HASTUR

The Black River

2016 - Black Tears of Death

A CURA DI
MARCO PALMACCI
07/01/2017
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Torniamo ad occuparci di estremo made in italy, passando al vaglio un 2016 ancor ben lungi dall'essere dimenticato. Un anno trascorso da soli sette giorni, la cui eco si dimostra anch'or ora chiara e nitida, altisonante a dir poco. Del resto, anche solo per il Black Metal (giusto per indicare il genere più prolifico, a parer di chi vi scrive), i 365 giorni appena trascorsi sarebbero da incorniciare. Dai più grandi ai più underground, tutti hanno voluto far sentire la propria voce: Darkthrone, Deathspell Omega, Desaster. Arrivando a toccare lidi più Death, sino al "debutto" dei nostrani Hastur, datato esattamente Ottobre 2016. Debutto fra virgolette, in quanto nonostante "The Black River" (questo il titolo dell'opera) sia eufemisticamente definibile come "recente", le radici della band affondano la propria presa molto indietro nel tempo. Precisamente, parliamo del 1993: anno in cui Roberto "Rob" Lucanato (chitarra, oggi in forze nei genovesi Toolbox Terror) unì le forze al bassista Erman. Si aggiunsero alla partita, in seguito, il batterista Hayzmann ed il vocalist Andrea Terrosu, il quale però fece disperdere le sue tracce poco dopo. Il suo posto venne preso nientemeno che da un volto assai noto del panorama Metal Tricolore; presto, in qualità di cantante, subentrò infatti Trevor, oggi frontman degli assai blasonati Sadist. Siamo nel 1996, e grazie anche all'innesto del tastierista Claudio, la band poté finalmente rilasciare una propria, tangibile testimonianza; un EP intitolato "Dance Macabre", registrato nei celebri "Nadir Studios" con l'aiuto del chitarrista dei Sadist, Tommy Talamanca. Tuttavia, quando il lavoro venne licenziato (è bene ricordarlo, dalla "Beyond? Productions", Trevor cessò ogni sua attività con gli Hastur per unirsi ai Sadist. Un duro colpo, che di fatto spianò la strada al subentro di David Krieg (il quale sarebbe poi confluito nei Malignance); con il quale, tuttavia, il gruppo non proseguì troppo a vele spiegate. Proprio alle soglie del nuovo millennio, infatti, gli Hastur conobbero un primo, importante break, il quale si protrasse discretamente a lungo. Un piccolo tentativo di come back venne effettuato a 2000 inoltrati, quando il gruppo cercò fortuna riformandosi mediante l'avvicendamento di alcuni ex membri dei Sacradis; blacksters genovesi attivi anche loro sin dagli anni '90 ma scioltisi esattamente cinque anni fa, nel 2011. Un ritorno che non sortì gli effetti sperati, e che di fatto fece slittare i cosiddetti "tempi migliori" proprio al 2016. L'anno propizio, quello del definitivo affaccio sulle scene mediante un full-length di ampio respiro, ben registrato e prodotto. Unico membro originale rimasto, il batterista Hayzmann, il quale ha riunito per l'occasione un gotha estremo di tutto rispetto, meritevole di grande considerazione. In questo "nuovo primo" disco, infatti, l'infernale percussionista ha potuto beneficiare dell'apporto di Napalm (voce / chitarra, già attivo nei Sacradis e negli Eligor), senza dimenticarsi dei due "ex Sfregio" Grinder (basso, anch'egli membro passato dei Sacradis) e Docdeath (chitarra solista). Insomma, un combo che promette di far scintille, riunito sotto il vessillo insanguinato di un Death (vagamente venato di Black/Thrash) marcio e putrido, old school a livelli massimi (e massicci, sicuramente!). "The Black River" è quindi il risultato di diverse sinergie; quella instauratasi fra i nuovi membri, e di conseguenza quella venutasi a creare fra l'incandescente quartetto e la "Black Tears of Death". Etichetta la quale ha voluto far figurare nel suo roster questa realtà estrema, permettendole quindi di compiere l'ultimo, definitivo passo verso la consacrazione. Per quanto riguarda i dettagli più tecnici, notiamo come il lavoro sia stato registrato, missato e masterizzato presso il "Blackwave Studio" di Fabio Palombi, in quel di Genova; proprio Palombi  ha avuto modo di aiutare il gruppo durante tutte le sessioni di realizzazione, contribuendo mediante la sua esperienza e la sua disponibilità. Un vero e proprio lavoro di gruppo, anche perché ogni pezzo risulta arrangiato dalla band tutta, eccezion fatta per le liriche, appannaggio totale (dove indicato) del duo Grinder / Napalm. Insomma, un lavoro che si presenta decisamente bene, anche dal punto di vista grafico. Protagonista della copertina, infatti, un artwork quasi "Dantesco", il cui stile risulta sospeso a metà fra inquietanti illustrazioni medievali ed il concept "dannato" molto caro al Doré più dantesco. Toni abbastanza vivaci (dal rossiccio al giallo ocra), per un fiume di anime perdute, costrette ad affogare in una corrente a dir poco impetuosa; a sorreggerli, semplicemente delle bare e dei ciocchi di legno. Sullo sfondo, una città molto simile alla Dite alighieriana. Che sia, dunque, questa illustrazione, uno scorcio d'Inferno? Molto probabile. Fatto sta che il tutto rende alla perfezione: ottimo lavoro da parte di Valentina Rosasco, ideatrice del concept, supportata a livello grafico da Roberto Arata. Per quanto riguarda il logo del gruppo, posto in alto a destra, esso ricalca appieno i dettami di una ben certa frangia estrema. Realizzato dalla tatuatrice Erika Ratto, quest'ultimo vede la testa di Baphomet fungere da "H" posticcia, donando un gran bel carico da 90 al contesto generale. Un prodotto schietto e diretto sin dalla grafica, insomma. Non ci resta altro da fare che cavalcare la corrente del fiume Nero; avremo il coraggio di tendere la mano al Caron Dimonio? Paghiamo l'obolo e facciamo del tristo nocchier il nostro capitano. Let's Play!

The Black River

Scorre l'acqua e la tempesta imperversa: tuoni, urla, strepiti. Gemiti disumani, diverse lingue, orribili favelle. Un inizio apocalittico per la titletrack, una intro che lascia presto spazio ad un violentissimo beat, sul quale si staglia un riff di chitarra putrido e tagliente. Un che di primi Death aleggia nell'aria; uno scream da far accapponare la pelle rafforza questa idea, e ben presto la prima strofa può avvicendarsi in tutto il suo macabro splendore. Tempi più "quadrati", andatura grassa e grossa, alternata in seguito a riff e lavorii batteristici ben più veloci e serrati. La voce, roca e bassa, sembra provenire a dir poco dalle profondità infernali. Rapidissimi scambi di strofe e refrain ci lasciano a dir poco senza fiato, impossibile proferir verbo dinnanzi ad una violenza così drasticamente e violentemente posta. I Nostri amano la vecchia scuola, e vogliono quasi farci "pesare" questo loro apprezzamento. Pesare nel senso buono, in quanto gli stilemi tipici di un certo tipo di Death Metal si fanno immediatamente ben palesi, privi di fronzoli o rimaneggiamenti. Niente virate verso groove più moderni, verso cadenze "post 2000". Spunti risultanti in grado di esaltare e coinvolgere. Riff furiosi, pelli martoriate, bassi frastornanti e vocals allucinanti: tutto quel che un amante delle vecchie maniere possa desiderare è inserito lungo questi solchi. Ascoltare questa "The Black River" a volume esageratamente alto è come tornare nella Florida tardo ottantiana: Morbid Angel, Malevolent Creation.. tanti sono i nomi da citare, udendo un brano di tal caratura. Un assalto da inizio a fine, che non conosce sostanza. Particolarmente degno di nota il minuto 3:23, quando i tempi divengono più "strascicati" ed il titolo della canzone viene ripetuto in loop da un vocalist posseduto, indemoniato. Qualche battito di ride e si ritorna poi a correre. Micidiali gli assoli dei due chitarristi, così come imperiale risulta essere una conclusione ben spalmata su tempi più trascinati, lenti. Ultima espressione solista da parte di Napalm e chiudiamo un primo pezzo a dir poco STRAORDINARIO. Se queste sono le premesse, avremo di che divertirci. Testo particolarmente macabro, quello di questa tracklist. Protagonista delle liriche, infatti, è il fiume cosiddetto "nero". Un'autentica bordata d'acque torbide, limacciose ed oscure, pronte a travolgerci senza alcuna pietà. Un torrente maledetto, il cui getto è dotato di una forza erculea, demoniaca. La nostra fine è dunque segnata: i più fortunati troveranno le loro ossa totalmente frantumate dai violenti "lapilli", quasi l'Apocalisse sembrasse venir caratterizzata da una copiosa eruzione vulcanica piuttosto che da un'alluvione / inondazione. Anche se le caratteristiche di quest'ultima catastrofe sembrano dominanti. Il nostro destino, dunque, è quello di morire soffocati nel fango, con le vie respiratorie intasate dalla maleodorante e nauseante terra. Più ci dimeniamo, più sprofondiamo, come fossimo intrappolati nelle sabbie mobili. Non riusciamo nemmeno a piangere o vomitare, tanto i detriti risultano in grado di tappare ogni nostro orifizio. Perdiamo la vita lentamente, il nostro destino è segnato. I nostri cadaveri verranno trascinati via da questa impetuosa corrente. Nessuno ci salverà, nessuno riuscirà ad afferrare le nostre mani, tese e bisognose d'aiuto. Un aiuto che non giungerà. Case, palazzi, tutto è travolta da quest'acqua / lava, che ogni cosa spazza via, in maniera indifferente.

Consumer of Souls

Niente intro particolari per la seconda track, "Consumer of Souls (Consumatore d'Anime)", la quale parte dapprima leggermente "confusa", con suoni sfarfallanti, salvo poi rivelarsi diretta, nuda e cruda. Sparatissima, a suon di blast beat e riff drasticamente oltranzisti, violenti come una scarica di pugni mollati in pieno naso. Il sangue scorre a fiotti e l'allucinata voce di Napalm non fa altro che menare colpi, così come la sua ascia; perfettamente amalgamata a quella di Docdeath, deciso più che mai a risultare all'altezza del suo compagno. Il basso di Grinder pulsa incontrollato, e si continua speditissimi sino a metà brano, assaporando sempre più le reminescenze tipicamente più "morbidangeline" del combo. Arriviamo dunque al minuto 1:50. I tempi rallentano vistosamente, e con fare à la Obituary, il gruppo torna a strascicare, muovendosi viscido e sinuoso. E' il momento, per Napalm, di lanciarsi in un assolo anch'esso particolarmente "morbido" e tagliente al punto giusto. Chitarrista che di lì a poco torna a mostrarsi cantante, donando la vita ad un vocalizzo gutturale che di fatto innesca la batteria verso una nuova corsa a folle velocità. Nemmeno a dirlo, si torna a picchiare. Con la furia di un demonio assetato di vendetta, il quartetto si lancia nella folle corsa finale, atta ad annichilirci un'ultima volta. Davvero, davvero un proseguo degno di questo nome. Moshpit violento, morsi, lacerazioni, pugni e calci: questi sono gli Hastur, qualora qualcuno non avesse ancora capito con chi abbiamo a che fare. Testo semplice eppure carico di rabbia, quello di questo secondo brano: i Nostri decidono infatti di far luce su di avvenimenti purtroppo all'ordine del giorno, in ambiti cattolici. Ovvero, ci parlano di quanti e quali abusi molti bambini siano vittime. Abusi messi in atto da preti e uomini di chiesa in generale, impuniti servi della loro degenerazione mentale. Esseri immondi, inqualificabili, eppure apparentemente "intoccabili". Delle loro violenze e perversioni, infatti, son vittime solamente le persone più pure ed innocenti. I bambini, spaventati e confusi da una figura da loro percepita come autoritaria, risultano infatti indifesi. E qualora confessassero il male da loro ricevuto, in molti pochi gli crederebbero: chi mai potrebbe sospettare di un "prete", dopo tutto? E' proprio questo il perno sul quale i Nostri fanno leva. Il consumatore di anime, l'ingordo uomo nero, l'orco da punire, viene infatti immaginato come egli stesso, vittima di una violenza. Una violenza riparatrice, una parziale vendetta da consumarsi, per quel piccolo coro d'anime irrimediabilmente sporcate dall'adulta perversione. L'essenza dei porporati verrà quindi squartata, molestata, smembrata, per l'eternità. Servi di un dio falso che gli consente di compiere ogni gesto, anche il più barbaro e meschino. In vita consumatori d'anime, nell'aldilà a loro volta consumati. Dolori eterni, senza mai fine, per chiunque si sia macchiato di tali crimini.

Infamous

Scalpitante la batteria di Hayzmann, maestra cerimoniera di un inizio a dir poco tellurico, per la traccia numero tre. "Infamous (Infame)" avrebbe tutti i connotati e le qualità per finire in un album dei Deicide, inutile girarci troppo intorno. Glenn Benton sembra infatti essere il nume tutelare sia di Grinder sia del Napalm cantante; senza dimenticarci del Napalm chitarrista e di Docdeath, direttamente ispirati dai guitar tricks e dai riff tipici dei fratelli Hoffmann. Si pesta durissimo ed in maniera a dir poco selvaggia, "becera" se vogliamo; echi di "Legion" ben presenti nell'aria, anche se la sorpresa è nuovamente dietro l'angolo. Piccola nota sinfonico-melodica, infatti, in arrivo al minuto 2:05. Cori di voci eteree ma drammatiche si fanno largo fra cotanta brutalità; un contraltare perfetto con la voce grezza e gutturale del frontman, un impasto suggestivo ed infernale, ben spalmato su tempi assai ragionati, scanditi da una batteria quasi tribale, sacrale. Proprio su questo rallentamento così marcato viene dunque ricamato un bell'assolo, il quale si protrae il giusto, giusto per fungere da preludio ad una nuova, selvaggia accelerazione. Accelerazione nella quale fa capolino un nuovo assolo, ben più serrato e violento; frangente che riporta in auge la violenza à la Deicide, espediente che lascia dunque il brano dipanarsi sino alla conclusione. Un gran bel gioco d'alternanze, nulla da dire. Forse, uno dei brani migliori del lotto. Testo ancora una volta profondamente anticlericale, nel quale l'infame viene forse identificato con la figura del credente in senso generale. La prima e l'ultima strofa, in tal senso, sembrano parlare estremamente chiaro: il servo di Dio (sia esso o meno un suo servitore) viene visto come un infame, come un soggiogatore degli umani istinti. Menzogne e preclusioni vengono infatti avanzate dai cosiddetti "cattolici", tutta una serie di dogmi che di fatto ci impediscono di essere felici, che ci pongono incomprensibili freni dinnanzi alle gambe e ci impediscono di proseguire lungo un sentiero sereno. Dobbiamo obbedire, sottometterci, sottostare: vermi maledetti, che ci ordinano cosa fare e cosa no. Il messaggio finale, chiaro e coinciso, ribadisce l'odio degli Hastur per tutto ciò che sia in qualche modo assimilabile al cattolicesimo; sia dannato Dio, sia dannato Cristo, sia dannata la madre di quest'ultimo. Sia dannata la loro stirpe e siano dannati i loro servi. Sia dannato chiunque vuol passare una vita a bearsi della riva del lago, senza scendere nelle profondità di quest'ultimo. Esplorandolo, cercando di capire cosa si celi, oltre. L'azione che tutti dovrebbero compiere. Come si può vivere, rinunciando alla propria / naturale curiosità d'esseri umani?

Possessed

Senza tirare neanche un piccolo sospiro, senza che vi sia nemmen momento di ristoro, eccoci catapultati nella quarta traccia, "Possessed (Posseduto)". Riff grezzo e maleducato, introducente tempi molto più quadrati e cadenzati di quanto udito in precedenza. Un lavoro chitarristico poi sormontato dal terrificante growl di Napalm, che mediante un infernale vocalizzo permette al pezzo di partire in quarta, aumentando i giri del contachilometri e portandoci dunque, nuovamente, a temere per l'incolumità dei nostri padiglioni auricolari. La folle corsa viene tuttavia sospesa dopo non moltissimo, a dir la verità. Gli Hastur si affacciano difatti al primo minuto riadattando la cadenza assassina già sfoggiata in precedenza, mostrando una baldanza a tratti "trucida" ed assai ritmata. Altro, significativo rallentamento si ha al minuto 1:30. Gli Obituary vengono nuovamente chiamati in causa, ed il viscido putridume funge da perfetto contorno per un breve solo sempre atto a "strisciare", più che a farci del male a mo' di raffica di mitragliatore. Ben presto, però, un incombente intermezzo giunge a placare il nostro momentaneo "riposo". Qualche parola di Napalm e la band si innesca quasi fosse una carica esplosiva, ponendosi sino al limite, "tirando" il suono sino a scoppiare di lì a poco. Corriamo nuovamente a perdifiato, sino a sfociare di lì a poco in stilemi Death n' Roll e di seguito marcatamente Thrash. Tutto si interrompe al minuto 3:18, il basso di Grinder si fa udire in tutto il suo tetro splendore ed arriva il momento per Docdeath e Napalm di esibirsi negli assoli più belli dell'intero disco. Dapprima, i due beneficiano di tempi velocissimi; di seguito, il tutto torna a rallentare. Le loro chitarre, semplicemente, non suonano. Urlano, strepitano, emettono nere grida di dolore, quasi fossimo al cospetto del torrente zeppo di dannati, disperatamente ancorati alle bare ed ai ciocchi di legno visti in copertina. Asce che riescono a narrarci di brutalità, di sinuosa malvagità, di satanica incombenza. Un lavoro magnifico, non solamente ben eseguito ma anche ed incredibilmente ESPRESSIVO, comunicante. Possiamo toccare con mano queste note, possiamo immergerci nel pantagruelico rallentamento finale, rallentamento che progressivamente annichilisce il nostro spirito e ci rende ancor più inermi di quanto già non fossimo. Questa è la violenza del Death vecchia scuola, miei cari drughi: questo è il colpo in volto, il calcio, il pugno. Questo, è il Metal estremo. Proprio come nel film "L'Esorcista", il protagonista del testo è prossimo a compiere un'esperienza di possedimento demoniaco. Non a caso, però, la vittima designata non è certo una dolce bambina, come avvenuto nel film di Friedkin. Al contrario, a subire l'ira e l'invadenza del diavolo è questa volta un prete. Considerato un pedofilo, e quindi degno di pagare lo scotto delle sue atroci malefatte. Un prete che, in quel determinato momento, sente crescere in sé il terrore e la paranoia, nella loro accezione più pura e vivida. Il suo nemico di sempre, Satana, è giunto a ghermirlo nella notte: per una volta, il porporato saprà cosa si prova, a ricevere il male. Lui che ne ha tanto dispensato, rovinando la vita a bambini innocenti, ora si trova a dover fare i conti con una forza più grande di lui, dalla quale non può difendersi. L'artiglio del male rode la sua anima, le sue interiora sono pronte a schizzare fuori da un momento all'altro. In un impeto di assoluta disperazione, l'uomo cerca di rivolgere il suo sguardo verso il crocifisso, cercando in esso consolazione. Eppure, la "forza" che lo ha tanto mosso in vita, sembra adesso rivoltarglisi contro. Essendo ormai un servo del demonio, la vista del religioso ornamento gli provoca dolore e sofferenza. Proprio guardando cristo morente, egli morirà. Fra indicibili tormenti, sia fisici sia mentali. Giustizia è stata dunque fatta, in fin dei conti.

The Clock of Evil

Giro di boa compiuto con la quinta "The Clock of Evil (L'orologio del Male)", particolarmente sorprendente in quanto la sua intro sembra optare per stilemi ben più atmosferici che brutali in senso lato. Se difatti l'inizio della titletrack era in un certo qual modo "propedeutico" ad una violenza senza quartiere, in questo caso gli effetti sonori lasciano presagire un qualcosa di ben più inquietante e sulfureo, che violento e lacerante. Raffiche di vento e ticchettii disturbanti, più una voce "fuori campo", la quale ci rende partecipi del fatto che "il Male è maestro d'inganni: può essere chiunque, dovunque". Si comincia così una tetra marcia, supportata da cori magniloquenti nella sua prima incarnazione. Il riff, ben cadenzato e pacato nel suo dipanarsi, conosce una frasticissima accelerazione (la quale giunge quasi "inaspettata") di lì a poco, distruggendo totalmente il "mondo" parallelo prima venutosi a creare. Eco dei Deicide e dei Cannibal Corpse si fanno dunque riconoscere, in maniera totalmente e nettamente smaccata. Gli Hastur non nascondono, nemmeno stavolta, i loro richiami old school. Dopo questa furia selvaggia, tuttavia, giunge il tempo di immettersi in un altro capovolgimento di prospettiva: minuto 2:37, chitarre arpeggiate, in clean, sormontate da un rullante preciso e marziale. Sembra quasi, l'ensemble strumentale, ricordare l'incipit della venomiana "Nightmare". Il tutto è comunque destinato ad inasprirsi dopo una manciata di secondi. Le chitarre continuano arpeggianti ma il sound è decisamente più cupo e distorto, mentre la batteria torna a sfruttare il suo intero ensemble. Asce che dunque si donano a soli serpeggianti e particolarmente disturbanti, capaci di insinuarsi negli anfratti più stretti e bui della nostra testa. Una parentesi particolarmente lenta, pacata e trascinata, che ben si addice a quanto la band aveva costruito durante gli inizi. Il suono torna tuttavia crudele e spietato sul finale, quando l'acceleratore viene letteralmente preso a martellate e lo schiacciasassi torna a piallare di tutto, senza pietà alcuna. Testo alquanto criptico, quello della quinta traccia. "The Clock of Evil" sembra infatti costruita su di una sorta di ansiogena litania lirica. Uno scandire lento e costante del tempo, un mostruoso ticchettio instillato nelle nostre menti, con il preciso compito di farci letteralmente impazzire. Tic, toc, i secondi passano. La nostra ansia aumenta, non abbiamo scampo. Non si può fuggire da un nemico che vive nelle nostre teste, dopo tutto. Il tempo scorre sempre più lentamente, anche un minuto ci pare ormai un'ora. Soffochiamo, cominciamo ad annaspare. L'oblio ci avvolge, siamo ormai persi in questo strano luogo fatto di immagini distorte e suoni ovattati. Tic, toc, il tempo si dilata, fermandosi sempre di più, sino a stopparsi. Sembra quasi di vedersi dall'alto, come fossimo protagonisti di un'esperienza extracorporea. Il dolore è lancinante, l'ansia ci corrode. Vediamo tutto ciò che accade, eppure non possiamo domarlo. Dobbiamo quanto meno provare a scappare da tutto ciò, in un impeto di razionalità. E' così difficile, se non impossibile, cercare di prendere le redini di questo frangente. Il tempo è fermo e noi con lui. Il nostro cuore non batte, la nostra mente si annulla. In una conclusione particolarmente malsana e porgente il fianco a più di un interrogativo, il tempo riprende a scorrere nuovamente. L'orologio del male è tornato a compiere il suo dovere, tutto ricomincia daccapo. Un testo che sembra uscito dalla sceneggiatura del celeberrimo "La Casa del Tempo", del ben noto Lucio Fulci.

Hate Christians

Niente intro per la traccia numero sei, "Hate Christians (Odia i Cristiani)", la quale sfoggia una bella partenza dal sapore vagamente Thrashy, non abbondando in velocità ma anzi mantenendo i tempi ben saldi su di una cadenza sostenuta ed aggressiva, piuttosto che serrata. Il tutto non diminuisce comunque in cattiveria o brutalità, anzi. I volumi sono sempre sparati al massimo, la voce del vocalist rimane infernale quant'altre mai e tutti gli strumenti sono intenzionati a tessere trame prepotenti, prevaricanti. Un qualcosa, insomma, che suoni quanto più in your face possibile. Distruttive accelerazioni si cominciano ad avere in prossimità (ed a seguito del) primo minuto, quando i Nostri sembrano voler far deflagrare la bomba. Invece, il tutto si risolve in un chirurgico rallentamento, che lascia nuovamente annichiliti e travolti. Velocità che fa capolino poco dopo, salvo poi il tutto tornare a mitigarsi dietro tempi molto più ragionati. Un gioco d'alternanze che rende il brano piacevolmente variegato e mai scontato. Stacco chitarristico dal sapore Thrash al minuto 2:44, la band si avvia lungo una cadenza strumentale sempre più inasprita, nota dopo nota. La batteria accelera pian piano, percuotendo sempre più forte ma non abbandonando mai precisione d'esecuzione. Ritmi tribali, sacrali, i quali lasciano poi spazio ad un assolo molto ben eseguito, veloce e sfavillante, melodico ed urticante il tanto che basta a creare un piacevole contraltare con l'andatura putrida e riflessiva del background. Un solo che di fatto ci accompagna alla fine di un altro bel brano, il quale forse forse avrebbe dovuto essere suonato in maniera più veloce, diretta e crudele. Un titolo à la Deicide che avrebbe reso il doppio, se i giri del contatore fossero stati effettivamente più vicini a quelli tipici del Benton più prolifico e fortunato. Nuovamente un testo anti cattolico ed anti clericale, nel quale come dicevamo l'influenza lirica dei Deicide assurge a vero e proprio archetipo da venerare. Lungo questi versi, i seguaci di Dio vengono visti come un gregge di pecore incapaci di prendere una decisione. Deboli, sottomessi, indifesi come gli sciocchi animali che sono. Persone inutili, che nel corso della loro vita non hanno fatto altro che recare danni a tutti. Servi di un libro colmo di bugie, servi di un testo privo di senso o di utilità alcuna. Soggiogati dalla parola della loro divinità, però, questi ultimi hanno mosso guerre contro qualsiasi cosa differisse dal loro credo, dal loro modo di intendere la verità. E' per questo, che debbono essere odiati. I cristiani, dopo tutto, altro non sono che violenti repressi, bigotti incapaci di confrontarsi con la vita reale. Debbono marcire e perire come gente della loro caratura merita: nessuna resa e nessuna pietà. Una stirpe da eliminare, per far sì che il mondo possa per una volta conoscere il verso senso delle espressioni "conoscenza" e "consapevolezza di se stessi nonché dei propri mezzi".

Brain Buried

Riffing work generale di scuola Thrash per il brano numero sette, "Brain Buried (Cervello Sepolto)", il quale sembra unire la potenza del Death a stilemi tipici di band quali primi Exodus e primi Sodom. Si corre in maniera sempre old school, scatenando nell'ascoltatore una discreta voglia di Headbanging (che il vostro sta eseguendo, non sarebbe nemmen troppo un segreto di stato), coinvolgendoci e facendoci divertire. Certo siamo abbastanza (ma non troppo, sia chiaro) distanti dalla brutalità del primo quartetto di brani, ma tant'è. Tempi più ragionati e studiati che di certo non guastano, ed anzi riescono a far apparire i Nostri come meritano d'esser visti: ovvero, come musicisti a 360°, capaci di far tutto nel pieno delle loro facoltà artistiche. Inutile dirlo, però, è la velocità priva di quartiere, quella rabbiosa e maleducata, a gasarci ai massimi livelli. Eccoci quindi al minuto 2:57. Vicini alla conclusione, il pezzo conosce (in concomitanza di uno splendido assolo) un'accelerazione scandita da violenterrimi tupa-tupa e vocals infernali a condire il tutto. Rabbia, rabbia grezza, rabbia brutale; un grandguignol sonoro che ci accompagna quindi verso la fine di uno dei brani più marcatamente "Thrashy" del lotto. Non che questo sia un male, intendiamoci: stiamo pur sempre parlando di un gruppo che fa della vecchia scuola suo scudo ed usbergo. Ben sapendo quanto un certo tipo di Thrash sia stato FONDAMENTALE per lo sviluppo del Death Metal, lamentarsi di una traccia leggerissimamente più "mitigata", in favore di stilemi più "thrashy", sarebbe intellettualmente disonesto. E desolante, lasciatemelo dire. Ben più eloquente il testo di questo brano, rispetto al precedente. Sulla falsariga del precedente, il testo di questo brano sembra affrontare il "problema religioso" sotto differenti prospettive, lontane dal "solito" anticlericalesimo sino ad ora mostrato. In parole povere, gli Hastur non negano che l'uomo possa ambire ad una vita che racchiuda in sé concretezza scientifica e spiritualità. Dopo tutto, siamo esseri tendenti all'immanente quanto al trascendente, caratteristica che mostriamo sin dai tempi delle caverne e delle pitture rupestri. Cosa accade, però, quando il nostro puro e naturale slancio spirituale viene soggiogato e pesantemente annacquato dalle dottrine religiose? Queste ultime, a prescindere dalle loro incarnazioni (Islam, Cristianesimo, Ebraismo ecc.) non fanno altro che mortificare quanto di spontaneo esiste in noi, mollandoci nelle mani un libro da imparare a memoria, pedissequamente, con l'obbligo di non fare mai domande. Chiaro che, indottrinandoci alla bell'e meglio, i cosiddetti "custodi della parola" sono in tal senso capaci di crearsi un vero e proprio esercito di cervelli lavati, in grado di eseguire i loro ordini e di curare esclusivamente gli interessi del potente di turno. Abbiamo quindi perso il nostro naturale slancio spirituale, sepolto dalle tonnellate di rifiuti che certi soggetti versano imperdonabilmente nelle nostre menti.

Prisoners of Christ

Penultima track del lotto, "Prisoners of Christ (Prigionieri di Cristo)" si apre con una voce che, dai pesanti effetti sonori ad essa applicati, sembrerebbe quasi venir riprodotta al contrario. Una voce simile a quella di un predicatore televisivo, che mano a mano si guasta sino a sfociare in un autentico concentrato di brutalità Death. Pesantezza asfissiante, velocità, blast beat sparati senza vergogna alcuna. Il sangue torna a sgocciolare putrido e denso da ogni fessura, ben presto il tutto viene esasperato dall'adozione di un riffing work di chiara forgia Slayer; l'insieme assume dunque i connotati di un assalto zannuto ed in your face. Un mix letale fra le band di Araya e Benton è quel che otteniamo: compromesso perfetto fra l'Assassino ed il Deicida. Una marcia letale, tagliente ed abrasiva. Un brano che non taglia, ma anzi sminuzza, direttamente, Minuto 2:32, dopo una serie di colpi di tom, il pezzo cambia volto. Si rallenta copiosamente, pur mantenendo intatto il riff di base. Di lì a poco, una doppia cassa precisa e puntuale fa il suo, inscenando una raffica di percussioni mitraglianti, compatte e fiere come un plotone di soldati. I tempi sono quindi più cadenzati, precisi e ragionati. Questo non priva Napalm della facoltà di urlare a squarciagola il suo disprezzo per la religione cattolica, sfoderando un growl da pagina 6(66) del "Manuale del Death Metal". Una lunga parentesi in cui le atmosfere di "Seasons in the Abyss" vengono condite da sprazzi di violenza e distorsioni tipicamente Death. Suoni pesanti, densi di brutalità sonora, costeggiati da un sound cupo ed allucinato. Ottimo a dir poco l'assolo di Docdeath, quasi "emozionato" ed "emozionale", in certi aspetti anche "sin troppo" melodico. Chitarra dal gran carattere, che va dunque a stemperare l'asfissia dell'ensemble. Una conclusione davvero particolarissima, per un brano magnificamente riuscito. In questo caso, l'anima Death e Thrash del combo convivono magistralmente e si compensano a vicenda, andando l'una ad esaltare le tipiche qualità dell'altra. Ulteriore testo anticristiano, "Prisoners.." mostra un profondo rifiuto, da parte del protagonista, per tutto ciò che concerne la dottrina cattolica. Egli non si lascia ingannare dalla falsa bontà dei cosiddetti "discepoli". Consapevole di avere l'oscurità nel cuore, quell'oscurità buona capace di fargli rigettare tutto ciò che veramente è malvagio, il Nostro tira un potente schiaffo sulla mano del cristiano, tesagli falsamente. La verità non è scritta nella Bibbia, e nessuno dovrebbe mai accettare un qualcosa "a scatola chiusa", senza mai chiedersi il perché. Se si facesse funzionare il cervello e la curiosità sgorgasse spontanea, la voglia di informarsi verrebbe da sé. E con essa, tutte le malefatte compiute dal gregge nazareno. Guerre, prevaricazioni, violenze d'ogni tipo. Prigionieri, i cristiani, di un'ideologia che si basa sulla voglia di sottomettere il prossimo, non lasciandogli libertà di scelta. Piuttosto che essere anch'egli un prigioniero, il protagonista urla in faccia agli adepti il suo disgusto più totale, per la loro essenza di servitori. Un uomo libero, il Nostro, che non sarà mai lo scudiero di nessuno. Morissero pure fra le fiamme, egli non li aiuterà mai. Anzi, è proprio il fuoco purificatore dell'inferno, il luogo in cui alcune persone dovrebbero stare.

Purgatory

Arriviamo quindi alla conclusione con "Purgatory (Purgatorio)", traccia numero nove nonché brano direttamente ripescato dal vecchio repertorio del gruppo. Gli Hastur, infatti, lo composero nel lontano 1994: motivo per il quale, nei credits sono presenti i nomi di Andrea Terrosu (autore del testo) e di Roberto Lucanato (chitarra solista). Notiamo come il riff iniziale sia estremamente debitore di band quali Necrodeath, presentando una ferocia a metà fra il Thrash ed il Black. Il proseguo mostra comunque un brano decisamente più cadenzato, presentandoci una strofa più pacata e contornata da sinistri sprazzi melodici. Tutto un espediente, forse, per esaltare quella che poi risulta essere l'impennata decisiva. Un'impennata degna dei migliori gruppi della prima ondata Black, la quale lascia poi spazio ad un rallentamento condito da chitarre soliste arpeggiate vagamente udibili. Chitarra solista, quella di Rob, che in seguito si prende la sua "rivincita", dividendo il suo momento solista in due tempi. Dapprima, sfoggiando un sound lento ed implacabile, di fattura Heavy-Black. Di seguito, andando a scivolare rovinosamente (in senso buono) nella velocità estrema e violentissima del Death. L'impennata del brano giova infatti al nostro Lucanato, decisamente ispirato e sul pezzo. Una parentesi estrema che ben presto si staglia su di un 4/4 abbastanza grezzo e massiccio, scivolando poi su tempi più cadenzati che di fatto chiudono quest'ultimo, ottimo brano. Un momento che, a ben vedere, dimostra ancora quanto gli anni '90 siano vivi e vegeti. Benché "retrodatato", il testo di "Purgatory" non si discosta minimamente da quelli sino ad ora scontati. Liriche al vetriolo contro la dottrina cattolica, versi che come visto sino ad ora spingono l'uomo a riflettere, a ribellarsi. Prima di tutto, il gruppo si chiede come facciano le dottrine religiose in generale ad avere ancora così tanti seguaci. Un qualcosa di inconcepibile, viste le quantità di idiozie da esse propagandate. Si parla di un aldilà quasi mitologicamente etereo.. eppure, per arrivarci, siamo costretti a vivere in un purgatorio senza fine, dovendo sopportare zitti e muti ogni tipo di dolore. Assurdo, in quanto l'uomo altro non è che il Dio di se stesso. Dovremmo infatti prendere atto di una verità fondamentale: la Verità, la Vita, consistono in quel che NOI vediamo. Non possiamo affidarci alle parole, agli occhi di qualcun altro. Chiudiamo una volta per tutte quei libri cosiddetti "sacri", ed iniziamo a giostrare la nostra esistenza a seconda di quel che NOI vogliamo fare. Stop dogmi, basta imposizioni; solo la pura, e semplice, volontà.

Conclusioni

Giunti alla fine di questo splendido viaggio estremo, per la prima volta mi ritrovo ad avere ben poche parole da spendere, cari lettori. Intendiamoci: non che il vostro affezionatissimo voglia liquidarvi con un semplicissimo "acquistate questo disco"; quel che non voglio, però, è al contempo appesantire la narrazione adducendo milleuno orpelli che alla fine non farebbero altro che minare la vera essenza di un lavoro del genere. Con quale aggettivo distinguere dunque l'essenza di "The Black River"? Forse forse, "coerente". Proprio perché "The Black River" è, in fin dei conti, un disco COERENTE. Come non se ne sentivano da un po', a dir la verità. Parlerò forse in maniera troppo "pedante", risultando magari un fossile del Metal Estremo. Ed accetterei eventuali rimbrotti, o critiche rivolte. Di una cosa, però, sono sicuro. Negli ultimi anni, difficilmente le nuove generazioni hanno avuto modo di approcciarsi ad un prodotto che fosse Death al 100%, esattamente come questo. Troppe sperimentazioni, troppe incombenze Avant-Garde, troppi tentativi di variare un genere che, in fin dei conti, deve per prima cosa essere ricordato nella sua reale essenza. Perché ben prima delle miscellanee goth, ben prima delle voci "pulite", ben prima delle onnipresenti tastiere, il Death era un qualcosa di grezzo, selvaggio e primordiale. Il dionisiaco d'ognuno di noi. L'essenza stessa della violenza, sfogata a suon di musica. Deicide, Morbid Angel, Obituary.. personaggi ben noti ad un certo pubblico di affezionati, ma non troppo ai ragazzi d'oggi. I quali, soprattutto nella fase della prima adolescenza, vengono sin da subito bombardati con proposte ai limiti dell'assurdo artistico. Miscele su miscele, particolarità su particolarità. E' giusto che sia così, lo ripeto. Ogni generazione ha la sua colonna sonora, dopo tutto. Ma se un amante del Rock aveva comunque il DOVERE di conoscere il Blues, se un amante dell'Heavy Metal aveva il DOVERE di sapere chi fossero i Led Zeppelin, un odierno amante dell'estremo dovrebbe ASSOLUTAMENTE NON SOTTOVALUTARE un album come "The Black River". Che, ammettendolo platealmente, tributa (ma NON plagia) tutto quanto di buono è stato fatto nell'America e nell'Europa più tardo ottantiane / novantine. In poche parole, gli Hastur ci hanno mostrato come si suona il Death Metal. Dalla prima all'ultima traccia di questo album. Una vera iniezione di vecchia scuola, sparataci in vena a colpi di mannaia arrugginita. Questo era, e questo per sempre sarà. Per tutti coloro i quali i tempi di "Altars of Madness", "Cause of Death", "Butchered at Birth" e "Reign in Blood" non sono mai e dico mai terminate, "The Black River" suonerà come una vera e propria bordata d'aria fresca. In un mondo odierno, eccessivamente perso dietro arzigogoli e trovate molto spesso discutibili, giunge quindi da Genova una manciata di riff marci e prepotenti a ricordarci che, in fin dei conti, è la semplicità che paga. Riportare in auge una tradizione mai sopita, ma negli ultimi anni forse un po' troppo dimenticata. A voler esser tutti "musicologi", del resto, si rischia di perdere la bussola. La quale, volenti o nolenti, indicherà SEMPRE e prevalentemente verso la direzione intrapresa da questi scalcinati liguri. Promossi a pieni voti.

1) The Black River
2) Consumer of Souls
3) Infamous
4) Possessed
5) The Clock of Evil
6) Hate Christians
7) Brain Buried
8) Prisoners of Christ
9) Purgatory