HIDDEN INTENT
Fear, Prey, Demise
2018 - Indipendente
NIMA TAYEBIAN
03/04/2018
Introduzione recensione
Non è impresa facile, nel post-2010, fare del buon thrash. Almeno per i "nuovi gruppi", i gruppi giovani, quelli emersi più recentemente rispetto a chi la materia la mastica da tanti anni e può permettersi di scadere nella ripetizione, fare album discreti o addirittura scarsi (prima di una augurata risalita), azzardare vie meno ortodosse al fine di evitare il primo punto (la ripetizione). Tanto è stato detto e a più riprese: abbiamo avuto la corrente storica, che per motivi fisiologici ad un certo punto è stata declassata nei gusti di molti ascoltatori attratti da quel che stava gradualmente emergendo (prima il death e quindi il black "seconda ondata"). Una corrente che già all'epoca aveva detto/fatto tutto o quasi quel che si poteva dire/fare in materia (inutile tediarvi citando le ortodossie dei vari "Big Four" e le "eterodossie" di altri gruppi incredibili come Coroner e Voivod); abbiamo avuto una "fase intermedia" in cui certi gruppi hanno "usato" il thrash per arrivare verso "altre parti", altri lidi sonori che pur pescando dal genere madre, hanno avuto risvolti di indubbia originalità e freschezza (i Meshuggah, partiti dal techno-thrash del primo disco e arrivati, già con il secondo, a mettere in piedi i pilastri per quello che sarà poi definito "djent"; i Pantera, a onor del vero partiti da lidi hard & heavy, forse glam, che hanno usato il thrash per erigere le basi del groove metal, tra l'altro quasi in concomitanza a un altro gruppo seminale, gli Exhorder: Cowboys From Hell e Slaughter in Vatican sono entrambi del 1990); quindi una fase di ripescaggio, una fase revivalista. Un periodo incastonato nel nuovo millennio in cui una corrente definita da qualcuno per l'appunto "revival thrash" ha cercato - possibilmente con zero originalità - di rinverdire i fasti del thrash storico tramite un nugolo di gruppi che pur non alimentati da una totale personalità - lo abbiamo testè specificato - si facevano forza con un'attitudine "dura e pura", molto eighties: vai allora, con i vari Municipal Waste, Gama Bomb, SSS, Evile e via discorrendo. Anche qui sono comunque emersi nomi notevoli, gruppi che pur prendendo spunto dal passato hanno saputo tirar fuori prodotti di estremo interesse: facile citare in tal senso formazioni come gli Havok o i Vektor (l'uso della K sembra portare fortuna), che anche aldilà di quello che può essere il mio modesto parere hanno iniziato benissimo e continuato altrettanto bene delle carriere che sino ad ora (il 2018) non hanno conosciuto grosse falle. Ma escludendo i prodotti di questi gruppi baciati da una inossidabile ispirazione, è difficile per tanti altri, in questo post 2010, fare del buon thrash. E ci ricolleghiamo così al disco preso in esame stavolta, "Fear, Prey, Demise", il secondo full-length degli Hidden Intent. Disco che vive di luci e ombre, in cui ambedue gli elementi sembrano occupare egual peso. Il disco è di quelli puramente e propriamente thrash (nessuna particolare eterodossia, niente che ci faccia sobbalzare in preda allo stupore) e questo è un punto a favore per chiunque vive di pane e thrash, non ascolta praticamente nient'altro e non ha voglia alcuna di spaziare, ma solo sentire un prodotto perfettamente ancorato alla tradizione. Il punto sarebbe piuttosto a sfavore di chi cerca qualcosa di più nel thrash (sulla scia dei già citati Coroner e Voivod) ma la questione è semplice: se cerchi altro rivolgi la tua attenzione altrove. Stop. Riguardo al livello compositivo possiamo dire che il disco ha sicuramente molte "frecce nella sua faretra", molti brani di buon/ottimo livello, ma al contempo altri poco incisivi. Per dire, l'opener Prey for Your Death non mi ha fatto impazzire: tosta, monolitica, possente quanto si vuole, ma anche poco coinvolgente; anche la seconda track, Addicted to Thrash, per quanto più "intrigante" risulta abbastanza anonima, salvata comunque da una sezione ritmica capace di un maggiore coinvolgimento. Con la terza canzone, Seeds of Hate, si inizia veramente a fare sul serio: il brano mostra come i nostri siano capaci di coordinare la potenza muscolare tramite il sistema nervoso centrale. Usare la "testa" per direzionare i propri colpi e farlo in modo da piazzarli quando serve, in maniera giusta e ponderata: il brano infatti risulta più strutturato, con una texture sonora articolata aperta e chiusa da una intro e un'outro dimessi, un uso dell'aggressività molto calcolata ma non per questo meno incisiva (anzi)... in generale si può notare come qui facciano un uso sapiente dei loro mezzi. Uno dei brani che indubbiamente è possibile eleggere tra i punti cardine dell'intero disco. Ancora un bel colpo piazzato con la successiva scheggia sonora Drop Bears Are Real (di un minuto e cinquanta scarsi) in cui la potenza stavolta è ben giostrata e capace di "trascinare", senza se e senza ma. E poi, alcuni pezzi dopo c'è la FAVOLOSA Step Into The Light... Comunque, data l'inutilità di soffermarmi su ogni singola traccia - ci ritorneremo nella track by track - sottolineo di nuovo la dicotomia di cui sopra (il fatto che viva di "luci ed ombre") considerando che i pezzi belli non mancano, ma non mancano neanche quelli trascurabili (chiamateli filler, o come volete voi). Ed è anche normale, forse nella maggior parte dei dischi: bisogna proprio cercare prodotti di alta fattura per avere se non una scaletta di brani perfetti, almeno una maggioranza assoluta di brani in un unico platter che si distacchino nettamente dalla media. Per quanto, questa "normalità" di cui parlo sopra è proprio una delle cose a cui un gruppo non dovrebbe puntare: generalmente si fa, o si dovrebbe fare un disco cercando di piazzare quanti più pezzi significativi è possibile, quindi essere sempre focalizzato su un prodotto finale quantomeno buono/ottimo è sempre quello a cui bisognerebbe ambire. Guardare, come hanno fatto in molti, il passato e cercare di pescarne il meglio, assimilarlo, farlo proprio, rielaborarlo e cercare di arrivare verso percorsi propri (attenzione, non ho usato il termine "originale" dato che nel suddetto genere, come visto, alcuni gruppi non originali hanno fatto grandi cose) che siano il più possibile capaci di avere un peso nella scena attuale, comunque sempre sovrafollata. Perchè se non si cerca di spiccare si finisce purtroppo in un anonimato castigatore. Un limbo simile al purgatorio in cui vegetare accontentandosi della propria ristretta fan base. Detto questo, e prima di passare ad altro, mi preme puntualizzare sin da ora che nessuna bocciatura è prevista in questa recensione: il gruppo, grazie ad alcuni brani veramente "tosti" e degni di ascolto merita comunque la sua bella promozione. Ma sarebbe interessante nel futuro vedere certe idee ancora più a fuoco: un bel lotto di brani "avventurosi" come la già citata Seeds of Hate sarebbe un qualcosa di spettacolare... più o meno come tentato dai grandi Slayer nel loro secondo album Hell Awaits: un disco tanto fruibile quanto "tortuoso", un capitolo irripetibile nella loro discografia, dato che sia il precedente che il successivo hanno la peculiarità di essere ben più diretti (specie il successivo, Reign In Blood). Bene... considerando che è anche lecito per i fruitori di questa recensione sapere, dopo tutte queste chiacchiere, di chi stiamo parlando, passerei ad un breve spaccato biografico dei nostri: "Gli Hidden Intent sono una band thrash/speed metal di tre elementi proveniente da Adelaide, South Australia, formata dal bassista/cantante Chris McEwan (Abyzmal/Obsidian Aspect) e dal chitarrista Phil Bennet (Desert Eagle/TKBF) agli inizi del 2011. Dopo una breve esperienza con un batterista ed una lunga ricerca per un rimpiazzo, Jay Rahaley (Blood Mason, Treachery) è stato reclutato per completare la line up. Il sound degli Hidden Intent è un salto nel passato verso i giorni della vecchia scuola del thrash metal, dei primi Metallica, Megadeth, Mortal Sin, Coroner, Annihilator, Artillery, Sepultura, enonché NWOBHM come ad esempio Judas Priest, Iron Maiden, etc. Il pubblico ha sempre descritto gli show dal vivo degli Hidden Intent come "buon sano thrash", "energetici", "di fantastica interazione col pubblico", e come una reminiscenza dei Testament, dei Sacred Reich e degli Slayer. Il 2013 ha visto gli Hidden Intent suonare all'annuale New Dead Metalfest, insieme ad alcune delle migliori metal band australiane come Psycroptic, Ne Obliviscaris e Ouroborus, e a supporto delle iconiche leggende del thrash metal australiano, gli Hobbs Angel of Death, in tour nel sud est asiatico per sei date , inclusa l'annuale Bangok Thrash Festival in Tailandia, rilasciando in anticipo il loro album di debutto: "Walking Through Hell" (Punishment 18 Records, Italy) e un video musicale su youtube con la title track. Il 2014 ha visto la band imbarcarsi nel suo Thrashing Through Australia/NZ Tour 2014, che include oltre dieci show per promuovere l'album, per poi partecipare al Metal Down-Under Perth Division Australian metal festival a novembre, per poi imbarcarsi per altre cinque date nel sud est asiatico con icone del thrash australiano come gli Imminent Psychosis. Il 2018, ben cinque anni dopo il loro primo full-length, vede la luce il loro secondo disco, "Fear, Prey, Demise", stavolta indipendente. Ed è proprio questo il disco che ora andremo ad affrontare nel dettaglio, affidandoci alla nostra consueta track-by-track.
Prey For Your Death
Si inizia con "Prey For Your Death"(Prega per la tua morte), brano furente, aggressivo, monolitico, che comunque colpisce poco risultando più un manieristico esercizio di stile che un gioiellino in fatto di ispirazione. Non brutto ma purtroppo un pizzico anonimo. Ma sulla parte formale del brano ritorneremo più avanti, piuttosto è interessante notare come la parte lirica ricalchi l'aggressività di fondo del pezzo, facendo perno su un testo che, pur andando per interpretazione, dovrebbe porci in un contesto di odio e vendetta: il protagonista/voce narrante sembra in preda a una certa euforia per la totale disfatta di un suo nemico, e nell'esprimere i suoi sentimenti di odio non lesina un linguaggio abbastanza triviale. La parola "fottutamente" viene ripetuta un numero elevato di volte. Il singer fa un curioso mix di termini gergali, slang giovanile e forme quasi auliche di linguaggio. Il soggetto come specificato sopra risulta un pizzico "nebuloso", non del tutto intellegibile. Non è chiaro se la figura antagonista sia una figura maschile, un ex amico ad esempio, o una figura femminile, una amante, una compagna, una qualche donna protagonista di una storia non andata a buon fine. Quel che è certo è che il protagonista della canzone si scaglia contro un individuo (maschile o femminile, è indifferente) da cui è stato tradito emotivamente e si compiace del suo declino, mentre i riferimenti alla sofferenza e alla morte fisica di questa persona sembrano essere più metaforici che altro, forse per sentirsi liberi dal controllo "emotivo" di tale individuo. All'inizio c'è anche un riferimento al nome stesso della band (l'intento nascosto), quasi come se il brano voglia essere una sorta di presentazione. In definitiva potrebbe quindi essere anche una ruvida dedica al pubblico, o al mercato. A livello "strutturale" il brano si presenta come accennato nelle prime battute, molto compatto, granitico, "tosto". Un brano che non fa prigionieri, tanta è la potenza sprigionata. Peccato per la scarsa capacità di coinvolgimento, complice una texture abbastanza monolitica poco variegata nel suo incedere: abbiamo si un bell'assolo di chitarra, comunque niente da far sobbalzare. Fredda e per nulla coinvolgente la sezione riffs, molto distaccata, dall'appeal "inumano" che pur rafforzando la psicosi di fondo contenuta nel testo, purtroppo crea anche una certa distanza con l'ascoltatore. Abbiamo così una partenza a bomba con un intarsio chitarristico solido che ci porta in breve al subentrare della voce belluina di Phil Bennet, usata in modalità "declamatoria" più che cantata. Con l'arrivo della voce si innesta un riffing potente e gelido, scortato da un drum work veloce e preciso. Neanche arrivati al minuto si confluisce nel refrain, più melodico ma che non lesina affatto in potenza, con la voce che viene di misura "riplasmata" per passare dalle classiche declamazioni sentite sino ad ora ad una coda "cantata" che può riportare in mente Ron Rinehart dei Dark Angel. Al termine del refrain si ritorna sullo schema collaudato all'inizio, fatto degli stessi riffs gelidi accompagnati ad una voce declamata e a una batteria potente e veloce. Poche sono le variazioni significative e sostanziali: mi preme mettere l'accento soprattutto sulla parte strumentale conseguente al minuto e trenta (parecchio potente e aggressiva) e al successivo solo guitar (1 minuto e 50 circa) di innegabile pregio. Un brano questo che vivacchia tra alti e bassi, concedendo comunque parecchio pane per i denti di qualsiasi thrasher incallito e completista.
Addicted to Thrash
Si continua discretamente con la successiva "Addicted to Thrash" (Dipendente dal Thrash), altro brano parecchio muscolare che sembra di fatto aggiungere poco rispetto a quanto sentito in precedenza. Un brano "forzuto", belluino, il cui testo stavolta sembra senza tanti giri di parole una semplice e pura dichiarazione d'amore al genere thrash (come suggerito anche dal titolo). Una dichiarazione d'intenti tanto semplice quanto diretta con la ruvidezza e lo spreco del termine "fucking", fottuto, che caratterizza questa band. I concerti in cui la folla si riunisce a fare headbanging, divenendo una specie di unica forma vivente, sono la liberazione da una settimana intera di "non vita" passata a lavorare dalle 9 alle 5. Così, alla Ode al thrash metal si unisce una critica al sistema capitalista disumanizzante, definito "suicidio globalizzato". Un brano totalmente e puramente vissuto, autobiografico, in cui i nostri non si rifugiano dietro metafore, analogie, visioni catastrofiche e caotiche che spesso si possono ritrovare in molti testi metal, ma in cui è presente una visione iperrealista di quello che sono ed è il loro mondo. Una fotografia atta ad immortalare il loro essere tutto e per tutto parte di quel mondo fatto di concerti, sudore e fatica in cui si ritrova immerso ogni buon artista musicale che si rispetti (alcuni passaggi sono indicativi in tal senso "Durante la settimana/ Ti senti fottutamente debole/ Bramando il giorno successivo per suonare/ Dalle 9 alle 5, cercando di sopravvivere/ In questo fottuto inferno, ma siamo ancora vivi/ Proprio dalle nostre budella, i cerotti e la birra/ Scuotendo la testa al thrash, lascia andare le tue paure/ L'adrenalina entra in gioco, la follia prende il controllo"). Niente di più e niente di meno che uno spaccato della vita e della carriera dei nostri, del loro amore per il suddetto genere che li porta a spendere sudore e fatica per ciò in cui loro credono veramente. Perchè quando si crede in qualcosa - in questo caso nella musica - ogni sforzo risulta ben speso, e diviene un'ulteriore passo verso la coronazione di quanto si sta portando avanti. Un omaggio dunque dovuto alla loro passione, un "long life to thrash" declamato a gran voce alzando le corna al cielo. Passando al brano in se e per se anche qui abbiamo una partenza in quarta, con la carta "potenza" giocata al massimo: un riffone di indescrivibile energia rotea su se stesso come un maglio pronto a fare quante più vittime possibili, interrotto solo per un attimo da un verso gutturale (un "UH", gergalmente definito death grunt, stile Tom G. Warrior versione putrefatta). Verso i trenta secondi si scivola verso un cambio di tempo coincidente con il subentrare della voce: i ritmi si fanno meno turbinosi e ossessivi ma piuttosto più "martellanti". Il pezzo continua così scivolando prepotente senza lesinare in velocità ne in potenza, fortificato da un apparato strumentale di tutto rispetto (la chitarra - sempre di Bennet e la batteria di Paul Lewis fanno egregiamente il loro lavoro). Un brano tutto sommato "classico" nell'impostazione e nel cantato, che trova ottimi punti-forza in parti quali ad esempio il breve e gradevole solo guitar verso il minuto e trenta; o quello moderatamente più incisivo verso i tre minuti.
Seeds Of Hate
Il terzo brano "Seeds of Hate" (Semi di Odio), presenta un titolo inequivocabilmente uguale a quello di un celebre brano degli Exodus, ma le analogie con quel brano finiscono qui. Certo è vero che i nostri possono essere ossequiosi del passato storico del genere (si veda l'introduzione, in cui è specificato il loro amore per gli Slayer, i Testament e i Sacred Reich) ma il pezzo qui presente va ben oltre l'omaggio ai celebri pilastri del settore, elevandosi per fantasia e propria tipicità, proponendosi come un pezzo molto ben articolato e in cui l'aggressione è calcolata e mediata dalla ragione. Un pezzo perfetto il cui testo, nella sua cripticità, fornisce una visione strana, contorta (almeno per come viene posta a livello testuale) del concetto di odio, anzi, dei "semi dell'odio" da cui il titolo. I suddetti semi, dell'odio, dell'acredine, sembrano essere il naturale risultato dello stare al mondo e condurre una vita "in attesa": in attesa del giorno speciale, del riscatto sociale o quant'altro, in un contesto che annichilisce nella sua reiterata uniformità ("Quindi vieni con me/ Creiamo una visione e lascia che sia/ Le nostre vite divengono una sensazione senza tempo/ Aspettando la notte per iniziare la nostra creazione/ Hai atteso questo giorno per il resto della tua vita/ Afferrando i tuoi cuscini nella notte").Quindi quanto abbiamo, nell'effettivo, è un testo "espressionista" in cui è la vividezza di certi spaccati sembra nettamente più rilevante che la visione d'insieme: elemento che comunque non manca, almeno immergendosi in un'interpretazione approfondita, ma in realtà risulta più facile ed efficace lasciarsi guidare dalle immagini che inanellare elucubrazioni su elementi specifici e riferimenti extra-testuali. Nella sua essenza ermetica il testo si carica di fascino proprio grazie ad una serie di "flash" verbali i quali più che affidarsi a una eventuale coerenza logico/descrittiva si affidano alle sensazioni tramite la messa in campo di immagini.. Strutturalmente, lo abbiamo già capito, il brano si distacca una spanna dai suoi più modesti predecessori: abbiamo già dalle prime battute un'apertura strumentale "evocativa" capace di lavorare sui nostri sentimenti prima di darci in paso a quel che verrà. Quindi, a meno di un minuto dall'inizio, si arriva ad una texture non estremamente aggressiva, direi molto ragionata, in cui voce e strumenti concorrono alla composizione di atmosfere più che darsi man forte per distruggere tutto. Oltrepassato il minuto un ottimo guitar work innalza il tasso di tensione, prima di un nuovo frangente dai toni "pacati". Verso il minuto e venticinque ci si assesta sul mid tempo, sorretto da un lavoro di chitarra particolarmente melodico e non "thrash" in senso stretto (potrebbe calzare a pennello anche per una tipologia più classica di metal). E' quindi la batteria, prima del secondo minuto ad alimentare nuovamente la tensione aumentando i bpm. Lungi da me fare la cronistoria completa del brano (va ascoltato, certe sensazioni non si trasmettono a parole), bisogna sottolineare che la perfezione qui è sfiorata: data la sua egregia strutturazione e la sua capacità di sfruttare tempi sapientemente e con cognizione, è qui che i nostri mostrano tutta la loro classe.
Drop Bears Are Real
La quarta traccia, "Drop Bears are Real" (I Drop Bears Sono Reali), è un'altra song che si può definire senza mezzi termini riuscita, data la sua capacità nell'arco di meno di due minuti di catturare l'attenzione dell'ascoltatore e colpire a suon di baionettate senza pietà alcuna. Il testo, rigorosamente trash (non thrash, si badi bene), si concentra in maniera alquanto assurda su un animale "reale" tanto quanto può esserlo un ircocervo, ossia il Drop Bear: questo sarebbe una specie di animale incluso nelle leggende metropolitane australiane, una chimera tra orso e koala, o semplicemente un grosso koala carnivoro. Ovviamente, non solo il koala non è carnivoro, ma non è nemmeno un orso. Alcune parti non sono di facilissima interpretazione, ma è chiaro come il suddetto sia un brano dall'allegra vena splatter privo di ogni senso, più che ironico direi proprio comico ("Artigli fatti d'acciaio/ Ti strappano la faccia/ Aggrappandosi alla loro preda/ Cadendo/ Dai rami della morte/ Eucalipti/ Violenza alimentata"). Nel brano, tra le altre cose viene citata la Vegemite, ossia una crema salata prodotta dalla Kraft, ed in Australia e Nuova Zelanda pare sia "cibo nazionale" e "icona", un prodotto molto simile alla Marmite presente invece in Inghilterra e in Sud Africa: nient'altro che un prodotto che ha come base un estratto di lievito, ottenuto dal processo di produzione della birra. Il qui presente testo risulta bonariamente ingenuo per una canzone che come abbiamo già sotolineato in precedenza ha una durata si e no di un minuto e cinquanta abbondanti. Da citare, tra l'altro, che in alcune locandine della band è stato usato proprio il titolo di questa canzone con allegato il disegno di un "koala carnivoro", con "beers" (birre) al posto di "bears" (orsi). Il brano, stavolta molto breve, non trova il tempo di concedersi e concederci prelibatezze, optando per l'assalto diretto e senza compromessi: ma qui, rispetto ai due più "compositi" brani di partenza,le cose funzionano molto meglio. Sembra di trovarsi di fronte a un gruppo di (buon) thrashcore, di quelli che le finezze non le concedono neanche per sbaglio, sciorinando sciabolate chitarristiche e potenza come se non ci fosse un domani. Quindi abbiamo di base un riffing circolare che si rincorre a più riprese e una parte centrale rallentata di misura, con la voce, sprezzante e cafona, pronta sempre a marcare il territorio, ben sorretta da gang vocals stile Exodus. Il finale è tosto e scattante, preceduto da un solo guitar bello veloce.
Waiting Here In Hell
Interessante a suo modo anche la seguente "Waiting Here in Hell" (Aspettando Qui all'Inferno), dato un ottimo inizio che ci fa ben sperare (considerando che anche ora non ci si affida ad un cieco attacco frontale), purtroppo pur mantenendo una struttura pregevole il brano non sembra mai decollare, mantenendosi su un andamento torvo e privo di particolari guizzi. Rispetto al suo diretto predecessore il testo è più introspettivo. In realtà parecchio ermetico sino ad una prima metà ("C'è un dolore che sanguina dagli occhi/ Ho già visto tutto questo/ Sussurrato dolcemente nel vuoto/ Le menti crudeli sono disprezzate/ È una domanda piena di sfiducia?/ Ecco l'ira con una rabbia di disgusto/ Cadere e colpire il pavimento in stato di shock/ Cerca di confortare/ In questi tempi oscuri mi è stato detto di andarmene"), presenta una seconda metà abbastanza risolutiva in cui capiamo bene o male di cosa si stia parlando. Ma andiamo per ordine: la prima parte, quella più "criptica" sembra composta da parole giustapposte, messe quasi a caso per dare forza e potenza alla musica, come da migliore tradizione di un certo tipo di rock e di metal. Tuttavia la seconda parte del brano si fa più chiara, e capiamo come si parli della morte di un amico e del fastidio e la rabbia provati nell'ascoltare le solite parole di conforto, le banalità e le sciocchezze con si affronta il dolore. Il riferimento tempi passati è frutto della nostalgia, pur essendo il cantante consapevole di come essi svaniscono. L'inferno in questo caso è la vita, il nostro mondo, luogo di sanguinosa attesa prima di riunirsi alla persona cara ("Le lacrime colano sul tuo viso/ Abbattendosi come una fottuta disgrazia/ Il passato ci tormenta in così tanti modi/ Striscia come un serpente aspettando di colpire/ I tempi svaniranno/ Potremo essere di nuovo insieme/ Le nostre anime si riuniranno infine/ Lo spero, amico mio"). Ancora un introduzione mesta e ragionata funge da preambolo a questo brano (benissimo direi) che acquista tono nell'arco di pochissimo grazie ad un lavoro strumentale potente ed ansiogeno (la chitarra gioca ancora una volta la parte del leone). Una bella novità è costituita da un uso della voce che almeno all'inizio si mantiene su toni molto cupi e seriosi: triste, depressogena, sembra non avere molto della grezzaggine thrash a cui ci eravamo abituati. Volendo dire un'eresia azzarderei toni quasi "dark" in questa modalità espressiva, cosa che in realtà ci sta come i cavoli a merenda (il gruppo è thrash sino al midollo). Non passa poi molto che la voce inizia ad acquistare tono, sino a un impennata appena sopra al minuto. Il lavoro strumentale sembra voler mantenere e cullarsi su toni poco aggressivi, non concedendo all'ascoltatore scampoli di autentica tensione. La base offerta dagli strumenti è solida, ma sembrano più che altro voler tratteggiare scenari di granito e acciaio più che colpire per fare male. Purtroppo, nonostante l'inizio sembri presagire ottime cose, il brano stenta a decollare, rimanendo impantanato nella pozza di spleen tratteggiata mirabilmente all'inizio: nessun sussulto, nessun guizzo, solo un introspettivo melodiare che arriva alla fine lasciando la sensazione di qualcosa di vagamente inespresso.
Apocalypse Now
Ancora un brano di pregevole fattura con il sesto "Apocalypse Now" (Apocalisse Ora), aiutato da un minutaggio sostenuto (con i suoi otto minuti e cinque si eleva a brano più lungo del lotto) e una struttura cangiante che aiuta a non sfociare nella noia. Il titolo sembrerebbe richiamare il celebre film omonimo di Francis Ford Coppola (tratto tra l'altro da Cuore Di Tenebra di Joseph Conrad), ma in realtà l'omaggio - se mai sia effettivo - inizia e finisce li, dato che il senso di apocalisse imminente è interpretato e descritto dai nostri in maniera più ampia e in cui il concetto di guerra - ben presente nel film - è qui eletto possibilmente solo a metafora. Il brano sembra essere una allegoria della vita attraverso un momento decisivo di esso, raccontato come "apocalisse" e descritto come una guerra totale in un contesto di distruzione e morte. Ovviamente può essere anche letto semplicemente alla lettera, godendosi le descrizioni di morte e paura amplificate dalla musica della band, dato che fondamentalmente il testo in questione vive di immagini, piuttosto che di resoconti effettivi calati in un ambito preciso: si, vi è un vago accenno di un qualcosa di imminente, due figure calate in una situazione da fine del mondo con flash sparpagliati di distruzione e morte, ma tutto si mantiene sul vago. Sappiamo che si sta concretizzando uno scenario di distruzione, ma a parte il fatto che due personaggi cercano di "porre fine a questa lotta" battendosi per la propria sopravvivenza, poco ci è dato sapere. Cosa ha scatenato tutto questo, ad esempio, o che razza di "apocalisse" (sempre usando termini contemporanei, dato che l'accezione classica del termine indica una "rivelazione") sia se immanente (gas tossici, ambiti post-nucleari, ribellione della natura all'uomo etc.) o trascendente (un contatto tra questo e l'altro mondo, l'avvento dei dannati, dell'inferno). Poco ci è dato sapere, non importa, considerando la forza espressa dalle immagini. Da notare, curiosamente, come un testo relativamente corto faccia da cornice alla song più lunga della scaletta, mentre quello di Drop Bears are Real (il più corto brano del disco) era particolarmente lungo, ma una cosa che caratterizza questa band è proprio l'inosservanza delle regole, nel bene e nel male. Passando al lato più "tecnico", stavolta il pezzo inizia in fade, con una texture lancinante tutta chitarra e batteria che sembra emergere dal nulla pronta a scatenare l'inferno. Verso il trentesimo secondo la tessitura sonora di cui sopra si distende dando maggiore repiro alla sua monolitica magniloquenza, incorporando nel suo intreccio un lavoro di chitarra capace quasi di scolpire lugubri fregi nel suddetto impenetrabile muro sonoro. Prima del minuto si parte in quarta, con la texture sonora che prende a correre in preda ad un raptus di inesprimibile follia. E' solo un frangente, dato che oltrepassati il minuto, non passa poi molto che il brano si assesta su una modalità più quadrata che pur donando un senso di varietà al tutto finisce per incidere di misura sul senso di tensione accumulata sino ad ora. Tale frangente è comunque breve, dato che nell'arco di poco siamo riportati su modalità ben più veloci trainate da una batteria estremamente dinamica. Da qui si continua in un sali-scendi emotivo/musicale capace nell'arco di questi otto minuti e rotti di mettere in piedi un'architettura sonora particolarmente gustosa. Non siamo ai livelli di una Seeds Of Hate, nonostante il minutaggio avrebbe permesso di fare miracoli, ma ci avviciniamo pericolosamente a quello standard di magnificenza.
Eternal Rest
Parecchio godibile anche la seguente "Eternal Rest" (Eterno Riposo), che fa perno su una struttura solida e viene magnificata da una eccelsa parte solistica di chitarra (verso i due minuti e quaranta). Il testo risulta quasi "compendiario" dato che sembra in qualche modo riunire i due precedenti. La prima parte infatti parla della vita, dei sogni infranti e dei tradimenti, paragonando l'esistenza a un inutile e sanguinosa battaglia, il mondo a qualcosa di estraneo. La seconda parte si riferisce ancora una volta ad una precisa persona ormai scomparsa, ma stavolta alla prospettiva di riunirsi ad essa sembra contrapporsi una sorta di rabbioso urlo vitale, la decisione di lasciarsi un passato tormentoso alle spalle. Quindi, al contrario della maggior parte dei testi, possiamo dire parecchio variegati (si va dall'introspezione alla burla, passando per quadri iperrealistici sulla vita del rocker) qui si effettua una piccola marcia indietro andando a ripescare tematiche già usate, il che risulta particolarmente positivo per tracciare una sorta di fil rouge con quanto narrato/descritto in precedenza, creando una sorta di collegamento tra tematiche tra loro potenzialmente affini e che sicuramente risultano essere "sentite" in maniera maggiore dalla band. Quindi viene effettuato un accorpamento tra la lotta che l'uomo - inteso come essere umano, a prescindere dal sesso - compie nel suo percorso di vita, e una sorta di "rabbia catartica" riferita alla consapevolezza della perdita - di una persona cara - che arriva ad annullare il dolore a favore di sentimenti meno passivi. A livello di struttura del brano, questo sembra prediligere sin da subito trame molto aggressive e ferali: si inizia infatti con un riffone circolare di grande impatto che porta nel giro di pochi secondi alla voce. E'la velocità a farla da padrona, almeno sino al ventesimo secondo, quando subentra una parte meno "cinetica" e più quadrata, impostata su ritmi maggiormente muscolari e scanditi. Neanche arrivati alla soglia del quarantesimo secondo, comunque, e già si ricomincia a correre: la velocita si reimpone come elemento chiave, con la chitarra che sciorina riffs come se non ci fosse un domani e la batteria pestata sino alla morte. A giocare un ruolo cruciale in questo brano, è la continua alternanza tra ritmi quadrati e marziali e ritmi veloci sino al parossismo. Un "gioco" che sembra funzionare bene sino alla fine decretando in un modo o nell'altro la riuscita di questo brano. Da segnalare, per concludere, l'ottimo solo guitar piazzato verso i due minuti e quaranta, tra le parti più belle e riuscite del brano. Un solo particolarmente dinamico ma che non perde di vista una certa musicalità, riuscendo a mettere in piedi incredibili scenari sonori capaci di trasportarci molto in lontano con la mente. Notevole.
Petrified
L'ottava "Petrified" (Pietrificato) presenta un testo caratterizzato da parole/frasi brevi scandite a significanza di pochi concetti base: una discesa nel profondo dell'animo umano che, nonostante la seriosità della tematica, sembra assumere toni sarcastici/cinici. Il testo nello specifico sembrerebbe essere una sorta d'ironico invito a calarsi assieme al protagonista del brano in una "fossa" che, in termini più intimisti, rappresenta una depressione che porta al suicidio. Il buco è la vita, già apostrofata con metafore mortuarie in quasi ogni singola traccia del disco, mentre "pietrificato" è proprio colui che ricerca la morte, attonito fra sgomento e paura di fronte alla vita. Il tutto come già sottolineato in precedenza viene messo in campo tramite laconiche parole o al massimo frasi stringate ("Riesci a percepirlo avvicinarsi? / Più vicino/ Più vicino/ Pietrificato/ Pietrificato/ Fissa nella mia fottuta anima") che assumono più peso data l'enfasi con cui vengono declamate. Un testo relativamente semplice, e a primo impatto non di immediata interpretazione, ma che risulta tanto efficace quanto interessante considerando il buon tasso di cinismo con cui viene espresso. Aldilà della parte testuale possiamo notare come questa Petrified sia una song dotata di un certo impatto: un pezzo che stavolta cerca di tenersi distante da corse sfrenate e ipercinetismi vari, preferendo soluzioni più ragionate e granitiche. Che vuol dire una eguale volontà distruttiva, ma maggiormente mediate e non cieche e fini a se stesse. Quindi quel che risulta evidente è che almeno sino al minuto e quaranta il brano procede marziale in un mid tempo duro come la ghisa, sorretto da un buon lavoro strumentale (pregevoli i riffs, sempre sugli scudi la batteria). Dal minuto e quaranta, per un lasso di tempo decisamente breve (una quindicina di secondi) abbiamo invece una discreta accelerazione che spezza un tessuto sonoro destinato altrimenti a diventare monocorde, e infarcendo il tutto di una moderata dose di adrenalina. Quel che segue continua uno schema quadrato e martellante, come detto sopra poco incline alla corsa, che trova un interessante sbocco nel solo guitar piazzato verso i due minuti e quaranta. Bello come sempre (la chitarra di Bennet è sempre prodiga di soluzioni interessanti), dona un'ulteriore appeal ad un brano che funziona molto più di altri, complice una struttura capace di catturare discretamente l'attenzione, l'assolo di chitarra già citato e la volontà di donare al brano una capacità impattante più mediata (ma non per questo meno efficace, anzi, direi il contrario). Un buon brano dal retrogusto "Prong", che pur non spiccando nel lotto come capolavoro assoluto fa bene la sua parte fungendo da ottimo comprimario e tenendo a debita distanza il termine "filler".
Step Into The Light
La nona track "Step Into the Light" (Entra nella Luce) è quella che a onor del vero sembrerebbe avere il testo più ermetico di tutto il disco. Una parte lirica di difficile interpretazione che pare volersi affidare in toto a flash e visioni da incubo piuttosto che seguire un determinato filo logico. Quindi, abbandonati i testi intellegibili presenti nei precedenti brani (come ho gia puntualizzato in precedenza, molto vari tematicamente) stavolta ad emergere è un nugolo di immagini giustapposte in cui si rasenta la "forma poetica". Queste alimentano un testo davvero criptico e in totale antitesi con gli altri, più inclini a spaziare tra un linguaggio convenzionale e uno gergale e diretto. La contrapposizione tra il sogno e l'incubo, l'oscurità e la luce, domina il brano, su cui svetta una figura quasi lovecraftiana e demoniaca, in un contesto generale che pare metafora di vita e di morte, in linea con buona parte delle canzoni del platter. Il fatto di essere ambigui e "nebulosi" sulla sostanza di questa pseudo-narrazione risulta una scelta quantomeno azzeccata considerando che il non fornire una precisa linea guida al fruitore permette di spaziare in maniera immaginifica interpretando in maniera più varia la serie di immagini proposte. Abbiamo quindi un susseguirsi di scene da incubo sulle quali sarebbe arduo tentare una personale interpretazione, che permettono più che altro di focalizzarsi su visioni infere e brumose ("Entra in questo incubo/ In cui nulla è ciò che sembra/ Pentiti dei tuoi peccati a me/ Mentre liberiamo questo vivido sogno/ Sguardi fissi su di me, banchettando con gli occhi/ Strisciando più vicino a te e me, non è una sorpresa/ Oscure figure volteggiano in un rigido labirinto/ Manipolando la mente, ti porta così tanto dolore"). Ottimo inizio per questo pezzo, grazie ad una parte strumentale pregevole e assolutamente non thrash-oriented (anzi, per sommi capi potrebbe rimandare addirittura ad una sorta di rilettura dell'introduzione di Tailgunner dei Maiden) che si protrae per un minuto circa, sino al subentrare della voce e all'aumento di consistenza della texture musicale. Il brano già da qui evidenzia ottime cose: dopo un'introduzione a dir poco eccellente quel che segue è una struttura impostata su riffs taglienti, forse memori di certo metal classico (introdotti da un urlo in falsetto stile Halford). Risulta indubbio che siamo arrivati al terzo capolavoro del disco. La struttura si mantiene pulsante, palpitante, con una chitarra grondante metallo fuso e un drum work come sempre impeccabile. Un brano incalzante, e nel contempo tremendamente catchy, bello in ogni singola parte, avvincente. Ciliegina sulla torta una parte strumentale da capogiro verso i tre minuti:aggressiva, potente, letale come uno stormo di cacciabombardieri, e comunque sempre melodica quel tanto che basta da non catalogarla nel mero esercizio tecnico/onanistico, capace di culminare un un solo guitar tanto perfetto da togliere il fiato. Ove a prescindere dalla bravura tecnica in se - cosa che nessuno ha mai messo ne metterebbe in dubbio - è la capacità di rapire l'ascoltatore, me in primis, grazie alla messa in campo di quella che è a tuti gli effetti unarchitettura sonora capace anche di esistere in maniera autonoma. Se cercate la perfezione la trovate qui!
Imminent Psychosis
Concludiamo con la decima "Imminent Psychosis" (Psicosi Imminente), brano che funge in qualche modo da sunto, da ricapitolazione riguardo alle varie tematiche percepibili per tutto l'arco di questo Fear, Prey, Demise: la chiusura dell'album chiarisce e mette in tavola tutti gli elementi che hanno caratterizzato l'album: metafore della vita e della morte, depressione, ansia. Caratteri predominanti nella narrazione delle moderne generazioni. Un background in questo caso al servizio del genere, ovvero il thrash metal, che si fa quindi più rabbioso che "depresso", usando l'espediente della follia come mezzo per gonfiare il potenziale immaginifico della canzone e del suo testo, spingendo l'ascoltatore a sia a scapocciare che a riflettere. Chiaramente non trovandoci di fronte ad un prodotto depressive/suicidal black, o gothic/darkwave temi come morte e depressione sono visti da un'ottica ben differente (fossero stati gli Shining o i Cure a trattare tali argomenti avremmo avuto una visione nettamente diversa) e il tutto finisce per non avere quella componente "passiva" tipica di certi generi, portandosi verso una spinta attiva/vitalistica ove anche il male di vivere, la decadenza, lo spleen sono visti in una modalità antitetica a quella dei generi di cui sopra. La follia è vissuta in maniera irruenta e il male di vivere, il disagio, il pessimismo ottenebrante sono solo dei contorni nei quali non ci si arrovella tormentati arrivando a morire sopraffatti, ma in cui è lecito crogiolarsi alimentando la propria volontà di sopraffazione. La psicosi vista come arma di sovversione, come un elemento quasi rafforzativo piuttosto che limitante. "Cosa resta per la nostra fottuta gioventù?" recita un passaggio: niente, direi io, se non le nostre manie, la nostra follia usata per fottere una vita che ci ha fottuti. Anche qui si viaggia su livelli alti: il pezzo, inaugurato da psicotiche declamazioni del singer, si getta - e ci getta - subito nella mischia, dando via al brano con un ottimo riffone che potrebbe (ma non è obbligatorio) riportare in mente gli Slayer.Al quindicesimo secondo piccolo intervento del singer che interviene con un verso onomatopeico "disgustato". Il pezzo avanza come un panzer, grondante riffs "stirati" e martellato dalla batteria. Tanti sono i gruppi che potrebbero rivenire alla mente in questo torbido pantano, specie alcuni parecchio estremi come i Dorsal Atlantica. Così senza grandi "pause" e momenti per tirare il fiato (salvo qualche sporadico cambio di tempo, come quello piazzato oltre il primo minuto, che comunque non allenta di una virgola la tensione), in un martellamento continuo, il pezzo si protrae violento e caustico per tutta la sua durata. Anche qui, e precisamente verso il minuto e cinquanta, siamo rapiti da un bell'intreccio strumentale (è proprio in questi frangenti che i nostri, sovente, dimostrano un certo grado di eccellenza) capace di donare un plusvalore al brano, già di per se ottimo: acredine e rabbia trasformate in musica, ma con un indubbio senso per la melodia (come sempre).
Conclusioni
Cosa aspettarci dunque da questo disco? Beh, è facile tirare le somme se avete avuto la pazienza e la caparbietà di leggervi l'introduzione e l'intera track by track. Quel che abbiamo è un lotto di tracce che vanno dal trascurabile (le prime due sicuramente, molto meno incisive) all'ottimo/capolavoro (Seeds Of Hate, Drop Bears Are Reals, l'immensa Step Into The Light). Una scaletta variegata non solo per quanto riguarda la bellezza "a scalare" dei pezzi (ne troviamo di ottimi, belli, decenti, trascurabili) ma anche per la tipologia di baionettate thrash incluse in tale "compendio" (eh si, questa parola mi sembra adeguata), dato che i primi due pezzi subodorano di thrash moderno. Drop Bears Are Reals fa molto thrashcore, Petrified ricorda seppur vagamente la lezione dei Prong, Step Into The Light vive di reminiscenze più classiche (che potrebbe coincidere anche con "thrash più canonico") mentre Imminent Psychosis aumenta il testosterone per un prodotto più estremo. Tanta roba e compattata tutta in un solo album. Tante idee capaci di rendere il prodotto molto variegato, Certo vi sono delle imperfezioni: alcuni pezzi non proprio a fuoco potevano essere meglio trattati. Lasciando perdere le prime due - degustibus, a voi potrebbero pure esaltare - la quinta Waiting Here in Hell ha degli spunti molto interessanti che però non vengono concretizzati a dovere. Ci si aspetterebbe magari un crescendo, per dirne una, o una divisione tra una prima parte mesta e torbida e una seconda decisamente più lancinante, ma questo non avviene, e il pezzo affoga nel suo brumoso torpore senza portare effettivamente da nessuna parte. Ma aldilà di questo c'è sicuramente abbastanza materiale di buon livello che incide sulla qualità complessiva del disco. Un disco, questo, totalmente e puramente thrash, destinato in primis ad un pubblico mirato e specifico (i thrashers, specie quelli incalliti e completisti potrebbero far follie per un simile parto discografico), sorretto da una parte testuale che si mantiene a grandi linee nello standard del genere: premesso che dal punto di vista testuale non c'è un vero e proprio leitmotiv, comunque sembra predominare un certo pessimismo di fondo e apparentemente vengano fuori sempre le stesse considerazioni, espresse con metafore simili tra loro e caratteristiche del metal. Poc'anzi ho sottolineato come la parte testuale si mantenga più o meno all'interno degli standard thrash (violenza, morte, psicosi) ma è questa una caratteristica riscontrabile anche in molti album death. Del resto il death metal è figlio, o forse solo fratello minore del thrash (gruppi come i Master o i Possessed si pongono in questo crocevia di passaggio tra i due generi), quindi è inevitabile una convergenza di vedute e tematiche. Ma stiamo andando fuori tema: importante sapere che ad un apparato "strutturale" fieramente e puramente thrash corrisponde una sezione lirica perfettamente adeguata al contesto. Il che rende il prodotto pregno di un certo purismo perfettamente in linea con i gusti di chi è solito storcere un po' il naso a quasiasi sperimentazione e "contaminazione" (i Celtic Frost di Cold Lake furono pesantemente contestati proprio per i testi, meno in linea con quanto la fan base si aspettava... questo nonostante che le sonorità di quel disco fossero ugualmente abrasive). Chiaramente come accennato, in questo purismo non mancano le variazioni sul tema: abbiamo in un unico calderone il thrashcore, il thrash più "articolato", quello più "moderno" e quello più incline ad un ripescaggio della tradizione. Ma sempre di thrash si parla. Il fattore noia in tal senso risulta solo una lontana chimera. Il fatto di avere alcuni brani nettamente più forti di altri fa parte del gioco, e del fatto che, essendo i nostri ancora al secondo album, ancora devono perfezionare in maniera solida le armi a propria disposizione, e considerando l'enorme bellezza di un paio di pezzi contenuti nel disco, è indubbio che i nostri in futuro non mancheranno di stupire. Chiaramente se l'album non avesse al suo interno quei due/tre pezzi stupefacenti, starei qui a parlare di prodotto trascurabile, ma la potenza e la bellezza di quei pezzi mi fa capire che i nostri possono spingersi verso livelli di assoluta perfezione. E se tutto va bene, se i nostri sono capaci di affilare a dovere gli artigli, tra qualche anno staremo qui a parlare di "grande promessa mantenuta". Un gruppo come questo ha tutte le potenzialità per dare alla luce un nuovo "The Legacy", o un odierno "Ride The Lightning", o magari un futuro "The Blackening". Basta aspettare, e confidare nella loro bravura. Che, ragazzi miei, il segreto di tutto è avere le idee chiare su cosa fare, su come sviluppare il proprio suono, su come essere in linea con la perfezione ottenuta da certe band. La domanda da farsi è "perchè certi dischi sono annoverabili come capolavori (lasciando da parte certe menate tipo "sono storici, sono seminali, hanno spianato la strada a...) e altri come mediocri?". Focalizzandosi su questa domanda, e trovando il modo di rispondere (bei riffs, anthems a go-go, binomio perfezione tecnica/ispirazione) si trova anche il modo di mettere in campo un prodotto superiore. Dunque, dati due fattori, ossia un certo numero di pezzi riusciti e il fatto che i nostri dimostrano di essere sicuramente capaci, promuovo il disco in questione, anche se non con un voto da capogiro. Perché considero il suddetto platter come un elemento indispensabile per una fase di rodaggio ancora "in fieri", che porterà possibilmente i nostri a sfornare roba ancor più interessante. Le carte in regola ci sono tutte, e noi aspettiamo impazienti. Ascoltando nel mentre questo interessante dischetto.
2) Addicted to Thrash
3) Seeds Of Hate
4) Drop Bears Are Real
5) Waiting Here In Hell
6) Apocalypse Now
7) Eternal Rest
8) Petrified
9) Step Into The Light
10) Imminent Psychosis