HELLWELL

Behind the Demon?s Eyes

2017 - High Roller Records

A CURA DI
CRISTIANO MORGIA
27/12/2021
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Il progetto Hellwell continua la sua discesa verso gli inferi con un nuovo album. Il debutto "Beyond the Boundaries of Sin" aveva visto la luce nel lontano 2012, ed era, come specificato anche dallo stesso Mark Shelton, il gemello cattivo dei Manilla Road. Vi rimando alla recensione per avere una visione più dettagliata, ma qui possiamo dire in breve che effettivamente è così. "Beyond the Boundaries of Sin" è un album che non si discosta molto dal classico suono dei Manilla Road, grazie anche all'inconfondibile voce di Mark, ma aggiunge un lato horror e malefico non indifferente, enfatizzato ancor di più dall'uso dell'organo da parte del misterioso Ernie Hellwell (che probabilmente altri non è che lo stesso Mark). Quindi, canzoni dal sapore Epic Metal acquistano nuove sfumature oscure e arcane, rendendole quindi diverse quel tanto che basta da un normale album dei Manilla Road. Ecco quindi perché parliamo di un gemello cattivo. Giungiamo quindi al 2017, e nel frattempo Mark ha il tempo per occuparsi dei Manilla Road, dando alle stampe "Mysterium" (2013) e "The Blessed Curse" (2015). Nel 2017, dicevamo, vede la luce questo "Behind the Demon's Eyes", che già dal titolo non sembra volersi scrollare di dosso la nomea di gemello malvagio, anzi. Se poi osserviamo anche la splendida copertina ad opera di Paolo Girardi - già in contatto con Mark per quella di "The Blessed Curse" - capiamo che forse il viaggio nei meandri del male sarà ancora più interessante e periglioso. Se nella copertina del lavoro precedente erano sensazioni da horror cosmico/archeologico a dominare, qui le sensazioni sono più gotiche, con una sorta di Fantasma dell'Opera macabro e cannibale intento a suonare un organo. Una copertina davvero ben fatta e che viene voglia di osservare in continuazione per trovare nuovi sanguinolenti dettagli. Ma soffermiamoci sull'organo. È forse un caso che il protagonista ne suoni uno? Direi di no, anche perché anche qui, come nel debutto, l'organo è un grande protagonista e forse qui è ancora più presente rispetto a cinque anni prima. Rispetto al debutto, comunque, c'è anche qualche cambio in formazione, visto che non troviamo più Johnny "Thumper" Benson alla batteria, bensì una cara vecchia conoscenza dei Manilla Road, ovvero il veterano Randy "Thrasher" Foxe, membro degli stessi dal 1985 al 1990, quindi praticamente nel periodo d'oro che va da "Open the Gates" a "The Courts of Chaos". Il che non può che far piacere e incuriosire. Inoltre, non troviamo più neanche gli ospiti Bryan "Hellroadie" Patrick alla voce e Joshua Castillo al basso. Insomma, a tutti gli effetti gli Hellwell con questa uscita diventano un duo (oppure un trio?) con Mark che si occupa anche del basso e molto probabilmente pure delle tastiere. L'album conta soltanto sei tracce, e questo significa che, vi avverto subito, ci sono due canzoni molto lunghe. In ogni caso, direi che è abbastanza per quanto riguarda le presentazioni ed è tempo di andare dietro gli occhi del demone e vedere cosa vede lui.

Lightwave

Si parte subito con "Lightwave" (Onda di Luce), che senza troppi indugi comincia subito col suo incedere ritmato e dal retrogusto quasi Uriah Heep. La voce non tarda molto ad apparire ed è, come nell'album precedente, piuttosto graffiante, ma è una scelta più che sensata, dato che le tematiche dei testi lo richiedono. Qui abbiamo, per esempio, una breve storia fantascientifica che parla di demoni e viaggi nello spazio-tempo: "Sono arrivata attraverso le pieghe dello spazio, giunta qui per mietere la razza umana, viaggiando sulla luce tra le onde, ingannatrice da un altro piano". Stando ad un'intervista, la creatura che viaggia attraverso le onde di luce è un succubo, ovvero un demone della tradizione medievale dalle femminili che usava il suo fascino per attrarre gli uomini ed avere rapporti sessuali con loro per poi renderli? succubi! Il succubo non giunge sulla terra con delle buone intenzioni insomma, e il semplice quanto diretto ritornello ci dà, musicalmente, la prova. Infatti, la voce di Mark qui si fa ancora più cavernosa, al limite del growl. Il ritmo però non cambia poi molto, e il suo incedere ritmato e quasi ossessivo ci fa perdere nelle infinite distanze spaziali che vengono però accorciate dalle onde luminose. Il demone continua però a presentarsi, mentre i giri d'organo continuano imperterriti in sottofondo, senza però rendersi troppo invadenti: "Crepa dimensionale dentro al tempo, una distorsione di scienza e mente, posso comandare ai morti di risorgere, sono il demone signore delle mosche". Il demone è ora giunto dai nostri antenati e si fregia, chissà se da solo o per proclamazione, signore delle mosche, proprio come Belzebù. Segue quindi l'oscuro ritornello, che non ci mette molto ad entrarci in testa, ma, ancora più importante, l'assolo di Mark è come al solito visionario e siderale, come se riuscisse a penetrare anch'esso tra le pieghe dello spazio-tempo, saltando sulle onde luminose e portando con sé sprazzi di quella stessa luce che purtroppo stavolta non porterà altro che morte agli uomini. Su queste note si chiude questa breve traccia d'apertura, che in neanche quattro minuti comincia a farci capire quale sarà l'andazzo dell'album.

Necromantio

Sono tempi leggermente più lenti e con l'organo più in vista a guidare "Necromantio". Con i suoi ritmi dal gusto anni '70, la canzone parla proprio del Necromanteion, ovvero un tempio funzionante ai tempi dell'antica Grecia dedicato ad Ade e Persefone. Vi ricorderete che i due sono, specialmente Ade, sono gli dèi dell'oltretomba, e quindi questo tempio, già dal nome, ha a che fare con la necromanzia. In effetti, pare che la struttura venisse usata per accedere al regno dei morti, magari anche solo per parlare con loro, ed era situata apparentemente vicino al fiume Acheronte. La canzone quindi si discosta un po' dal resto in quanto a tematiche, visto che non ci mette nei panni di un "demone", ma ci porta comunque in un luogo legato alla morte. La voce di Mark, alla quale rispondono sempre i giri di organo, è più calma rispetto al brano precedente, in quanto non impersona un demone, ma un guerriero caduto che sta per intraprendere il suo viaggio verso l'Ade: "Nella grande Maratona fu mio onore cadere, monete sugli occhi per Caronte. Nell'Ade vado, sulla barca del traghettatore, sul fiume di anime." La breve progressione strumentale che segue sembra voler imitare proprio il lento scorrere del fiume, mentre il canuto traghettatore invita le anime dei caduti a salire a bordo. L'organo però riprende con il suo giro piuttosto vivace, e allora Mark si sveglia dal torpore e riprende a cantare, con le stesse identiche linee vocali dei versi visti pocanzi. Questo però non dà un senso di monotonia, perché fa sembrare il pezzo una specie di litania che ripete sempre sé stessa per raggiungere ogni angolo degli Inferi, il che si sposa bene la canzone ovviamente. Il guerriero caduto, dunque, si guarda intorno, seduto sulla barca, e si rende conto che il viaggio è iniziato davvero: "Giù scorre l'Acheronte, è il tempio delle anime al Necromanteion". Ora, questo era l'ultimo verso, ma siamo ancora a metà brano però. Gli Hellwell ci sorprendono allora con un'accelerazione in cui la batteria di Foxe rulla furiosa e la chitarra di Mark si lascia andare al solito assolo visionario che tradisce ancora una volta un gusto, mai nascosto, per il rock degli anni '70. L'assolo è lungo e passionale, e sembra voler imitare la discesa dell'Acheronte verso il signore dell'Ade, con curve strette e improvvise discese che costringono il guerriero caduto a reggersi forte, nonostante sotto sotto sappia che ormai non si torna indietro. Su queste note si chiude il secondo brano, ancora una volta piuttosto semplice e diretto.

To Serve a Man

Con "To Serve a Man" (Servire un Uomo) abbiamo la prime delle due lunghe tracce del disco. Il titolo potrebbe far pensare ad un qualche maggiordomo, a una domestica, ma in realtà, come ormai ci hanno abituato questi Hellwell, dobbiamo pensare piuttosto al servire un uomo come atto culinario? La canzone, infatti, nei suoi 16 minuti, ci fa entrare nella mente di Carl Danke (1864-1942), serial killer tedesco accusato di almeno 31 omicidi, ma non solo, anche di cannibalismo. Da qui il titolo. Il brano inizia con una certa grandeur, con l'organo che finalmente si fa sentire in tutta la sua sacrale possanza mentre le ritmiche dettate da Randy e Mark sono lente e quasi Doom. La voce del cantante non è sporca come in altre occasioni, ma trasmette comunque una certa aggressività ragionata e calmata dalla sicurezza di trovarsi al sicuro. Ma conosciamo meglio il personaggio: "Il mio segreto è ripugnante, e ancora nessuno sospetta che li sto nutrendo tutti con scarti umani". Già, perché il killer non solo uccideva persone e le cannibalizzava, ma poi vendeva anche i loro resti spacciandoli per carne di maiale. Il paradosso è che la comunità chiamava Danke "papà", era visto come un uomo buono e generoso, un uomo che aiutava i senzatetto e che faceva volontariato in chiesa (come viene appena citato nella seconda strofa), pensate un po', come organista! A questo punto è chiaro che l'essere in copertina è un chiaro riferimento a lui, e viene quasi da pensare che l'organo che sentiamo durante tutta la lunga canzone sia suonato sempre da lui? In ogni caso, dopo queste due strofe fangose e maligne, arriva il tempo della distensione e della melodia. Il ritornello infatti si fa portatore di un rilassamento evocativo ed epico, con quel retrogusto tormentato e sofferente che è sempre stato un punto forte dei Manilla Road. È sempre Danke a parlare, mentre a suo modo gongola per i suoi omicidi e suona l'organo per intonare loro un ultimo requiem. Seguono altre strofe con dettagli macabri che ci fanno addentrare ancor di più nella vicenda, come per esempio, il creare lacci dai capelli e cinte dalla pelle. Ma è sempre il ritornello la portata più interessante del pasto, che riesce in un attimo a spazzare via la pesantezza e la sporcizia delle strofe che lo procedono. Segue allora l'assolo del buon Mark, che si inserisce sulle ritmiche che tornano ad essere opprimenti, ma giusto un attimo, visto che il refrain fa la sua nuova fugace comparsa. A questo punto la canzone passa nelle mani di Danke stesso, o meglio, sembra proprio così, visto che l'organo diventa l'assoluto protagonista. Tutti gli strumenti scompaiono in effetti, e l'unico a risuonare nelle navate della chiesa è proprio lui, che col suo suono sacrale le riempie e le rende in un certo modo complici dei suoi crimini. Il momento è piuttosto lungo, ma se apprezzate l'organo c'è solo da leccarsi i baffi. Dopo questo momento atmosferico, però, gli Hellwell decidono che è giunto il momento di premere sull'acceleratore e presentarci il loro lato più arrembante. Il killer si è sfogato con la sonata di prima, ora è tornato nel suo antro per dare sfogo ad altri impulsi: "Benvenuto, amico mio, nella mia tana. Un segreto devo dirti: dissanguerò la tua testa finché non morirai, di te farò un gustoso stufato." Un nuovo assolo fa da collante con una nuova sezione della canzone, dove i tempi sono più ritmati, ma meno veloci, e in cui alcune strofe più distese e melodiose, sulla falsariga del ritornello principale, fanno da contrasto e si presentano alla fine dei conti come ritornello di questa parte di brano. La storia volge quasi al termine, dato che Danke viene scoperto e imprigionato. Nel suo nuovo antro, tra le sbarre, il killer non sa stare e decide di suicidarsi sfuggendo alla giustizia con una certa ironia: "Siedo qui nella mia cella, non più libero, sacrificherò me stesso e ingannerò la morte. Immagino di aver avuto la mia porzione di carne umana, c'è del vero al detto 'sei quel che mangi'". Più in là troviamo l'ennesimo assolo appassionato mette la corda intorno all'assassino, ma, cosa ancora più importante ci porta verso la fine di questa terribile storia e verso il bellissimo ritornello, che stavolta viene anche impreziosito dalla stessa chitarra solista, la quale rafforza la melodia principale e continua anche dopo che le parole non ci sono più, fino alla fine vera e propria del brano. Abbiamo appena ascoltato quella che è sicuramente la miglior canzone degli Hellwell, almeno per il sottoscritto, e quella che più di tutte riassume il concetto espresso dal titolo e dalla copertina, una vera opera inquietante con una forza narrativa non indifferente.

It's Alive

Se "To Serve a Man" ci ha messo nei panni di un uomo che uccideva esseri umani per poi venderne i resti o mangiarli, con "It's Alive" (È Vivo) entriamo nei panni del Dr. Frankenstein, ossia un uomo che le parti umane le raccoglieva per cercare di creare la vita. Con un po' di fantasia potremmo quasi dire che Mark non ha messo queste due canzoni vicine per caso, anche se ovviamente le vicende narrate da Mary Shelley nel suo Frankenstein o Il moderno Prometeo sono precedenti di molto. Anche qui il ritmo ha un che di magniloquente e vagamente Doom, con l'organo che però esegue una linea che sembra quasi vivace a confronto. L'andamento è inarrestabile, e a passo non troppo lento ma deciso ci dirigiamo verso il laboratorio del Dottor Frankenstein. A questo punto il ritmo rallenta ancora di più, ponendo l'accento sulla narrazione di Mark, il quale, nei panni proprio del dottore svizzero, ci dice che si trova nel suo laboratorio, pronto a usare il fulmine sulla carcassa che giace davanti a lui. Il ritornello non si fa attendere troppo, e fa immediatamente la sua comparsa, come se il fulmine abbia colpito immediatamente il corpo morto e il miracolo sia avvenuto in un attimo, con la gioia dello scienziato che non vede l'ora di dirlo ai miscredenti: "Con scetticismo, i miei pari non avrebbero mai potuto vedere, non capiscono il mio genio, ora crederanno che con l'elettricità io ho creato l'uomo". La musica però non esplode in un turbinio di energia e positività, ma resta guardinga e cupa per non tradire l'atmosfera horror del testo di partenza e per farci focalizzare meglio sulla figura del protagonista narrante, che ha passato anni chiuso nel suo laboratorio cercando un modo per rianimare i morti. Forse è anche per questo che il ritornello, che nel frattempo fa nuovamente la sua comparsa, esprime una felicità pacata e cauta. Abbiamo parlato troppo presto però, perché la band decide di premere leggermente sull'acceleratore e il brano si fa più ritmato, l'organo ancora più vivace e la voce più sporca, come se il narratore ripercorresse ancora una volta il processo che l'ha portato alla sua scoperta miracolosa: "Parti di corpo cucite insieme da otto cadaveri; cervello preso manualmente, fuoco della vita, impulso elettrico scorre nella sua mente. Animati!". Qui allora riusciamo a sentire tutta la voglia di riuscire. Dopo una nuova ripetizione del ritornello, Mark sforna un assolo che è abbastanza in linea con l'atmosfera generale del pezzo, essendo piuttosto melodico e non troppo sanguigno. Anche se c'è da dire che dopo l'ennesimo ritornello il chitarrista ne sforna un altro ancora, ed ecco che allora riusciamo a percepire ancora di più il lato passionale della sua abilità da solista, con un assolo decisamente più enfatico e appassionato, al quale segue il celebre grido "è vivo! È vivo!" che va a chiudere quest'altro bel brano. In un album che parla di assassini e mostri, sarebbe stato lecito aspettarsi una canzone dal punto di vista del celebre Mostro di Frankenstein, invece la scelta di metterci dietro agli occhi del Dottore penso che sia molto più interessante e insolita.

The Galaxy Being

È un suono assolutamente fantascientifico, se così si può dire che apre "The Galaxy Being" (L'Essere Galattico), con le tastiere in primo piano che suonano quasi quanto un brano elettronico di Jean Michelle Jarre. Viaggiamo nello spazio infinito, con solo un vuoto silenzioso e puntinato di stelle intorno a noi. Improvvisamente però dal nulla arriva la chitarra di Mark accompagnata dalla batteria di Randy, i quali rompono il silenzio e rendono la musica più minacciosa. Dopodiché, il solito andamento ritmato - con riff particolarmente serrati - impreziosito dagli accenti dell'onnipresente organo, ci danno la conferma che la sensazione di minaccia cosmica non era così peregrina. Abbiamo a che fare con un altro scienziato qui: "Sperimentando con le trasmissioni dentro la galassia al di là, sento che deve esserci vita lì fuori, i miei computer dicono che non mi sbaglio." Insomma, un'altra persona che cerca la vita in qualche modo. Va detto che questo brano è ispirato ad un episodio di una vecchia serie fantascientifica degli anni '60, intitolata The Outer Limits, in cui il protagonista, tramite degli esperimenti con le onde sonore, porta accidentalmente una creatura aliena sulla Terra. Lo scienziato è convinto che ci sia vita nella galassia, così com'è convinto che la sua teoria matematica gliene darà la prova, come recita la seconda strofa. Ecco però che un leggero rallentamento del brano, che comunque resta roccioso e nervoso, ci porta subito al risultato di questi esperimenti, ovvero con l'arrivo dell'essere alieno, accolto quindi dalla voce sporca di Mark e da un ritornello piuttosto orecchiabile. Con le due strofe che seguono, però, ritorniamo al lavoro dello scienziato, il quale segue gli sviluppi del suo esperimento e scopre che i suoi strumenti gli inviano un'immagine in 3D di una creatura che cerca addirittura di comunicare con lui. Beh, esperimento riuscito dunque! La vita esiste e bisognerà dirlo a tutti. Non proprio però, perché il ritornello ghignante e cattivo ci riporta alla realtà, anticipandoci che l'essere non sarà proprio un amico dei terrestri. L'essere allora arriva sulla terra in tutta la sua radiante potenza e la chitarra solista di Mark, sorretta da ritmiche veloci e serrate, ne descrive la venuta rapida e fulminante. Dopo un'altra ripetizione del refrain, lo scienziato ci racconta del primo incontro con l'essere: "Energia elettromagnetica, soltanto di ciò disse di essere fatto. Un sovraccarico accidentale di potenza lo ha trasferito su questo piano". Tuttavia, questo piccolo incidente ha portato sulla Terra questa mostruosità energetica che ora distrugge tutto con le sue radiazioni. Dopotutto, forse era meglio non farlo l'esperimento. Il ritornello però non esprime tristezza o empatia, anzi, con il suo scorrere subdolo e sporco, pare quasi ghignare davanti alla devastazione. Più ci avviciniamo alla fine, più la traccia comincia a rallentare, come se ormai non ci stesse più molto da distruggere e ciò che resta è soltanto il suono delle tastiere, lo stesso dell'inizio, che si perde nello spazio infinito con solo un vuoto silenzioso e puntinato di stelle intorno a noi.

The Last Rites Of Edward Hawthorn

Dallo spazio torniamo sulla Terra e alla fine dell'album con l'altra traccia lunga, che porta il titolo romanzesco di "The Last Rites Of Edward Hawthorn" (Gli Ultimi Riti di Edward Hawthorn). Il brano, di tredici minuti, è stato scritto con l'aiuto di Ian Shelton (figlio di Mark) che si è occupato della parte ritmica della seconda parte e ci porta ancora una volta dietro gli occhi di quello che sembra essere un altro serial killer. La storia però non ha una fonte esterna, bensì interna, visto che è lo stesso Mark ad averla inventata. L'inizio è molto melodico e rilassante, con il pianoforte che domina la scena con la sua tristezza per quasi tre minuti, anche se in sottofondo si sentono leggerissime le tastiere, le quali danno un certo tocco horror al tutto. Basso e chitarra fanno allora ingresso in scena, sempre in modo pacato però, quasi seguendo la scia melodica lasciata dal pianoforte, in un modo che quindi contrasta non poco con l'irruenza e la ruvidezza delle canzoni precedenti. Non solo però, perché anche quando entra la batteria di Randy, la canzone prende proprio la forma di una ballata, con la voce di Mark soffusa e drammatica e l'organo che delicatamente gli gira intorno con quel suo tocco anni '70. Tuttavia, il testo di queste prime due strofe è tutt'altro che romantico, anzi, vediamo il protagonista intento a compiere un sacrificio? umano: "La bellezza fatale ritornò alla vita dalla morte, non dimenticherò le parole mistiche che lei disse. È iniziato, tu sei la prescelta, tu porterai in vita il mio amore questa notte. Ora muori". Il protagonista ha evidentemente perso la sua amata, e ora pensa che sacrificando una fanciulla possa riportarla in vita. È qui che la ballata si interrompe e il suono ruvido e dal retrogusto Doom prende il sopravvento: l'organo è sempre lì, ma lo stile diventa più opprimente. Non appena Mark comincia a cantare, però, il ritmo accelera e i riff abbandonano la lentezza del Doom per decidono di correre un po' di più per stare dietro alle veloci e maligne linee vocali del cantante, il quale - sempre nei panni del protagonista - racconta lo svolgimento del sacrificio. Bisogna comunque sottolineare la prestazione alla batteria di Randy, poiché è davvero incredibile e contribuisce in maniera decisiva alla creazione del muro sonoro grazie al suo continuo percuotere le pelli con veemenza. Torniamo al sacrificio. Il killer è davanti alla pietra sacrificale dove è piazzata la giovane fanciulla inerme, recita i riti presi dal Libro dei Morti e il sangue comincia a scorrere. Il ritornello, come spesso è accaduto in quest'album, rallenta lievemente il tiro, ed è un bene, poiché può esplodere così in tutta la sua teatralità, e il fatto che sia piuttosto lungo ci aiuta a farlo infilare per bene in testa, grazie anche ad una melodia molto efficace. Lo stesso assolo che segue si inserisce su queste ritmiche più rallentate e sembra dialogare con l'organo che lo segue passo passo come un'ombra pronta a catturarlo e a sacrificarlo. L'assolo però sfugge alla prese accelerando nelle ultime note, anche se l'organo è sempre presente, così come l'assassino è ancora davanti al suo altare, compiaciuto del risultato. A questo punto però siamo già giunti alla fine del brano, c'è giusto il tempo per riascoltare la seconda e ultima ripetizione del lungo ritornello, in cui veniamo a scoprire che forse il sacrificio non è andato poi così bene, o meglio, è successo quanto desiderato, ma ad un prezzo: "Allora lei risorse, il male al mio fianco, padrone del mio stesso genocidio. La rima magica mi ha portato mia moglie, ora è tempo che io muoia". Apparentemente oltre al sacrificio della vergine c'è anche il sacrificio dello stesso signor Hawthorne, che probabilmente viene portato alla morte proprio da sua moglie risorta. È così dunque che si compiono gli ultimi riti di Edward Hawthorne, il quale spira lentamente mentre il pianoforte accompagna i suoi ultimi istanti di vita verso la fine. La canzone dura 13 minuti, è vero, però c'è da dire che scorre molto bene e la lunghezza quasi non si sente, complici sicuramente la lunga introduzione strumentale e la durata dello stesso ritornello, che con le sue due ripetizioni prende una bella porzione della canzone.

Conclusioni

Ora, dopo sei canzoni, il buon Mark sarà riuscito nel suo intento di farci guardare da dietro gli occhi del demone? Io direi di sì! L'album riesce infatti a raccontare storie dal punto di vista del Male e riesce a coinvolgere facendo ciò, risultando - e confermando - così di essere davvero il gemello cattivo dei Manilla Road. Lo stile è identico a quello del debutto, al massimo cambia qualcosina nella gestione dello stesso. Per spiegare meglio, qui troviamo le due canzoni poste in apertura che sono piuttosto corte rispetto al resto e anche rispetto alla durata media di quell'album, così come troviamo anche due canzoni molto lunghe che da sole fanno mezzo album. Troviamo sempre l'organo, che qui però si fa ancora più presente e avvolgente, riuscendo ad accompagnare ogni singolo brano senza mai sparire, e anzi, nel capolavoro "To Serve a Man" riesce anche a guadagnarsi uno spazio tutto per sé. Parliamo proprio di "To Serve a Man", che molto probabilmente è il pezzo meglio riuscito della scaletta e quasi sicuramente anche quello che più di tutti riesce nell'intento di farci vivere il punto di vista del protagonista malvagio. Il testo è infatti narrato in modo sopraffino, non risparmiando dettagli macabri che in qualche modo riescono a farci venire il disgusto per quella stessa persona nei cui panni ci troviamo in quei sedici minuti. Si sa, uno dei punti di forza di Mark e dei suoi Manilla Road è sempre stata la narrazione, che sia essa epica, mitologica o horror, e il cantante/chitarrista riesce ancora una volta a ergersi a bardo della situazione, anche sporcando di molto la sua voce all'occasione. Le altre canzoni ovviamente non sono da meno, ed effettivamente non c'è una canzone che va segnalata come episodio minore o inferiore, visto che ognuna riesce a dare il proprio contributo alla causa, fornendo così un affresco fatto sì da poche canzoni, ma tutte con personalità. La differenza col debutto sta anche in questo, nonostante le poche canzoni e il genere suonato (che non è proprio sinonimo di sperimentazioni) infatti, ne emerge un prodotto abbastanza variegato. Va ovviamente ribadito che la formula principale è sempre quella a cui ogni canzone resta ancorata fermamente, non troviamo infatti brani totalmente diversi tra loro, ma la loro qualità intrinseca riesce comunque a falli brillare di luce propria. Un punto a favore lo dà anche la produzione, che rispetto al debutto è decisamente più pulita e potente, il che favorisce sicuramente la resa finale, con chitarre che suonano più avvolgenti e meno "zanzarose" e l'organo che suona ancora più sacrale. La menzione speciale se la becca il batterista Randy Foxe, che torna al fianco di Mark dopo anni e anni, fornendo una prova maiuscola che riesce quasi a impersonare il caos che impera in ognuna delle canzoni. Resta però un grande rammarico: Mark Shelton è passato a miglior vita. Non vedremo mai un seguito di queste due perle, anche perché il famigerato E.C. Hellwell che suonerebbe le tastiere sembra essere svanito, lo sarebbe ancora di più se Hellwell e Shelton fossero effettivamente la stessa persona. In ogni caso, un album da scoprire.

1) Lightwave
2) Necromantio
3) To Serve a Man
4) It's Alive
5) The Galaxy Being
6) The Last Rites Of Edward Hawthorn
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