IHSAHN

After

2010 - Candlelight Records

A CURA DI
ALESSANDRA PULGA
05/08/2020
TEMPO DI LETTURA:
9

Introduzione recensione

"This is the After, the ending of ends"

Parole funeree, che non lasciano spazio ad altre interpretazioni, che non ammettono via di fuga: Ihsahn decide di descrivere così l'essenza di questo terzo disco, confermandoci quel dubbio terribile che la fine di AngL ci aveva lasciato. Due anni prima, eravamo rimasti con una domanda, un quesito, insinuato come un freddo brivido da quella disillusione totale a cui il disco precedente si abbandona; un tarlo che ha continuato a rimanere senza una vera risposta fino all'uscita, nel 2010, di After: al termine del conflitto, quando le fiamme si spengono e la rabbia si scioglie, quando l'anima smette definitivamente di lottare e si arrende ai suoi demoni, si può ancora definire viva? Rimane ancora qualcosa di umano, quando la contraddizione si risolve e il confronto sfuma in un'apatia senza confine? AngL sembrava terminare con una morte spirituale, un compianto per qualcuno che sceglie infine di guardarsi vivere, e After conferma i nostri più bui sospetti: il fatto è che non ci racconta niente. Dopo il conflitto c'è solo la fine, il riconoscimento di ciò che c'è stato e la consapevolezza che non ci sarà nient'altro; la constatazione della più avvolgente desolazione, e al contempo il ricordo della furia che aveva travolto quegli stessi luoghi ora congelati in un tempo remoto. After è perso in una dimensione puramente spaziale, uno solo sguardo che vaga in luoghi distanti e vuoti, uno sguardo che sembra venire dal nulla, mentre l'osservatore viene lasciato ai margini della scena. In realtà, l'orizzonte è ancora più cupo, perché non si tratta della contemplazione di uno spazio fisico al quale il nostro artista dedica una particolare attenzione: ma la fine, la morte, ha raggiunto l'anima stessa, distruggendola. Qui non c'è proprio più un'anima, ma solo uno sguardo al limite del catatonico, che osserva passivamente senza che nessuna emozione possa trasparire, se non quelle dettate dal ricordo di un altro tempo. L'artista è ora un guscio vuoto, una parte dell'ambiente, che contempla e allo stesso tempo si contempla: osserva dentro se stesso il caos che il conflitto ha lasciato, senza essere in grado di trovare altro che l'apatia. È incredibile come per due album si è anelata la pace tra dolore drammatico e tormento interiore, e ora che il conflitto è sfumato, che finalmente otteniamo ciò che è stato così a lungo desiderato, quella pace prende le sembianze di uno spesso strato di assenza e rimpianto, che isola l'artista in una bolla ovattata. Non c'è rabbia, né tormento, né vita, qui. Non c'è niente, solo un velo di straziante nostalgia che sembra scuotere questo etereo distacco da tutto ciò che è reale, come se in presenza di rovine incenerite potessimo ancora percepire il calore delle fiamme che divamparono. È questo che rimane, dopo: solo un'assenza, un nulla in cui aleggia ancora un alito di tristezza e di rimpianto, quasi come se il terreno l'avesse assorbito, perché non c'è rimasto nessuno in grado di provarlo. Fino all'ultimo, disperato verso in questo disco, non esiste un "io": nemmeno per sbaglio si fa accenno ad una qualsiasi presenza in questi luoghi ormai dimenticati. Solo On the Shores ci presenta, come un ultimo bagliore di speranza, un essere umano. Così, di sfuggita, sullo stipite della porta mentre si congeda, fa la sua apparizione una prima persona, che si dedica alla pura contemplazione per le precedenti sette tracce. L'ombra di un sentimento sembra quasi levitare nel vento gelido che spazza la collina innevata in copertina; sembra racchiudersi nella croce nera che sormonta il paesaggio, quasi sfocato, in dissolvenza. Ci troviamo in un cimitero? Forse, essendo After sostanzialmente una pietra tombale. Qui resta solo la disillusione, riflessa nella mancanza di colori sulla cover, se non fosse per quella slavata macchia esterna all'immagine. Infine, l'assenza, in tutte le sue possibili coniugazioni, sembra determinare la scelta di dedicare al nome dell'album e dell'artista uno spazio così piccolo, appena leggibile, nel mezzo del bianco e asettico nulla della cornice: Ihsahn pone così se stesso fuori dalla scena; il protagonista di questo disco non è più lui, ma la sconfinata aridità che osserva. Ciò che AngL aveva così velatamente preannunciato, in After si avvera, perciò, a pieno. Quella completa assenza di umanità, quel senso di solitudine e di morte che il conflitto prima esteriore e poi interiore avevano creato, affiora qui con tutta la sua portata devastante, nella conclusione della trilogia. La distruzione rimasta dopo tutto quello che The Adversary e AngL hanno fronteggiato, qui viene constatata con la più irreale passività: dall'etere nelle sue melodie fino ai suoi testi solo freddamente descrittivi, After è la contemplazione di questa muta distruzione. Ora più che mai diventa indispensabile che il lavoro di composizione sia impeccabile, ogni nota deve essere in grado di crearci attorno la solitudine più nera. Questo lavoro necessita un occhio quasi ambient, e lo ottiene. Ihsahn sceglie di dare al suo terzo disco un'anima Jazz, perfetta per smantellare un pezzo dopo l'altro la nostra vita reale e costruirci intorno la dimensione di After: un genere rapsodico ma permeato da una malinconia sfuggente, a tratti caotico, in altri etereo. La discesa verso l'abisso di AngL prospettava un disco ancora più scarno, ma ormai conosciamo Ihsahn abbastanza bene da sapere che la strada più scontata non è mai quella che lui intraprenderà. Qui, infatti l'atmosfera è avvolgente, velata del sentore di un'imponenza decaduta, che incarni il silenzio assordante di un luogo una volta incendiato dalla più violenta rabbia. Ottenere questo effetto è la sfida posta a Jørgen Munkeby, sassofonista degli Shining,  che entra in formazione proprio con quest'album e che, ora con ritmi nervosi e quasi ironici, ora con cavalcate imponenti e tanto espressive da colpire come un pugno nello stomaco, si troverà a reggerne l'anima. La maschera di inespressività di AngL non è più necessaria, e ciò che resta è il rimpianto che si riflette in ogni nota con un'intensità che forse finora non avevamo ancora sentito, nemmeno quando The Adversary ci travolgeva con la sua furia. Del resto, nei ricordi gli eventi acquistano patina quasi leggendaria, e After è pervaso in ogni sua nota dal velo di un ricordo lontano che, anche se reminiscenza di un frammento doloroso, appartenente a una vita che qui, oramai, non c'è più. ?

The Barren Lands

Una chitarra lasciata sola, come se il suo suono rimbombasse nel vuoto intorno, intona un riff controllato, che ha l'onore di aprire questo album. Inizialmente appare chiaro e cristallino, conciliante nel modo in cui ogni nota è scandita alla perfezione, ma più i secondi passano più ci rendiamo conto che sotto quest'aria leggera e rilassata c'è qualcosa di molto freddo e vagamente sinistro, nel modo in cui ogni nota incrina leggermente su suoni stranianti. Uno scream quasi soffocato emerge appena dopo un break che espone il fianco alla batteria di Asgeir Mickelson, e ci travolge con un ritmo serrato, ombroso, ma sempre affiancato da quel riff ambiguo che regge tutta la struttura del brano, come un sottofondo vagamente ambient. Il vento è decisamente cambiato dal tormento amaro dell'album precedente: tutto il pezzo è accompagnato dalla chitarra ritmica, piegata in un'influenza melodica che non ha però nulla di rassicurante, ma ci espone ad un freddo diverso da quello che abbiamo imparato a conoscere, e non per questo meno glaciale. Non si tratta di un distacco da ogni dimensione interiore, qui non c'è proprio più nulla da cui distaccarsi, se non la consapevolezza di questo totale inaridimento e una vaga nostalgia per il tempo in cui ci fu vita, qui. The Barren Lands è a tutti gli effetti un proemio, che apre una porta su quello che sarà il vero protagonista di After: il luogo. Non ha veramente importanza che sia fisico o mentale, è uno spazio vuoto,  che però rimane talmente legato agli eventi passati da non poter essere diviso da essi ("endless fields of ragged lands/have long since drank the blood of war"). Il pezzo accelera avvicinandosi all'assolo, mentre lo scream assume un'inflessione sofferente, acuta come un grido di dolore. L'assolo continua però, sulla scorta della leggerezza quasi cristallina che attraversa il brano, con un controllo e una chiarezza perfettamente bilanciati: le linee fin troppo pulite, ogni nota scandita senza nessuna inflessione o distorsione, in un senso di immobilità incrollabile, di ineluttabilità, ci aprono il luogo onirico nel quale After ci accompagna, una dimensione fuori dal tempo nella quale restiamo sospesi. Su questa strada continua anche l'unica strofa in clean del pezzo, una voce rassicurante e quasi sussurrata, evanescente come un alito di vento, pervasa da un senso di assoluta contemplazione. Ed è in queste parole immerse in un etere, che The Barren Lands ci presenta lo scenario "so far, so burned, so beautiful": ciò che rimane dopo la battaglia. Il velo di mistero nel quale ci cala questo brano coincide con la sensazione di suspense, di ansia che ci coglie percependo in un luogo una sensazione di pericolo. Forse perché non la capiamo, quest'amara sicurezza, questa freddezza melodica che permea ogni accordo. The Barren Lands non è, di fatto, portatrice di molte novità sul piano strutturale, che risulta molto classico, né su quello strumentale, che ancora non vede l'entrata in scena di Munkeby, ma le abilità che Ihsahn tira fuori per la composizione sono estremamente più raffinate di quelle che aveva sfoderato in AngL. Sembra quasi che il luogo di cui ci racconta si crei lentamente attorno a noi: all'apparenza sicuro, ma in cui levita una tensione che non siamo del tutto in grado di comprendere, come una sensazione, un brivido che ci rende guardinghi senza conoscerne la ragione. Ed è proprio questa tensione la protagonista del disco, che After ci presenterà attraverso le sue sonorità Jazz. Questo brano è come una sorta di aratura del terreno che ci prepara al nulla che ci verrà narrato, di fatto senza introdurre nessun nuovo elemento, come un ponte tra ciò che eravamo abituati ad aspettarci e qualcosa di completamente nuovo, come la traccia seguente.

A Grave Inversed

Diciamo pure addio alla chiarezza cristallina e controllata di The Barren Lands, perchè A Grave Inversed è un'accelerazione in avanti, o piuttosto un curioso battibecco tra tutti gli strumenti in gioco: rapsodico e velocissimo, quasi come una danza frenetica, in cui la batteria si ritrova a reggere l'intera struttura con un ritmo furioso ed elegante al tempo stesso, mentre sentiamo affiorare il sassofono di Jørgen, protagonista indiscusso, qui in un atteggiamento quasi divertente, come se stesse prendendo in giro sia noi sia la chitarra ritmica, facendole giocosamente il verso. In tutto questo, la voce sembra cercare di dire la sua sopra tanti strumenti in litigio tra di loro, in uno scream assolutamente gelido ma quasi "sottomesso" agli strumenti. E mentre le strofe congelano in un black tradizionale e feroce, il sassofono si materializza irruente, l'intero brano si velocizza sempre di più e persino l'assolo sembra frenetico, leggermente più controllato ma quasi tremolante, come se si ergesse su un equilibrio pericolosamente instabile. Al di sotto, la chitarra ritmica non smette di agitarsi, e il sassofono torna, come incapace di stare da parte, dialogando con un ultimo verso in scream, prima di farsi quasi strozzato, nel suo momento culminante all'interno della traccia. A Grave Inversed, manifestatasi d'improvviso nell'ultimo album dove immagineremmo un pezzo così, si zittisce di colpo, nella precipitosa risalita di una scala, al termine della quale non abbiamo una reale conclusione, a parte una frenesia lanciata addosso all'ascoltatore, e in attesa di essere sfogata. Si tratta senza dubbio del brano più caotico e disordinato dell'album, in un continuo salto tra un tempo e l'altro che finisce per dare l'effetto di una forte dose di caffeina. Ci farebbe quasi sorridere, tutta questa confusione, se il suo testo non ci narrasse qualcosa di molto più sinistro. L'unica forza in grado di corrodere ogni cosa, di spegnere fuochi non importa quanto gradi e roventi, e che definisce, sola, ogni piccolo dettaglio dell'universo, è qui presentata in tutta la sua furia: il Tempo. È la sabbia del tempo, arruffata in questa tempesta, che scuote il nostro deserto, sconvolgendo la sua limpida calma e spingendolo in una spirale distruttiva, celebrazione del caos assoluto. La relazione tra il tempo e il caos sembra strizzare l'occhio, nuovamente, a Nietzsche, per il quale "il carattere complessivo del mondo è il caos per tutta l'eternità", mentre un'inquietante presenza si incarna nel volto maligno che levita "sei piedi sopra il suolo", in una vera tomba al contrario: uno spirito di distruzione e corrosione che aleggia nell'aria invece che riposare sotto terra. Ma potrebbe contenere, in realtà, un messaggio ancora più cupo: la presenza è nel posto giusto, riposa in una tomba, in un luogo di fine, di morte, freddo e inaccessibile alla vita e spento di qualunque calore, come la dimensione vuota in cui ci troviamo. 

After

La title track ci accoglie con un'espressione a metà tra l'orgoglioso e il rassegnato, nella risacca di un'intensità costante ma sempre in ritirata, come un'onda. Questo riff apparentemente forte racchiude in realtà una malinconia in linea con la voce, puramente contemplativa, estatica e perfettamente calma, che riprende il controllo dopo che A Grave Inversed se l'era lasciato sfuggire. Il primo ritornello ci avvolge con questa sua aria malinconica, quasi come un sospiro rassegnato e quella frase, che assegna ad After la responsabilità della chiusura di un'era: è la fine delle fini, la pietra tombale su tutto ciò che esiste. Un assolo di batteria apre alla chitarra mentre la rassegnazione del ritornello sfuma;  affiora un ritmo regolare e in attesa, non abbandonando mai quel senso di chiarezza contemplativa che aleggia come un velo su una base più violenta, con il montare di un ritrovato scream. Sembra quasi il negativo di The Barren Lands: se quella era una traccia violenta con un rallentamento quasi intimo dopo l'assolo di chitarra; qui abbiamo un brano rilassato e tranquillo, con un cuore di pietra che si mostra come uno squarcio in una calma inquietante. Questa ritrovata forza non resiste a lungo, sconfitta dalla tastiera e dal basso, che attraversano e consolano anche la rabbia. La resa pacifica sovrasta ogni cosa, anche la più disperata delle voci, ributtandoci di nuovo in quel ritornello, così chiaro ed esplicativo di questo disco quasi abbandonato a se stesso, senza nessuno che lo popoli. Una chitarra acustica, leggera come un velo, termina il brano con la più nostalgica delle melodie. Come narrato dalla voce soave di uno spirito, il senso di After ci diventa chiaro proprio qui: un luogo di sfioritura completa, di abbandono, un crogiolo nel vuoto più totale. Non è neanche più nero, significherebbe un'oscurità e un tormento che qui si sono dissolti: After è un bianco che "goes blank", uno spazio desolato, un foglio cancellato, la dissoluzione di ogni forma reale e un limbo cristallizzato in una coltre di nulla. Oppure, un "inferno di Rintrah", come viene definito proprio in questo pezzo: Rintrah, lo spirito della collera rivoluzionaria (lo stesso, a pensarci bene, che guida un artista nel suo scardinare i canoni del suo tempo, che era stato così importante in The Adversary e AngL); nato nelle opere di William Blake, in cui l'inferno non è un luogo di punizione secondo leggi morali umane, ma piuttosto il crollo di ogni certezza, un posto dove nulla ha valore. Ihsahn decide dunque di collocare lo spirito della rivolta in un luogo dove risiede la consapevolezza della sua inutilità. 

Frozen Lakes of Mars

Il cristallo di cui era fatto l'outro della title track si frantuma sull'imponente muro di chitarra che apre Frozen Lakes of Mars, un inizio che trasmette una forza in sfioritura, incredibilmente drammatico e al tempo stesso forte, che cede infine il passo a una traccia furiosa e fredda fatta dal black più puro, ma interrotto più volte da un assolo tanto veloce e nevrotico quanto gelido come i venti scandinavi. Lo scream l'asseconda, con un'espressività disperata, come in uno slancio verso un obiettivo tanto vicino da richiedere ancora solo un piccolo sforzo, ma ancora troppo lontano per  poter essere afferrato. Il ricordo della rabbia bruciante con cui l'oramai eremita affrontava la sua battaglia, quando con sfida e rabbia si gettava contro i suoi demoni e affrontava il suo dolore, si materializza nuovamente, prima che la resa torni a pennellare la traccia e il presente riemerga con tutta la sua devastante portata. Arrendevole è infatti il ritornello: la furia si trasforma in malinconia, mentre riaffiora la consapevolezza della fine: gli occhi dell'eremita somigliano ora a quelli del dio della guerra, ma coperti da una coltre di ghiaccio, non più combattivi; il fuoco si è spento, qui, e rimane oramai solo la desolazione (the cold remains/the fire dies). Poi, il ritornello sfuma sulle note di una tastiera di nuovo violenta, che ci ributta nell'atmosfera black che avevamo appena lasciato. Lo scream fa il suo ritorno, combattivo e acido come non mai. Siamo all'ultimo atto: con un grido finale, l'artista fattosi eremita si lascia infine prosciugare da quella tempesta di sabbia che A Grave Inversed ci ha presentato, si lascia trascinare da essa, dal suo caos e dalla sua distruzione "into the deepest valley of death". Scopriamo qui che Frozen lakes of Mars ha la sua vera particolarità nelle parti strumentali, ancora più eloquenti del testo. Un altro assolo infatti spezza la strofa, come una sorta di cascata di nera apatia, un chiodo che si insinua stridulo nella mente dell'ascoltatore, raffreddando ancora di più l'atmosfera. E poi ancora un altro, ma del tutto diverso, in conclusione alla traccia e prima di un ultimo ritornello di congedo dal brano, questa volta molto, molto più espressivo e drammatico, velato da quella malinconia che toglie il fiato e crea quasi un vuoto allo stomaco. Imponente ma sconfitta, la chitarra si inabissa di nuovo nella tristezza totalizzante con cui la traccia si chiude, mentre il solo rimpianto sembra permeare l'outro: l'unica emozione, eppure così eloquente.  

Undercurrent

L'intro di Undercurrent, la prima dei due capolavori da dieci minuti in questo disco, è qualcosa che dovrebbe rimanere nella storia. Come tamburi di guerra, la batteria e la chitarra scandiscono il tempo in un senso di attesa di qualcosa di imponente e pericoloso. Ma tutto in realtà sfuma lentamente, abbandonandoci d'improvviso in un'atmosfera contemplativa, la chitarra classica rilassata e argentea in un tono etereo, e la voce in trance, in un sussurro come estatico. Ci troviamo sospesi in uno spazio onirico di pace assoluta, a cui il basso fretless non può che prendere parte con il suo atteggiamento fluido e profondo. Sembra trattarsi di un coro, fatto da sussurri, fruscii e talvolta dall'illusione di una seconda voce dietro quella di Ihsahn: Undercurrent ci costruisce attorno un luogo nell'etere dei suoni, dove sentirci a casa, mentre la voce assume un tono così calmo e sussurrato che sembra quasi come se ci rassicurasse, come se ci stesse mormorando che tutto va bene, che siamo al sicuro. Metà della traccia si addentra in questo luogo irreale e sommerso, chiuso in una propria bolla di puro benessere "?Like glass until it breaks". È una leggenda, ciò di cui Undercurrent ci parla: Atlantide, la città più felice e florida che sia possibile pensare, ingoiata inesorabilmente dall'oceano, chiusa per sempre nelle profondità degli abissi. Questo brano ci racconta di lei, del suo splendore "specchio del paradiso", e del suo declino così improvviso, così inaspettato e inevitabile. Con la spietatezza di un muro di chitarra instaurato tra noi e quella serenità che ci scivola via tra le dita, Undercurrent ci ributta nella nostra oscurità; demolisce quella sicurezza che ci aveva suggerito e la ripone di nuovo nei ricordi; soffoca la dolcezza nella voce con uno scream quasi strozzato, mentre dove c'era Atlantide ora rimane solo "l'eco di un rimorso". Ed ecco che, dalle ombre di un Black feroce, sorge un riff di sassofono che sembra contenere il dolore di un momento felice ormai perso per sempre. Sembra di sentire il suono che avrebbe il rimpianto, un tormento insaziabile, infinito: la resa e il crogiolarsi in essa entrano prepotentemente tra le emozioni che questa traccia trasmette, conservando quasi un senso di orgoglio, davanti all'imponenza di quel tempo sfiorito, come di fronte alle rovine di un grande impero, vivo solo attraverso una leggenda. Una voragine si apre nel petto dell'ascoltatore, mentre lo scream si piega in un tono quasi disperato, mentre il rimorso si fa sempre più intenso: il tempo felice in cui Atlantide viveva torna a spazzare ogni rassegnazione con il dolore. Con l'etere di una chitarra distorta al di sotto di un tappeto di chitarre ritmiche furiose, il ricordo torna dal passato e rientra prepotentemente in questa traccia: Ogni tentativo di affrontare l'inesorabilità della fine, e di accettarla, si tinge di un male antico e profondo, che riemerge dagli abissi. La traccia si chiude con un verso decisamente enigmatico: not that beast, "non quella bestia". Quale bestia? Forse Lucifero, che ha rappresentato così bene i sentimenti di rabbia e di ribellione degli ultimi due album? Come se il dolore che si incarna in queste note non sia niente di ciò che abbiamo già sentito, perché la bestia è diversa, ma non meno terribile: è l'assenza, il vuoto, la solitudine e il rimpianto, qualcosa che non è possibile combattere, perché è il niente per eccellenza. Come si può, in effetti, combattere il nulla? Ci lascia con questo dubbio, Undercurrent, senza una vera risposta alle nostre domande; la traccia cala piano piano, addolcendo il distacco nel suono di una dolce melodia. 

Austere

Un lento crescendo apre Austere, dopo che Undercurrent si era conclusa con una discesa nel silenzio. La voce compare appena dopo un break che apre a un'atmosfera dolce, consolatoria; anche se risuona, fin nelle prime note, una grinta che la prima parte di Undercurrent non aveva. Sembra quasi una strana e stanca euforia, un sorriso amaro ma rilassato. La voce è ancora così estatica e contemplativa da apparire a metà tra l'ammirato e il malinconico. L'impressione di un mondo riflesso attraverso il cristallo qui ritorna, soprattutto quando il basso, finora relegato in un angolino, fa la sua apparizione con quel tono morbido e al contempo austero. La tastiera zittisce questa atmosfera calma con un assolo allegro dai toni Jazz, ma anche questo permeato da una nota esausta, che dura solo il tempo necessario di farci riprendere fiato per un momento. Poi, di colpo, ci resta solo la solitudine: uno strumentale dai toni malinconici ed eterei occupa la parte centrale del brano, portatori di un'atmosfera contemplativa ma evanescente, onirica e fragile. Sembra quasi di trovarsi in una stanza di specchi, dove tutto è così cristallino e vitreo da sembrare solo il riflesso di un mondo reale, quasi come un'ombra scura che si muove furtiva tra un vetro e l'altro. La malinconia si riappropria del suo posto, pennellando una traccia che si fa sempre emotivamente più pesante da gestire; e la più cieca disperazione si colloca tra queste note. Molto lentamente la chitarra elettrica risale dalle silenziose profondità in cui si era inabissata, e il vento comincia a cambiare dopo un tempo che sembra cristallizzarsi. Prima con un assolo dai toni morbidi ma orgogliosi, poi con una virata verso un ambiente più sinistro, l'oscurità comincia ad annidarsi all'orizzonte. Sembra quasi di poter sentire la tempesta crescere e il cielo farsi plumbeo, mentre ombre nere si manifestano come cavalli di battaglia. Lo scream prorompe con violenza quando la furia si scatena, violenta e drammatica, incredibilmente intensa nell'emozione di disperazione che esprime. Poche sono le parole che compongono il testo, perché non ce n'è veramente bisogno: la parte centrale di Austere è del tutto strumentale, eppure è più eloquente di qualsiasi frase. Solamente una descrizione, di quelle ombre, di quei tumuli infuocati su cui il cielo infine si tinge del nero più denso di pioggia, è lasciata alle parole di Ihsahn. La morte, in tutti i suoi simboli più oscuri, si manifesta qui, mentre il suono fluido e malinconico del basso ci avvolge lentamente: Norberg pennella uno dei punti più emozionanti dell'intero disco, sul finire della traccia. Tutto lo strazio di Austere si riversa nell'esecuzione dell'assolo di basso con la quale passa il testimone a Heaven's Black Sea. È proprio il basso l'indiscusso protagonista, che, con il suo atteggiamento malinconico e avvolgente, dice più di quanto farebbero mille parole.  

Heaven's Black Sea

Il tono si abbassa prepotentemente, dopo Austere: Heaven's Black Sea è più furiosa, ma molto meno malinconica ed emotivamente più gestibile. Si apre con una chitarra martellante, prima di lasciarsi andare a uno strano riff dai toni arabeggianti, scandito dallo stesso ritmo incalzante e senza tregua. La voce prorompe in uno scream di nuovo "sottomesso" alla componente strumentale, che non lascia neanche per un attimo questi posti orientali e barocchi. La voce di Ihsahn ci accompagna per due strofe in questo giro nel deserto, prima di distendersi in un ritornello in clean in un tono caldo, in continuità con il luogo nella quale il riff ci ha trascinato. Veloce e nervoso è invece l'assolo che segue, piegato in una spirale discendente che però non abbandona il calore della sabbia su cui ci sembra quasi di poggiare i piedi, tanto il lavoro sulla composizione risulta convincente nell'atmosfera generale. L'assolo ci getta direttamente tra le braccia del sassofono, che torna rapido a fare da sottofondo al prossimo ritornello. Diventa subito il protagonista, quando il brano decide infine di rallentare di colpo, e rimane solo Munkeby, che sembra quasi spaesato mentre l'escursione termica ci travolge in pieno, e il deserto si tinge di una notte fredda e  nera, attraversata dal sentore di una presenza non identificata. L'ambiente sembra quasi vibrare, qui, in attesa di qualcosa di acquattato che si scatena, di nuovo, quando il testo si ripete una seconda volta, attraversato da quello stesso tono arabeggiante, forse lievemente più disperato, prima che un ultimo ritornello rompa di nuovo lo scream e getti la traccia in quella vibrazione ostile che accompagnava il sassofono, ultimo momento prima di tornare nuovamente nel silenzio. Sembra quasi un'alternanza tra notte e giorno, due facce della stessa medaglia, eppure capaci di piegare lo stesso brano in atmosfere agli antipodi tra loro. Ancora una volta, la dimensione del tempo rientra dalla finestra con prepotenza, ma c'è anche altro, che Heaven's Black Sea ci mostra, come fosse un miraggio: "a fragment of will, yearning to sink", un frammento di volontà, dunque qualcuno, un occhio riluttante che scruta la notte, la riflette come fosse uno specchio: abbiamo trovato il nostro osservatore, l'ultimo sopravvissuto ad After e colui che ce ne descrive l'aspetto. Ma prima ancora che si possa avere speranza, è solo un frammento di una persona, come un'ombra nel punto più buio, avviluppato su se stesso e pronto a inabissarsi "nel mare nero del paradiso": un'oscura sponda, pacifica ma distrutta, in cui quest' "occhio riluttante" possa finalmente trovare la pace tra i cocci, inceneriti e abbandonati, della sua vita passata. 

On the Shores

Il sassofono esplode in tutta la sua potenza espressiva in quello stesso, malinconico sentimento che ci aveva avvolto quando per la prima volta avevamo sentito questo riff in Undercurrent, e che qui ci si ripresenta davanti, completamente disarmato. On the Shores è più disperata, più potente, e al contempo più triste e melanconica. È l'esplosione di tutto il dolore che After aveva tenuto alla larga, l'apertura al rimpianto che avevamo provato a domare, e che qui non riusciamo più a contenere: la devastazione, il macigno emotivo che After rappresenta si manifesta in tutta la sua forza, lasciandoci quasi un senso di vuoto nel petto, come una lacerazione interna. Lo scream si sovrappone al riff, ugualmente disperato, ugualmente rassegnato e straziato. Di nuovo, quell'intensa e ambigua forza, a metà tra un grido di battaglia e un desiderio di resa, smorza il fiato di chi ascolta, ci fa provare quel tormento, come una necessità muoversi in una qualunque direzione, e al contempo la consapevolezza che non è più possibile. L'immobilità di after si fa sempre più difficile da reggere ad ogni nuova risacca con cui quel riff ci colpisce, come un'onda che sferzi continuamente una scogliera inerme, a un passo dal crollare. La traccia rallenta poi di colpo, il mare si calma, la chitarra acustica emerge dolcissima. Possiamo quasi sentire le onde sonore propagarsi nello spazio vuoto e venire assorbite nel silenzio, mentre anche il sassofono prova a vincere quest'improvvisa bonaccia con brevi fraseggi. Una coltre di calma piatta avvolge chitarra e sassofono come un mantello, mentre rimangono soli nel nulla, fino a quando la voce compare dal buio. Con la leggerezza di un'esperienza extracorporea, somiglia sempre di più a un tintinnio argenteo, senza riverbero, solo un punto brillante ed etereo in un mondo oscuro. Non è l'eco di un pianto, il riflesso di qualcosa che già è passato. On the Shores ci racconta ciò che After non è: come un ragionamento per assurdo, che possa far emergere il vero significato di questo disco solo alla fine. Ihsahn rimane in silenzio, e il sassofono è l'unico a resistere al sonno che vince ogni altro suono. Di nuovo sembra quasi spaesato, quasi come se stesse invano cercando un'altra presenza viva su scogliere selvagge e sterili, prima che il vento si alzi di nuovo, innervosendo le onde, che tornano improvvise: ecco che di nuovo il riff ci colpisce in pieno, la tempesta si ripresenta davanti a noi con tutta la sua potenza e distruzione. Ci ritroviamo in un'accelerazione in avanti, un nuovo spirito vitale che strappa la traccia al suono della rassegnazione. Lo scream risale violentemente, questa volta però mitigato da una tastiera che ci riporta indietro di sedici anni, in un tono sinfonico che ci viene prestato da Cosmic Keys to my Creations & Times. Quello stesso vago misticismo affiora qui, nell'ultimo sforzo del canto estremo: un'enigmatica frase ci parla per l'ultima volta: "these shores are crafted by the pulse of the sea", sponde modellate dal battito dell'oceano. In effetti, diverse volte abbiamo incontrato il mare, in After. Come l'impressione di un'intensità costante che sembra avanzare in onde, a sommergere ogni cosa ancora viva, una marea che ingoia l'apatia. L'impeto dell'oceano muove After come una forza devastante ma regolare, un deserto all'apparenza, ma che nasconde la vita sotto la superficie. E poi, "here I go on?", un rilancio verso un futuro qui, in un luogo strettamente saldato al suo passato. Non si tratta di un continuare a vivere, ma di un'esistenza legata a questo freddo deserto, terminando così il disco con la più malinconica delle conclusioni, e abbandonandoci tra le braccia di un silenzio avvolgente, dove non c'è nulla se non una tensione di fondo, l'agitarsi di qualcosa. Il rimpianto è l'unico e l'ultimo sentimento in questo disco, e risale per l'ultima volta, ci congeda da queste contrade in cui l'eremita rimane, infine, solo. Il dolore si ripresenta, tra l'apatia e l'accettazione, con un'intensità senza confini, mentre il sassofono sfuma nel silenzio, abbandonando l'eremita ad un futuro cucito tra i ricordi. 

Recensione

Relinquo: una sola parola, un verbo in latino, sembra rimbombare nella mia testa quando After si manifesta in tutta la sua lucida intensità e la sua caotica freddezza. Significa "lasciare andare": far cadere le armi a terra quando non c'è nient'altro che si possa fare, abbassare definitivamente le difese. Questo è quello che After si trova a dover fare, ammettere infine che la lotta ha portato solo distruzione, e che l'unica cosa che resta dopo il tormento e il dolore non è la pace, ma la morte. Ogni traccia ci parla della desolazione, da quella spaziale di una terra congelata nel nero della notte, al vuoto significato di un tempo corrosivo, all'apatia più catatonica di occhi imprigionati in un ricordo. La vita qui è solo un riflesso involontario, un moto ondoso indipendente dalla volontà, ormai solo un frammento sepolto sotto la pietra tombale che After rappresenta. Come riflessa da sotto un velo di profonda solitudine, il ricordo di quella che una volta era stata una vita riemerge: lo fa con un'intensità straziante, con il rimpianto di quel dolore per cui si era cercato un antidoto, ma in cui l'artista finisce infine per sprofondare; lo fa con orgoglio, ma anche con la  certezza che mai più ci sarà una battaglia come quella; lo fa con disperazione, perché avevamo anelato così tanto la pace, ma ora scopriamo che ci è concessa solo con la più inquietante delle morti, quella spirituale. Ma relinquo significa però anche "rimanere indietro": in effetti, l'eremita non è davvero qui, non sta vivendo, nemmeno nell'ultimo verso, in cui infine ritroviamo un io, non riusciamo comunque a vedere nulla di vivo, ma solo una profonda e sola rassegnazione; non ci sta raccontando che cosa prova ora, ma ciò che sente in relazione a un tempo oramai perduto. La dimensione presente è solo vuoto e morte: non c'è nulla da dire, nulla da sentire; l'artista è perso in un altrove che sembra vivere solo in modo riflesso. È rimasto indietro, bloccato in un rimpianto, si abbandona alla contemplazione quasi catatonica. Si guarda vivere, osserva il disastro che si è scatenato nella sua vita e il suo cuore diventato di pietra "and here I go on?", in questo ricordo doloroso, senza la possibilità di uscirne, intrappolati in questa dimensione. Non ammette nessuna replica, non ammette speranza, eppure l'apatia di After riesce a trasmettere i sentimenti più forti, e l'intera scena ne rimane folgorata: le sonorità sperimentali, così avvolgenti e introspettive, senza mai veramente vedere un'introspezione da nessuna parte, colpiscono la critica profondamente, che non può non riconoscere quanto questo disco sia importante. Prima di tutto perché, incredibilmente, è nell'album della solitudine, della resa, della pura e semplice celebrazione del nulla, che si annida la nascita di qualcosa di completamente nuovo. Nel momento in cui tutto sembra perduto, Ihsahn riesce a completare a pieno l'impresa di The Adversary e AngL: solo con After entriamo nel vivo della sperimentazione, ci stacchiamo completamente da tutto ciò che avevamo già sentito e ci spostiamo in un'altra dimensione, in una nuova era. Solo con After portiamo a conclusione la frattura con il mondo di prima: il suo titolo è stato veramente profetico, perché è proprio con questo disco che il Post Black trova uno dei suoi più importanti pilastri; che si apre finalmente la porta a un decennio di follie di ogni tipo e sonorità mai neanche pensate. Qualcuno ci aveva già provato, a rompere i legami del Black e assemblarli in modo da creare album dalla struttura surreale, retti su un equilibrio sottile e instabile, ma nessuno aveva ancora raccolto il loro testimone, lasciandoli come cattedrali nel deserto. After si addentra nell'aridità in cui si erano persi e lì li ritrova, raccontandoci la loro solitudine e portando avanti il loro lavoro. Ma le basi del Post Black non sono ancora, nel 2010, veramente definite. Non lo saranno mai, perché si tratta di uno spazio onirico grezzo, libero di  ogni regola, libero di recuperare quell'intensità espressiva che venticinque anni di puro Black metal avevano fatto di tutto per tagliare fuori, libero di intraprendere qualunque strada, anche la più folle, anche la più strana. Del resto, solo senza un limite si può arrivare a superare il confine di ciò che è pensabile. E forse After raggiunge così bene l'obiettivo perché, effettivamente, non tutte le parti del disco sono state precedentemente pensate: molti fraseggi sono lasciati alla pura improvvisazione di Jørgen, trasportato dalle note del suo strumento come da una corrente oceanica. Ma forse Ihsahn non si aspettava cosa un disco come questo avrebbe potuto provocare: forse non poteva immaginarlo nessuno, che After sarebbe stato uno spartiacque oceanico, sia nella scena che nella carriera del suo autore. Da questo momento in poi, conclusa la trilogia ed esorcizzato ogni legame con il passato, una nuova fase evolutiva ha inizio: After è la chiusura di un mondo, ma l'apertura su una nuova dimensione, che il nostro artista intraprende con una consapevolezza nuova, che sarà un faro nella creazione dei successivi lavori: non c'è un limite, né nessuna regola, in un universo nuovo che è lui il primo a esplorare. 

1) The Barren Lands
2) A Grave Inversed
3) After
4) Frozen Lakes of Mars
5) Undercurrent
6) Austere
7) Heaven's Black Sea
8) On the Shores
9)
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