HELLOWEEN

The Time of the Oath

1996 - Castle Communications

A CURA DI
MICHAEL CAVALLINI
19/12/2014
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Recensione

Giunti nel 1996, i teutoni Helloween arrivano a dare alla luce il settimo capitolo della loro fortunata discografia, contemporaneamente anche il secondo dell'era Deris, oramai a tutti gli effetti voce solista della band tedesca. "The Time Of The Oath", questo il titolo del disco che qui ci apprestiamo a recensire, si pone sin da subito come un progetto assai ambizioso: la "formula" scelta è quella del concept album, idea sempre attuale e perpetua fucina di trovate e spunti interessanti, tanto più se, come in questo caso, la trama di base ruota attorno ad un personaggio assai controverso e discusso. Gli Helloween decidono infatti di stupire parlandoci, lungo tutte e dodici le tracce di "The Time..", di quelle che furono le celeberrime profezie di Nostradamus, al secolo Michel de Nostredame, carismatico astrologo francese vissuto nel '500 e divenuto famoso grazie alle sue Centurie, una raccolta di quartine che a posteriori risultarono essere delle affascinanti (e spesso destabilizzanti) predizioni circa avvenimenti futuri, alcuni di questi sconfinanti pericolosamente nel nostro presente, passato ed avvenire. Pare infatti che l'astrologo avesse previsto in maniera nitida e definita lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, per intenderci. E proprio le profezie prese in esame dagli Helloween risultano essere fra le più inquietanti: parliamo infatti delle quartine composte circa il lasso di tempo che intercorre tra il 1994 e il 2000, anni in cui, secondo Nostradamus, il mondo come oggi lo conosciamo sarebbe giunto al termine, e la razza umana avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Dal punto di vista più prettamente musicale, anche questa volta si mischiano sonorità caratteristiche della band a sonorità più nuove e molto più cupe, rispettando così anche le tematiche trattate, a cui viene resa giustizia proprio grazie a questo ultimo espediente; si alternano, inoltre, cavalcate infuriate a soffici ballad senza un vero nesso logico: le canzoni all'interno sono molte e non sono logicamente concatenate, cosa che può destabilizzare l'ascoltatore, che certamente si ritrova dinnanzi ad un'opera a dir poco monumentale e ambiziosa. E' sempre difficile bilanciare quantità e qualità, non molte volte un disco con troppa carne al fuoco risulta essere vincente e convincente allo stesso tempo, ma non è questo il caso. Ricorre in copertina l'incappucciato dei precedenti (e futuri) "Keepers.." in cui possiamo notare, all'interno del suo mantello, uno squarcio che ci ricorda la cover del precedente lavoro delle Zucche, "Master Of The Rings", come a voler racchiudere in un unico disegno il passato, il presente ed il futuro, ribadendo anche visivamente il tema di questo concept. A tratti esoterico a tratti visionario, a tratti sognante a tratti cupo e concreto, gli Helloween vogliono presentarci un vero e proprio racconto in musica di quel che fu il lavoro dell'astrologo francese, calandosi nel suo ruolo e cercando anche loro di scuotere le masse a suon di messaggi criptici ed inquietanti. Uscito nel 1996 sotto la oramai fidata "Castle Communication", la band dedica il disco alla morte di Ingo Schwichtenberg, storico batterista del gruppo nonché membro fondatore, venuto a mancare l'anno precedente all'uscita di "The Time Of The Oath". Oppresso dai suoi problemi di dipendenze (alcool e droghe) e dai sintomi ormai incontrollabili della schizofrenia, arrivò a togliersi la vita in data 8 Marzo 1995, quasi a voler porre fine egli stesso alle sue sofferenze. Il suo lento e progressivo degenerare con conseguente gesto estremo destabilizzò non poco gli equilibri del gruppo che comunque, nonostante i dissapori passati, si vide privato non solo di un batterista, ma anche e soprattutto di un caro amico. Una dedica, dunque, più che comprensibile. Ad avvicendarsi dietro le pelli troviamo dunque, come già avvenuto in "Master of The Rings", il bravo Uli Kusch (Rage, Holy Moses, Gamma Ray, Masterplan), mentre oltre al già citato Deris, parte del combo è l'oramai rodato chitarrista Roland Grapow, assieme agli storici Michael Weikath e Markus Grosskopf, rispettivamente a chitarra e basso. Addentriamoci dunque all'interno di questo settimo sigillo, cercando di svelare, traccia dopo traccia, le arcane ed inquietanti profezie di Nostradamus. Riusciranno i nostri Helloween ad essere degli adeguati ciceroni per noi poveri mortali, sperduti all'interno di proclami altisonanti circa la fine di ogni cosa? Solo ascoltando potremmo saperlo, che l'avventura cominci!

Uno psicopatico fischiettio presto seguito dal sinistro "sbuffo" di uno zufolo (un accorgimento elettronico ricorda vagamente il suono una vecchia locomotiva) ci introduce "We Burn", brano che presto abbandona l'inizio "sui generis" ed esplode in una magnifica cavalcata di Heavy Metal. Le chitarre di Weikath e Grapow macinano immediatamente un riff coinvolgente e tirato, Heavy purissimo, che unito alla voce di Deris riesce a rendere il brano simile alle più "dure" produzioni dei connazionali Running Wild. Se chi ben comincia è già a metà dell'opera, di sicuro possiamo già farci un'idea circa ciò che andremo ad ascoltare, anche in seguito a questo esordio: non sarà certo un disco suonato da "zucche" nella norma. Difatti, questo brano irrompe senza indugi grazie a plettrate incessanti che incalzano riff potenti ed altrettanto orecchiabili, fino al ritornello liberatorio da cantare a squarciagola come pazzi, momento in cui riusciamo a scorgere meglio il classico stile dei nostri, altrimenti reso, come già detto, decisamente più "estremo" e tirato. Sezione ritmica perfettamente collocata come richiesto dal genere, una sezione in grado di tenere banco senza troppi problemi e di trascinarsi dietro il resto dei colleghi, per il resto liberi di esprimersi grazie a questa sicurezza. Menzione d'onore per gli assoli di chitarra, ben piazzati su parti melodiche estranee all'intera struttura del brano, altra peculiare caratteristica delle nostre zucche teutoniche. In conclusione, un'ottima partenza. Ormai avvezzi dal precedente capolavoro all'introspezione, liricamente parlando, anche in questo episodio quest'ultima sarà uno dei temi principali:  e che trama presentare, all'inizio dell'album, se non la tentazione demoniaca, una delle tematiche da sempre vicine al combattere contro se stessi, al cercare di capirsi, all'entrare in contatto con lati della nostra personalità che magari ignoravamo totalmente? Quella tentazione che, se assecondata, ti può portare alla più alta graduatoria sociale e donare al contempo fama e successo, stringendo un proverbiale patto con il demonio. Abbiamo l'opportunità di ottenere tutto e subito, è lì, dinnanzi a noi, e decidiamo di cogliere la palla al balzo per ritrovarci finalmente sulla cima del mondo... anche se, alla fine dei giochi, assecondare questa tentazione ci farà bruciare tra le fiamme dell'inferno,dato che in cambio di un quarto d'ora di notorietà abbiamo rinunciato alla nostra anima, ormai ennesimo trofeo del Signore delle Tenebre, che diviene giorno dopo giorno sempre più ricco e potente. Poiché è l'inferno che contamina la nostra quotidianità, passo dopo passo, e ci nutriamo dell'eccitazione che provoca in noi la speranza che i facili compromessi possano donarci qualcosa di completo e duraturo. Il rombo di un macchina in partenza ci introduce la seconda traccia, concepita ed intitolata come un tributo ai maestri Judas Priest: "Steel Tormentor", presto presentata da una poderosa rullata. Da notare in questo inizio di track, difatti, lo splendido lavoro di Uli, batterista decisamente sugli scudi, non c'è che dire. Proseguendo, il brano rimane sul modus operandi già precedente udito in "We Burn", sia come tiro che come melodia e ad un primo ascolto, effettivamente, il posizionarle l'una dopo l'altra può non sembrare una scelta azzeccata. Inoltre, la struttura iniziale è come la precedente e vi è immediatamente un refrain non cantato seguito poi da un riff di stacco che introduce la strofa e, non contenti, persino il bridge che precede il ritornello ci ricorda esattamente quello di "We Burn" sia come melodia che come liriche. Tuttavia, il bridge si distingue per la base strumentale ad una velocità disumana contrapposta alla voce con una ritmica più lenta che conduce ottimamente al ritornello. Un brano che ancora una volta beneficia di una certa "pesantezza", soprattutto in alcuni momenti in cui nuovamente irrompono, fortissime, le eco del "papà" Rolf Kasparek. Heavy Metal senza compromessi o filtri che possano distogliere la nostra attenzione da quel che è il genere musicale che qui possiamo udire. D'altro canto, un brano impostato come tributo alla band di Rob Halford, non potrebbe avere caratteristiche differenti. Veniamo poi condotti, senza indugi, alla parte solistica del brano che, al solito, non risulta mai scontata ma anzi leggermente variegata, per incuriosire l'ascoltatore. Immancabili i riff incrociati di chitarra marcati soprattutto in conclusione del brano dove una doppia cassa fa loro da tappeto chiudendosi con un rauco acuto di Deris, senza dimenticarci il basso di Grosskopf, discreto protagonista di questo finale come di tutto il pezzo. Nuovamente, sia la sezione chitarristica sia la sezione ritmica, più la voce, risultano un ottimo combo e non uno spiccare di singole unità impegnate in un'inutile gara di virtuosismi. Nonostante le somiglianze con la precedente, possiamo comunque dire che continuiamo a muoverci in territori più che mai possenti ed evocativi. Un finale esplosivo, per rimanere in tema. E' proprio grazie al ritornello, poi, che riusciamo a definire meglio la tematica trattata: la guerra. Difatti, lo "steel tormentor" potrebbe indicare un carro armato o una qualsivoglia macchina da guerra, o forse una metafora con la quale indicare lo spirito guerresco di un crudele condottiero, come specificato nel verso "I'm a mean imperator of my intimate machine" ("Sono il crudele imperatore di questa mia macchina interiore"), nel quale si lascia presagire che questa macchina sia effettivamente governata - condotta da un signore della guerra, figuratamente o letteralmente. Si parla, inoltre, di come la guerra faccia scaturire in noi la nostra parte più bestiale e selvaggia, facendoci (credere solamente) sentire come dei veri uomini ("feelin' like a real man" - "Mi sento come un vero uomo"). Le liriche sono prettamente descrittive, evidenziano il tatto, l'udito e la vista delineando la struttura meccanica e inumana di questo distruttore d'acciaio e l'intero ambiente che lo circonda ci catapulta in questo onirico paesaggio "post apocalittico", dominato unicamente da questa devastante realtà, intenta ad opprimere il prossimo e a scrivere con il sangue degli innocenti i capitoli della Storia che verrà. Proseguiamo di gran carriera il nostro viaggio e giungiamo così alla terza traccia del lotto, "Wake Up The Mountain", che dopo un breve intro in puro stile helloweeniano che ci insegna letteralmente cosa veramente E' il Power Metal, grazie ad una melodia delicata ma graffiante allo stesso tempo, ci allieta con una strofa posata su un asciutto riff di basso (ancora una volta, Grosskopf protagonista), in seguito invasa letteralmente dal sopraggiungere imperiale delle due chitarre che sostengono la linea vocale. Di notevole interesse sono il bridge e il ritornello caratterizzati da una melodia non più cupa né triste ma da una più rilassante prima e speranzosa in seguito; caratteristica che troviamo raramente nelle loro canzoni. Sempre notevole la parte solistica, in cui, sia chitarre che basso danno, il meglio di sé intrecciandosi magnificamente in un'unica trama caratteristica e inconfondibile della band. Weikath e Grapow sicuramente forniscono un'ottima prova soprattutto in questa fase, nella quale mostrano un'invidiabile intesa degna di due autentici compagni di mille battaglie, senza dimenticarsi del preziosissimo apporto di Grosskopf che con il suo sound coinvolgente ed accattivante riesce nell'ardua impresa di cesellare maginificamente un momento assai poco avvezzo, per quanto incredibilmente valido, ad ammettere "punti in più". Il bravo bassista va oltre, riesce ad ergersi ad autentico protagonista dei suoi compagni d'ascia e va a rifinire ed impreziosire l'egregio lavoro dei colleghi. Grande prova e grande momento, il migliore di una traccia di per se atipica ma comunque molto convincente. Sicuramente un pezzo al di fuori del loro binario, ma è sperimentando che ci si mette realmente in gioco e si dimostrano le proprie potenzialità. Sperimentalismo ed una notevole vena anthemica: sfido chiunque a non lasciarsi coinvolgere dal modo in cui Deris declama il verso "once more again". Sicuramente un momento da cantare a squarciagola, durante un loro concerto, momento nel quale un brano come questo dovrà necessariamente spiccare. Come nei precedenti capolavori, è immancabile un brano che parli della nostra umanità nel senso più negativo del termine; umanità che ci rende paradossalmente vicini alle più feroci bestie in circolazione, che ci spinge ad essere sempre in competizione nonostante la nostra specie si basi su una mutua società (o almeno così lo era). Non riusciamo ad accontentarci di nulla, abbiamo insito nel nostro DNA la volontà di gabbare o infliggere dolore al prossimo unicamente per salvaguardare i nostri tornaconti personali. Ma anche nelle più nere delle visioni, se non possiamo cambiare il mondo, possiamo sempre cambiare il nostro modo di vederlo e non essere più ciechi davanti a questo ostinato e inutile orrore. Altro tema centrale sono le regole che l'uomo crea, a cui sottopone e forse per abitudine o per masochismo, non riesce a cambiare, limitandosi a vivere in un perenne status quo. Le sabbie mobili dell'immobilismo (perdonate il gioco di parole) sono sempre lì, pronte purtroppo a fagocitare i nostri sogni e le nostre speranze. Singolare il fatto che la musica, a conti fatti, si trovi ad essere in contrapposizione con queste tetre liriche, dato che il pessimismo che riscontriamo in esse non si confà invece al coinvolgente contesto musicale pocanzi sottolineato. Come una scarica d'adrenalina ecco arrivare "Power", quarta traccia nonché uno dei tre singoli estratti dall'album, introdotta da una potente rullata e da un riff deciso, apripista di un ritornello strumentale. Notiamo immediatamente come la vena maggiormente più powereggiante e meno cupa dei nostri venga qui messa definitivamente in risalto, molto probabilmente, appunto, per creare un singolo di impatto e di facile fruizione, che non suonasse eccessivamente cupo e che potesse, in qualche modo, coinvolgere. Il tutto è basato difatti sulla capacità di creare atmosfere a dir poco oniriche, e la musica segue questi dettami, risultando splendidamente diretta con l'intento di catalizzare l'attenzione del pubblico in sede live, un po' lo stesso discorso che intraprendevamo prima, nella descrizione di "Wake Up The Mountaine". Lo sperimentalismo, tuttavia, non è eccessivamente presente in questa "Power" che, come già detto, ha un'altra missione, quella di conquistare la radio e di unire in coro i fans durante i concerti. Tutto il brano è inoltre sostenuto da una sezione ritmica instancabile che lo rende perfetto per un singolo d'impatto, a discapito di un minutaggio relativamente corto. L'intera melodia vocale, poi, conferma quanto in questa sede già affermato, come ulteriore prova: in special modo nel ritornello, è stata studiata in modo da potersi memorizzare facilmente e, di conseguenza, cantare a squarciagola. La sonorità fiera della canzone ci può aiutare a scoprire il tema delle lyrics: il potere dell'uomo. Dobbiamo ricordarci che noi abbiamo il potere di fare qualsiasi cosa nella vita ma per farlo dobbiamo percorrere un lungo cammino, facendo le giuste scelte. Nella prima parte il narratore ci fa prendere coscienza di questo potere e a seguire ci invita ad elevarsi e riflettere sul cammino che abbiamo percorso per raggiungere l'agognata meta. Da un grande potere derivano grandi responsabilità, dobbiamo essere perfettamente consci che, come la capacità di creare, in noi è insita anche quella di distruggere. Sta a noi e solo a noi valutare come utilizzare questa vasta miniera di possibilità, se votarle al servizio del bene o del male, in qualsiasi caso il Potere non verrà mai limitato o comunque ridimensionato, si manifesterà sempre come un'irrefrenabile bordata d'energia difficilmente contenibile. Altro singolo estratto, la quinta traccia "Forever and one (Neverland)" è una sorta di canzone d'amore per un amante che ha ferito i sentimenti del narratore e che, nonostante le sue bugie, ha ancora voglia di riprovarci non potendo sopportare il dolore della perdita. Provare a mettere da parte l'orgoglio e lasciare che il tempo possa riparare sia la mente che il cuore. Di certo i sentimenti in ballo sono molti: non solo l'affetto, ma anche la rabbia del tradimento, la volontà di giustizia, i mille perché che attanagliano la mente di chi, per uno strano scherzo del destino, arriva a ricevere determinate "stoccate", di quelle che lasciano senza fiato per quanto colpiscono forte. Il rotto, comunque, si può sempre aggiustare, e non è certo sintomo di debolezza avere la volontà di non mandare allo sfascio totale un qualcosa che comunque, forse, può essere salvato. Il segreto per vivere senza rimpianti è comunque questo, tentare anche quando la guerra sembra persa.. solo allora potremmo guardarci allo specchio e comunque essere felici di ciò che vediamo: una persona non afflitta dal peso dei "se" e dei "ma". L'intro di piano ed in seguito la voce pacata di Deris fanno sì che l'ascoltatore si cali immediatamente in un mood malinconico, il quale non può non farci pensare (con le dovute differenze, si intende) ad un altro gruppo conterraneo degli Helloween, i maestri Scorpions, quelli di ballad come "Still Loving You", per intenderci. L'atmosfera musicale che si respira è difatti simile a quella già udita nel capolavoro degli Scorpioni del rock, ci troviamo anche qui dinnanzi ad un ricordo doloroso presentato lungo la strofa, in contrapposizione al ritornello più speranzoso, anche se tendente ad un grido disperato, quasi come a volerlo urlare al mondo intero. L'impatto emotivo si ha dalla prima strofa con una voce bassa e calda accompagnata da un arpeggio minimale e seguita dal ritornello invece con una più alta e tipica dello stile di Deris, con un semplice tappeto di chitarre distorte. Anche la seconda strofa è molto intima, nonostante il cantato rimanga su delle note pressoché medio-alte. Struggente il solo di chitarra prima pulito e in seguito distorto, il quale fa da ponte per un ultimo ritornello. Come a continuare una sorta di alternanza fra dolcezza e potenza, anche il momento solista, come già detto, presenta quest'ottima ambivalenza, andando per un momento a rinunciare alla velocità per renderci partecipi di un qualcosa di più pacato e ragionato, momento grazie al quale possiamo apprezzare ancora di più la tecnica di Grapow e Weikath, grandi strumentisti e poliedrici esecutori, in grado dapprima di presentarci velocità ed epica anthemica, in questo caso invece più intimisti, moderati e struggenti nel loro sound. Cambiamo totalmente scenario con l'avvicendarsi di "Before the War", sesta traccia e giro dei boa di "The Time of the Oath". Un mix di colpi di fucile, armi laser e trasmissioni militari introduce il  brano, prettamente sviluppato in senso ed in stile power metal con un sostegno strumentale sempre in tiro dall'inizio alla fine. Proprio l'inizio viene affidato ad un riff velocissimo unito ad una batteria intenta a dispensare percussioni rapide come proiettili sparati in rapida successione, proprio per ricordarci che, nonostante la ballad dapprima udita, questo è un disco di Heavy Metal, ed  è dunque bene non adagiarsi troppo su tematiche e tipi di sound troppo "leggeri" per gli standard imperiali del mondo dell'Acciaio Pesante. Le strofe giocano più sulla voce di Deris che sulla melodia strumentale: la velocità di esecuzione permette con non poca difficoltà di sostenere un tappeto melodico riconoscibile e, difatti, la scelta di unire la linea vocale con quella strumentale quasi all'unisono riesce a mantenerci costante l'attenzione. Il ritornello è più liberatorio, quasi esasperato dalla costrizione delle strofe, con una melodia che rimane in testa già dal primo ascolto, sempre riprendendo la nobile missione delle zucche, ovvero quella di creare un qualcosa di potente ma facilmente memorizzabile e cantabile. Notevole l'esecuzione del basso che non delude mai, senza tralasciare il momento solista, che sembra dapprima riprendere gli stilemi tipici del metallo inglese (ed in particolare quelli degli Iron Maiden), e subito dopo ci presenta un sound quasi "fantascientifico", molto simile a quello delle varie OST di videogame molto in voga negli anni '90, colonne sonore che dalle varie esperienze di gruppi come gli Helloween attingevano a piene mani. Già dal titolo possiamo dedurre la tematica di questo pezzo: nelle strofe, il narratore ci mette in guardia per la nuova guerra che sta per arrivare mentre il ritornello descrive se stesso come interlocutore degli Dei ed è per questo che egli ha potuto vedere tutto "prima della guerra", difatti. Nella prima strofa troviamo gli elementi per riuscire a capire i segni dell'imminente disastro e, nello stesso momento, la sua stessa soluzione mentre nella seconda si descrive la causa del disastro, ovvero la nostra millenaria esistenza che, come anticipato da Nostradamus, è ormai destinata alla fine. Il tutto è visto come una naturale conseguenza degli eventi, l'incedere della storia, come se la Natura non potesse concedere ad una sua creazione una vita così perpetua nei secoli; sappiamo benissimo che l'Universo è una continua trasformazione e ciò che inizia deve finire per poi ricominciare sotto altra forma e dalle liriche capiamo paradossalmente che la causa e la soluzione del disastro non siamo altro che noi stessi, noi avidi umani troppo presi dal nostro ego, per accorgerci di come, in fin dei conti, non siamo protagonisti ma semplici comparse in uno sconfinato universo che può continuare ad esistere anche senza di noi. Ci siamo, o non ci siamo, per l'Infinito nulla conta: spariremo e gli ingranaggi continueranno a girare, senza troppi problemi. Giungiamo così alla seconda metà del disco e ci apprestiamo ad imbatterci nella settima traccia, "A Million to One", musicalmente un brano maggiormente più rilassato rispetto ai precedenti già uditi sino ad ora. Posto in maniera "tattica", come per riprendere fiato dopo una corsa senza sosta, il pezzo è totalmente dominato da una melodia malinconica, vera e propria dominatrice di questa particolare ed ispirata composizione. L'intro, semplice e melodica, è accompagnato da un coro accattivante che precede un interessante scambio tra pennate di chitarra distorta e basso,  momenti che in seguito introducono la strofa facendo da tappeto per tutta la durata di quest'ultima. Gli scambi diventano sempre più incalzanti fino a sfociare in un prechorus più liberatorio dove la voce riesce a spaziare ricreando quella gusto per la melodia tipico della band. Il ritornello riprende esattamente la melodia del coro iniziale, ben costruito e ritmato che fatica ad uscire dalla testa dell'ascoltatore. Ancora una volta, si decide di arrivare al cuore di noi fans passando prepotentemente per le orecchie, volendo fissare con contorni ben precisi dei momenti da canticchiare fra noi e noi, in seguito, nel corso della giornata, quando l'ascolto dell'album sarà terminato. Nonostante la lunga durata del brano, scorre senza mai annoiare, aiutato da un semplice ma efficace bridge che introduce un solo di chitarra molto effettato, quasi elettronico, nel quale riusciamo a scorgere sensazioni ed esperienze molto diverse fra loro. Un effetto quasi "spaziale", meccanico, un mini ed impercettibile tocco "industriale" che rende il sound artefatto e misterioso quanto basta. Un accorgimento assai particolare, atto a rendere il pezzo ancor più accattivante, senza contare il "magico" apporto del basso di Grosskopf, ancora e decisamente sugli scudi, volenteroso di far risaltare la propria presenza, ottimo cesellatore di ottimi momenti di chitarra che beneficiano della sua presenza. Chiaramente, nelle strofe di "A Million To One" viene descritto in tutto e per tutto Nostradamus e di conseguenza il suo dono: l'astrologo è turbato da quello che ha potuto vedere, ma allo stesso tempo spera comunque di averci dato una mano per sopravvivere al prossimo futuro. Interessante è la frase "Only a few years then it's up to you" poiché, nonostante quello che ha potuto scorgere nell'immediato futuro, ci conferma che il destino del mondo è comunque nelle nostre mani, ed il tutto sembra quindi strizzare l'occhio alle tematiche già udite in "Power". Il futuro sembra scritto, ma forse il segreto della salvezza è celato nel nostro innato potere di poter cambiare il corso degli eventi, grazie alla forza di volontà. Scorgiamo tuttavia una vena di pessimismo ancora più marcata, in questo disco, soprattutto nel ritornello (direttamente rivolto al pubblico), nel quale viene chiaramente detto che, per l'appunto, le possibilità di salvarsi sono circa una su un milione. Arriva il momento della traccia numero otto, "Anything My Mama Don't Like", che in parte rinuncia ai tratti caratteristici dell'heavy power presentandosi a tutto campo, quasi, come una vera e propria hit radiofonica, di impianto rocciosamente Hard Rock ma quasi sconfinante nell'AOR, tanto la sua andatura risulta accattivante ed ammiccante. Potrebbe risultare un proverbiale pesce fuor d'acqua se paragonata agli altri brani del disco, eppure la sua presenza non stona, anzi, ci mostra quante e quali sono state le influenze delle nostre Zucche preferite. Un po' KISS un po' Helloween, il brano scorre via in maniera egregia e non manca certo di mettere in risalto quelle che sono le effettive qualità dei musicisti. Il "solito" (mai ci stancherà) Grasskopf che dispensa note con la precisione di un metronomo e la potenza di uno Steve Harris teutonico, il duo Grapow / Weikath che non si scoraggia per il calo di "tensione" ma anzi riesce ad ammorbidire il proprio sound rendendolo tentatore ed accattivante come mr. Paul Stanley insegna, dando prova di grande versatilità, Deris che sfoggia una delle prove più convincenti del disco e Kusch che mantiene intatto il tempo dall'inizio alla fine. Una canzone, quindi, assai singolare, in cui  strofe ritmate si contrappongono ad un ritornello più libero e la parte solistica prende un colore più hard rock (il che non guasta di certo). Molto simpatici anche i cori nel ritornello, per non parlare di un finale a sorpresa che è meglio non svelare, per non rovinarlo. Certo, verrebbe comunque da chiederci cosa c'entri tutto questo con Nostradamus, ed anche liricamente, apparentemente "Anything My Mama Don't Like" sembra andare fuori dai binari ma, grazie ad un'analisi più attenta, possiamo carpirne il significato intrinseco. In questo caso il narratore descrive se stesso come un'arrogante che fa tutto quello che gli piace senza pensare alle conseguenze e non gli importa di ciò che il profeta ha scritto, poiché non ha fede. Con questa canzone gli Helloween vogliono evidenziare la nostra natura egoista plasmata dalla società odierna, dove pochi si prendono cura del prossimo e si può dedurre che è l'egoismo stesso la causa del nostro destino, quella triste fine che Nostradamus ha scrutato ed ha predetto per noi. Possiamo notare come nel prechorus vengano elencati gli elementi della nostra precaria sensibilità: dai padroni della notte agli schiavi di una nazione perversa, dal giocare a scacchi col domani all'essere solo dei clown senza coscienza. Il nostro futuro è perso fra i lustrini e la sfrontatezza, annegato in un vivere alla giornata, lanciato dietro un esagerato "chi vuol esser lieto sia, del doman non v'è certezza". La fine non ci spaventa, semplicemente non ci crediamo. Vogliamo vivere il presente non preoccupandoci del futuro, dunque il nostro destino è già segnato e scritto. Decisamente torniamo su passi maggiormente helloweeniani con la nona traccia, "Kings Will Be Kings" che ci riporta ai bei tempi dei "Keepers.." grazie ad una batteria velocissima e sostenuta, così come i riff di chitarra e melodie prettamente power metal vecchio stile. Difatti, l'intro del brano ci richiama alla memoria "March Of Time" ed il seguito mantiene circa lo stesso stile: esecuzioni velocissime, ritornelli spaziosi per un cantato da coro e soli incrociati dalle passate tipiche melodie helloweeniane; un brano che si presenta in maniera a dir poco imperiale e decide di affidarsi ad una melodia graffiante e struggente, ma terribilmente concreta e dura nel suo incedere, meravigliosamente in bilico fra le varie tradizioni teutoniche. Notiamo una vena aggressiva à la Running Wild unita però al gusto tipico per le composizioni evocative di pura scuola Helloween. Del proprio unito all'insegnamento dei maestri, un vero e proprio connubio di Storia e Tradizione che trova la perfetta esplicazione nel momento solista, che pur mantenendosi molto più leggero sembra citare alla lontana il ben noto assolo della celeberrima "Fast As a Shark" dei colleghi e maestri Accept, pur essendo ben lontani dall'aggressività di Udo e compagni. In conclusione, un pezzo per i nostalgici, per tutti coloro i quali sono cresciuti a pane ed Heavy Metal, senza ulteriori condimenti. Sia i fan della prima che della vecchia ora apprezzeranno questo momento, garantito. Nelle strofe troviamo per la prima volta una sorta di dialogo tra Nostradamus e la collettività,dialogo nel quale si ripresenta l'ostinata incapacità della folla di dare ascolto alle profezie dell'astrologo, il tutto unito al non dar peso alla nostra imminente caduta, mentre il ritornello ci presenta come una sorta rassegnazione del profeta alla nostra cecità: è chiaro e lampante, quel che deve accadere accadrà e solo pochi sopravviveranno al futuro disastro. Molto intense sono le parole nella seconda strofa, in cui l'umanità si rende conto che l'orgoglio e la sensibilità della collettività arrivano solamente quando siamo sull'orlo del disastro, dato che paradossalmente, non possiamo cadere più in basso di dove siamo e l'unica cosa da fare è dimostrare a noi stessi cosa siamo. Bisogna assolutamente arrivare alla fine per rendersi conto d'essere finiti. Si arriva dunque alla traccia numero dieci, "Mission Mother Land", la canzone più controversa se non la più interessante (e la più lunga) di tutto il disco. Già di per se l'intro è assai particolare: cinguettii di uccelli in sottofondo, tipici rumori della foresta, ed in seguito un fragoroso rumore metallico, molto probabilmente quello di un astronave in procinto di atterrare da un momento all'altro. Suoni elettronici si fanno presto largo, sorretti dalla batteria di Kusch, la quale viene presto raggiunta dalle chitarre intente a declamare riff assai epici ed evocativi. Un urlo prolungato di Deris, ottimi virtuosismi melodici degli axemen ed il pezzo può definitivamente iniziare. Come in altri casi ci troviamo dinnanzi ad una melodia mai eccessiva, ben mitigata da un'ottima dose di potenza e concretezza metallica, grazie alla quale il brano riesce a mantenersi meravigliosamente in equilibrio, senza cadere nella trappola dell'easy listening sfrenato o nella sfuriata senza capo né coda. Sino ad ora una composizione più che onesta, di gusto assai Maideniano, tanto vengono richiamati in queste note diverse esperienze della Vergine di Ferro, soprattutto per quel che riguarda dischi come "Somewhere in Time" e "Seventh Son of a Seventh Son", i quali avranno sicuramente esercitato un notevole ascendente su questa particolare composizione. Le strofe non sono scontate ma anzi, risultano addirittura alquanto "ingarbugliate", tuttavia questo non provoca ostacoli al cammino trionfale di un Deris particolarmente ispirato, che riesce comunque a destreggiarsi più che degnamente in questo labirintico momento. Unica pecca del tutto è il ritornello che, anche se molto ritmato, non riesce ad avere una propria identità, anche se comunque risulta efficace grazie al prechorus ricco di cori, adatto per le liriche, poiché proprio dalle lyrics capiamo che sono proprio degli alieni a parlare, e la melodicità allegra rende chiara l'idea che essi siano venuti in pace. Un momento particolare giunge al minuto 6:18, dopo un progressivo rallentamento del tutto. Veniamo in questa circostanza inseriti in un contesto sonoro dalle tinte fantasy, oniriche, evocative come mai udito prima d'ora nel corso dell'ascolto. Rumori di onde che si infrangono, tastiere ed addirittura un'arpa cercano di calmare gli animi, riuscendoci, un momento quasi magico, quasi quanto un'aurora o un'alba, nel quale spicca enormemente Deris, ancora una volta autore di una gran prova. Una batteria cadenzata che riacquisisce potenza poco a poco ci catapulta verso il finale, che risente del momento appena trascorso ma comunque riprende dei connotati "metallici". Ultimo ritornello, ultimo acuto. Giungiamo alla fine di un viaggio durato la bellezza di nove minuti, passati come se nulla fosse, lungo i solchi di una composizione eclettica e spiazzante, posizionata in coda ma comunque di grande impatto. Come già anticipato, le lyrics affrontano il tema dell'incontro ravvicinato con esseri di un altro pianeta. Anche se Nostradamus ci avvisa che l'avvento degli extraterrestri sarà causa di un conflitto, le liriche ci mostrano comunque le loro buone intenzioni, in quanto questi cercano di condividere la loro conoscenza con la nostra, per avere tutti quanti un pianeta su cui vivere e prosperare. Proseguendo però dopo la parte solistica, le liriche prendono una piega intrigante poiché pare che gli esseri venuti sulla Terra non siano altro che noi esseri umani nel futuro, tornati indietro perché il Sole ha distrutto l'umanità con i suoi raggi mortali: il loro, dunque, non è altro che un avvertimento per salvare il nostro pianeta prima che sia troppo tardi. Ancora una volta, dunque, un finale a sorpresa, che ci catapulta nello spazio e ci mette dinnanzi quella che sarà la tragica realtà dei fatti, quella realtà alla quale ci siamo rifiutati di obbedire e che ora, in tutta la sua crudezza, non ci concede sconti. Irrompe nei nostri timpani la successiva "If I Knew",con una melodia trionfante ad opera dell'inossidabile duo Grapow / Weikath, melodia che in seguito sfocia in un arpeggio malinconico, perfetto tappeto sonoro per un Deris molto ispirato che in questo istante si appresta a fornire una prova nuovamente delicata e struggente, assai evocativa e molto coinvolgente. Incalzandosi pian piano, l'arpeggio ed il contesto tutto aumentano il tiro ed esplodono a metà ritornello, che proprio Deris rende sprezzante grazie alla sua voce gracchiante. Utili anche organo e cori "celestiali" in varie parti del brano che enfatizzano il mood tematico, trattandosi difatti di una canzone d'amore finito assai male. Una struttura non certo poliedrica e spiazzante come quella del brano precedente, ma comunque degna di un brano delicato e toccante, che riprende nuovamente (laddove ce n'è bisogno) dai sempiterni Scorpions, non dimenticando comunque di citare indirettamente anche gli W.A.S.P. più "sentimentali". Per nulla male il momento solista, che permette ai chitarristi e al bassista di esprimere con maggiore chiarezza la loro poliedricità e la loro capacità di esprimersi tecnicamente parlando, rinunciando per un momento alla velocità tipica dell'Heavy Power. Un clima che non varia e che si mantiene costante dall'inizio alla fine, che rende il brano radiofonico quanto "Anything my Mama..", di facile impatto, di grande presa, proprio per il suo tocco delicato da ballad senza troppe pretese, composta per suscitare una "lacrima" facile nell'ascoltatore. Non che questo sia un elemento di demerito, in quanto la canzone è comunque di alto livello e per nulla eccessiva nell'esprimere sentimento. Infatti, proprio parlando di sentimenti, le liriche parlano di un uomo distrutto dal dolore della perdita di una lei lei anche se è stato lui stesso ad essere stato ferito ma, nonostante tutto, vorrebbe riprovare a ripristinare il vecchio amore. La prima strofa narra i sentimenti del narratore, di quello che prova nel proprio intimo, mentre, nella seconda,  è come se parlasse con la sua amata chiedendole di provarci ancora. Effettivamente, il brano pare estraneo al concept dell'album o almeno non troviamo riferimenti espliciti a Nostradamus e alle sue profezie: una malinconica e dilaniante ballad, in conclusione,forse da leggersi in maniera metaforica? Forse, nella storia di questi due amanti, è presente un po' la storia di tutti noi, costretti a rinunciare a tutto quanto di bello avevamo, proprio perché la nostra mancanza di impegno e volontà ha fatto si che ci ritrovassimo immersi in una situazione che, ormai, volge al termine. Un po' il classico errore che si compie durante il proseguo di una relazione: si tende a rendere il tutto un abitudine, scordandosi la magia dei primi tempi. Un lavoro, più che un travolgente susseguirsi di emozioni. E proprio come la Lei del brano, la nostra vita ci abbandona, in quanto il nostro menefreghismo è stata la causa di tutto. Divertimenti facili, tutto e subito.. una parabola autodistruttiva scritta ed annunciata che adesso ci hanno portato a non avere più nulla. Concetto ribadito sul finale, utilizzando più volte l'ultima frase del ritornello accentuando così il grido disperato del narratore. D'effetto il finale distorto interrotto proprio sulla parola "break" per poi lasciare a Deris la conduzione del finale su un arpeggio adagiante.  Ordunque, giunti a questo momento, arriva il tempo,"il tempo del giuramento", ovvero "The Time of the Oath", brano conclusivo nonché titletrack dell'album, il quale racchiude l'essenza globale dell'intero concept, sia a livello di musica che a livello di liriche. Veniamo dapprima accolti da una strana mescolanza di suoni, come se fossero voci risuonanti dal profondo di una grotta, unita a rumori tipicamente metallici. Un riff cadenzato di chitarra semplice e ritmato viene successivamente introdotto proprio da questo insieme indefinibile di suoni, che ora sono resi più metallici, quasi tipici di una catena che sbatte per terra, simulando dei passi in avvicinamento. Il riff si estende e serpeggia man mano che il brano avanza, Deris sfoggia inizialmente un cantato cupo che in seguito viene reso più chiaro e sovrastato dalle chitarre, in grande spolvero, decise a lasciarci sicuramente un bel ricordo del disco tutto. L'intero brano si basa su una melodia in perenne tensione e la linea vocale non fa certo eccezione, trasmettendo inquietudine senza mai avere un attimo di riposo se non nella parte solistica dove riusciamo a captare finalmente una melodia risolutiva. Ma non c'è da stare tranquilli e intervengono dei cori in latino a sostenere la loro terrificante causa. Assistiamo contemporaneamente ad una nuova grande prova di Grosskopf, grande cesellatore, sino a ritrovarci dinnanzi ad un momento solista nel quale l'effettistica elettronica ricopre un ruolo fondamentale tanto quello delle chitarre. Riusciamo addirittura ad udire lo "svirgolare" di un raggio laser, e le asce si lanciano in un assolo da manuale, sicuramente degno d'essere ricordato, piccolo gioiello del power tutonico ed in generale di tutto quello che il movimento in quel momento era e che in futuro sarà. Con un finale apparentemente celestiale, giunto dopo un climax sonoro da manuale, il brano ci lascia da parte, non smettendo nemmeno in conclusione di emozionarci e trasmetterci sensazioni fra di loro assai contrastanti. Nelle strofe è ancora Nostradamus a parlare, straziato come se fosse arrivato in fondo ad una estenuante corsa verso la distruzione, quest'ultima inquadrabile sicuramente come una sorta di pazzia,  rovescio della medaglia, che lo affligge a causa (o grazie a) questo suo dono di prevedere il futuro; certamente l'astrologo si rende conto che non poteva tenere nascoste queste profezie e, anche se sa che non verranno mai ascoltate, dato che non ascolteremmo mai le grida di un pazzo, decide comunque di renderci testimone di queste sue visioni, sperando comunque di suscitare in noi qualcosa. Nostradamus ci ha preparato mostrandoci quel periodo, ma saremo noi stessi a dover prestare giuramento, a donare fede e credibilità alle sue parole. Temiamo i pazzi, perché, in un mondo sordo e troppo materialista, sono proprio loro gli unici rimasti in grado di dire la verità. Giureremo o ci tireremo indietro? Ai posteri l'ardua sentenza, quel che detto è detto ed ormai dipende solo da noi.

Giunti alla fine di un viaggio così imponente, risulta difficile distaccarsi troppo presto da questo "The Time of the Oath", per tutta una serie di accorgimenti che lo hanno reso in un certo qual modo fortemente interessante. Non è un disco prevedibile, questo possiamo dirlo. La "formula Helloween" è presente ma non in maniera limitante, all'interno dei solchi di questo disco troviamo una sana voglia di non scrivere un discorso troppo prevedibile, ma anzi notiamo il coraggio di osare, di tentare nuove strade. Ballad struggenti ma mai banali, un pezzo da nove minuti, un trionfo di Hard Rock "ruffiano" e tendente all'AOR, più tutta una serie di "classici" brani a tema Heavy Power sapientemente posati su melodie cupe ma anche su di una sana voglia di coinvolgere il pubblico, grazie a ritornelli accattivanti, di sicuro impatto e di grande effetto. Forse qualche piccolo accorgimento in più in fase di produzione, davvero orrenda, non avrebbe guastato, o forse una tracklist così importante e dal minutaggio corposo non invoglia propriamente ad arrivare sino in fondo tutto d'un fiato. Ma non possiamo basarci sui "forse", cari lettori, è l'oggettività e il materiale di cui disponiamo che devono dire la loro. A conti fatti, "The Time Of The Oath" è sicuramente un grande disco, ntra i migliori in carriera, che non annoia e che si lascia ascoltare. Un album non destinato agli scaffali ma al giradischi, un disco che sicuramente arriveremo a sentire più e più volte, complice l'anthemicità di certi ritornelli che, nemmeno a dirlo, si lasciano cantare e memorizzare benissimo. Missione compiuta: le Zucche possono dirsi soddisfatte e rimandare l'appuntamento al prossimo disco. Sta solo a noi fans avere Fede e sperare in un miglioramento sempre più evidente e costante. Che ne dite, ve la sentite di prestare anche voi, un Giuramento?

1) We Burn
2) Steel Tormentor
3) Wake Up The Mountain
4) Power
5) Forever and One (Neverland)
6) Before the War
7) A Million To One
8) Anything my Mama Don't Like
9) Kings Will be Kings
10) Mission Motherland
11) If i Knew
12) The Time of the Oath

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