HOLY TERROR
Mind Wars
1988 - Under One Flag
LORENZO MORTAI
17/08/2016
Introduzione Recensione
La storia che andremo a raccontarvi oggi è quella di una rivalsa, quella di un progetto che, nonostante sia rimasto senziente nel corso di tanti anni, ha sempre avuto la sua ampia fetta di pubblico che "non ha mai dimenticato" quel che è stato. Soprattutto la storia che racconteremo (o forse sarebbe meglio dire continuiamo a raccontare) affonda le proprie radici nell'acciaio armato, in quei meandri oscuri e ricolmi di rabbia musicale che risiedono sotto il monicker di Thrash Metal. Abbiamo dei ragazzi, giovani, desiderosi di spaccare il mondo in due con la loro musica, e che dalla geniale mente di uno di loro, Kurt Keitfeld, fresco di uscita dagli altrettanto storici ed importanti Agent Steel, trova la sua valvola di sfogo massima relegandosi sotto il marchio a fuoco di Holy Terror. L'esordio della band, quel Terror and Submission del 1987, aveva letteralmente rappresentato una scossa tellurica nel mondo del Thrash americano; la capacità di Kurt, Mike ed il compianto Keith alla voce, di fondere fra sé le ritmiche dell'Hardcore più acerbo e grezzo, con la smodata classe del Metal di scuola britannica, avevano portato alla nascita di un sound si acido e cattivo, ma che conservava nonostante tutto una ben marcata nota di epicità. Messi sotto l'ala protettrice della storica Under One Flag, rea di aver dato nel corso degli anni alle stampe alcuni dei lavori più importanti che l'acciaio ricordi, rimbalzando prettamente nelle parti estreme della musica Metal, ma concedendosi anche ogni tanto qualche disco classicheggiante, l'etichetta mamma dei Nuclear Assault e dei Death decise che era il momento di dare un seguito alla prima mistica creatura. Non è mai facile dare alle stampe e creare da zero un altro capolavoro, soprattutto col peso sulle spalle del primo full lenght, che per quanto sia sempre rimasto relegato al mondo underground, negli anni successivi al discioglimento degli Holy, avvenuto alla fine degli anni '80, poco dopo il rilascio del secondo disco, si è ampiamente conquistato la propria folta schiera di appassionati. Appassionati che non hanno mai dimenticato le scorribande dei californiani, né tantomeno la loro smodata voglia di stupire, risultare veri e propri chimici del suono, andando a foraggiare svariate tipologie di musica per dare vita ad un gigantesco ibrido geneticamente modificato. Los Angeles in quegli anni stava, come vi abbiamo raccontato nella prima recensione di questo meraviglioso gruppo, attraversando una vera fase di fermento, soprattutto per la scena Rock ed Heavy Metal. Migliaia di ragazzi si riversavano nei vari locali ogni sera, cercando di seguire quante più band possibile, dalle più famose alle più misconosciute. Ed in quegli anni, il nostro amato Thrash come se la stava cavando? Beh, se andiamo solo dalla parte degli Holy Terror, come abbiamo detto Terror and Submission stava avendo un successo strepitoso. Eppure allo stesso tempo il genere in quella fine degli anni '80 stava vivendo una fase di cambiamento, che lo avrebbe portato poi con l'arrivo degli anni '90 a mutare letteralmente pelle del proprio sound, andando a modificare la propria struttura di base. Si stava piano piano, ad eccezione dei blasoni venuti fuori qualche anno prima, dando sempre più sfogo alla valvola della rabbia, ma in modo nettamente diverso da quanto fatto, ad esempio, nel 1982. Si cercava particolarmente di infondere nelle musiche un odio represso, critiche feroci ma coniate e vomitate addosso al pubblico attraverso l'uso smodato delle distorsioni, dei cantati cacofonici, e di una atmosfera generale da manicomio criminale. Per alcuni fu un fiasco, per altri una seconda golden age; chi vi scrive pensa che, come sempre, la verità stia nel mezzo. Assolutamente sacrosanto è che fra il 1982 ed il 1986 siano stati formati e prodotti alcuni dei dischi Thrash più belli e non replicabili della storia, vere e proprie perle ed apici mai toccati di nuovo, ma anche in ciò che è venuto dopo, intendo il periodo 1987/1994, vi sono curiose gemme, la differenza rispetto al primo blocco è che mentre nella prima parte ovunque si andasse si "cadeva bene" per quanto riguarda la qualità, adesso dobbiamo scavare leggermente di più per cercare l'oro. Gli Holy Terror, ormai lo avrete capito, rientrano perfettamente in queste gemme, ed il loro secondo full lenght, Mind Wars del 1988, fu un degno erede e sequel del primo mitico album. Prodotto da Kurt Kilfelt in persona, mixato da Casey McMakin e masterizzato da Bernie Gundman, Mind Wars fu un altro calcio nei denti, come vedremo, che i losangelini vollero dare al mondo prima di, ahimè, lasciarlo per sempre a livello musicale. E sapore di epico si respira partendo già dalla celeberrima cover disegnata e concepita da Rick Araluce, lo stesso uomo dietro a Terror: anche stavolta torniamo su uno stile a metà fra il sogno e l'incubo, fra il futuristico e la pop art. Protagonista nuovamente è la croce, simbolo che abbiamo trovato anche nel primo artwork, ma stavolta ci accorgiamo che è un chiaro riferimento al cristianesimo (o alla sua parte contraria, considerando gli argomenti dei testi). La croce è spezzata in più punti, ma invece di uscire schegge e frammenti di legno, dalle rotture escono muscoli, budella e sangue. Avvinghiato ad essa troviamo un drago/serpente bifronte, con il volto sfigurato e svariate mani che escono dal suo corpo; il tutto sullo sfondo desertico e desolato di una pianura quasi post-apocalittica, e dal logo della band in alto, sopra al serpente, formata da vari elementi. Teschi, uova rotte, corde, legna, stendardi da guerra bruciati e molto altro, e lo stesso font è stato usato per il titolo del disco. Una immagine decisamente più cruda di quanto visto su TAS, in cui l'unico punto in comune risulta essere il logo della band. Un artwork horror e viscerale al tempo stesso, truculento ma affascinante, cattura l'attenzione dello spettatore, e viene da pensare a cosa possa aver voluto dire per un ragazzo ventenne ritrovarsi tale copertina nel proprio negozio di dischi. L'album è uscito ufficialmente per la stessa Under One Flag, e fu successivamente proposto dalla Roadracer Records in formato cassetta e 12 pollici, e poi dalla Music For Nations in formato CD. Successivamente, nel corso degli anni, verranno realizzate svariate edizioni celebrative di questo album, fra cui spicca quella del 2006 ad opera della Blackened Recordings (in edizione doppio CD che raccoglieva anche Terror), e poi quella del 2008 in ristampa vinilica ad opera della Back On Black Records. In origine l'album doveva intitolarsi No Resurrection (e considerando la copertina forse sarebbe risultato ancor più azzeccato), ma poi, forse per problemi di denunce e ripercussioni dall'ala estremista religiosa statunitense, si optò per Mind Wars. La promozione di questo secondo album portò i Terror in giro per il mondo, ma soprattutto nella loro terra natia, collezionando anche concerti assai importanti, fra cui spicca senza dubbio quello del 16 Dicembre 1988 di spalla ai Motorhead, assieme ad un'altra leggenda del Thrash, i Death Angel (che in quel periodo, essendo quasi contemporanei dei Terror, erano anch'essi freschi di secondo album, con Frolic Trough The Park). Questo album, come vedremo durante le conclusioni, sarà così importante per la band, che uno dei suoi membri più celebri, Mike Alvord, deciderà anni ed anni dopo di chiamare il suo progetto esattamente come questo disco, togliendo semplicemente lo spazio fra le due parole (per problemi forse di copyright), e producendo (all'atto odierno) due album di cui vi consiglio caldamente l'ascolto. Direi che il tempo a nostra disposizione per le fila iniziali è concluso, non ci resta che estrarre il nero e lucido LP dal suo sleeve, osservare magari le meravigliose foto contenute all'interno, poggiare il vinile sul piatto ed aspettare che questi secondi otto slot di dissacrazione anticlericale e di critica sociale di Keith Deen e soci ci facciano sanguinare le orecchie.
Judas Reward
Il compito di aprire questo balletto viene affidato a Judas Reward (La Taglia di Giuda); martellanti colpi di grancassa e tom danno il via alle danze, inframezzati da pennate di chitarra dal refrain assolutamente Thrash, che trascina l'ascoltatore fin da subito sul ring, pronto a prenderlo a schiaffi in men che non si dica. Ben presto la chitarra, dalle pennate rocciose iniziali comincia ad annodarsi su sé stessa, grazie ad una serie di combo davvero azzeccate, il ritmo generale è da marcia militare, il groove che ne viene fuori ci prende per i piedi e ci costringe a farci sanguinare le orecchie. Un inizio davvero niente male per questo album, piazzare una canzone così aulica ed altisonante come opener, fa sì che l'ascoltatore fin dai primi vagiti di album sappia bene che cosa lo aspetta; il brano improvvisamente inizia a tacere, la dissolvenza si fa sempre più marcata, fruscii di sottofondo preannunciano due cose, o la partenza fulminea, o un riprendere i ritmi precedenti. Optiamo fedelmente per la prima, ed infatti Mike e Kurt iniziano a darsele di santa ragione coadiuvati da Joe Mitchell alle pelli, mentre il compianto Keith fa il suo ingresso dopo pochissimi secondi, adottando uno stile di canto a metà fra la melodia e la recitazione, incisiva ma non fastidiosa, completamente in linea con ciò che viene suonato. Le parole vengono vomitate letteralmente in faccia al pubblico, mentre i Terror continuano la loro folle corsa sui binari del male; brusche accelerate e stop and go di tutta la strumentazione la fanno da padrone, finché ad un segnale di Keith (dato da un piccolo acuto che viene lanciato nella stratosfera), il brano cambia leggermente di registro. Rimane sempre e comunque sulle cadenzate che abbiamo ascoltato fino ad ora, ma di qualche giro più alte, più veloci ed acide nella loro resa. La batteria ce le suona per tutta la durata del pezzo, mentre i due axeman si scambiano velocissimi scambi di note grezze e piene d'odio. Abbiamo anche un cambio di registro vocale da parte di Keith, poco prima dei due minuti; come è nella miglior tradizione del Thrash dalla seconda metà degli anni '80 in poi, il cantato muta ogni tanto in qualcosa che ricorda un growl primordiale, pur scandendo comunque bene le parole pronunciate. Questo lo possiamo trovare in molti dischi di questa seconda decade musicale, dagli Onslaught ai Nuclear Assault stessi, fino agli Acid Reign o ai Risk; proseguendo in ordine, siamo circa a metà del brano, gli Holy decidono che è arrivato il momento di tornare al militaresco, ed infatti il blocco centrale del brano, prima di un corroborante e lungo solo di chitarra, si assesta sulla batteria ritmica, chitarre in seconda linea e la voce di Keith in solitaria. Segue come abbiamo detto l'assolo, tecnico ed assai Metal nella sua resa, dietro di esso l'inferno monda le sue fronte e si scatena pian piano per trascinarci alla sezione finale. Sezione che consta dell'ennesima brusca accelerata di toni (di ispirazione Hardcore) sormontata dalla cristallina e cattivissima voce di Keith; le ultime liriche del brano il nostro Deen le carica nel fucile e le spara addosso al pubblico, mentre il resto della band si prodiga in un crescendo davvero di grande impatto, tecnico e marcio al tempo stesso. Il mid-time che ne viene fuori è quasi da antologia, un serpente che allaccia le proprie spire alla preda senza volerla lasciar andare, le influenze si sprecano in questi ultimi minuti, rimbalziamo dal Thrash all'Heavy, dall'Hardcore al Punk anni '70, prima che l'intero comparto ritmico prenda la forma sonora di un rombo di motocicletta, e la successiva dissolvenza si porti via il tutto. Si cerca nelle liriche di confrontare la figura di Giuda con quella del mondo odierno; il traditore per eccellenza, colui che vendette Cristo per trenta denari, viene paragonato a ciò che il mondo è divenuto oggi. Una forsennata e continua ricerca di "taglie", un mondo in cui le persone non fanno altro che scannarsi fra loro, agonizzare e rimanere stecchite per la loro bramosia di male. Menzogne e costruzioni di sabbia ormai la fanno da padrone, qualsiasi cosa su cui puntiamo lo sguardo, risulta essere marcia e devastata all'interno, se la aprissimo, troveremo il fetore della morte. Ed è questo che paragona il mondo a Giuda; il personaggio biblico, spinto dalla bramosia di potere e dalla noncuranza della verità, vendette il salvatore guardandolo negli occhi, baciandolo sulla bocca in segno di sfida quando lo vennero a catturare. Ed il mondo odierno è come gli occhi del traditore, ci guarda, ci scruta, ci osserva, magari ci tende la mano in segno di aiuto, ma allo stesso tempo ci sta già vendendo al miglior offerente su piazza.
Debt Of Pain
Velocissimi invece scorrono i poco meno di tre minuti dello slot successivo, Debt Of Pain (Debito di Dolore). La traccia ci viene aperta da un refrain di chitarra a contagiri alzato a manetta, probabilmente suonato da Mike Alvord, che ha dimostrato sempre la sua bravura come chitarrista ad ogni occasione buona della propria carriera (compresi gli anni post Holy). Il refrain viene ogni tanto stoppato da alcuni precisi colpi di batteria, ma le corde continuano a venir strappate a più non posso (ricorda un po', seppur con un comparto vocale decisamente più pulito, alcune canzoni presenti su Power From Hell degli Onslaught, Thermonuclear Devastation su tutte), Mike e Kurt cozzano le loro lame come antichi guerrieri, il clangore e le scintille delle loro chitarre aiutano anche Keith Deen a condurre i giochi ed a shootare nuovamente in faccia al pubblico le proprie parole di diniego. Un dualismo forte ed indissolubile nei Terror quello fra chitarre e voce, senza dimenticare ovviamente la batteria, che gioca (come era accaduto sul primo album) un ruolo determinante in ogni sua sezione. Il brano prosegue la sua folle corsa, malmenandoci e lasciandoci lividi profondi sul viso, ma i losangelini non ne hanno abbastanza, ne vogliono ancora, vogliono ancora sangue e distruzione. Per circa il primo dei due minuti non abbiamo consistenti variazioni sul tema, si tratta semplicemente dello stesso giro di accordi suonato a velocità costante, sovrastrutturando il comparto ritmico con la chiara voce di Keith; e qui è bene soffermarsi su questo, ovvero sull'ugola del compianto frontman. Deen, per essere a metà anni '80, aveva una voce nettamente più di ispirazione classica, quella che avremmo potuto trovare nelle band primordiali del genere, quando ancora l'acciaio classico fungeva da lunga ispirazione per le formazioni. Questo è uno dei segreti che hanno permesso agli Holy di risultare interessanti fin dalla prima demo del 1986; il riuscire ad unire musiche di chiara ispirazione "moderna" in quegli anni, con un comparto vocale ed alcuni elementi di chitarra presi direttamente dalle tradizioni antiche, un mostro sanguinario e schiumante che non vede l'ora di ghermire la propria preda, famelico e pronto a sbranarla. Ascoltando peraltro il pezzo, abbiamo un vago sentore di aver già sentito tale melodia, e se andiamo a scavare bene con la mente, ci accorgiamo che molti elementi (del resto, il fondatore proviene da lì), somigliano a Back To Reign degli Agent Steel, canzone meravigliosa contenuta in Skeptics Apocalypse, primo full lenght del gruppo, ed in effetti è proprio così; la canzone degli Steel ha altre liriche ed un titolo diverso come sappiamo, ma le ritmiche sono praticamente le stesse. Continuiamo a pagare il nostro debito di dolore aggrappandoci alla ritmica principe del pezzo, finché un acidissimo solo che viaggia sul filo dell'epicità, non viene letteralmente a spaccarci la faccia. Saliscendi continui e tapping serrati sono la sua arma vincente, ma dura ben poco, Keith rientra quasi subito per recitarci gli ultimi stralci di lirica a ritmi sempre costanti, ed il solo altrettanto non sembra volerci abbandonare, ma rifà capolino nel pezzo per l'ultimo blocco, in cui le cartucce finali vengono messe nel caricatore, e la band deflagra piano piano in un bagno di sangue, prima del brusco stop. Di strade oscure e sentori di morte si parla in queste poche liriche, veloci come la musica suonata; il protagonista vaga solo in una notte desolata, le strade sono vuote come la sua anima. Egli sa che ha sbagliato, che ha fatto qualcosa di orribile, e dovrà pagare prima o poi. Il debito della sua anima rischiarerà la sua esistenza, l'unico modo per salvarsi sarebbe morire. O pagherà lui, o qualcuno vicino a lui, magari qualcuno che gli è caro, ma in ogni caso il debito va saldato ugualmente. Ed allora il nostro uomo vaga per la notte, l'anima in pezzi come frammenti di cristallo rotti, tagli profondi nel cuore che non si rimarginano. Recalcitrante alle soluzioni più semplici, l'uomo si spacca la testa in due per capire come pagare il debito di dolore, niente ha più senso, niente è più come prima, ormai è solo, e nessuno potrà mai aiutarlo a superare questa mefitica crisi che lo ha attanagliato, ci sono solo lui, la sua mente, ed il debito da pagare.
Immoral Wasteland
Inizio invece decisamente più aulico per la terza traccia, Immoral Wasteland (Discarica Immorale): un groove iniziale della sei corde ci fa da apripista, accompagnata come sempre dai tom e dai piatti della batteria, che ormai sono diventati il braccio destro dell'album, lo abbiamo capito. Da una traccia breve passiamo ora ad una decisamente più lunga, cinque minuti abbondanti in cui Alvord e soci possono dare sfogo alle loro fantasie ed influenze. L'inizio infatti, dal refrain dei primi secondi, ha il vago sentore di una ballad, la chitarra annoda le sue spire sulle nostre orecchie, i ritmi sono blandi e costanti, la batteria da qualche colpo ben assestato, e quasi ci viene da pensare che l'intero brano sarà così, ma ci sbagliamo. Neanche a dirlo infatti, e subito i due axeman iniziano a pennare sul proprio strumento in maniera ritmica, mentre la batteria si fa decisamente più incisiva di quanto ascoltato fino a questo momento. I ritmi sono serrati si, ma nettamente più Metal di quanto ascoltato fino ad ora, ed anche l'ingresso di Keith al microfono avviene con un passaggio molto morbido se lo paragoniamo alle tracce precedentemente ascoltate. Una canzone che, basta ascoltarla per rendersene conto fin da subito, affonda le radici tanto nell'Hardcore più blando (come gli Adolescents di Amoeba, per capirci), quanto nel Metallo classico di scuola USA ed inglese. Arriviamo al blocco centrale traghettati dalla ritmica principe del pezzo, questo indissolubile legame fra sei corde e batteria che ormai vanno a braccetto fin da quando abbiamo apposto il disco sul piatto; subito, dopo neanche un minuto, arriva il primo solo della canzone, ed anche qui abbiamo un riff dal sapore classicheggiante, mentre Keith continua ad intonare le proprie liriche in maniera non troppo aggressiva, così come corroborante risulta essere il ritornello, che ti entra subito in testa. E' una canzone che fa la sua figura sicuramente in sede live, mani al cielo a cantare gli stralci centrali, corna che si sprecano nel guardare la band eseguire tale canzone, ed una atmosfera festosa generale che scalda il cuore. Si prosegue con una prima variazione sul tema, poco prima dello scoccare dei tre minuti, variazione che consta dell'inserimento di un ritmo più cadenzato e sincopato da parte della batteria, e di conseguenza anche i riff di chitarra la seguono a ruota. Keith invece dal canto suo prosegue per la sua strada, quasi in una dissonanza fra le due parti, ma che alla fine ci sta maledettamente bene nel comparto generale. La seconda parte di canzone consta di alcuni inserimenti più incisivi rispetto a quanto ascoltato prima, i giri di strumentazione si fanno via via più serrati, Mike e Kurt continuano a darsele, non proprio di santa ragione, ma le scintille scorrono. Come scorre anche, liscio come l'olio, l'enorme assolo che si presenta al nostro orecchio valicati i tre minuti abbondanti. Dal retrogusto quasi Heavy basilare, l'assolo di chitarra funge anche da bridge con il blocco finale del pezzo, in cui continua a permanere quel ritmo "blando" che abbiamo ascoltato in partenza, ma variato leggermente di velocità. Keith rientra dopo poco per recitarci le sue ultime liriche, il gruppo lo segue a tambur battente, ma rimanendo sempre nei limiti, quasi a volersi prendere una pausa dopo la traccia precedente. Di nuovo la ritmica principe, stavolta impreziosita da alcuni orpelli della sei corde, di nuovo ritornello finale che ci prende per mano, alcuni azzeccati cori e la fine del brano è vicina, la dissolvenza arriva dopo un brusco acuto di Keith che ci fa tremare le vene dei polsi, ultimi giri di chitarra e batteria ed il cerchio si chiude come era arrivato, in maniera setosa ed avvolgente. Gli Holy per queste liriche mettono in piedi uno scenario quasi fantascientifico, in cui odio, negligenza e dolore continuano a dominare come accaduto fino a questo momento. Ci inabissiamo dentro i putridi meandri di questa discarica dell'immoralità, cavalieri del male che solcano destrieri senza testa, re putrescenti e malati ad ogni angolo di strada, e il nerboruto abisso dei peccati umani che ci scruta come un cacciatore fa con la preda. Siamo noi ad aver generato tutto questo, l'incubo su gambe in cui ci stiamo muovendo, è colpa nostra, gli artefici di questa fucina di male. Continuiamo a camminare, il cielo sopra noi si fa terso e grigio, quasi verde luminescente mentre ci addentriamo sempre di più nello scarico in cui finiscono tutti i mali dell'uomo, nel quale affoghiamo i nostri dispiaceri, che sia esso il piacere della carne o qualsiasi altra cosa. Nessuno potrà venire a salvarci da noi stessi, dovremo tirarci fuori con le nostre gambe, ma la discarica non ci lascia andare, l'immoralità è una musa troppo potente da combattere, non ci rimane che amarla come amiamo noi stessi. Temi che, per quanto comunque cari al genere (è sempre marcata una vena anticlericale in questi testi, più o meno velata), risultano essere davvero particolari, come accade per altre band, quali i Voivod per esempio. I Terror riescono perfettamente ad incastrare tempo e musica, e mentre ascoltiamo queste liriche abbiamo davvero l'impressione di calcare quella putrescente terra descritta nel testo, le scarpe che si consumano nell'acido dei nostri peccati, la faccia spazzata via dal vento incessante, e quel vago sentore di morte che entra nelle narici e non se ne va mai.
A Fool's Gold
Il lato A del vinile si chiude con qualcosa di davvero particolare, A Fool's Gold (L'Oro degli Stolti), ma perché particolare? Perché in realtà questa traccia è spezzata in tre microparti sottostanti al titolo principale, intitolate rispettivamente Terminal Humor e Mind Wars. Quindi i Terror hanno deciso di "nascondere" la title track nella traccia conclusiva del primo lato, improntando una enorme suite di quasi otto minuti divisa in più sotto-sezioni, dando all'ascoltatore il desiderio di carpire le varie sfumature presenti. Si inizia con un ritmo davvero pressante ed oppressivo di chitarra e batteria, che si prolunga per alcuni secondi prima che un riff della sei corde dal sapore Thrash faccia il suo ingresso, cui ben presto si lega un solo veloce e ritmico, accelerazioni poderose e ritmi serrati la fanno da padrone. Poi si ritorna al main theme, aspettando l'ingresso della voce, che avviene dopo alcuni secondi con un cantato nettamente più incisivo di quanto ascoltato, per esempio, nella traccia appena passata. Keith intona le sue strofe di dolore dal pulpito del suo microfono, mentre Mike e Kurt continuano a suonarcele di santa ragione inanellando combo come se non ci fosse un domani, ed andando a foraggiare svariate tipologie di stile. In tutto questo il basso non rappresenta certo un accompagnamento, ma nel turbine del sound ben si riesce a distingue sotto la cenere e l'odio presenti, gli slap si fanno sempre più serrati, e donano corpo e forza al brano stesso. Proseguendo e scavalcando i due minuti abbiamo poco prima un altro solo di chitarra, lungo e tiratissimo, in cui i Terror fanno nuovamente sfoggio delle loro abilità compositive, e poi nuovamente il main theme di questa prima sezione, in cui ormai velocità e cattiveria sono le armi principali. Si prosegue la corsa inframezzando acuti secchi e decisi di Keith con i ritmi e le rasoiate delle sei corde, finché ad un certo punto, ripetuto nuovamente il loop iniziale, non abbiamo la scansione delle parole "Destiny Ordained By Priest", calcando molto la mano sull'ultima ed alzando notevolmente il tiro della voce. In questo momento, anzi, di seguito a questo, si cambia blocco, ed apriamo le porte a Terminal Humor. La seconda sezione si apre con un massiccio giro di basso elettrico, loop infinito e slap continui su quelle spesse corde fanno si che l'ascoltatore si rilassi quel tanto che basta per poi dargli una sonora scossa alla cassa toracica; il solo di basso si prolunga finché non entrano in gioco anche chitarra e batteria, ed è allora che un andante da marcia militaresca, carico di Groove ed anticipatorio del Groove Metal stesso non ci viene iniettato in vena. Voci radiofoniche scanzonate e quasi impercettibili trasmettono un messaggio, come durante una guerra, e se ascoltiamo bene, quasi di seguito possiamo udire queste parole: "Conoscere Dio è avere la promessa della vita presente, rompere la maledizione religiosa su di voi, siete tenuti legati con corde; sono convinto dallo spirito di Dio, che il maggior parte dei cristiani sono stati tenuti in schiavitù da carceri vetro colorato, tenuti in schiavitù da un religioso spirito che dice loro i giorni dei miracoli". Una profezia bella e buona che viene accompagnata dal ritmo incessante della sezione ritmica, a cui poi si collega una brusca accelerata dal sapore Hardcore Punk prima maniera, basso e batteria si intrecciano in maniera salda e decisa, le chitarra rigurgitano riff e ritmi come forsennate, e Keith, dal canto suo, continua la sua marcia di devastazione. L'ennesimo solo di chitarra tritacapelli ci fa da contralto dopo questa sezione, e viene spinto al limite dal caldo suono delle pelli, a cui poi si lega ben presto un secondo solo nettamente più veloce, brusca accelerata seguente e si riparte con il balletto di morte, che ci porterà poi finalmente alla sezione/title track di questa lunga suite. L'ultima sezione ci viene aperta dopo un lungo momento corale della band, in cui la strumentazione prima si prodiga in un ritmo andante e metallico, e poi cambio di registro ed il contagiri impazzisce, aiutando anche il nuovo ingresso di Keith. Rasoiate sanguinolente e rocciosi ritmi grezzi ed acidi fanno da sfondo all'ultimo blocco, è una corsa contro il tempo, e noi siamo al volante. Combo continue e costanti si legano l'una all'altra grazie a bridge davvero azzeccati, il sentore generale è quello del male più assoluto, Deen continua la sua arringa con tono pulito ed aggressivo, sovrastato ogni tanto dal sound delle asce a sei corde che non la smettono di cozzare fra loro. Giri e loop si accostano poi sul finale ad un enorme solo di chiara ispirazione Heavy Metal classica, tapping ed hammer on si incastrano fra loro prima che le ultime liriche vengano pronunciate con enorme acredine da parte di Keith, traghettandoci alla dissolvenza stanchi, consunti e tumefatti dallo scontro appena avuto, un infernale acuto si allaccia agli ultimi stralci di musica, e la traccia più lunga di MW se ne va come era arrivata. Uno dei testi più anticlericali di tutto il disco; si ha la chiara percezione delle bugie ecclesiastiche fin dai primi vagiti di brano, e della voglia senza quartiere degli Holy di criticare lo strapotere della chiesa e della religione. Vengono letteralmente messe alla berlina le vane promesse di pace ed amore della chiesa stessa, e vengono coadiuvate da momenti di puro black humor di quelli che solo il Thrash Metal riesce a donare. È una canzone, nel suo essere a metà fra melodico ed aggressivo, davvero malvagia, e questo lo riesce a fare anche grazie alle liriche, scritte col sangue e con l'odio verso un determinato tipo di sistema. I Terror si chiedono se la vita sembra anche a noi senza speranza, se tutte le bugie che ascoltiamo le sentono solo loro, oppure siamo tutti coinvolti in questo circo mediatico del male. E coloro che stanno sopra dominano sempre, promettono, vanificano gli sforzi, danno al mondo un tozzo di pane raffermo dicendogli che sarà questo che li salverà dal baratro della disperazione. Espiare i peccati, flagellare la propria anima per i mali commessi, queste sono le vane promesse della chiesa, quel famoso "oro degli stolti" che fa da sfondo al primo blocco. In Terminal Humor invece si punta più sulla critica feroce e senza quartiere, basta leggere quelle profetiche parole per carpire quanto odio anticlericale ci sia in questi giovani ragazzi; mentre per quanto riguarda la sezione che da anche il titolo al disco, essa consta sostanzialmente di un fattore importante, quello dell'ironia dissacrante. Si prende letteralmente in giro tutto quel che ci circonda, si mette in discussione tutto e tutti, senza preoccuparsi delle conseguenze, perché la verità qualcuno alla fine deve pur dirla, qualcuno ci deve pur pensare a coloro che non hanno la mente abbastanza lucida da vedere come stanno le cose. Sono argomenti questi davvero cari al genere che stiamo affrontando, da lunga tradizione, anche se l'anticlericalismo è venuto fuori più nella seconda decade del Thrash Metal, nella prima ci si concentrava di più su anti-militarismo, critica sociale e politica, analisi più o meno profonde dell'animo umano, con eccezioni ovviamente, vi sono band che hanno dedicato un'intera carriera al dare contro alla chiesa, band Thrash s'intende (e si veda la voce Coven a questo proposito, ma anche gli Artillery stessi).
Damned By Judges
Giriamo il vinile, ed il primo slot del lato B viene aperto da Damned By Judges (Dannato Dai Giudici): una lunga e particolare intro recitativa ci apre il brano. Sentiamo rumori, voci, chiacchiericcio di sottofondo, urla, strepiti e discorsi in lingua inglese, effettati come una radio o una trasmissione televisiva. In alcuni punti sembra invece di essere dentro una chiesa, ed infatti poi udiamo rintocchi di campane e passi dei fedeli che entrano dentro il luogo di culto per ascoltare la nuova messa. Tutto questo viene poi stravolto dal martellante pestare della doppia cassa, unita ad un refrain di chitarra di forte impatto. Ben presto la canzone si annoda su sé stessa, avvolgendoci come una focosa amante desiderosa di passione; Keith Deen fa il suo ingresso poco dopo, e stavolta sceglie un cantato lindo e lineare, quasi recitato, arringa il popolo ed arruffa la folla con le sue parole di diniego verso alcuni argomenti. Proseguendo in ordine, e con l'intro così lungo siamo praticamente al blocco centrale del brano, la band ci da un'altra sonora scossa ripetendo all'infinito il main theme, accelerandolo poderosamente durante il ritornello, ed improntando una ritmica dal sapore decisamente Hardcore. E poi via di nuovo, si scivola verso il metallo classico ed il Thrash andante, stavolta il ritmo si fa ancor più serrato, il contagiri si spacca sotto i colpi degli Holy Terror, loop continuo fino alla comparsa di un bellissimo solo di Alvord, tecnico e veloce, tapping e pull-off, uniti ad un mid time da paura, dominano questa sezione, mentre dietro le pelli non accennano minimamente a fermarsi. Il solo viene trascinato per i piedi come un cadavere, finché un micro silenzio seguito da precisi colpi di batteria non ci apre ad un ritmo che sfocia in un accenno di dissolvenza, ma guardiamo il minutaggio, abbiamo ancora tre minuti abbondanti di pezzo da affrontare, e quindi sappiamo che non è ancora finita. La deflagrazione implode nel nostro cranio dopo alcuni giri dal sentore melodico, acidi e grezzi ma fini come resa totale, Keith rientra sulla scena grazie ad alcune rullate della batteria, che sembrano sempre preannunciare la venuta dell'inferno. Ed invece adesso abbiamo, al momento, una vasta sezione altisonante retta quasi esclusivamente dalla voce, a cui si lega un altro solo di Mike dal sapore più Thrash stavolta, marcatamente inacidito da una distorsione complessa. Poi un'altra brusca accelerata e si rischiaccia il pedale del gas, premendolo con tutta la forza. Un acuto infernale di Keith ci annuncia gli ultimi stralci di lirica, mentre il mondo dietro esplode in mille pezzi, i loop continui e serrati ci spaccano la testa in due, il mosh pit live è d'obbligo, mentre l'ultima sezione prima dello stop consta sostanzialmente di un progressivo "cacofonizzarsi" del suono, condito da qualche riff di chitarra sparso qui e là e da un ultimo solo come perla di questa enorme collana che ci ha aperto il secondo lato. Pezzo encomiabile, uno dei migliori di tutto l'album, come eccezionali sono le sue liriche, profonde e dissacranti. L'ennesima analisi spicciola e diretta degli uomini, si parla di processi e colpe di nuovo, ma stavolta è il condannato stesso a parlare; la sua smania di morte o peccato lo ha portato ad essere giudicato colpevole di tali atrocità, e per questo la pergamena con la sua condanna è stata srotolata. Egli è un dannato, un'anima nera che vaga nella notte in cerca di sangue, ma ora è stata fermata; eppure si sa, la morte è solo una via di uscita, ed infatti, nonostante l'argomento sia quello di una condanna, si respira pesante la critica celata dietro tali parole. I potenti impongono il loro volere, e sono sempre i poveri a pagare; il nostro protagonista cerca di giustificarsi, dicendo che è stato costretto a fare quel che ha fatto, ma i giudici sono irremovibili, la condanna ormai è stata mossa, e non c'è niente che si possa fare. Un brano che da il meglio di sé in versione live, teste spaccate e spalle tumefatte dal pogo più sfrenato, sempre nel segno del Thrash, sempre nel segno della musica.
Do Unto Others
Prossimi quattro minuti invece sono occupati da Do Unto Others (Non Fare Agli Altri), profetico titolo che fa già capire quale sarà l'argomento principe del brano. Ed infatti analizzando le liriche, troviamo nel ritornello la frase "non fare agli altri ciò che vuoi sia fatto a te", una frase che conosciamo tutti quanti, tutti l'abbiamo pronunciata più di una volta nella vita, eppure continuiamo a non carpirne bene il significato profondo, dato i nostri comportamenti. Protagonista del pezzo è un altro condannato, che sta cercando di espiare i suoi peccati e desideri prima che giunga l'ora fatale in cui il suo corpo diventerà esanime. Il sangue sta per scorrere, la morte è vicina, ed il nostro uomo fa una specie di esame di coscienza di ciò che ha fatto, e si ricorda quelle parole, e ci accorgiamo andando avanti anche del fatto che non è stato condannato per dei crimini, ma è malato. Eppure anche la malattia viene vista come conseguenza di ciò che ha combinato; la natura umana è fallace di fronte a certe frasi, sarebbe bello poter dirlo ed applicarlo fin da subito, ma l'uomo rimarrà sempre una bestia feroce, pronta a sacrificare tutto e tutti per il proprio tornaconto. Ed ecco che infatti le malattie, secondo questa canzone, quelle gravi, quelle incurabili, sono una specie di "epurazione" dai peccati, il prezzo da pagare per aver fatto del male agli altri. E quindi il nostro cadavere ambulante disamina la propria vita, chiede una sigaretta, l'ultima probabilmente, chiede di morire in pace con sé stesso senza soffrire, ma sa che questo non succederà mai, eppure le persone intorno a lui sembrano fregarsene, dicendogli di tirare fuori gli attributi e morire con dignità. Il pezzo viene aperto da una rocciosa rullata delle pelli assieme alla chitarra, tradizione prima di tutto; i giri della sei corde ben presto si trovano legati allo slap del basso, nell'attesa che la voce di Keith si palesi per raccontarci la storia che abbiamo appena finito di spiegare. Un loop granitico e pieno di energia si scatena piano piano, mentre il tiro del pezzo viene alzato sempre più, l'energia che ne scaturisce ha sete, sete di noi, della nostra forza, e poi, accelerata e via. Qui abbiamo una chiara ispirazione Hardcore, la si avverte nel blocco centrale; ci si rifà ai padri del genere come Black Flag et similia, ed infatti il tiro alto, la velocità costante e gli schiaffi che ne vengono fuori, sono da antologia. Nonostante però prevalga la parte "punk" del Thrash, in sottofondo continuiamo a sentire quei ritmi classicheggianti, che ormai per i Terror sono diventati un marchio di fabbrica bello e buono. Si prosegue correndo come matti in questo incubo, finché Alvord e soci non continuano a malmenarci coadiuvati da alcuni agghiaccianti acuti di Keith, che fanno gelare il sangue nei polsi. Il pezzo poi subisce una brusca decelerazione ed un successivo inframezzarsi di Groove ed acuti vocali provenienti dal tartaro più profondo; Deen sforza la propria voce fino all'inverosimile, il ritmo è così trascinante che non si può non muovere la testa all'unisono con la musica, è impossibile non seguire il ritmo. Con la parola "wings" che viene tirata al massimo fino quasi al gutturale da Keith, entriamo nel blocco finale del pezzo, che ci viene aperto da colpi di grancassa e piatti, pestati fino in fondo e che danno il via prima ad alcune rullate sempre più incisive, e poi ad un assolo fra chitarra e voce, distorsione al massimo e via. Le ultime liriche vengono letteralmente urlate in faccia all'ascoltatore, e vengono innalzate ancor di più da un giganterrimo assolo di Mike Alvord, tecnico e velocissimo, coltellate serrate all'ascoltatore. Un brano assolutamente in your face, che si stampa come un calcio nei denti di chi si mette le cuffie alle orecchie, ed anche l'ultima parte, quella prima del brusco stop che ci farà passare alla traccia successiva, consta di un progressivo innalzarsi della cattiveria musicale , in un ipotetico "astiometro", se lo avessimo in mano, la lancetta del male spaccherebbe il vetro. Il brano si conclude in medias res, ne avremo quasi voluto ancora, ma gli Holy Terror hanno deciso che era il momento di passare ad un'altra bordata nel loro stile.
No Resurrection
Penultimo brano in scaletta è colui che avrebbe dovuto dare in origine il titolo all'album , parliamo di No Resurrection (Nessuna Resurrezione); bordata di batteria ed il brano parte subito in medias res, un'altra dose di violenza a cui fa capolino quasi subito la voce di Keith Deen, che stavolta abbassa decisamente il tono del proprio cantato e sceglie di scendere quasi nel gutturale andante, per dare maggior forza alle proprie parole di rifiuto. I giri di batteria e chitarra si sprecano, Deen alza leggermente l'ugola e l'acceleratore continua ad essere premuto con forza, i minuti scorrono senza problemi, il ritmo è sempre serrato, la sete di energia è tanta, e Mike Alvord nel frattempo ce le suona con la sua sei corde fra le mani. Distorsione e cacofonia controllata stanno ampiamente dominando la prima sezione di brano, e continua anche nella sezione centrale, con un ritornello tanto semplice quanto azzeccato, e che come era accaduto per un brano precedentemente ascoltato, non può non farti cantare a squarciagola sia durante i concerti, che quando passa nello stereo. Qui si evince abbastanza bene quanto gli Holy siano avvezzi tanto al classico quanto alla parte più marcia del Metal e del Punk; la capacità di saltare da brani come quello ascoltato a fine del lato A, a bordate di violenza come questa, esplica chiaramente quanto questi losangelini fossero dei divoratori seriali di musica. Misero tutte le loro influenze in entrambi gli album prodotti, ed in questo ancor più incisivamente affilarono le proprie lame, dando sfogo alla fantasia ed alla loro voglia di spaccare teste degli ascoltatori. È un brano trascinante dalla prima all'ultima nota, e nonostante non brilli per estro, brilla invece per la grande forza che riesce a trasmettere, immaginate un Punk marcio fino al midollo, ma alla cui base c'è la classe innata dell'Heavy Metal, semplicemente perfetto. Proseguendo ed addentrandoci nell'ultimo blocco del pezzo, i Terror mettono in piedi un'altra decelerazione improvvisa, e poi nuovamente un cambio di registro e si torna alla velocità costante, stavolta inframezzata da alcune pesanti distorsioni e da un velocissimo scambio delle sei corde, che ben presto sfocia in un solo di ingenti proporzioni. Sempre sul filo della velocità si muove anche la sezione conclusiva, schiaffi e pugni che volano, il solo iniziato precedentemente viene preso e tirato come un buon smash a tennis in faccia agli astanti sotto al palco, le pelli vengono deflorate in attesa della voce di Keith. Torna il comparto vocale ed abbassa ed alza i toni a proprio gusto e piacimento personale, il comparto ritmico deflagra sempre di più, ci aspettiamo forse un ultimo solo, le parole vengono tirate all'inverosimile, la sete di cattiveria diventa spasmodica mentre gli ultimi stralci vengono suonati, niente solo, ma un brusco stop. Un altro testo ricolmo di critica anticlericale questa settima traccia, ma stavolta si sfata il mito della resurrezione; tutti sappiamo che secondo la religione sacrificare la propria vita all'espiazione dei peccati porta alla resurrezione dell'anima dopo morti, ebbene, i losangelini ci tengono a sottolineare che dopo la morte non c'è un bel niente, solo le bianche ceneri del nostro cadavere che si sfaldano piano piano. È un altro falso mito, un paraocchi messo di fronte allo sguardo del mondo per nascondere la verità, per far si che ci siano branchi di pecore smarrite da raccogliere e plasmare a proprio piacimento. Ma in mezzo al branco degli uguali, c'è chi riesce sempre a vedere più lungo, ed allora si rialza e porta con sé la verità anche fra gli altri; colui che può domina il mondo, i cuori bruciano , i morti escono dalle tombe e calcano la terra, ma nessuna resurrezione, a meno che non si voglia davvero soffrire. Questo è il messaggio del pezzo, godersi la vita terrena, fare ciò che è in nostro potere per renderla più speciale possibile, e non guardare solo a "cosa ci sarà dopo", perché la delusione di scoprire che non c'è assolutamente niente, potrebbe farci spaccare in due come frutti maturi. Ormai abbiamo capito quanto questa band sia assolutamente avvezza a certi argomenti, ed anche nel primo lenght le cose non erano molto diverse; qui in MW però la cosa si fa ancor più astiosa e carica di male, si tende molto a sottolineare certi aspetti, con la solita e dissacrante ironia nera che il Thrash ha sempre avuto, fin dalla sua formazione.
Christian Resistance
Compito di chiudere questa piccola grande perla della musica tocca a Christian Resistance (Resistenza Cristiana): qui non si cerca neanche di nascondere la polvere sotto al tappeto, quest'ultimo pezzo è una vera e propria denuncia alle guerre sante, a tutte le battaglie combattute in nome di qualcosa di più alto o che nessuno ha mai visto, ma che hanno portato fiumi di sangue sulla terra. Si uccide in nome di Gesù Cristo o Dio, lo si è sempre fatto, da quando esiste la religione, si è sempre combattuto nel suo nome, sfociando spesso e volentieri nel fanatismo più dilagante. Ed è un meccanismo proprio dell'animo umano; creare all'interno di sé falsi miti per giustificare i propri comportamenti, dalle follie dilaganti come "voci nella testa", proprie dei pazienti di un reparto psichiatrico, finanche al combattere in nome di una sovrastruttura che nessuno ha mai visto davvero, relegata alle cartacee pagine di migliaia di libri, scritti da uomini visionari che hanno avuto sogni, apparizioni e quant'altro. In nome di Dio si combatte, ed anche se le scritture affermano e promuovono la pace fra gli uomini, si cerca sempre di girare la questione di modo che torni comoda a noi stessi; quante volte abbiamo sentito negli anni di persone che hanno ucciso in nome di qualcosa? O perché avevano letto e mal interpretato alcuni passaggi di altrettanti testi religiosi, e non solo del cristianesimo in particolare. Bene, i Terror mettono a tacere certe voci nell'unico modo possibile, e cioè smontando pezzo per pezzo tutto ciò che sta intorno a questi falsi miti, e sputando in faccia direttamente al creatore le proprie parole di rifiuto. Possiamo allungare una mano al cielo, ma non vedremo mai cosa c'è sopra, eppure brandiamo la spada e la affondiamo nei corpi di altrettanti innocenti come noi, persone che combattono non si sa bene per qual motivo, ma sono lì pronte ad ucciderci. Un eccidio che va avanti da secoli, e che probabilmente non finirà mai del tutto, non finché ci si continuerà a convincere che combattere in nome di qualcosa di più alto sia l'unica ragione per farlo. Il brano viene aperto, come il precedente, da una immensa bordata sonora, uno tsunami di note che ci investe in piena faccia e sappiamo già che non ci lascerà andare tanto facilmente; il ritmo è nuovamente serratissimo, per quanto rispetto allo slot precedente, il tutto sia molto più Metal nella resa. Alcuni saliscendi continui e si parte nuovamente con la velocità al massimo, Keith Deen dal suo pulpito recita la propria parte mentre intorno il caos si sta piano piano scatenando. Andando avanti nell'ascolto, che procede a spron battuto fin dai primi secondi, i giri di chitarra e batteria si sprecano, alcuni stop and go e poi si riparte, le sei corde vengono strappate dalle loro sedi, i pick up si sforzano per stare al basso, e le rullate delle pelli diventano un tutt'uno col sound generale. Giri infiniti ed il main theme ripetuto allo stremo e si riparte ogni volta con una nuova iniezione di violenza; un altro brusco stop e poi una rullata delle pelli da il via ad un andante Thrash marcio e cattivissimo, il tono di voce diventa più acuto e meno recitato, adesso il falsetto è l'arma vincente, per quanto sporco e grezzo. Si prosegue ancora andando a toccare velocità davvero elevate, finché un solo di chitarra, nel più puro sapore Thrash, non viene a farci visita; pomposo e con una cascata di note a fargli da accompagnamento, il nostro Alvord tira fuori un'enorme onda sonora da buttarci addosso. Azzeccatissimi anche i cori, che danno lustro e voglia smodata di ascoltarlo ancora ed ancora; una volta prolungato il solo fino allo stremo, e reso ancor più cattivo dalla batteria, Mike continua la sua folle corsa sul ligneo manico della chitarra, sembra che niente possa fermarlo. Si prosegue ancora, il solo dura diversi secondi, ed ora viene accompagnato dall'altra ascia, scambi veloci con la batteria, un ritmo Metal trascinante fin nell'anima ci trasporta al finale vero e proprio, le liriche vengono vomitate sul pubblico che se le prende e le canta a squarciagola, ed il tempo di un ultimo giro infernale prima che lo stop si porti via con la dissolvenza anche quest'ultima traccia.
Conclusioni
Se con TAS gli Holy Terror avevano centrato il punto fin da subito, con questo secondo album hanno sfondato letteralmente il muro del suono. Immaginate un disco in cui, al di là di una copertina meravigliosamente marcia e tamarra al tempo stesso, un comparto vocale eccezionale da parte del defunto Deen, una sei corde che non ti lascia solo un attimo, e l'enorme, enorme ripetiamo, lavoro di Joe Mitchell (che già aveva dato sfoggio di sé nel primo disco) alle pelli, si cerca di stupire ad ogni angolo che si possa trovare. Per non parlare poi della produzione cristallina che è stata messa in piedi; nel primo lenght ancora c'era qualche piccolo angolo da smussare, complice la giovane età dei ragazzi, il loro essere alla prima prova in studio, e l'investimento meno consistente della UOF per la produzione. Qui siamo di fronte invece ad un lavoro davvero egregio, che niente ha da invidiare ai blasoni ben più conosciuti. Un disco che rimarrà negli annali della storia, bollato per sempre come capolavoro; non c'è altro da dire se non ascoltarlo e godere. Tracce immense come la title track (anche se non si chiama così come abbiamo visto), ma anche No Resurrection, e persino la più melodica The Immoral Wasteland, fanno di Mind Wars un album da mangiare a colazione, pranzo e cena, come gli antibiotici del dottore. Dopo questo album, come sappiamo, la band si sciolse definitivamente, per poi però tornare alla ribalta, prima nel 2006, quando venne pubblicata la raccolta El Revengo (in parallelo con la cicciosa ristampa citata nella intro), e poi nel 2015 con un immenso tributo all'amico scomparso Keith Deen, cui fu dedicata Guardians Of The Netherworld, un'altra raccolta. I primi due album degli Holy sono una pietra miliare del Thrash underground, due dischi da riscoprire, come accade con tante e tante altre band il cui successo non è mai arrivato davvero. Con Mind Wars la band ha chiuso definitivamente il cerchio iniziato con Terror And Submission; il voler mettere in piedi una musica aulica e devastante al tempo stesso, calcare la mano sulle proprie influenze e voler a tutti i costi stupire l'ascoltatore con soluzioni molto poco ortodosse. Menzione d'onore, come sempre, a Keith Deen ed alla sua ugola, che sono riuscite ad accompagnare folte schiere di metalheads fino alla sua prematura scomparsa. Altra menzione al grande Mike Alvord, che come abbiamo detto, è rimasto così legato a questo disco, da aver chiamato il suo progetto odierno (in coppia con l'italianissimo Roby Vitari, già in forze a band come Jester Beast ed Headcrasher) Mindwars, producendo due dischi uno più bello dell'altro, e che troverete come allegato anche di questo articolo. Non c'è davvero niente altro da dire, se non che a conti fatti, è vero che la profetica frase "thrash will never die!" è vera in ogni sua sfumatura; questo non è un genere come gli altri, è qualcosa che abbraccia un pubblico vasto, qualcosa che non annoia (se inframezzato con altri tipi di musica, sia chiaro, gli ascolti devono sempre essere variegati e mai fossilizzati), qualcosa che è talmente affascinante da risultare geniale ogni volta che si appoggia l'orecchio ad esso.
2) Debt Of Pain
3) Immoral Wasteland
4) A Fool's Gold
5) Damned By Judges
6) Do Unto Others
7) No Resurrection
8) Christian Resistance