnato, cosa vuol dire inseguire la propria grandezza: una solitudine e un dolore profondo, ma volontario, attraverso quella strada verso la libertà che però è così piena di spine. Ma d'altronde, non c'è ritorno, per un'anima che abbia sciolto i legami che la relegavano in basso; rimettere i piedi al suolo, con questa nuova consapevolezza, è ormai impossibile. Inizia con Emancipation, dunque, la vera battaglia interiore, che spinge Ihsahn a dover fare i conti con questo e cercare un modo, infine, per accettarlo.

Malediction

Se Emancipation si presenta come una delle tracce più eloquenti del disco, Malediction è invece una doccia gelida. Torna ad assumere, infatti, quell'aria indecifrabile che avevamo assaggiato con Misanthrope, e ci spiazza completamente con il suo tono così assurdamente inespressivo. La sua vena in tutto e per tutto Symphonic Black è molto più accentuata di qualunque altro pezzo in questa tracklist: i toni sinfonici assolutamente ghiacciati e le influenze Avant-garde connotano di quella stessa vena originale propria degli ultimi Emperor un brano di fatto durissimo. La prevalenza del clean di Emancipation qui viene completamente cancellata dalla ferocia cieca del canto estremo più freddo di cui Ihsahn sia capace. Anche la struttura si impegna a creare la sensazione meno familiare possibile. Il ritornello non sembra esistere, se non per un lieve velo di espressività in un intermezzo strumentale che divide le due strofe. Diviso è anche l'assolo, anche questo privato di ogni emozione e connotato da un'apatia che fa quasi rabbrividire, separato dall'accenno di una strofa in scream. Con l'assolo abbiamo l'unico rallentamento del pezzo, che interrompe per un attimo la rapsodica danza tra Black metal e toni sinfonici così simili a quelli che avevamo sentito in Misanthrope, e che ferma per un attimo quella stessa sensazione di caduta nell'abisso che domina tutta la traccia. Scelta perfetta, perché è proprio la condanna a una caduta quello di cui questo la canzone ci parla. Sotto accusa è ora la capacità di Ihsahn di creare arte, e la sua assoluta profondità nei concetti che esprime, descritti come frutto di un patto con il diavolo, un dono che prende sempre più le sembianze di una maledizione da scontare con il disprezzo e il rifiuto del suo pubblico. Il primo sentimento che l'artista sembra provare, subito dopo il "giro di boa" di Emancipation è la rabbia più bruciante, totalizzante, ma anche quasi una sottomissione alle circostanze: Malediction è il momento di ritirata in se stessi, l'artista qui sembra decidere di ricoprire il suo cuore con una spessa lastra di ghiaccio e chiuderci sotto tutto il suo dolore, accettando la sua condanna all'odio, all'invidia, alla solitudine con una nuova e totalizzante freddezza. Il patto con il diavolo è così rispettato, mentre sul finire della traccia si agitano sotto la rigida muraglia ghiacciata toni sinfonici che sembrano voler riaffiorare in superficie con un'espressività solamente attutita. La condanna è accettata, con rabbia, dolore, amarezza, ma anche con qualcosa che somiglia alla sfida: i sentimenti di Ihsahn erano stati il pane di cui i fans si nutrivano, mentre in Malediction non c'è niente se non un'aria indecifrabile, mentre ogni forma di calore e dolcezza rimane bloccata nell'interiorità.  

Alchemist

C'è qualcosa di distopico, futuristico, in questo intro apatico e al contempo frenetico come può esserlo solo una pioggia di influenze elettroniche combinate insieme. Ma è poi un'atmosfera più dolce a prendere il sopravvento, a ributtarci in un ambiente più caldo. Alchemist può essere pensata come una gemella di Emancipation, vista la loro struttura identica e lo stesso clean appena sussurrato nelle strofe. Splendido è il lavoro di basso, che regge con un giro di sottofondo assolutamente stupendo la struttura del brano, mentre la prima strofa inizia a raccontarci la storia dell'alchimista, protagonista di questo brano. Influenze sinfoniche invece avvolgono il ritornello in scream, più pacato rispetto alla potenza espressiva di due tracce prima, ma molto più doloroso in quello che enuncia: dopo essersi chiuso definitivamente in sé, la solitudine lavora nell'interiorità dell'artista mangiando tutta la sua speranza di poter vivere anche un solo momento di felicità piena. Questo è quello su cui ruota la traccia intera, e l'opera su cui è basata: l'alchimista non è altro che il Dottor Faust, che nell'opera di Goethe arriva a vendere la sua anima al diavolo, per poter assaporare anche solo un momento di vita vera, per poter trovare quel significato dell'esistenza che in tutti i suoi studi aveva sempre inseguito invano. Nel primo atto dell'opera, Faust, disperato nel suo tormento, decide di scegliere la via del suicidio, arrivando a un solo passo dall'avvelenarsi, prima che il suono cristallino delle campane lo riporti indietro a tempi più felici della sua vita, facendolo desistere. Quelle campane un tempo alleviavano la sua disperazione, e per un attimo crede di poter riuscire a essere felice come lo era allora. Il patto con il diavolo in Malediction qui assume tutto il sapore della disperazione più avvolgente, quando ci rendiamo conto che, alla fine di tutto, l'arte è proprio questo: il tentativo di dare un senso a una vita, l'inseguimento di un solo attimo degno di essere vissuto. E questa disperazione entra prepotentemente nell'assolo, punto culminante di tutto il pezzo e uno dei più riusciti del disco, insieme a quello di Emancipation; entrambi splendidi nella loro complessità e nel dolore totalizzante che esprimono. Quello stesso dolore che caratterizza l'ultima, di nuovo sussurrata strofa: l'alchimista si concentra su un teschio, proprio come aveva fatto Amleto in un'opera di duecento anni prima, che sembra sorridergli quasi con scherno, e riflette sul fatto che quello una volta era un essere umano, disperato quanto lui alla ricerca di un attimo di felicità, e quanto lui confuso e perso dietro all'idea che infine non esiste niente in grado di regalarlo, forse neanche l'arte.

Elevator

Un intro splendido, forse il meglio riuscito dell'intero disco, apre Elevator, con un riff che, ancora una volta, sarebbe perfetto come colonna sonora per una discesa negli abissi più oscuri. L'accompagnamento della chitarra rimane costante, mentre ci appare uno scream quasi soffocato ad accoglierci nella prima strofa. Immediatamente, ci rendiamo conto di come questo pezzo sia diverso da quelli che abbiamo sentito finora: abbiamo avuto pezzi gelidi e altri molto dolci, ed Elevator è la sintesi perfetta di tutti gli elementi che finora abbiamo trovato in AngL. Moltissime influenze sono qui amalgamate insieme per creare una traccia Black solo a una prima apparenza, mentre sotto la superficie si agitano sonorità progressive malcelate. Sembra quasi che questo pezzo raccolga l'essenza stessa di tutto il disco, e forse è per questo che Ihsahn lo scelse come singolo, insieme a Scarab: un lavoro Avant-garde nascosto benissimo sotto cupe sonorità Black. E lo è anche nel testo: Elevator celebra l'abbandono all'oscurità, la fine della lotta, l'accettazione della disperazione; molto più di quanto non sia per gli altri pezzi. Qui, l'anima dell'artista accoglie l'oscurità non con amarezza, ma in una ritrovata serenità. Troviamo un tono chiaramente orchestrale ad anticipare il ritornello, caratterizzato da un gioco di rincorsa insieme all'onnipresente chitarra elettrica, che controlla la traccia con scale e riff in un saliscendi continuo (che sembra essere il motivo del titolo). Un piccolo, breve assolo separa le due strofe, prima di ricominciare daccapo con questo su e giù nei toni del brano. Ma stavolta troviamo, nella seconda strofa, una voce che si inclina verso toni lirici, prima di lasciarci di nuovo tra le braccia di un violino e una chitarra in rincorsa tra loro, sulle note di un brevissimo ritornello. La chitarra stavolta si getta in picchiata in una scala discendente, che ci porta dritti in una calma improvvisa, in cui spunta, addirittura, la tastiera, che affianca un clean gentile e un'atmosfera dolce e malinconica. È ora che si comprende che il significato di questo pezzo sta nel momento della morte, l'unico in cui non si può fare a meno che accettare di lasciarsi avvolgere dall'oscurità. Una nuova sinfonia ci riporta in superficie, fino alla vera anima della traccia e al sound inquieto di un affogare nel buio. Un ultimo, nuovo ritornello, chiude il pezzo, quasi come se fosse l'estremo sforzo prima di un calare definitivo della forza; prima che il diavolo prenda in consegna l'anima, stavolta non più tormentata.

Threnody

Questa traccia sembra uscire direttamente da Morningrise, viste le influenze così fortemente simili a quelle dei primi Opeth. Già il titolo, Threnody, ci anticipa quello che troveremo tra queste note e parole. Nei componimenti lirici antichi, uno threnòs non era altro che un compianto funebre, una celebrazione. Ed è esattamente questo che Threnody rappresenta. Elevator era il momento della morte; qui invece si contempla ciò che ne segue: la tristezza, la desolazione in questo pezzo sembra potersi tagliare con il coltello, quasi come se il nulla, concretizzato e messo in musica, sia qui il vero protagonista (in effetti, proprio nothing è una delle prime parole del brano). Threnody è la traccia più lieve e soave di tutto AngL, ma in qualche modo è anche la più difficile da digerire: la profondità del dolore che esprime è in grado di far tremare, di dare all'ascoltatore un pugno nello stomaco molto più forte rispetto all'intensità di tracce velocissime e fredde come ad esempio Malediction. Ce ne accorgiamo subito quando una chitarra acustica apre il pezzo con una leggerezza irreale, unica forma di accompagnamento della voce in clean, anche questa chiara, tranquilla, perfettamente rilassata. Insieme creano un'atmosfera così vitrea e cristallina da essere quasi straniante ed eterea in questa prima strofa. Il ritornello ci viene presentato solo da una lieve, lievissima inflessione nella voce che sembra tendere di nuovo a una rassegnazione che spezza il cuore. Questa traccia sembra realmente fatta di nulla, e questo Nulla ha una dolcezza in sé che lascia attoniti, quasi come se, rilasciati tutti i vincoli, esauriti tutti i sentimenti, non ci sia più dolore, ma neanche vita. Un'ombra di emozione torna insieme alle tastiere, che intensificano ad ogni ritornello il loro sound melanconico e avvolgente, mentre con loro cresce anche la sofferenza emotiva che questa traccia provoca, fino ad arrivare alla più nera disperazione, quasi come se tutta la realizzazione esplodesse in un singolo istante, quando la chitarra elettrica riprende e con lei lo scream. Un'intensità incredibile troviamo qui, quando uno spaventoso dubbio si annida nella mente di Ihsahn: Cosa rimane di un'anima dopo che questa abbandona la vita? Cosa rimane di lei a coloro che restano? Una tomba, o un ricordo? Che senso ha la grandezza per un morto? E infine, qual è ora l'assurdo motivo di quella rabbia bruciante che ha permeato due interi dischi, quando poi nulla di ciò che facciamo ha più importanza, una volta che di noi rimane solo una pietra? Terrificante si fa la riflessione qui, quando comincia a montare il dubbio che forse non stiamo parlando di una morte fisica, ma di una nebbia di insignificanza che cala su tutto ciò per cui si è combattuto, fino a lasciare solo un corpo vuoto con un'anima morta. E questo velo di nulla si posa di nuovo anche sopra l'orrore, mentre un ultimo calare ci rigetta in un calmo ritornello, e mentre sentiamo già il lento risalire della chitarra acustica e del basso di Lars Norberg, in una rassegnazione profonda con cui si aprirà Monolith. 

Monolith

L'intro di questo pezzo è rilassante e dolce come un balsamo sulle ferite, ma con una venatura estremamente malinconica che suggerisce un'amarezza quasi passiva, che si fa strada nell'ascoltatore mentre Lars, accompagnato dalla dolcezza cristallina della chitarra acustica, fa seguire al suo basso un'influenza pacatamente Jazz. La tristezza sembra quasi dipinta, in questo intro dai toni caldi, ma dura solo fino a che un break non ci ricorda di essere in un album Black metal. La prima strofa, rigorosamente in scream, spezzata da sinfonie raffinate che creano un'atmosfera solenne, riprende la corrente fredda che percorre il disco con un sentimento molto meno rabbioso tra le note, come se il tormento stesse finalmente per sfumare. Persino i toni sinfonici, che diventano la base principale di accompagnamento al ritornello, fanno inversione: non si tratta di una discesa negli abissi, ma la sensazione è quella di una risalita, un'elevazione, una specie di resa dei conti che metta finalmente una fine al dolore. Fa da cornice perfetta a quello che troviamo nel testo: per la prima volta, insieme alla frustrazione e al dolore c'è qualcosa che può somigliare all'accettazione. Sembra quasi che se Threnody fosse stata l'espressione del rammarico per quello che resta di sé nel mondo, mentre Monolith sia il vero e proprio congedo dell'anima dalla vita e dal dolore che questa comporta, per concentrarsi solo su quello che verrà dopo. Oltre al piano interiore e in qualche modo danneggiato dal tormento in cui abbiamo vissuto negli ultimi due dischi, in Monolith c'è il sentore di una visione più alta, una serenità quasi contemplativa, ma appena accennata, come se ce ne fosse per ora ancora solo un vago germoglio. Ciò è evidente nell'atmosfera rilassata in cui ora ci spinge un assolo dal tono né malinconico né solenne, ma pacifico. La leggerezza estatica di una chitarra acustica e il tono soave della voce, in quest'attimo di calma che occupa il cuore del pezzo, descrivono una serenità profondissima che sembra accettare, con una pace che dura solo un attimo, la solitudine nel quale l'anima tormentata si chiude per un'ultima volta. Forse però il rimpianto rimane, e la battaglia non sfuma del tutto: non è ancora questo il tempo di lasciare andare il passato, perché di nuovo, per un'ultima volta in questo disco, il Black ritorna prepotentemente, oscuro e feroce, poco prima che un assolo termini la traccia. Qui c'è un ultimo raggio di serenità, una sensazione che sembra tendere alla resa, mentre in lontananza sentiamo un'influenza vagamente lirica, celestiale come un canto angelico; ma un attimo prima di trovare quell'agognata contemplazione, il pezzo si chiude, e con lui AngL e il conflitto portato avanti per due album. Una fine che ci lascia straniti, quasi come se né noi né l'artista stesso potessimo veramente accedere a quella dimensione ultraterrena, quella contemplazione passiva a cui Monolith sembra solamente accennare, o prepararci. Rappresenta forse l'esorcizzare il tormento, ma ci abbandona a una conclusione che non ci permette di lasciarci avvolgere dalla ritrovata pace.

Morningstar

Trattata un po' come il brutto anatroccolo di questo disco, Morningstar doveva inizialmente assumere quella stessa posizione centrale che aveva avuto Astera Ton Proinon nell'album precedente, con cui ha in comunque anche il tema. In realtà, venne scartata in favore di Emancipation, e rimase solamente nell'edizione giapponese del disco, come Bonus Track. L'allontanamento di Morningstar, anche se siamo costretti a riconoscere che sostituirla con Emancipation è stata la scelta giusta, ferisce comunque un po', soprattutto per il fatto che rimane, nonostante tutto, una traccia incredibile. Ciò che la rende così valida è senza dubbio il gioco tra chitarra e toni sinfonici dalle sfumature melanconiche che ci accoglie nella traccia e che regge l'intera struttura, connotando la canzone di un'espressività avvincente e indimenticabile. Condivide la stessa compostezza raffinata del pezzo che andrà a sostituirla, ma molto più marcata risulta la sua drammaticità. Morningstar è molto meno pacata nei toni, molto più epica nelle melodie e infinitamente più potente nel sound. Con Emancipation condivide la struttura, con quel clean dal tono gentile, di contro alla base strumentale, che viene lasciato alle strofe, e uno scream più rigido, scelto per il ritornello. Ma questa volta sono proprio le strofe a racchiudere la maggiore potenza espressiva, mentre il canto estremo rimane fedele al suo ruolo tradizionale, e raffredda l'atmosfera. Inoltre, Morningstar ci parla, servendosi dell'epiteto di Lucifero, di quella stessa emancipazione, quella rottura dalle idee precostituite e della solitudine di un innovatore, destinato al dolore proprio a causa di quella grandezza che dovrebbe essere un dono.  In effetti, come avevamo notato già per The Adversary, non esiste un simbolo più perfetto della Stella del Mattino, per esprimere questo concetto: quell'angelo a cui era stata donata l'ambizione e la grandezza, viene punito per aver osato oltre il consentito, e la perfezione che ne faceva motivo di adorazione lo rende, infine, solo e odiato. Morningstar coglie il paradosso sotto a tutto questo con un velo quasi ironico. Un elogio va fatto sicuramente al dialogo, sul finire della canzone, tra queste sonorità epicheggianti e il gelido scream, che si conclude in uno splendido outro sinfonico che dà alla traccia un sapore avvincente e malinconico allo stesso tempo, chiudendo in bellezza un pezzo di per sé straordinario. Quello che stona forse un po', e che è molto probabilmente il motivo per cui Emancipation è stata riconosciuta più indicata per un disco come questo, è che l'imponente drammaticità in Morningstar suonerebbe quasi fuori contesto, in AngL. Emancipation invece è perfetta, perché calibra alla perfezione la pacatezza che fa da essenza a questo album, con l'espressività che ci si aspetta dal pezzo che ne costituisce il cuore pulsante, cosa che Morningstar non si preoccupa veramente di fare: anche se il clean delle strofe appare rilassato, complessivamente si tratta di un pezzo forse troppo forte, per quanto sia comunque molto ben riuscito. 

Conclusioni

È stato strano, all'inizio, vedere apparire un album così scarno e freddo, con tanto di nascosto e molto altro di non detto, quando The Adversary era stata, invece, la rappresentazione della rabbia e della ribellione. AngL è un'ennesima rottura, un ennesimo tentativo di voler stravolgere i propri piani, e Ihsahn non si smentisce mai, nel suo essere incredibilmente imprevedibile. Scoprire tutto ciò che si cela sotto la maschera di oscurità che permea questo disco è un'altra sorpresa, quasi come se ci fosse qualcosa che bolle in pentola sotto un pesante coperchio di metallo nero. Quello che gli si può imputare, è che forse si impegna fin troppo, a celare ciò che nasconde. È come se questi due primi album siano state delle prove di volo, delle calibrature, per trovare una sorta di equilibrio tra l'emozione travolgente e la rigida freddezza. The Adversary era instabile come una rabbia bruciante, AngL invece perfettamente calibrato e razionale nella sua gelida maschera. Siamo alla fine del conflitto, al momento in cui ci si rende conto che l'unica via possibile è la resa. È come se ci trovassimo sull'orlo del baratro, un istante prima della chiusura della partita, e ripensassimo alla battaglia passata, ormai sfumata e persa, con un sorriso amaro ma consapevole sulle labbra. La lotta è conclusa, ma rimane l'amarezza, la delusione, il dolore. Il drammatico duello di The Adversary si chiude con una sconfitta bruciante per quell'artista che ha gridato in faccia al suo pubblico tutto ciò che di sbagliato c'è in esso. AngL è il momento in cui quello stesso artista guarda in faccia i suoi spettatori e non vede l'ombra della comprensione sul loro viso, e silenziosamente si ritira in se stesso e nella sua insoddisfazione. Il campo di battaglia si sposta interiormente, e la dolcezza che esprime è fredda e formale, la rabbia congelata sotto la rassegnazione. La guerra interiore si svolge nella staticità, nella calma apparente, nella maschera di un'impassibilità che nasconde un intero mondo di pensieri al di sotto. In tutto questo, la sensazione che ci sia rimasto qualcosa di ancora inesploso, però, rimane, quando questo disco finisce lasciandoci il dubbio che non abbia completamente esaurito tutto ciò che poteva dirci, e con la voglia di scoprire qualcosa in più. È così sotto tutti i punti di vista: questa resa ancora continuamente tormentata che permea il disco, innanzitutto, è assolutamente straniante, perché è come se non avesse ancora del tutto rilasciato la speranza, rabbiosa, ma pur sempre umana, di The Adversary. Non si tratta della pura contemplazione della sconfitta, ma il conflitto è ancora qui, presente, anche se vivo solo nell'interiorità dei pensieri. È il momento conclusivo, ma non è ancora pace assoluta. Ci fa quasi dire "ma davvero non c'è altro?", ed è sconfortante nel suo essere sostanzialmente senza un finale. E poi, il fatto che le influenze Avant-garde si siano molto ridotte lascia un vago senso di frustrazione. Certo, gli Opeth sono fantastici e il loro ascendente qui si percepisce, ma è quasi come se fosse un sentore non del tutto seguito, come se ci trovassimo di fronte a una splendida opera, ma a cui manca un pezzetto, il più profondo. Volutamente, forse; magari proprio per lasciare anche a noi quel senso di mancante che permea il disco; o forse, invece, The Adversary e AngL, con in comune il tema, il numero di tracce, la scelta del personaggio chiave di Lucifero, e legate indissolubilmente dall'essere uno l'opposto dell'altro, sono le prime due fasi di una trilogia, come una sorta di tesi-antitesi-sintesi che aspetta una conclusione; e che quindi ciò che manca ad AngL in realtà deve ancora venire, che la delusa apatia in questo disco trovi la completa accettazione in ciò che verrà dopo. Forse, insomma, avremo la possibilità di scoprire cosa resta, quando il conflitto sfuma. Ma una domanda, che AngL pone e a cui non dà veramente risposta, c'è: esiste una vita, o anche solo un momento, senza dolore? Perché quella pace serena che infine termina il disco sembra presagire qualcosa che è tutto fuorché umano? Queste due domande rimangono, quando anche la flebile luce che illuminava AngL si spegne, ancora in sospeso. Non ci resta che aspettare, insomma, per sapere se Ihsahn darà mai una risposta ai quesiti che ci pone. Nel frattempo, aderire a questo album richiede un'attenzione particolare e il tempo per ascoltarlo molte volte. Quello che si trova sotto la sua superficie, però, ne vale sicuramente la pena. 

1) Misanthrope
2) Scarab
3) Unhealer
4) Emancipation
5) Malediction
6) Alchemist
7) Elevator
8) Threnody
9) Monolith
10) Morningstar
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