HAVOK

Pwn 'Em All

2007 - Indipendente

A CURA DI
NIMA TAYEBIAN
27/06/2022
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8

Introduzione Recensione

Bentornati. La nostra analisi odierna è incentrata, stavolta, su un gruppo appartenente alla cosiddetta corrente del "revival thrash", o thrash revivalista, se preferite (e siete meno inclini agli anglicismi), ossia quella  corrente che, più o meno dall'inizio del nuovo millennio, ha riportato in auge il genere thrash tramite gruppi (molti dei quali divenuti ormai celebri), proponendo un sound - spesso - assolutamente in linea con quello del thrash old school. Un thrash quindi che ha iniziato a pescare a piene mani dai grandi del genere, aggiornandolo (se possibile) ma non troppo, dato che molti dei gruppi più celebri di questo filone hanno mantenuto vagamente percepibili le loro ispirazioni di base, ravvisabili a tratti in quanto composto: così, tra i solchi dei dischi dei vari Evile, Bonded By Blood, Municipal Waste, Warbringer e Havok (per citarne alcuni tra i più conosciuti, almeno per chi mastica abitualmente pane e thrash) non è cosa strana trovare a più riprese "quel qualcosa" già patrimonio del gruppo X o Y (inutile fare nomi: poi il lavoro da RIS, se volete, spetta a voi). Questo è indice di un qualche pedissequo copia e incolla? No, assolutamente, dato che i più noti gruppetti del suddetto filone hanno saputo aggiungere molto di loro, smarcandosi (nonostante qualche influenza) dai gruppi "padri" e proponendo un sound che, pur strizzando l'occhio agli anni ottanta, ha saputo crescere (e bene). Ho fatto prima un elenco stringato di alcuni dei gruppi che hanno alimentato tale filone. Bene, è proprio dell'ultima band citata che ci andremo ad occupare quest'oggi, ossia gli Havok. Per la precisione del loro primo EP, "Pwn 'Em All", dato alle stampe nell'ormai lontano 2007 in maniera del tutto indipendente (ma già due anni più tardi - nel 2009 - passeranno alla prestigiosa Candlelight Records per pubblicare il loro primo full length "Burn", uno dei capolavori della suddetta corrente). Il gruppo in questione è, inutile a dirlo, uno dei cardini di questo movimento atto a rispolverare un genere che, complice il passare del tempo e il susseguirsi di altre tipologie musicali nel panorama metallico, sembrava aver detto tutto o quasi in quei ruggenti anni ottanta (e già tra la metà e la fine di quel decennio death e black iniziavano a farsi strada). E i nostri dimostrano gran classe e sopraffina personalità nell'omaggiare l'accezione più pura di questo genere, proponendo un sound pesantemente ancorato agli eighties ma dal quale viene fuori un prodotto rigorosamente loro. Non un copia e incolla di quanto fatto da altri (sarebbe altresì facile), ma un qualcosa di indiscutibilmente personale. Certo, come nella stragrande maggioranza di quanto messo in campo nel thrash revivalista ci si può vedere l'influenza di tizio o caio. Ma è lo stesso discorso che potremmo fare con qualche grande band contemporanea, per dire, in ambito death (chi ha detto Nile? Non è forse palese l'ispirazione morbidangeliana? Eppure i nostri propongono un sound assolutamente personale). Dunque nonostante il filone in sé non sia la trovata più originale del mondo si può dire abbia avuto il beneficio di gruppi capaci di rivitalizzare il genere in questione. Non ultimi - ma potremmo piazzarli probabilmente tra i "primi della classe" - i nostri Havok, dei quali andiamo ora ad approfondire i vari brani di quel gioiellino chiamato Pwn 'Em All.

Last Words

Si inizia decisamente bene con "Last Words" (Ultime Parole), brano che sfoggia un testo decisamente introspettivo, basato sui pensieri di un uomo "intrappolato" in un edificio etichettato come "edificio dell'inferno" (se ci siano metafore o meno non ci è dato saperlo). L'uomo non sa neanche perché sia lì, ma vorebbe essere portato fuori da quel dolore, da quella miseria. Tutto quel che vede è dolore e morte. Non sa dove siano finiti i suoi amici, che sembrano averlo lasciato intrappolato in quello spazio angusto, indicibile, in qualche maniera "infernale". L'uomo vorrebbe essere salvato, e rivolgendosi ad una seconda persona lascia trapelare che, qualsiasi fossero i trascorsi tra i due (non positivi), lui non serba rancore, e tutto quel che chiede è un minimo di aiuto. L'attacco iniziale è decisamente impattante: un rifferama stoppato alternato a possenti rintocchi di batteria. Si scivola, verso il quarantesimo secondo verso un passaggio strumentale agile e dotato di notevole forza, che inaugura in breve l'inserimento del vocalist, il quale accompagna con la sua voce vagamente nasale - davvero notevole - il caos calcolato generato dagli strumentisti. Al minuto e trenta il refrain, che addobba con un passaggio lievemente più musicale (chiaramente trattasi di eufemismo) un tappeto strumentale assolutamente terremotante. Come nella maggior parte del thrash classico che si rispetti - di cui i nostri in qualche modo seguono le orme - il brano si mantiene fondamentalmente lineare, concedendosi di misura qualche arzigogolo chitarristico atto a generare una minima varietà nel calderone sonoro proposto. Il tutto è notevole, perfettamente in linea con quanto messo in campo da certi grandi maestri, riuscendo nell'impresa di non sfigurare nel confronto.

Identity Theft

Si continua con l'ottima "Identity Theft" (Furto d'identità), che sembra - visto dalla prospettiva di chi scrive - quasi un manifesto ironico sui gruppi che si rifanno talvolta pesantemente ai pionieri storici di certi generi, talvolta dissimulandoli (una frecciatina nei confronti dello stesso filone a cui i Nostri appartengono?). In effetti, ascoltando, si percepisce una stoccata nei confronti di chi "non riesce a trovare la proria strada", e "non ottengono alcuna approvazione dai pionieri". Si parla, appunto, di "furto d'identità", quasi certe band (se l'analisi è corretta) sembra si vogliano appropriare dell'aura magica e unica che contraddistingue certe band, imitandole sino al plagio. Chiaramente gli Havok non appartengono a questa frangia di sterili imitatori, e la loro sopraffina classe è sempre pronta a fare capolino. Stavolta, passando al lato più prettamente musicale, l'inizio è più "lento" (almeno rispetto all'immediato predecessore), e si predilige un passaggio più granitico che cinetico. Ma il tutto dura assai poco, dato che nel giro di una ventina di secondi il brano sembra impennare con una certa dose di velocità. Verso il trentesimo secondo subentra anche la voce di David Sanchez, che inizia a cavalcare il possente tappeto strumentale come un surfista cavalca espertamente le onde. E il suo intervento dona quel tocco aggiunto di isteria ad un brano, ancora una volta destabilizzante, che sfido a non entrare nel cuore di qualsiasi thrasher. Il brano, esattamente come il precedente, si mantiene grossomodo lineare, salvo rallentare oltrepassato il secondo minuto - per concederci un frangente più "atmosferico" e rilassato, prodomo di un interessantissimo passaggio strumentale con un guitar work assolutamente pregevole - e accelerare in maniera inaspettata verso il terzo minuto e trenta, partendo in quarta come un razzo.

Havok

"Havok" (Caos: almeno nella grafia corretta, ossia Havoc), traccia omonima al gruppo, mette da parte l'introspezione del primo brano e l'ironia del secondo per proporci un testo votato alla raffigurazione dei più cupi scenari guerreschi e nucleari. Si dai primi passaggi infatti, si può ascoltare come la guerra nucleare ha portato nell'umanità la distruzione più totale, comportando scenari desolati con innumerevoli vite spazzate via, e quelle rimamenti che non ripongono più alcuna fiducia nel destino. Qui il caos sorge, mentre il fuoco scaturito dalle armi atomiche lacera le carni non lasciando più nulla, nessuno a salvare il pianeta Terra. Gli uomini sopravvissuti non possono fare altro che alzare gli occhi al cielo guardando le proprie città svanire. IL brano inizia con un riffing tagliente, accompagnato solo in un secondo momento da dosati rintocchi di batteria. L'introduzione dura ben oltre il minuto (un minuto e mezzo abbondante) , affidandosi prima a un rallentamento - di misura - e quindi ripartendo in quarta una decina di secondi dopo. Il tutto in questa prima parte è cangiante, anche se in maniera relativa (si alternano parti più/meno veloci, con qualche cesellatura). Superato il minuto e mezzo subentra la voce di Sanchez, dapprima inserita in un contesto arrembante ma non eccessivamente violento, quindi - al minuto e cinquanta circa - quasi travolta da un passaggio estremamente veloce, scattante, che sembra spinto tramite protossido di azoto ("Nitrous Oxide Systems Inc.", o più comunemente Nos). Superati i due minuti e dieci un rallentamento permette di tirare il fiato, ma nel giro di poco - dieci secondi - si ritorna sui binari scattanti già cesellati nel primo minuto. Ulteriore rallentamento oltrepassati i tre minuti, in un frangente strumentale che passa presto a modalità più veloci e ci regala un guitar work sopraffino. Lineare ma non troppo, anche questo brano, come i precedenti, si può fregiare dell'appellativo di piccolo capolavoro del genere revival thrash. Uno dei tanti gioielli contenuti in questo diadema sonoro che non può che essere amato sin dal primo ascolto.

Fate Controls

"Fate Controls" (Controlli del destino) è un altro brano bellissimo e in linea con quanto fatto dai nostri complessivamente in questo EP, articolato e pregno di bravura e sapienza strumentale. I nostri sanno come giostrare un brano nella sua interezza, riuscendo nell'impresa di rendere l'intera tessitura strumentale un qualcosa di vincente e assolutamente paragonabile con altri pezzi contenuti in questo incredibile scrigno delle meraviglie. Si parte in sordina con un'introduzione pregna di tessiture metalliche, comunque non inclini all'aggressione all'arma bianca. Il tutto risulta mirato a creare il giusto ambiente sonoro da dove partire. Verso il cinquantesimo secondo inizia un crescendo di violenza cromata, con i ritmi che si fanno più serrati. Verso il minuto e quaranta vi è un'ulteriore escalation di aggressività sonora, e notiamo come i ritmi si fanno compatti, cingolati. Verso i due minuti, ad accompagnare la ritmica corazzata, ci pensa la voce, donando un tocco in più di irruenza e di sana acredine. I ritmi si mantengono belli pompati sino al refrain, un pizzico più melodico. Si ricomincia quindi con ritmi corazzati, possenti. Il brano, come ho già avuto modo di specificare è davvero di ottima fattura: al quarto brano già è facile rendersi conto di come i Nostri facciano sul serio, non conoscendo minimamente il concetto di "filler".

To Hell

"To Hell" (All'inferno), la quinta traccia, ci propone un testo stavolta improntato sul più totale senso di odio nei confronti di una persona, in cui è l'acredine assoluta a regnare, espressa tramite parole di odio e contornata da un unico pensiero fisso: porre fine alla sua vita. Sin dall'inizio notiamo come il protagonista intimi a questa persona di stare lontana, dato che potrebbe stimolare atti di cieca violenza (come si evince non solo dal passaggio che recita testualmente "stai per incontrare il mio pugno", ma anche - e soprattutto - da passaggi come "ho una pistola armata e sono incazzato", dove si evince un'esplicita volontà a sparare a questa persona). Lui ripete a questa persona più volte che questa è la stessa sera in cui morirà, e gli dice di guardarlo fisso negli occhi, per percepire quel destino che apparentemente risulta ineluttabile. Il protagonista è deciso, e il suo nemico dovrà morire. Il pezzo prende il via con un riffing serrato, che rapidamente prende slancio in velocità. La voce stavolta entra in scena in tempi brevi (circa verso il quarantesimo secondo), per accompagnare una tessitura sonora improntata alla rapidità e all'assalto più diretto all'arma bianca. Al minuto circa la voce lascia spazio ad un frangente strumentale deflagrante, impostato maggiormente su un lancinante guitar work. Verso il minuto e trenta la voce riacquista protagonismo per ergersi sul tappeto strumentale ancora una volta veloce e dotato di un certo appeal. Al minuto e quaranta la voce, così come buona parte degli strumenti, si eclissa per lasciare spazio ad un cesello chitarristico che in breve vede incorporare anche la batteria. Si riprende ad avanzare, dapprima in maniera più cauta, quindi a gran velocità, attraverso il traino di una sezione ritmica davvero affiatata.

The Root of Evil

Concludiamo con la versione demo di "The Root of Evil" (La radice del male), pubblicata successivamente (versione standard) nel primo disco dei nostri, Burn. Il brano, stavolta, sembra abbia come tema centrale l'oscurantismo, la paura inculcata dalle religioni (in questo caso il cristianesimo e l'islam, considerando che nei primi passaggi si fa esplicito riferimento a Gesù Cristo e alla mezzaluna), e a uno scenario che, pur nella sua non evidente intellegibilità - il tutto è ridotto a bozzetti espressionisti atti più che altro a visualizzare scene e momenti - rimanda a una sorta di "crociata". E infatti quanto espresso, nella contrapposizione - pur solo abbozzata e giusto nel primo passaggio - tra islam e cristianesimo, ci da l'idea di una situazione sanguinosa, tra uccisioni, torture, sangue. IL protagonista è complice di questo insensato martirio, persecutore e uccisore di uomini dell'opposto schieramento, musulmani o cristiani che siano: non abbiamo dati sull'appartenenza religiosa del summenzionato personaggio. Ma è indifferente, dato che l'orrore della guerra svilisce l'uomo e, di fronte al fetore del sangue e della carne, finisce per minarne l'identità. Si è uomini contro uomini al richiamo della spada, e poco conta, a un certo punto, chi è schierato con chi. Il brano è inaugurato da una sezione strumentale a dir poco favolosa, granitica e possente. Pur essendo una parte totalmente impostata sugli strumenti, si ravvisano echi, seppur vaghi, dei Forbidden (non solo, ma è il primo gruppo che viene in mente). L'introduzione continua deflagrante sino al minuto e trenta, e, stoppandosi fa largo ad una sezione più veloce, inaugurata da un rifferama serrato e distruttivo. Quasi ai due minuti i BPM aumentano portandoci ad un livello di velocità schiacciante. Pochi secondi dopo subentra anche la voce a coronare questa orgia di terremotante follia. Si prosegue in velocità: i ritmi sono tesi e l'attacco è totalmente "in your face". L'assalto all'arma bianca continua imperterrito in un brano, anche stavolta, abbastanza lineare (non vi sono particolari cambi di tempo e/o umorali), considerando che al massimo vi sono brevissimi stop - riffing stoppati di chitarra accentuati da rintocchi sincroni di batteria - per tirare il fiato un millisecondo e ricominciare.

Conclusioni

Arriviamo così alla fine di questa piccola ma sostanziosa gemma musicale, il primo parto "concreto" dei Nostri, che solo due anni dopo arriveranno all'altrettanto bello (ma ovviamente più compiuto, date le dodici tracce proposte) Burn, primo full length che permetterà di comprendere appieno la loro ovvia capacità di creare trame avvincenti supportate da un'ispirazione e da una "personalità" (sempre virgolettata naturalmente: preme ricordare che trattasi sempre di un genere revivalista, e che se si cerca una preponderanza di originalità non è qui che bisogna cercare) assolutamente non comuni. Ispirazione e personalità che vengono fuori già da questo mini-parto discografico, che, pur nella sua stringatezza, chiarisce come gli Havok siano qui per fare sul serio. Non un gruppo "di riciclo", un deleterio copia e incolla da una o più band che a loro tempo hanno saputo riscuotere successo e onori, ma una rielaborazione del classico sound thrash che, pur mantenendone inalterata la struttura (il loro è sempre un certo tipo di thrash vecchia scuola, assolutamente incline a certo materiale Bay Area, e dunque abbastanza distante, per dire, dal vecchio thrash teutonico della triade Sodom/Kreator/Destruction), riesce a riplasmarla senza alcuno sforzo. A sentirli, se non li si conoscesse, si potrebbe pensare subito a un gruppo degli anni ottanta. Ma non è così: (ex) nuove leve di un certo modo di rivedere il thrash (anche distanti da altri tipi di interpretazioni contemporanee: vedasi per dire i Vektor, voivodiani sicuramente ma il cui sound è molto al passo con i tempi), possono annoverarsi dell'etichetta di maestri di questo filone (insieme ad altri gruppi già citati nell'introduzione). E questa maestria è ben mostrata in sei tracce in cui è evidente la loro voglia di sfoggiare ogni singola abilità. Le trame intessute sono a dir poco superlative, suonate divinamente e supportate da un singer assolutamente ideale per questo sound. E il tutto è arricchito da una non scontata "personalità" (certo, relativamente al filone proposto) e soprattutto da un'ispirazione decisamente fuori dal comune. Stando ad un genere che ormai sembrava aver giocato a suo tempo le carte migliori, partorire un certo numero di tracce davvero ispirate non era cosa da poco: tracce in cui traspare come i nostri avevano veramente qualcosa da dire e sapevano perfettamente "come dirla", usando il giusto linguaggio e intessendo trame capaci di avvincere sin dal primo ascolto. Questo, comunque, come ribadito in precedenza, è solo il primo passo per una band che successivamente riconfermerà le proprie capacità imponendosi come gruppo simbolo di un genere che, in realtà, non è mai tramontato (qualcuno lo aveva erroneamente pensato? Male, non è così) e che grazie a un certo numero di astri nascenti ha saputo riprendere vigore tanto da risorgere come la leggendaria Fenice. Consiglio dunque a tutti questo EP, soprattutto come antipasto per i dischi successivi, che hanno dato modo al gruppo di esprimersi pienamente.

1) Last Words
2) Identity Theft
3) Havok
4) Fate Controls
5) To Hell
6) The Root of Evil