HARDHOLZ

Herzinfarkt

2016 - Massacre Records

A CURA DI
MARCO PALMACCI & LORENZO MORTAI
09/05/2016
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Tutti, necessariamente, dovrebbero essere al corrente di quanto la Germania abbia fatto e stia facendo, per il mondo del Metal. Dall'Heavy Metal al Death, passando per il Black, tutti i generi sono ampiamente densi e pregni di band teutoniche di gran classe e calibro. Partiamo dalla Storia, citando Running Wild, Helloween ed Accept, senza scordarsi dei Grave Digger, dei Rage o di realtà più di nicchia come gli Heavens Gate. Spostandoci verso il Thrash incapperemo nel cosiddetto "Teutonic Big 4", ovvero Sodom, Destruction, Kreator e Tankard; band affiancate da "satelliti di lusso" come Exumer ed Assassin, con l'aggiunta di nomi come Holy Moses e Living Death. Accasandoci presso il mondo del Death ecco che incapperemo nei Necrophagist e nei Debauchery, seguiti a ruota dagli Obscenity e dai Fleshcrawl (e dai Morgoth, aggiungerei). Non vi basta? Anche in ambito Black abbiamo di che ascoltare: Nargaroth, Tsatthoggua, Minas Morgul, Andras; un excursus (se vogliamo) enciclopedico, che mi sono sentito di porvi per sottolineare quanto le terre Teutoniche non abbiano nulla da invidiare ad Albione od al "nuovo mondo" oltreoceano. L'Europa "non insulare" può vantare una grandissima tradizione di bands il cui peso storico è stato a dir poco fondamentale per lo sviluppo di tutti i generi, è giusto affermarlo con forza. Un panorama così ricco di grandi nomi, inoltre, può fornire un sottobosco altrettanto prolifico e brulicante di band "meteore", gruppi che magari non potranno vantare la stessa continuità o importanza di Sodom e Running Wild.. ma che comunque esistono, ed è più che giusto avvicinare un orecchio / occhio anche a loro, per avere una conoscenza a 360° di ogni scena che si decide di approfondire. E' questo il caso degli Hardholz, gruppo originario della Thuringia ed attivo sin dal 1984, con annessa una pausa "sabbatica" che intercorre fra il 1997 ed il 2013. La loro storia affonda nelle radici dell'underground teutonico, consegnandosi al presente come tutto un susseguirsi di vicende che hanno portato i Nostri a far trionfare il proprio amore per la musica, su ogni tipo di avversità. Il progetto prese corpo grazie alla sinergia venutasi a creare, anni or sono, dai membri portanti e fondatori: i fratelli Michael "Der Hölzer" Brill e Frank "Franky" Brill non ci misero difatti molto a coinvolgere altri due loro amici nella propria intenzione di creare una band, inizialmente dedita ad repertorio che spaziava dalle cover di artisti famosi a loro pezzi inediti. Il genere adottato fu uno Heavy Metal venato di Speed, e subito gli Hardolz (che tennero il loro primo concerto ufficiale nella primavera del 1984) si fecero notare più per il repertorio originale che per altro. Sicuramente, la qualità non mancava: nel 1986 i Nostri decisero addirittura di divenire un quintetto, per meglio poter articolare i loro brani, proponendoli in maniera ancor più distruttiva una volta saliti sul palcoscenico. Siamo quindi nella seconda metà degli 80s, anno in cui i loro primi pezzi cominciano ad essere passati in radio, entrando anche in classifica; un successo che gli permette di viaggiare in tutta l'ex GDR ed addirittura di varcare i confini polacchi. Per arrivare ad una consacrazione discografica, però, bisogna aspettare il 1990, anno in cui la "Zong" rilascia uno split ("Speed Up - Heavy News") in cui gli Hardholz partecipano in veste di ospiti assieme ad altre due formazioni dell'underground teutonico: i Merlin egli Headless. La formazione attestata è la seguente: Michael e Frank alla sezione ritmica (rispettivamente, basso e batteria), Lutz "Roger" Rödiger e Lutz Edelhäusser alle chitarre più Stephan Buchfeld alla voce. I pezzi presentati furono "Asphaltlady", "Wieland, der Schmied" e "Tannhäuser"; solo tre brani, i quali comunque bastarono a far vedere di che pasta fossero fatti questi cinque metalheads. Nel 1991 gli Hardholz rilasciarono inoltre una demo autoprodotta di ben otto tracce, ma si dovette aspettare ancora quattro anni per debuttare ufficialmente in full-length. Un ritardo che purtroppo li mise in condizioni di svantaggio rispetto a molti altri gruppi loro contemporanei. Un vero peccato, vista e considerata la sostanziale qualità di un lavoro come "Jäger und Gejagte" (1995, il quale segnò l'entrata in formazione del chitarrista Maik Wetzel subentrato a Lutz "Roger"), un disco che non poté neanche beneficiare di un'attività di promozione od essere smerciato seriamente nei negozi, in quanto fu anch'esso autoprodotto, come la demo precedente. L'unica occasione di farlo scorgere ad un'audience importante si presentò quando gli Hardolz vennero chiamati a supportare gli allora più conosciuti Biest; tuttavia, gli sforzi non si rivelarono sufficienti, ed il disco cadde ben presto nel dimenticatoio generale. Proprio come la Demo precedente. Le difficoltà erano molte ed insormontabili, la band sembrava veramente non riuscire più a venir a capo della situazione; senza un'etichetta, senza la possibilità di far conoscere il loro debutto, senza prospettive.. il passo seguente fu il più drastico e li portò dunque a sciogliersi. Siamo nel 1997, quando gli Hardholz cessano definitivamente la loro attività. Da quel momento in poi, ogni membro intraprende una carriera a parte, più o meno importante. Michael si unì agli Eisregen (gruppo Death-Black con striature Gothic), con i quali registrò nel 1999 l'EP "Fleischfestival" e nel 2000 il full-length "Leichenlager"; Frank suonò in diverse altre band, fra cui Across, The Thors, Klappstuhl e Pyrox; di Maik e Stephan si persero invece le tracce, così come di Lutz, del quale non si attestano (fino a prova contraria) attività importanti dal 1997 al 2013. Proprio quest'ultima è la data da tenere a mente, proprio perché rappresenta l'esatto momento in cui i fratelli Brill e Lutz decidono di riprendere in mano le redini del loro progetto originario, cercando di dargli la dignità che avrebbe meritato anni addietro. A loro si unisce ben presto il giovane cantante Kelle, che completa la line-up ed ha dunque il compito di affiancare i tre esperti musicisti, che nel frattempo hanno incamerato un cospicuo background musicale da introdurre agli stilemi già rodati in passato. Uso di strumenti acustici (più tipici di realtà Pagan o Viking, come tutti sappiamo) uniti a ispirazioni classiciste che spaziano dagli Iron Maiden ai Metallica, più altre "sorprese" seminate lungo il sentiero: un mix perfetto che ci porta nel Febbraio scorso, momento in cui "Herzinfarkt", oggetto dell'odierno articolo, vede la luce. Il tutto è stato possibile grazie agli sforzi della "Massacre Records", e per la prima volta gli Hardholz si ritrovano ad essere supportati da una label seria e professionale, che permetterà loro di potersi far conoscere ed apprezzare anche più che in passato; e questa volta, cominciando un percorso basato su fondamenta solidissime. L'album è stato registrato presso i "Cold Ground Studio", prodotto e missato da Thomas Tiele. Del lavoro di mastering si è invece occupato Markus Stock, il quale ha messo a disposizione i suoi "Klangschmiede Studio E.", location in cui diversi gruppi hanno già avuto modo di accasarsi: dagli Eluveitie agli Ahab. Per l'artwork (di grande impatto, volendo assai "pittoresco") si è scelto di usufruire della longa manus di Tassilo Hörchner, il quale ha scelto di rappresentare due mani demoniache nell'atto di porgere un cuore incatenato. Quest'ultimo, rappresentato in maniera assai realistica, ai limiti dello "splatter". Fatte dunque le dovute precisazioni, possiamo quindi buttarci a capofitto nel mondo degli Hardholz, ritornati finalmente in attività e vogliosi di far capire a tutti quanto la loro storia non sia riconducibile unicamente al "passato". Let's Play!

Charon

Si parte spediti (più che spediti!) con la prima track, "Charon (Caronte)", ben aperta da un minacciosissimo riff che molto sa di Exodus. Giunge lesta la batteria a dettare un tempo prestante ed assai preciso, il quale garantisce un'andatura generale assai sostenuta e compatta. Il richiamo alla Bay Area è ancora molto forte, e quando subentra il cantato notiamo come questo non sia comunque selvaggio od aggressivo à la Baloff; anzi, l'ugola del vocalist sembra voler tradire qualche piccola influenza Heavy (lo spettro di Belladonna aleggia imperterrito), pur risultando decisa e comunque ben inserita in un contesto che spazia dai già citati Exodus agli stessi Anthrax. In maniera, dobbiamo dire, piuttosto piacevole. L'accento tedesco è poi una magnifica nota "di colore", in quanto la lingua teutonica (a parer di chi scrive) è sicuramente funzionale alla causa aggressiva che una band Heavy-Speed, di norma, vuole sposare. Le strofe marciano dunque toste e baldanzose, mentre il ritornello rallenta sconfinando in ritmi assai "tetri". L'aria, nel refrain, sembra divenire più asfissiante e claustrofobica; ottimo espediente, che di certo aggiunge un bel po' di pesantezza ad un contesto (già di per sé) molto ben tirato e sostenuto. Altra strofa ed altro refrain, struttura lineare ma piacevole, quando ecco che il minaccioso riff iniziale fa prepotentemente capolino e ci introduce un assolo che dapprima parte mesto ed in seguito esplode in una melodia velocissima e serratissima. Il tutto sembra riprendere l'aggressività degli Accept periodo "Restless and Wild", un richiamo Heavy che farà sicuramente felicissimi gli appassionati della vecchia guardia. Siamo, dopo tutto, al cospetto di una band che ha vissuto il periodo d'oro sulla sua pelle. Non dimentichiamolo! Assolo magnificamente portato a termine, c'è tempo per un'altra strofa e dunque per un nuovo ritornello, trascinato e dunque portato sino alla fine, con tutto il suo carico di oscura gravità. Un bell'inizio, breve e coinciso, classicista e magnificamente eseguito. Più che apprezzabile! Il testo, poi, risulta uno splendido rifacimento alla mitologia greco-romano-dantesca, in quanto viene citata (e già dal titolo, lo avrete capito) come protagonista assoluta una delle figure cardine dell'aldilà classico e medievale. Caronte, il demone nocchiero, il traghettatore delle anime. Un personaggio interessante, oscuro, in quanto il suo compito era esattamente quello di accompagnare i defunti nell'Ade, trasportandoli da una riva all'altra del fiume Acheronte. Come da prassi, l'anima passeggera era solita fornire al demone una moneta d'oro (sistemata in principio sotto la lingua del cadavere, una volta avvenuti la sua sepoltura ed il conseguente funerale), con la quale assicurarsi un posto sulla sua nave. Chi ne era sprovvisto (perché magari morto in mare, o disperso; in sostanza, chi periva senza ricevere una degna sepoltura), era invece condannato a vagare per l'eternità fra le nebbie dell'Acheronte, senza possibilità alcuna di scappare. Ben pochi "vivi", invece, hanno avuto modo di conoscere la suddetta figura: Teseo, Enea, Ercole, Odisseo.. eroi di un certo calibro, i quali hanno potuto interfacciarsi con Caronte in virtù del loro status di grandi condottieri, impegnati nei vari miti a confrontarsi più volte con gli Dei o con entità sovrannaturali. Il Caronte dantesco, invece, sembra abbandonare il ruolo "innocuo" che egli assumeva nel pantheon grecoromano, in favore di tratti più sinistri e satanici. Nella "Divina Commedia", il Demone è presentato come un mostruoso vecchio, urlante e sbraitante, intento a stipare sulla sua nave quante più anime dannate possibili. La loro destinazione è specificatamente l'Inferno (non più "tutto" l'aldilà) e dunque la figura si rivela ancella del Demonio in persona. Proprio questi tratti sembrano emergere nelle liriche, in quanto osserviamo le vicende di un uomo tormentato dal Mostro. Caronte lo insegue perché la sua ora è giunta e deve recarlo seco, sulla sua nave, verso l'Inferno. Nessuno potrà dunque salvare lo sventurato: nessun Angelo, nessuna preghiera, nessuna luce. Il suo destino è quello di bruciare nel regno dei dannati, maciullato perpetuamente dalle bocche di Cerbero (mitologica belva / cane a tre teste) ed immerso nelle fiamme più ustionanti. 

Die Prophezeiung

Tosta si avvicenda la seconda track del lotto, "Die Prophezeiung (La Profezia)", aperta da una roboante batteria e da un bel riff rugginoso e possente. Pregevolissimo uso dei tamburi, bei giri di doppia cassa, ritmo incalzante e basso in grande spolvero: ingredienti che, ben miscelati, donano vita ad un'apertura richiamante non poco i Testament. L'ascia solista si insinua ben presto nel contesto, cantilenando un'oscura melodia, la quale si interseca serpeggiante attraverso la pesantezza della ritmica e della coppia bass / drum, fino ad esaurirsi in una cospicua accelerazione. Momento in cui il contesto torna più ruggente e meno melodico; il batterista comincia a scandire un ritmo più lineare ed è dunque tempo di goderci un altro bel brano che sembra sputare "old school" da ogni suo solco. Una prima strofa ben eseguita e come al solito coadiuvata da un cantato in lingua madre che ben rende l'ideale di potenza che da sempre caratterizza il Metal teutonico. Anche questa volta, una variazione singolare avviene durante il sorgere del refrain. Melodico e quasi orecchiabile, sorretto da una chitarra che suona incredibilmente drammatica, quasi teatralmente Heavy. Un espediente non da poco conto, che garantisce dapprima una variazione importante nel brano e contemporaneamente ha il pregio di mostrarci una band ri-mettere in pratica tutto ciò che ha avuto modo di sperimentare durante gli anni d'oro. La passione per il vecchio Thrash americano (primi Metallica, Testament, Exodus) e per l'Heavy di chiara forgia europea (Accept, Iron Maiden) sembra infatti trionfare lungo queste open tracks, andandoci a mostrare una band assai in salute e soprattutto ispirata, ancora "scottata" dalla sacra fiamma del Metallo. La classe non è acqua, ed i Nostri lo lasciano intendere. E' sicuramente molto più piacevole udir provenire certi riff / ritornelli da una band di cinquantenni, che da una masnada di ventenni "nostalgici". Andando avanti, notiamo come anche stavolta la struttura del brano sia ciclica ed essenziale, e non passa troppo tempo prima di imbatterci in un bel solo questa volta più Speed Thrash del precedente, ma ancora una volta ben eseguito; esso sfocia di seguito in una parentesi strumentale melodica e drammatica (ben sorretta da un basso magnificamente calibrato, fiore all'occhiello della canzone tutta). Al termine di questo frangente, un'altra strofa ed un altro refrain, il quale viene protratto a lungo, sino ad una fine che giunge dopo un considerevole rallentamento. Chiudiamo quindi rimanendo su toni melodici e drammatici, in attesa dell'assalto successivo. Le lyrics di questo secondo brano si tingono di mistero, e ci presentano l'oscuro mondo delle profezie e degli indovini. Un protagonista, dei tarocchi, una predizione inquietante: ingredienti che potrebbero far la fortuna di un bel film o racconto a tinte horror, poco ma sicuro. In molti vedono "la lettura del futuro" come un gioco, un passatempo: eppure, dietro quest'arte c'è molta più sacralità di quanto la gente comune potrà mai credere. Una sacralità quasi ieratica, presso molti popoli e culture: per alcuni è cosa buona e giusta non stuzzicare gli "spiriti del futuro", affermando con forza il concetto secondo il quale gli anni venturi ancora non ci appartengono; e che sarebbe il caso di non disturbare il continuum spaziotemporale, per non provocare lacerazioni insanabili. Di tutt'altro avviso, a loro volta, tradizioni le quali vedono nel tarocco o nelle varie pratiche divinatorie un modo per poter meglio regolare la vita politica e militare dell'intera civiltà. Si pensi agli àuguri romani, o agli sciamani tutt'oggi esistenti presso diversi popoli (specialmente africani). In generale, l'arte della divinazione viene vista con rispetto dovunque meno che nell'occidente "civilizzato". Ed è proprio per gioco che il protagonista delle liriche si rivolge ad un oracolo, decidendo di farsi predire il futuro. Quel che ne viene fuori è un qualcosa di agghiacciante: sette anni di prosperità ed in seguito un periodo miserabile, vuoto, insignificante. Una carestia lunghissima, che di fatto eliminerà la gioia e l'abbondanza dei sette anni, protraendosi fino a data incerta. Vengono tirate in ballo diverse altre pratiche divinatorie: il "pendolo", la lettura della mano.. anche se, definitivamente, l'esito sembra scontato. Il protagonista sprona comunque l'oracolo affinché egli gli possa dire di più, anche se la profezia è compiuta. Sarà vero? Sarà falso? Il dubbio lo tormenterà lungo tutto l'arco coperto dall'auspicio.

Herzinfarkt

Arriva quindi il momento della titletrack, "Herzinfarkt (Attacco di Cuore)", aperta da un sinistro ticchettio. Quest'ultimo viene presto sormontato da una chitarra ruggente e sferragliante, dapprima intenta ad emettere note lunghe ed avvolgenti ed in seguito più serrate e veloci, procedendo a singhiozzo e venendo inoltre coadiuvata da una batteria presente e precisa. Il drummer si concede di quando in quando di "esagerare" un tantino, anche se deciderà all'ultimo di mantenere un tempo sì sostenuto ma per nulla selvaggio o forsennato. Il brano, infatti, sembra dimostrarsi di forgia smaccatamente Heavy, lungo il suo dipanarsi. Pesantezza Thrash e note sporche quanto serve, certo, ma non abbiamo corse od accelerazioni che potrebbero in qualche modo farci pensare a band largamente citate lungo le precedenti analisi musicali. Il contesto è comunque piacevole, anche quando abbiamo in fase di refrain dei piccoli "stop" nei quali gli strumenti riprendono lo stilema iniziale, unito sempre ad un notevole gusto per la melodia. La batteria può comunque pestare duro, ed il basso è sempre magnificamente presente e frastornate al punto giusto. Minuto 1:21, abbiamo la prima vera variazione del brano, il quale ci presenta delicatissime note di chitarra, assai melodiche. Un tipo di sound quasi "Folk", che sembra in effetti tingere il brano di un piccolo tocco "pagano". E' lesto, nel suo sopraggiungere, un assolo colmo di richiami Hard Rock, che parte leggermente in sordina (le note di ritmica sembrano continuare a spiccare) ma poi cattura la scena, esplodendo e godendo anche di un leggerissimo effetto che ben lo presenta alle nostre orecchie. Una variazione particolarissima che si infrange in una parentesi strumentale dal sapore, invece, N.W.O.B.H.M., la quale ci porta indietro nel tempo, facendoci per un momento ricordare i tempi in cui gli Iron Maiden esordivano nel mondo della musica con il loro primo ed omonimo capolavoro. Un improvviso "driiiiiiiiiin", come proveniente da una sveglia, ed abbiamo quindi una strofa (arricchita di continui rimandi maideniani) presto sopraggiunta da un refrain inserito al momento giusto ed al posto giusto. Quest'ultimo si diverte a procedere "a singhiozzo", sorretto nel background da un "bip" insistente, il quale ben presto si risolve in un fastidioso suono d'allarme conducendoci di fatto alla fine di un pezzo colmo di sorprese. Seguendo la scia di testi come "9-2-5" dei canadesi Anvil, anche le lyrics della titletrack si configurano come un duro attacco alla vita lavorativa, vista come stressante ed alienante. Tutto comincia con il primo allarme della giornata: il sole è già alto, la nostra sveglia grida. Con fare assonnato e seccato cerchiamo di spegnerla, per non disturbare la nostra partner, assai infastidita da quel suono insopportabile. La lasciamo ancora nel letto, quando ci accingiamo a bere del caffè, giusto per darci la carica. Con più sonno che volontà e con il corpo ancora intorpidito ci accingiamo dunque a recarci a lavoro. Gli orari della fabbrica non perdonano, la puntualità è la prima cosa. Inveiamo contro il traffico, preoccupati di ritardare. Una volta arrivati, timbriamo il cartellino. Le nostre nove ore di lavoro ci attendono: nove ore di gesti meccanici, ripetuti, da catena di montaggio. La nostra mente va al nostro caro letto, al calore della nostra casa.. quanto ameremmo, starcene ancora in panciolle. Ed invece siamo lì, unità di un ingranaggio cieco e sordo, il quale viene alimentato dalla nostra alienazione, dal nostro disagio. Il lavoro in fabbrica è pressoché durissimo, ma riusciamo a conquistare la fine della giornata, fra una difficoltà e l'altra. Arriviamo dunque a casa, giusto il tempo per mangiare qualcosa e tornare a letto.. pur continuando a subire la routine, in quanto siamo preda di tic nervosi e da riflessi condizionati, i quali ci portano a compiere anche in casa i gesti che normalmente compiamo in catena di montaggio. Paranoia allo stato puro, come se non dovessimo mai smettere di lavorare o produrre. Ci addormenteremo e ci risveglieremo, per poi ricominciare daccapo, già dalla mattina dopo. Sveglia, traffico, lavoro. Sveglia, traffico, lavoro. Non possiamo sfuggire dalla Macchina, siamo destinati ad impazzire in questo asfissiante tran tran, continuando a trascinarci come zombie.. fin quando lo stress non ci darà il colpo di grazia, facendo fare "tilt" al nostro cuore. Il quale collasserà definitivamente, messo ko dagli orari impossibili e dai ritmi insostenibili. Neanche un supereroe reggerebbe una vita del genere, figuriamoci un essere umano.

Praeludium Wielandia

Giungiamo alla quarta traccia, "Praeludium Wielandia (Preludio: la Storia di Weland)", la quale beneficia di un inizio "marinaresco". Sentiamo l'infrangersi dei flutti, percepiamo un mare ribollente, onde scalpitanti e rumore di gabbiani. Un inizio quasi alla "Under Jolly Roger", anche se il risultato non si tradurrà in una prorompente aggressione Power-Heavy. Un'intro ben presto sormontata da un arpeggio delicatissimo e da una voce declamante, profonda ed impostata. La chitarra continua quindi a tessere una melodia assai pacata e sognante, la quale ha dunque "sfogo" in una soluzione 100% Folk. Zufoli e campanelli, sonagli e ritmi medievaleggianti, stilema tipicamente à la Branduardi che verrà sicuramente apprezzato dagli amanti di un certo tipo di musica (per così dire) "settoriale" ed "antica". La sei corde non smette un secondo di tessere note magiche e fiabesche, quasi fossimo stati catapultati in un'altra dimensione, dominata da dame e cavalieri. Il tutto subisce un'improvvisa e particolarissima esplosione verso il minuto 2:27, momento in cui la chitarra elettrica si fa sentire, ben scorrendo attraverso le note "elfiche" sempre persistenti. In questo preciso momento sembra di ritrovarsi in un brano simile ad alcune produzioni dei rumeni Bucovina, mentre l'ascia sembra voler portare avanti discorsi Heavy, sfruttando stilemi Power tipici dei primi anni '80 (un qualcosa molto "Rolf Kasparek" sicuramente distinguibile). Per il resto, un brano che risulta sorretto da effettistica esclusivamente rimandante a tratti folkloristici, con tintinnii e vaghi accenni di synth particolarmente ben posti all'interno dell'economia generale del brano. Un bel modo per spezzare il discorso, l'introduzione di una novità coraggiosissima, visto e considerato il tema centrale di un disco come "Herzinfarkt". Una parentesi "tolkeniana" inserita in un tripudio di graffianti riff Heavy-Speed-Thrash. Tanto di cappello, possiamo senza dubbio rivolgere un plauso al coraggio e alla volontà di esprimere una bella e proverbiale "variazione sul tema". Dopo la "condanna" della vita lavorativa, è giunto il momento di immergerci nuovamente in una bella parentesi mitologica, ricca (questa volta) di rimandi al mondo delle saghe nordico germaniche. I Nostri si apprestano infatti a narrarci la storia di Weland, mastro fabbro leggendario, conosciuto anche con il nome di Völundr. Stando a quanto possiamo apprendere dagli antichi codex e scritti norvegesi, la figura di Weland compare per la prima volta  nella Völundarkviða, poema all'interno dell' "Edda Poetica", testo sacro della cultura Norrena. In seguito, la sua presenza fu attestata anche in diversi testi in old english: nella fattispecie, parliamo di opere come "Beowulf". Divenne inoltre assai famoso durante il periodo medievale, momento storico in cui fu noto con il nome francese di Galan. Tuttavia, il suo appellativo più importante resta quello di "Weland", il quale, tradotto, starebbe a significare "condottiero coraggioso". Era comunque noto per la sua grandissima abilità di mastro fabbro; abilità che lo portò di fatto a forgiare spade leggendarie, come Excalibur (famosa arma di Re Artù) e la Durlindana, ferrea appendice del condottiero Rolando. Gli antichi miti norreni lo vogliono anche condottiero, e difatti il prologo qui cantato dagli Hardholz sembra introdurci alle vicende subitamente spiegate dal testo successivo. In questi brevi versi ci viene quindi presentato un uomo nerboruto e possente, un autentico gigante dedito alla virile arte della lavorazione del ferro. I problemi avuti con il Re Nidud di Svezia lo porteranno quindi a combattere ed a vendicare la sua persona, oltraggiata dal sovrano scandinavo. Viene fatto riferimento ad una "pietra magica" che dovrebbe conferirgli immensi poteri, tuttavia la presenza di tale oggetto non è attestata in nessun poema a noi conosciuto. Potremmo dunque intenderlo come l'anello ricevuto in dono da Weland dalla moglie Hervör, di seguito rubatogli proprio da Nidud. Il proseguo è comunque affidato alle liriche successive.

Wieland, der Schmied

Capiamo dal titolo del quinto brano, "Wieland, der Schmied (Weland, il Fabbro)", come il precedente sia stato una sorta di "introduzione" a quest'ultimo. Dovremmo dunque considerare i due pezzi una sorta di "tutt'uno", nonostante nella tracklist vengano espressamente citati come separati. Un vero peccato, sarebbe stato bello unirli e considerarli quasi una suite, mossa che avrebbe fornito al disco un leggerissimo sapore "autorevolmente Prog". Poco male, comunque, visto che (in fin dei conti) quel che udiamo ha il suo indiscutibile fascino, risultando incredibilmente valido. Viene immediatamente presentato un attacco spiccatamente debitore nei riguardi degli Iron Maiden (visto anche il modus operandi del basso, il quale sembra suonare dichiarando il suo "amore" a Steve Harris) ed in generale tutta la prima strofa segue coordinate Heavy, fino ad infrangersi in un ritornello i cui cori epici ed i cui rallentamenti generali ci catapultano sia in America sia in Germania. Vecchia scuola U.S. Power, rimandi ai Running Wild (per il tono "piratesco" che il refrain sembra assumere).. stilemi che ancora una volta faranno felicissimi gli amanti della vecchia scuola. Il brano aumenta di intensità alla fine del secondo refrain, momento nel quale si abbandona l'epos per sfociare direttamente in una breve parentesi strumentale e quindi in un assolo potente e tirato. Un nuovo momento maideniano, un'espressione solista degna di Smith / Murray, la quale viene terminata da un breve rallentamento che di fatto introduce una nuova parentesi strumentale, nel quale udiamo una chitarra nuovamente epica e sognatrice. Il tutto è destinato a durare poco, in quanto una nuova strofa è lesta nell'avvicendarsi e nel presentarci un nuovo tripudio di Heavy Metal ottantiano. Ancora un refrain particolarmente sentito e ben eseguito, il quale si protrae a lungo e ci fa dunque magistralmente godere della vena epica dei Nostri, i quali decidono di affidare la conclusione ad un delicatissimo arpeggio.. almeno sulla carta: in quanto il vero finale è praticamente scandito da una breve riproposizione della "Quinta Sinfonia" di Ludwig Van Beethoven. Bell'omaggio degli Hardholz, dunque, ad un loro ILLUSTRISSIMO conterraneo. Avevamo dunque lasciato Weland alle prese con il crudele Nidud. Non è ben chiara la dinamica del rapimento, fatto sta (sempre riferendoci agli antichi poemi) che il Re Scandinavo decise di far "suo" il fabbro, riducendolo in schiavitù e costringendolo a lavorare gratis per lui, obbligandolo a forgiare armi e tesori confinato nell'isola di Saeverstod. Non pago, il tiranno decise di recidergli i tendini della gamba destra, per bloccargli ogni tentativo di fuga. Pene atroci che sembrarono comunque non bastare, al sovrano, il quale si spinse ancora più oltre: rubò a Weland il prezioso anello regalatogli dalla moglie e lo donò di conseguenza a sua figlia, depredando inoltre l'uomo di una spada leggendaria, che decise di tenere per sé. La rabbia di Weland, dunque, esplose in tutta la sua roboante potenza: il fabbro si ribellò a Nidud nel peggiore dei modi, colpendolo più psicologicamente che fisicamente. Difatti, dapprima il Mastro decise di uccidere i figli del suo aguzzino, i quali provavano comunque simpatia per lui e si recavano spesso a trovarlo di nascosto dal padre. Sfruttando la loro fiducia, Weland li uccise dunque a tradimento, conservando i cadaveri per estrarne tetri monili. Sfruttando i corpi dei ragazzi, difatti, realizzò delle coppe e dei calici con i loro teschi, dei gioielli con i loro occhi e delle spille / fermagli con i loro denti. I "regali" vennero dunque "gentilmente" recapitati al Re ed alla Regina, nonché alla loro primogenita. La famiglia reale si ritrovò dunque a bearsi di tali doni, esclusa la principessa, la quale capì la loro provenienza e ne rimase inorridita. Capì comunque quanto dovevano essere profonde le ferite e le sofferenze che spinsero l'uomo a tanto: decise quindi di perdonarlo e di recarsi presso l'isola ov'era imprigionato, per restituirgli l'anello in segno di pace. Weland, comunque, non si accontentò del pegno. Sedusse infatti la fanciulla, mettendola in cinta e di fatto "rapendola", scappando via dall'isola mediante ali costruite da lui stesso. La donna fu ben felice di seguirlo in questa bella avventura, stanca ed arcistufa del suo dispotico e crudele padre.

Bonusdreck

Giro di boa raggiunto con la sesta (nonché strumentale) track, "Bonusdreck". Si comincia con un riffing generale smaccatamente Thrash, fatto di chitarre a tratti pesanti e taglienti, ben spalmate lungo un bel tempo scandito da una doppia cassa chirurgica, la quale sa far bene la sua comparsa e sa palesarsi esattamente quando è il momento, senza mai strafare. Un altro esperimento interessante, in quanto (per l'ennesima volta) gli Hardholz sembrano non voler lasciare il tutto in balia del "prevedibile", presentandoci ancora una volta un brano sui generis. Che a parole è sicuramente pesante quanto un brano Thrash, ma a conti fatti viene mitigato da stilemi Heavy che si lasciano largamente udire, lungo tutto il suo dipanarsi. I rimandi ai primissimi Iron Maiden sono ancora una volta palesi, lapalissiani: un po' di "Transylvania", un po' di "Phantom Of The Opera", il tutto ben celato sotto la rugginosità delle asce e della potenza della ritmica; un ensemble atto a mascherare questi riferimenti, che sicuramente non sfuggiranno agli ascoltatori più esperti. Abbiamo poi un magnifico assolo all'altezza del minuto 1:45, condito da un sound leggerissimamente effettato e reso più "rotondo", sicuramente più spiccante. Il tutto si risolve riacquisendo comunque la rozzezza tipica della vecchia scuola, con tanto di momento in cui l'ascia, in solitaria, ricama un piccolissimo riff assai sferragliante. Il tutto continuerà dunque in questo modo, in maniera robusta e potente, lasciando addirittura sola la batteria (bel giro di tamburi, decisamente!) sino a sfociare nel minuto 3:07, momento in cui rallenta e la melodia ha dunque il sopravvento. Il basso, come in tutte le altre tracce, continua a farsi udire distintamente; valore aggiunto che crea di fatto un'atmosfera unica, un momento in cui le asce sembra addirittura strizzare l'occhio a certe situazioni Neoclassical, prima di lanciarsi in una nuova cavalcata. Quest'ultima, fedelissima al maestro Rolf Kasparek ed al vecchio Power Metal, quello degli anni '80 teutonici / a stelle e strisce. Su tempi sempre importanti e sostenuti viene dunque ripreso qualche piccolo sussulto "neoclassical", anche se il tutto si staglia definitivamente, sino alla fine, su espedienti in puro stile Running Wild - Iron Maiden - Thrash Bay Area. Una bella strumentale, nulla da dire. Non presenterà chissà che variazioni o tanto meno conterrà al suo interno passaggi capaci di far urlare al miracolo.. ma tant'è. Piacevole ed incalzante.

Jäger und Gejagte

Proseguendo in ordine troviamo  "Jäger und Gejagte (Preda e Cacciatore)"; già presente nel primo album della band, datato 1995, qui la canzone viene svecchiata e riproposta sotto altra luce. Il brano parte con un melodico e leggiadro intro di chitarra acustica, pochi accordi ripetuti per alcuni secondi, prima che una martellata di batteria faccia da apripista al brano vero e proprio. Le pelli, deflorate sotto i possenti colpi, si aggiungono ad alcuni lisergici e pesanti accordi di chitarra elettrica, che iniziano a dare il ritmo giusto e ci fanno piombare in una atmosfera da film post-apocalittico.  Quando invece sembra che il brano sia veramente partito, ecco che scopriamo che gli accordi melodici che ci avevano fatto da apertura di canzone non se ne sono andati del tutto, ed i primi trenta secondi di canzone sono un continuo barcamenarsi fra due pendoli che oscillano, andando a toccare una volta gli accordi bassi e gravi, a cui poi fanno da contralto le pesanti pennate di chitarra e batteria. Una volta che il tam tam è finito, il brano prende il volo andando a distorcersi e a ramificarsi sempre di più, grazie al sapiente ausilio della doppia cassa, che funge da contenitore di risonanza e permette alla chitarra elettrica di abbarbicarsi sempre più su sé stessa ogni secondo che passa. Il brano fin dai primi accordi risulta essere appetibile ed abbastanza geniale, grazie al suo particolare intro (che riferendosi al titolo potremmo paragonare al confronto fra cacciatore e preda) e al ritmo che poi ne consegue. Una volta che la martellante cassa unita alle acide pennate della sei corde fa il suo ingresso, dopo poco subentra anche la voce, che grazie alle parole pronunciate in lingua teutonica, conferisce forse ancora più verve al brano, andando a martellarci la testa e rendendo la suite più incisiva. La voce qui sceglie di adoperarsi, per il momento, in un vocalizzo lineare e pulito, senza troppi orpelli e al suo ingresso senza neanche lanciarsi in voli pindarici come acuti o scream, pura energia Metal che scaturisce dalle sue corde vocali. Supportato dalla sezione ritmica, Kelle continua ad arrampicare la propria voce sugli specchi del ritmo incalzante (rispetto a Stephan, primo frontman della band, la voce di Kelle poggia si le basi sulla tradizione e sul modello classico dell'Heavy, ma aggiunge anche un pizzico di personalità andando a toccare toni decisamente diversi), ma mai eccessivo, finché, a circa un minuto e venti secondi, abbiamo il primo bridge del pezzo, che ci traghetta verso alcuni accenni di riff, i quali si annodano su sé stessi grazie alle sapienti mani di Ede. Il gusto che ne evince dall'ascolto è quello di una formazione compatta, pronta anche ogni tanto a sperimentare i propri limiti (l'intro ne è un esempio), ma fondamentalmente votata alla tradizione, e senza mai compiere veramente il passo verso l'estremo, ma rimanendo saldamente ancorati alle basi ottantiane e settantiane del genere, condendo ovviamente il tutto con un pizzico di modernità, che non guasta mai. I riff che si susseguono vengono coadiuvati dalle pelli, che dimostrano una discreta padronanza dello strumento, andando spesso e volentieri a dare il ritmo e supportando la voce ed i cori ad ogni piè sospinto, senza mai però prendersi troppo spazio. Nonostante questo però, il brano scorre piacevolmente, e la sua cadenzata di base diventa sempre più martellante, e mai noiosa, ma riesce a tenere l'ascoltatore saldo nel suo prosieguo, per riuscire a capire come andremo avanti. E "l'avanti" lo raggiungiamo circa a due minuti e trenta, quando gli Hardholz mettono in piedi un pregevole solo di chitarra, dalla matrice classica e comunque non banale neanche quest'ultima, grazie alle mani di Ede che sanno bene come spostarsi sul ligneo manico della sua sei corde. Il solo continua la propria corsa ramificando il proprio sound, e senza mai distorcersi eccessivamente, il che per i puristi sarà una vera e propria gioia. Nelle corde e nel sangue della band infatti, e se lo abbiamo visto nei brani precedenti, questo non è da meno, scorre il sangue del Metal teutonico, ma non il Thrash o lo Speed, col loro carico di aggressività e acredine nel proporre la propria musica, piuttosto quanto quei filoni basilari che hanno fatto da scuola a schiere intere di band, senza contare anche svariate influenze di scuola US o inglese. L'assolo si protrae per diversi secondi, finché, grazie alla segnalazione della batteria che da alcuni secchi colpi ai tom, non si torna al main theme che ci aveva aperto il brano poco dopo il melodico inizio "reale" del pezzo. Il cantato qui si fa leggermente più incisivo, ed abbiamo anche il reloop del ritornello, con la contaminazione dei riff che si alternano alle sprezzanti liriche di Kelle, finché un silenzio della voce ci trasporta all'ultimo blocco, nel quale un ritmo quasi militaresco con la batteria in primo piano pronta a fracassarci la testa, non ci accompagna ad un altro bridge a cui sussegue la ripetizione ossessiva del tema portante. Tema che viene spremuto di ogni sua ultima goccia finché gli stessi melodici ed effimeri accordi che avevano albergato nel primo secondo di pezzo, non tornano alla ribalta per darci l'estremo saluto e finire in dissolvenza la canzone. Ovviamente parliamo di uno scontro in questa canzone, già, ma che scontro? Beh, non necessariamente quello fra cacciatore e preda, come la traduzione del titolo possa far pensare, bensì quei tipi di scontri che sopraggiungono quando ormai non c'è più niente da fare. Gli Hardholz mettono in piedi uno scenario da fine del mondo, con il protagonista che attorno a sé non vede altro che morte e distruzione, persone con asce conficcate nel cranio e tanto dolore. La sua anima però, ed egli lo sa, è sporca come quella di tutti gli altri, e la fine che sta per sopraggiungere, in realtà egli se la merita tutta quanta. Ed allora, il fantomatico cacciatore, che possiamo considerare non propriamente come un essere corporeo, ma anche come la coscienza che va a mordere l'anima di chi ha commesso peccati, esce fuori dalla propria tomba ed inizia a cacciare la sua preda. Non si può riposare, non c'è fermo né stop per chi ha peccato, finché il giorno del giudizio, in cui ogni uomo riceverà il proprio tributo di sangue e sofferenza per quel che ha fatto, nessuno può permettersi di fermarsi. Saremo anime che vagano sulla terra senza meta, col fine ultimo di sperare nella salvezza pentendoci di ciò che abbiamo fatto, ma forse la benevolenza di chi sta sopra di noi, non sarà altrettanto ferma e convinta.

Hartholz

Di ben altro avviso ritmico rispetto al brano appena concluso e "Hartholz (Legno Duro)", traccia numero otto. Un andante iniziale che potrebbe far invidia ad una canzone dei Motorhead ci fa da apripista, con la sei corde, ed il basso soprattutto, che danno sonori colpi ai loro strumenti grazie a slap precisi e pieni di energia. Il carismatico intro viene seguito a ruota da alcuni tonfi possenti e rocciosi delle pelli, ed il brano prende energia risputandola a noi ascoltatori. Ciò che ne consegue è un andante di stampo quasi Speed/Heavy, con un girotondo di note che vengono ripetute fino alla nausea, e con un ritmo acido e frizzante che ben ci fa scuotere la testa e muovere le mani a tempo. Quando subentrano anche totalmente le pelli, rispetto agli accenni che ci aveva dato qualche secondo prima, è anche l'esatto momento in cui Kelle fa il suo trionfale ingresso al microfono, scimmiottando un tipo di vocalizzo misto fra il classico stampo Heavy di scuola inglese, ed un pizzico di possenza americana, andando anche a toccare toni che potrebbero far pensare allo squillo acuto di Mustaine (con le dovute misure di distanza nel prendere questa affermazione). Mentre Kelle continua ad infiammare il pubblico, il comparto ritmico implode ed esplode ogni secondo che passa, andando a foraggiare tanto la scuola antica quanto quella moderna, e barcamenandosi fra la scelta di ritmi serrati, ed alcuni momenti di stanca che fanno riprendere fiato anche al pubblico. Una bella dose di energia dopo le melodiche note sentite nel brano precedente, e che ci danno una sonora sveglia mentre andiamo a sentirle; il brano incalza sempre di più, col suo carico di Speed ben congeniata e che non soffre del "già sentito". Certo, le basi sono quelle, e sono sotto gli occhi di chiunque abbia un minimo di apertura mentale a livello di generi e sottogeneri, ma gli Hardholz riescono a rendere abbastanza bene e a far tornare questo tipo di musica ai fasti di un tempo. Non dimentichiamoci infatti che i nostri metallers teutonici sono sulle scene dal lontano 1984 (considerato per antonomasia l'anno d'oro dell'Heavy classico, con una tonnellata di uscite da riscoprire ed avere), e fatta eccezione per Kelle, subentrato nel 2014, il resto della formazione calca i palchi del mondo da un bel po'. Ed infatti nel modo di portare avanti e comporre i pezzi, questa tradizione così lontana nel tempo si sente eccome; nonostante questo però, la band gioca la carta della nostalgia canaglia in modo molto molto intelligente, andando a scavarsi anche una fetta di pubblico amante del moderno grazie ad alcuni inserimenti come si può sentire nella sezione ritmica, ma anche nel brano che è appena passato, epico e cavalleresco dal sapore datato, ma che solca parallelamente il filo del moderno. Poco prima che si arrivi al minuto di ascolto, abbiamo la prima variazione del pezzo, che consta di una accelerata non troppo poderosa, ma che ci fa iniziare ad aumentare il passo ed il battito delle mani, mentre la band continua a scatenare l'inferno. Forti delle tradizioni e del periodo che li ha visti nascere, gli Hardholz continuano la propria corsa durante il brano andando ad incalzare il ritmo sempre più, mentre il buon Kelle fa la sua sporca parte fornendoci cori e toni su cui intonare i nostri durante i live. Ed anche qui, forse più che nel brano ascoltato in precedenza, la lingua teutonica mette il suo zampino sulla resa finale del pezzo stesso; le parole pronunciate, forti della glottologia tedesca che prevede lettere e pronunce assai secche ed incisive, fanno si che l'intero testo diventi bello aggressivo anche senza l'intenzione focale di volerlo fare. Ed in questo va ringraziato anche Kelle stesso, che non cerca mai di imitare lo storico frontman della band, ma anzi, come abbiamo sentito nella ri-edizione del pezzo storico, ed adesso in un inedito, il nostro giovane metalman cerca di dare una propria impronta a tutti i brani, supportato ovviamente dalla meravigliosa musica che lo circonda. Poco da fare dunque, se questo da una parte è un album che ha qualche spolverata di moderno, dall'altra, ed è una caratura pesante, è un disco per nostalgici incalliti quali noi siamo, quelli che vorrebbero musicalmente vivere ancora nel 1986, avere mille vinili in casa e poster alle pareti come se piovesse. Verso i due minuti l'intera suite decelera bruscamente, permettendo alla batteria di Franky di intraprendere un macabro e sassoso intermezzo, alternandosi con la sei corde che è sempre lì pronta a dargli man forte. A questo poi un'altra rullata delle pelli porta il pezzo ad un andante di stampo davvero classico, in cui abbiamo il main riff al di sopra, e dietro le pelli che danno il ritmo unite alle spesse corde del basso, finché il riff non si tramuta in solo, che si prolunga a più non posso. Il solo, una volta finito, lascia nuovamente lo spazio a Kelle ed alla sua ugola vetrosa, che ci fa arrivare all'ultimo blocco della canzone, in cui abbiamo prima la ripetizione del ritornello, e poi un altro andante massiccio e granitico alternato ad alcune accelerate improvvise, di scuola Speed ed Heavy al tempo stesso. Una volta che ciò è finito, una rullata veloce di Franky va a concludere il pezzo, mentre al di sotto il comparto ritmico spara le ultime cartucce mettendo in piedi una cacofonia sempre ragionata, che va a collimare nella dissolvenza finale. Questa invece è una canzone che mette i puntini sulle I ad una frase sola; mai arrendersi. Il brano infatti ci incoraggia e ci sprona ad essere duri come il più duro dei legni, quelli che anche durante una enorme pioggia e tempesta, non piegano il proprio fusto alla furia degli elementi. E lo stesso noi, ciocchi di granitico legno, dobbiamo fare nella vita: quando ci sentiamo in difficoltà, quando la vita sembra voglia fregarci, quando scopriamo verità che mai avremmo voluto sapere, quello non è il momento di arrendersi, assolutamente. E' quello il momento di tirare fuori le unghie e gli affilati denti, mordere la vita sulla schiena e far si che essa ci ubbidisca. Dobbiamo essere proprio come il legno, che si inclina, si piega fin quasi a spezzarsi, ma il crac definitivo non arriva mai. Quando arriva, anche per gli alberi, è sintomo che anche la pianta stessa non voleva più vivere. Non importa come, né quando, né in che modo, l'importante è andare avanti, sempre e comunque, anche quando il muro che ti trovi di fronte di sembra insormontabile, anche quando la strada è impervia, non bisogna arrendersi, la nostra forza è maggiore di quella che pensiamo, e se ci vestiamo di armatura e spada, possiamo affrontare qualsiasi ostacolo, anche passando per la stessa strada, con la consapevolezza di non rifare più certi errori.

Asphaltlady

Il prossimo brano in scaletta è "Asphaltlady (Signora dell'Asfalto)", che accoglie le nostre orecchie grazie ad un roccioso riff di chitarra unito alle pelli, con un ritmo incalzante e martellante fin dal primo secondo, cui fanno eco le corde del basso, che per quanto si "perdano" abbastanza nel marasma musicale, risultano comunque orecchiabili. Ciò che risulta essere assai piacevole mentre si ascoltano gli Hardholz, è la loro capacità di unire assieme poliedrici suoni, pur essendo la classica formazione a quattro elementi, come nella migliore tradizione. Specialmente il comparto chitarristico, pur potendo contare su un solo strumento, riesce a condensare insieme vari tipi di ritmo, al fine di stupire sempre il pubblico e farlo rimanere incollato alle cuffie o con lo sguardo fisso su di lui mentre suona. Proseguendo in ordine, ai primi secondi così aggressivi ne seguono altrettanti in cui la sezione ritmica si prende un grosso spazio per esprimersi, fino all'ingresso della voce di Kelle, qui con un cantato ancor più rabbioso ed incisivo di quanto sentito nei brani precedenti, ed il tutto viene coadiuvato da cori incessanti e dal sapientissimo uso della distorsione alla sei corde, che va ad alimentare l'andamento del pezzo infondendo sempre grosse dosi di energia. Lo stile vocale più aggressivo, unito alla lingua che ormai abbiamo capito essere un'altra arma vincente degli Hardholz, fa si che questa nona traccia cambi e sia in continua evoluzione mentre la stiamo sentendo. I cori sempre azzeccati si alternano ai riff portanti dell'axeman, che con mani e dita veloci percorre il proprio manico senza sfociare in tapping o hammer on, ma riuscendo comunque a dare la propria frustata all'ascoltatore. Una volta varcato il primo minuto di ascolto, preceduto da un altro riff annodato su sé stesso, abbiamo l'alternanza di quest'ultimo ai cori, e poi una brusca accelerata che fa decollare il pezzo e che ci porta alla sua sezione centrale, in cui Kelle si alterna al comparto ritmico che alle volte gli fa da contrappeso, altre invece si ritaglia il proprio spazio per esprimersi. Il loop del brano, al momento, sembra essere più o meno questo, e cioè dare sfoggio di abilità e tradizione, alternando queste ultime a comparti veloci e compatti nella resa, il tutto sormontato dalla parte canora, che fa sempre la sua figura. I cori si susseguono come impazziti mentre ci avviciniamo al momento che farà da porta per il roboante finale, e qui la band decide di concedersi prima dello scoccare dei due minuti, un enorme momento corale dal sapore classico, con l'intera suite che fa tremare la terra sotto ai piedi grazie ad un ritmico e ripetuto andamento, a cui poi fa eco un energico solo di chitarra, come sempre annodato e costante, corde infiammate senza mai esagerare, soltanto la pura e sacrosanta energia del Metal che scaturisce e ci investe come un fiume in piena. Il solo viene allungato e tirato per i piedi finché la forza continua a scorrere, mentre dietro le pelli producono lo stesso ritmo per dare il tempo; a seguito di ciò un'altra accelerata dei toni, stavolta ancor più aggressiva, fa da ponte con il ritorno della voce e la conseguente ultima sezione del pezzo. Sezione in cui Kelle si alterna a piccoli soli della sei corde e poi nuovamente al chorus, come sempre suonato e cantato in maniera pulita. Al finale vero del brano ci arriviamo con uno sferragliante crescendo che va a collimare in una enorme distorsione prima della dissolvenza, in cui tutto tace e rimane soltanto il fruscio bianco del rumore di fondo a farci compagnia. Testo non troppo impegnato in questo caso, andando a riprendere quei modelli lirici tipici dei gruppi Metal motorizzati, come potevano essere i Saxon o i Def Leppard di inizio carriera, ma anche altrettante formazioni tedesche che nella prima parte di vita hanno dedicato almeno una canzone alla voglia ed al desiderio di libertà su strada. Qui esso è unito al personaggio della "donna d'asfalto", una specie di musa ispiratrice, che potrebbe essere la moto o la strada stessa, che accompagna il protagonista. Ella è volubile, piena di emozioni e piena di sentimento, ma al contempo se si sbaglia con lei, le conseguenze sono catastrofiche. Si rischia di inciampare e battere sonore testate contro il duro asfalto della strada, ma lei sarà sempre lì, personificata in una biker vestita di pelle e borchie, amante della velocità e delle cromature. Ed allora, per dare corpo e fiato al nostro desiderio, non ci resta che inforcare la lucente due ruote che abbiamo, spingere il gas al punto da infiammare le gomme, prendere una strada e percorrerla finché abbiamo voglia, finché il nostro desiderio di libertà non sarà risanato. Lei, la donna dell'asfalto, sarà sempre con noi, al fianco di tutti gli uomini che vorranno desiderarla, che vorranno avere a che fare con lei, i suoi lucidi pantaloni borchiati e la sua smodata voglia di vedere sempre il contagiri al massimo, saranno il leitmotiv della nostra vita, a patto che non tradiamo la sua fiducia. Mano salda sullo sterzo, sprezzanti del pericolo, vento in faccia e cuore in gola, questa l'arma vincente per assaporare sulla lingua la reale sensazione della libertà. Un pezzo semplice, certo, ma unito ad una lirica tutto sommato appetibile a chiunque, ed a ritmi musicali incalzanti, risulta essere piacevole e rimane in testa fin dai primi ascolti.

Tannhäuser

Un altro metallico intro ci fa da traghetto iniziale per la decima traccia, "Tannhäuser": l'intro così aggressivo, che va subito a barcamenarsi fra accelerazioni e decelerazioni, ben presto viene spaccato in due prima da un tagliente riff di chitarra, e poi dal decollo nella stratosfera che la canzone prende prima di varcare la soglia del minuto. Ci ritroviamo a correre come pazzi mentre la band ci fracassa il cranio con questo andante così energico, e che per la seconda volta dopo Hartholz, ci da una sonora svegliata di quelle che ti fanno cadere dal letto e battere la testa. La corsa prosegue in strumentale, con l'intera suite che implode e deflagra sotto i nostri occhi, ritmo serrato e nessuna pietà per l'ascoltatore, specialmente da parte della batteria. Grancassa, doppia cassa e tom la fanno da padrone, unite ai piatti che vengono malmenati e percossi fin da subito, unite ai lisergici riff della sei corde, che si collegano poi all'ingresso di Kelle. Frontman che qui sfocia il proprio cantato quasi nella tradizione Speed/Thrash, supportato probabilmente anche dall'anima del pezzo, e spreme la propria ugola tirandone fuori un vocalizzo bello aggressivo e comunque assolutamente non banale. Si incastra infatti alla perfezione nella canzone stessa, andando come sempre a farci muovere le folte chiome al vento ed a ritmo con l'incalzante canzone, mentre attorno a noi si scatena l'inferno. Al primo chorus ci arriviamo ed i nostri mettono in piedi il primo cambio tempo, divenendo più ritmici e cadenzati, per dare anche modo al coro di esprimersi, ed a Kelle di sparare ulteriori cartucce dal proprio mazzo. Neanche il tempo di calmarsi, e di nuovo siamo nella mischia con e per la band, ad alzare le corna al cielo ed a costruire un enorme moshpit in cui immergerci fino al collo. Questa è sicuramente una canzone che rende al meglio delle sue possibilità sul palco; il carico di cattiveria mai fine a sé stessa, e comunque forte delle tradizioni classiche, è la lucente spada e l'arma vincente che gli Hardholz tirano fuori in questo frangente, andando a foraggiare la nostalgia si, ma anche a farci vedere come sono quando davvero si arrabbiano. Piccoli elementi della NWOBHM si fondono con la sprezzante acidità dello Speed tedesco, unito anche ai soliti tasselli di US memoria, che ormai permeano tutto l'album, particolarmente in alcuni riff e bridge di chitarra, ma anche in altrettanti passaggi della voce di Kelle. La corsa prosegue vorticando su sé stessa, il pezzo incalza sempre più, gonfia il petto e scatena una tempesta nelle nostre orecchie, l'incessante sei corde sembra non averne mai abbastanza, così come la batteria di Franky ed il basso di Holzer, due elementi che desiderano soltanto macinare note come schiacciasassi. Anche il chorus centrale, su cui si costruisce il ritornello grazie alla ripetizione di alcune parole evocative, riesce ad essere vincente, mentre dietro ai cori vocali ed a Kelle che incalza il ritmo, la sei corde di Ede ricama sopra come un abile sarto, mettendo in fila combo ed inanellandole fra loro grazie a passaggi sempre precisi ed azzeccati. A seguito della sezione centrale, dopo un urlo profondo e gutturale del frontman, un assolo mastodontico e di matrice Speed ci apre in due le orecchie, si intreccia su sé stesso ed il buon Ede da per l'ennesima volta sfoggio della propria abilità compositiva, sfornando per la prima volta anche alcuni cenni di tapping, ma particolarmente concentrandosi sui saliscendi e sui pull off del proprio strumento, usando anche molto la distorsione e la pennata alternata. In tutto questo il brano dietro continua imperterrito la sua corsa, e quando il solo spira il suo ultimo respiro, il brano riprende al volo consapevolezza di sé, e monta una struttura finale degna della miglior scuola classica, con un susseguirsi di chorus e poi il grande solo finale che ci porta alla dissolvenza, quasi come se fosse la parte 2.0 di quel che abbiamo sentito qualche secondo prima. Il titolo non è a caso, come non a caso è l'argomento della canzone; esso infatti vuole, e riesce, essere un omaggio al grande compositore Richard Wagner, ispiratore di tante e tante metal band nel corso della storia (Manowar su tutti, per esempio, sfociando in un vero e proprio culto, fino ad essere definito da Eric Adams e soci come il vero creatore dell'Heavy Metal). Wagner, delle tante opere scritte, ne ha confezionata anche una, nel lontano 1842, conclusa e musicata per la prima volta solo 3 anni dopo, intitolata appunto Tannhäuser (o nella versione italiana: Tannhäuser e la gara dei cantori della Wartburg). E' un'opera in tre atti che affronta vari tipi di argomento: particolarmente si concentra sulla distinzione e separazione fra sacro e profano, e sulla redenzione attraverso la via dell'amore. Il poema si concentra sulla figura del Trovatore, un uomo che, sedotto da Venere, riesce ad abbracciarla, rendendo reali così le sue voglie ed i suoi desideri. Egli poi, bloccato sul monte in mezzo ad un'orgia di satiri, baccanti ed amanti, desidera ritrovare la propria serenità cristiana, e quindi intona un canto con la propria arpa alla dea, che si chiude con una richiesta di libertà. La dea però rifiuta, dato che il nostro uomo ha dichiarato di cercare libertà nel nome di Maria Vergine,  ed il nostro trovatore farà di tutto, nei tre atti che compongono l'opera, per riacquistare la propria libertà perduta, attraverso l'amore e la comprensione, riuscendo alla fine ad invocare persino la santità. L'opera si divide negli atti a seconda delle stagioni e dei "momenti di vita" che passano, fino ad arrivare al gelo perenne dell'inverno. Gli Hardholz decidono di omaggiare questa opera e soprattutto il suo compositore, musicando un testo che ha svariati riferimenti al testo originale; abbiamo il ritornello, in cui il Trovatore implora Venere di liberarlo, accusandola persino di avere una pietra al posto del cuore, e poi le svariate invocazioni, e la palpabile sofferenza del protagonista nel non ricevere ciò che vuole veramente, ossia essere libero. Grazie anche alla musica così aggressiva, questo pezzo risulta come uno dei più belli di tutta la suite, immediato, veloce, cattivo al punto giusto, e con un testo che, con le dovute distanze, risulta anche essere impegnato, nonostante molti elementi siano scarni e riassunti, se non altro è grandemente da apprezzare l'omaggio al grande compositore.

Spiel mir das Lied Vom Tod

Chiude l'intero disco una composizione strumentale di quattro minuti, intitolata "Spiel mir das Lied Vom Tod (C'era Una Volta il West)"; prendendo consapevolezza della traduzione del titolo, si capisce bene perché il blueseggiante ed effettato suono di una armonica a bocca ci apra la canzone. Ci fa apparire nella testa una serie di scene, come se fossimo i protagonisti di una pellicola del grande Sergio Leone, mentre in parallelo con l'armonica leggiadri e piccoli accenni di chitarra acustica fanno il loro ingresso sulla scena. Ci sentiamo cowboys nella prateria che vagano per le polverose strade di una Mine City dimenticata da Dio e dagli uomini, entriamo nel saloon e qualcuno ci guarda storto, siamo forestieri. La polvere delle nostre scarpe ci copre anche le caviglie, il sadico sole del deserto che circonda la frontiera acceca la vista ed annebbia la mente, gocce di sudore ci solcano il viso, mentre il duopolio armonica/chitarra continua la sua corsa. A questi cominciano piano piano a far capolino altrettanti riff di sei corde, che poi sfociano in un intro di assolo vero e proprio, aiutati anche da precisi e sprezzanti colpi di batteria, tonfi sordi che echeggiano nelle nostre orecchie. Con pennate sempre più epiche ed incalzanti, andando a produrre un ritmo che veramente non sfigurerebbe in una colonna sonora, arriviamo alla prima esplosione del pezzo, in cui, raggiunto l'apice con la chitarra, l'intera suite prende e salta in aria come se avesse una carica di dinamite sotto di sé, andando in pezzi. Quando pensiamo che allo scoppio segua magari un enorme solo, invece la band ci stupisce nuovamente andando a riproporre l'andante iniziale, con il dualismo fra armonica ed accordi acustici. Già ci aveva stupito all'inizio, nel proporre in un album del genere un pezzo come questo, ed ora, ci continua a far rimanere di sasso portando la canzone al livello più alto, e poi scagliandola giù senza remore, tornando al punto di partenza. Altrettanti accenni di chitarra elettrica si sovrascrivono a quella acustica, finché nuovamente il pezzo non prende il volo come aveva fatto in precedenza, andando a sguainare le armi e mettendo in piedi un solo degno di questo nome, epico, costante ed incalzante senza freno, che si allunga e mette le proprie spire attorno al nostro collo, per sibilarci nelle orecchie. Ede trascina la sua sei corde sul fino dell'eterno mentre Franky detta il tempo e si concede anche momenti di improvvisazione qui e là, senza mai esagerare del tutto, ma risultano al contempo azzeccati. Una volta che l'esplosione è finalmente partita, e non come prima, gli Hardholz possono dare fiato alle trombe in tutta la loro possanza, e le combo si sprecano, fino all'ennesimo ritorno al blocco iniziale, con quella dolce armonica che va a chiudere tutto quanto. Un brano davvero strano questo, pieno sicuramente di pathos, energia e sperimentazione, la prova che la band non ha voluto essere veramente mai banale, specialmente con questa ultima traccia; ascoltandola ci vengono in mente deserti infuocati, cactus, ed un solitario cavaliere che vaga per le terre in cerca non si sa bene di cosa. Sigaro acceso in bocca, poncho a coprire le spalle e cappello a tesa circolare sulla testa, barba incolta ed il lucente manico e canna di una Colt che spunta dai pantaloni. Il cavallo procede imperterrito, mentre la bocca del cavaliere intona una strana melodia armonica, il West come tutti noi ce lo siamo immaginato guardando qualsiasi film, dai più famosi ai meno conosciuti, tutti quanti pensiamo alla vita di frontiera così, polvere, sangue e sudore della fronte, condito da colpi di pistola, whiskey, belle ragazze, saloon ed impiccagioni. E gli Hardholz, in quattro minuti scarsi, sono riusciti a farci suscitare tali emozioni, una degna chiusura di un degno disco.

Conclusioni

Signori, qui il messaggio è abbastanza chiaro: se avete amato le scorribande d'acciaio dei Medieval Steel, se piangete ogni volta che il disco dei Salem's Wych gira sul piatto, se la NWOBHM è il vostro pane quotidiano, allora gli Hardholz fanno per voi. Tuttavia, questo disco è da consigliare anche ai puri amanti dell'Hard'n Heavy, perché in svariati momenti la band teutonica va ad alimentare certi generi, sfornando ritmi sinusoidali davvero d'effetto. E va consigliato anche a coloro che masticano pane e Speed dalla sera alla mattina, se non altro per la presenza di almeno 3 tracce che faranno perdere la testa agli appassionati. Questo disco va ascoltato, preso e consumato per quel che è, un sonoro ed anfibiato omaggio alle tradizioni; mai banale, mai scontato, e soprattutto mai parte di quella "operazione nostalgia" che sembra ormai aver permeato questi ultimi anni di Metal europeo e US soprattutto. Gli Hardholz fanno si musica "vecchia", sarebbe follia dire il contrario, ma la fanno con personalità, e soprattutto col elementi comunque moderni che vanno perfettamente ad incastrarsi con le antiche tradizioni sia teutoniche che europee. Dunque, comprate, ascoltate e poi giudicate; non fatevi fermare dal pensiero del tipo "una band del 1984, pubblicata nel 1995, che ora cerca di tornare alla ribalta", perché sarete ben lontani dalla realtà. Si, è vero, gli Hardholz vengono dal passato, e provengono anche dalla Golden Age del Metal, quel periodo della storia in cui anche il disco più brutto mai concepito, aveva un buon motivo per essere ascoltato. Tuttava, già con l'ingresso di Kelle al microfono, grazie anche al supporto della grande "Massacre Records", e soprattutto grazie alla volontà dei membri storici di continuare quel progetto rimasto sopito per così tanti anni, ecco che ci troviamo fra le mani Herzinfarkt, un disco che non ha paura di suscitare e ricordare sul palato della propria lingua da ascoltatore elementi di "già sentito", ma che al contempo sbatte in faccia all'ascoltatore la sperimentazione ed il lavoro che si è fatto sui pezzi. Anche se si arriva magari in fondo al disco con qualche dubbio, l'ultima traccia risulta, a prescindere dai gusti e dalle opinioni, una vera e propria sorpresa; infilare una simil colonna sonora West in un disco Heavy con pesanti influenze Speed, denota due cose: o la follia più totale, o la genialità sperimentale dei membri, e per la band in questione si può tranquillamente propendere per il secondo blocco. E dunque, tirando le somme: fatevi trasportare da questi teutonici in un modo fatto di cavalleresche liriche, epicità senza quartiere, ed un pizzico di moderno che non risulta comunque mai fuori posto, ma anche esso si incastra alla perfezione col resto del contorno musicale. Undici tracce che raccontano una storia, la storia di chi ha sempre creduto in quel che aveva fatto anni or sono, e che ha deciso, grazie anche ad una etichetta competente, ma soprattutto grazie alla voglia incessante di fare musica, di ritirare fuori dalla polvere del tempo e riproporlo sotto una nuova veste, che mischia fra sé la base creata ormai 30 anni fa, ed il moderno che ormai avanza. Compreso anche di una grafica accattivante e di svariati elementi di contorno che lo rendono appariscente, questo disco in sostanza è consigliato a chi ha voglia di passare quaranta e più minuti a sentire del buon Metal di stampo europeo con alcuni rimandi alla cultura americana, a chi ha voglia di saltare per la stanza in alcune tracce, e rimanere concentrato in altre, a chi ha voglia di simulare una air guitar sui possenti riff di Ede, ed anche a chi ha voglia di suonare l'aria con delle finte bacchette imitando Franky. In più, questo disco lo consiglio anche a chi si deve avvicinare a questo mondo, per capire che si, i big, i blasoni di questa musica, vanno conosciuti, amati, apprezzati e capiti, ma più si scava nel grande e meraviglioso mondo dell'Heavy Metal, e più si scovano perle nascoste.. ben fatto Hardholz!

1) Charon
2) Die Prophezeiung
3) Herzinfarkt
4) Praeludium Wielandia
5) Wieland, der Schmied
6) Bonusdreck
7) Jäger und Gejagte
8) Hartholz
9) Asphaltlady
10) Tannhäuser
11) Spiel mir das Lied Vom Tod