HARD RESET

Machinery & Humanity

2015 - Sliptrick Records

A CURA DI
NIMA TAYEBIAN & SANDRO PISTOLESI
06/05/2016
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Il rock ha molte facce. Polimorfa creatura, ci delizia da un gargantuesco numero di anni attraverso le sue correnti più morbide (pop/soft rock) e le sue derivazioni più dure, che partono dal R&R sporco e cattivo di geni ribelli come Jerry Lee Lewis per arrivare gradualmente a derivazioni più "graffianti" e via via sempre più "toste" (e magari "sporche e cattive": pensiamo al genere Metal, che dai primordi è stato capace negli anni di indurire gradualmente la propria "grana" sino ad approdi durissimi e brutali), che portano dal primordiale hard rock e garage, dal proto-metal e proto punk a tutto quel che è venuto poi: dal Metal (come specificato nelle note vergate nella precedente parentesi) al Punk Rock (partendo di base da artisti con un retaggio garage come Stooges, MC5 e Dictators), passando per generi ibridi e possibilmente derivativi come il grunge (anch'esso di reminiscenza garage ma sporcato talvolta con l'hard rock e il metal - Alice In Chains, Soundgarden - , talvolta con lo psych rock - Screaming Trees - o magari con accenti noise e punkeggianti - Nirvana) e l'alternative rock. Ed è per l'appunto di un gruppo che attinge in parti uguali dal neo-grunge e dal rock "alternativo", che andiamo a parlare stavolta. Un gruppo che nelle note biografiche non fa affatto mistero delle proprie ispirazioni garage/punk (citando i Ramones e gli MC5) ed anche di rimandi maggiormente "ibridi" (sono citati gli art rockers Queen, gli alternative rockers Muse, gli alternative metallers Deftones). Loro sono gli Hard Reset, italianissimi (di Firenze), e il disco che oggi andiamo ad analizzare è il loro "Machinery and Humanity", parto discografico in cui molti degli elementi di ispirazione si palesano, seppur molto di misura, in un contesto che di base rimane originalmente il loro. Un'amalgama di influenze ben omogeneizzato in un contesto obiettivamente a cavallo tra il neo-grunge (come già visto), alternative rock e rimandi al post rock. Influenze, quelle sopra citate (Queen, Muse) non immediatamente percepibili nel qui presente, saporito minestrone sonoro, la cui consistenza mette subito in evidenza un substrato ben più evidente, ossia quello post rock. Più che i Queen o i Muse, emergono immediatamente nelle tessiture melanconiche ed ariose dei brani contenuti nel platter, richiami a gruppi come i giapponesi Mono ed altri paladini del genere "post", uniti alchemicamente a certe soluzioni à la Smashing Pumpkins (che grunge non sono mai stati nonostante l'incasellamento forzato di qualche critico. Mettiamoli pure tra gli "inclassificabili") del periodo "Siamese Dreams" (album melanconico ma forte di tessiture robuste, molto omogeneo e differente (per dire) da dischi come "Mellon Collie" - decisamente più disomogeneo nella scaletta - o "Adore", ove regna la tristezza giostrata su ritmi depressogeni, e l'emotività si fa insostenibile. Meglio ancora: insostenibilmente abbagliante). Dunque cosa ci aspetta inserendo il disco nel lettore? Un prodotto sicuramente tra l'alternative e il post-grunge, rafforzato, come specificato, da una preponderante componente post rock: quindici tracce forti di una certa bellezza, quindici perle giostrate su ritmiche mai aggressive e sempre pregne di una certa carica evocativa, dall'andamento forse un pizzico malinconico e mai scanzonate, che potrebbero piacere (e piaceranno, ne sono sicuro) a tutti gli amanti del post rock più trasognato e a quanti seguono la scena shoegaze. Quindici tracce che sanno intrattenerci e hanno la non comune capacità di trattenere l'ascoltatore (anche quelli più esigenti, come il sottoscritto) dallo "skippamento criminale". Ogni brano ha una sua capacità di attrattiva, e riesce a farsi seguire sino in fondo evaporando totalmente lo spettro della noia. Ma chi sono, questi Hard Reset? Nonostante la nostra "continua pesca" nei reami più reconditi della musica non mainstream, non ne eravamo ancora a conoscenza sino a quando il nostro Direttore non li ha portati alla nostra attenzione. Più di ogni altra parola spesa, è proprio la loro bio a presentarceli: si definiscono come il frutto di un'amicizia / sinergia nata a Firenze nel 2011, che prospera e dura ancora oggi. I protagonisti di questo sodalizio hanno deciso di dare un nome al loro rapporto (Hard Reset, per l'appunto), considerato indissolubile ed importante. E c'è da dirlo, questi ragazzi sono davvero un inno all'amicizia, la fratellanza messa in musica (usando sempre le loro stesse parole). Sono una storia da narrare, una canzone da ascoltare. La band consiste in Sergio Strada (SerJ), Luca Murano (Luc) e Mauro Macchia (Mau). Questi tre ragazzi, tutti con il loro diverso background musicale e le loro più disparate esperienze, hanno gusti in comune ma i loro stili sono comunque differenti, come anche i loro approcci, le loro tecniche strumentali ed i loro ascolti. C'è una cosa che li unisce, ed è il bisogno di suonare. SerJ, chitarra e voce, trae ispirazione dal possente Rock n Roll dei Foo Fighters e dai malinconici pezzi di band come Counting Crows e Muse. Mau è un batterista le cui radici vanno ricercate in band come Ramones, MC5 e Queen. Luc, il bassista, è un appassionato della scena Grunge di Seattle ma non disprezza band come Deftones, Ministri e Biffy Clyro. Il loro stile, un mix geometrico e preciso di queste influenze, è sostanzialmente un sound Rock con sprazzi di Alternative, New Wave, post grunge ed elementi post-rock. Il 19 Giugno del 2015 hanno ufficialmente dato alla luce il loro esordio, "Machinery & Humanity", rilasciato per la "Sliptrick Records", la quale ha distribuito il prodotto in Scandinavia, Europa Centrale, Europa del Sud e Stati Uniti. Il titolo di questo full-length è direttamente ispirato dal film "Il Grande dittatore", di Charlie Chaplin: tutto l'album presenta una tematica alla sua base, quella del cambiamento. Sia esso inteso come cambiamento del mondo o come crescita individuale. Questi tre ragazzi non hanno interesse a sapere cosa succederà in futuro: solo di una cosa sono certi, ovvero non dimenticheranno mai il tempo passato assieme, continueranno a suonare dovunque e divertendosi. Una biografia, questa, che suona come una dichiarazione di intenti positiva, ottimistica, di una band unita sotto il segno dell'amicizia e dell'amore per la musica. Lasciando alla "postfazione" ulteriori commenti in merito al disco, direi ora di inoltrarci tra le pieghe delle varie tracce che lo compongono, onde fornire al solito una ragionata ed esaustiva recensione "track by track".

When We Collide

Si inizia con una strumentale di appena un minuto e mezzo, intitolata "When We Collide (Quando ci scontriamo)". Strumentale particolarmente efficace ed evocativa che ci porta prepotentemente in ambiti post-rock, e nel quale l'ascendenza Mono (consigliato, per capire meglio, l'ascolto di "Under The Pipal Tree") si fa vigorosamente sentire. Già una traccia del genere funge da ottima apripista per l'album, con la sua soffice sensualità, il suo appeal evocativo capace di portarci in neanche due minuti in dimensioni recondite, in seno ad una malinconia andante che ci avvolge e ci stringe in una morsa piacevole che mai vorremmo mollare (già al primo ascolto, ammetto di aver voluto immediatamente riascoltare tale introduzione più e più volte, sedotto da tanta morbida lattiginosità). Il lavoro risulta "guitar oriented", solo stuzzicato qua e là da un dosato lavoro di batteria che non eccede e non disturba tale intarsio, permettendo al lavoro di chitarra di creare una autunnale melodia che difficilmente si staccherà via dalla vostra corteccia. 

Cyclops

La seconda "Cyclops (Ciclopi)" è introdotta da un brevissimo scambio di battute tra due personaggi (un uomo e una donna). In meno di otto secondi la chitarra dà il via ad un cesello strumentale, coadiuvata da una pulsante batteria e destinata a divenire il "main theme" del brano, anche conseguentemente al subentrare della voce (intorno ai venti secondi). Dal ventesimo secondo assistiamo al subentrare della voce di SerJ: pacata, riflessiva, mantenuta su toni non dirompenti quasi a non voler cozzare con l'algida architettura di fondo. Sulla scorta della stessa gestione delle ritmiche assistiamo ad alternanze tra parti sostenute dalla voce ed altri frangenti -brevi -  esclusivamente strumentali (si veda ad esempio dal quarantatreesimo secondo al cinquantacinquesimo). I ritmi cambiano di poco, talvolta sono più elettrizzati, altre volte più pacati, ma si cerca di mantenere di base la linea dettata da quello che in precedenza abbiamo considerato il "main theme": pulsante e venato di una sottile malinconia, dal carattere un pizzico introspettivo. A un minuto e venti altra pausa della voce per lasciare spazio agli strumenti: solo una voce filtrata è udibile nella tessitura, ma per il resto sono gli strumenti a farla da protagonista. Dieci secondi dopo, al termine di questo ulteriore intervallo strumentale, subentra di nuovo la voce; più energica e grintosa, pregna di una invidiabile carica ma comunque in linea con le tessiture "romantiche" del corredo strumentale. Questa parte ancora una volta confluisce in una zona strumentale (1 minuto e 50) ancora breve -una decina di secondi circa- che delimita un ulteriore accento "atmosferico" nel brano. Proseguendo oltre quest'ulteriore introspettivo "break" ci avventuriamo ancora una volta in territori già rodati (si segue la linea strumentale-base senza gettarsi in inaspettati voli pindarici) vergati dalla voce, dapprima più calma, quindi (a due minuti e tredici) ben più energica. Si prosegue dunque in un sali-scendi emotivo che segue di base quanto detto sino ad ora, trascinando il brano per oltre quattro minuti e un quarto sulla scorta di tanta emotività e forza introspettiva quasi psicotropa (il brano ci fa viaggiare con la mente, ragazzi!) nella sua essenza rarefatta ed algida. Il pezzo, da quel che abbiamo avuto modo di capire, è ispirato in qualche modo alla celebre "V Per Vendetta", graphic novel scritta da Alan Moore e illustrata da David Lloyd, portata poi -magistralmente- sullo schermo dai fratelli Wachowsky. Esattamente come nella celebre graphic novel -e nel film- la trama del brano trova il suo svolgimento in un futuro distopico, e argomenta un "monologo" del celebre V, uomo sopravvissuto agli esperimenti condotti in un campo di concentramento prima della guerra civile. L'uomo si prodiga in spaccati di se, della sua storia, ma non eccede nel dare particolari: parla del posto in cui è nato ("Sono nato in un posto in cui la gente ha un solo occhio,/ proprio lì, nel mezzo.") evitando comunque di dire DOVE e lasciando vaghe determinate informazioni. Dunque parla della sua gente ("Non ci interessa nulla della democrazia,/ non ci interessa nulla della religione./ Penso che saremmo potuti essere intelligenti e creativi,/ se solo avessimo avuto una vista a 360° del tutto../ viviamo nel passato e sputiamo sul presente,/ il futuro è uno specchio rotto") prodigandosi in particolari riguardo al loro modo di essere, il loro pensiero. Quindi parla della sua paranoia: si graffia la faccia, tenta di entrare in profondità con le unghie per estirpare dal suo volto la menzogna dell'apparenza, e vedere cosa si nasconda veramente dietro, vedere se è tutta un illusione o quel che i suoi occhi gli suggeriscono corrisponde veramente alla realtà. Dunque si sveglia e si rende conto di essere in quel "futuro" (per lui presente) distopico di cui si parlava prima, un epoca dominata dal terrore e dalla paranoia, in cui l'uomo ha perso interesse per la libertà e si è di fatto reso schiavo dei potenti, pronto a fare tutto quello che loro ordineranno.

Beautiful Cloud

Si prosegue con l'ottima "Beautiful Cloud (Una splendida nuvola)", ancora (come la precedente) forgiata su di un sound ibrido tra alternative rock, post-grunge e post-rock, ancor più pacata ed evocativa della precedente song. Volendo azzardare dei paragoni potrei dire che ci troviamo di fronte ad un brano che si nutre dello stesso humus emotivo di cui si alimenta un brano come "Life" di Devin Townsend (da "Ocean Machine: Biomech") solo logicamente meno "elettrizzata". L'inizio è affidato ad un delicato riverbero, che ci porta quasi subito in seno a suoni distanti e "sintetici" (nei quali spicca un lavoro cristallino di synth). Verso il quindicesimo secondo tale tessitura -non dico ambient ma il sapore è simile- si anima elettrizzandosi dapprima con decisi colpi di batteria, quindi facendo emergere un gustoso lavoro di chitarra (elettrica). Si compone in questi primi istanti quello che sarà un po' il main-theme dell'album, il leit motiv sonoro destinato ad essere seguito e che forgerà l'impalcatura portante della song in questione. Nell'effettivo, in tutto il brano non si assiste a particolari "cambi strutturali" o di umore, e vediamo come piacevolmente (molto piacevolmente, direi) tutta la struttura sia estremamente semplice e lineare, tanto da essere memorizzata già dopo un primissimo, semplice ascolto. Giusto una piccola nota a margine va fatta per una minimale divagazione eseguita verso i due minuti e quattro; la quale, piazzandosi perfettamente nel contesto strutturale, non fa altro che aumentare il climax emotivo nel brano, già di per sé molto intenso. Infatti, dopo tanta incisività portata dalla struttura base, languida e carezzevole, allo scoccare dei due minuti e quattro, la chitarra smette di reiterare l'armonia portante per calare quasi in sordina, intessendo un guitar work altrettanto trasognato ma al contempo quasi ipnotico, e lasciando alla batteria il compito di scandire forti accenti. Questo fino ai due minuti e ventuno, quando una decisa serie di colpi alla batteria ci riporta in seno alla struttura principale. Un brano dunque sicuramente non troppo elaborato, ma che non ho potuto non amare sin dal primo ascolto data la sua componente "emotiva" e quasi fuori dal tempo. Ascoltandola sembrerà anche a voi di essere in contemplazione di qualche "nuvola meravigliosa". Ma cos'è questa "nuvola meravigliosa" messa in campo nel titolo? Per saperlo facciamo riferimento al testo, che ci parla di una donna piombata letteralmente per caso nella vita del protagonista. E' lei la famigerata, deliziosa nuvola del titolo. Un essere che -poeticamente- si ribella a Dio perché non più volenterosa di adempiere al suo ruolo di "oscuratrice della luce solare", venendo dunque scaraventata sulla terra da questi. Andando nello specifico, addirittura, come sentiamo nel brano, l'essere (la donna una volta "nuvola") non si accontenta di voler rifiutare il suo ruolo, ma addirittura vuole risplendere come il sole ("Gli hai semplicemente detto:/ "Hey, uomo.. io non voglio essere così oscura!/ io voglio essere un sole che risplende, /lassù, nel cielo!") per una persona specifica. E tale gesto, forse innocente, forse di presunzione, gli costa il posto in cielo. E piomba letteralmente nella vita del "protagonista del brano", di questa figura maschile invece totalmente terrena, colpita da un attonito stupore. Tutto lascia presagire una sorta di innamoramento del maschio nei confronti di tale figura. Ma il finale agrodolce lascia intendere che questi vorrebbe andarsene via, e lasciare l'angelica figura femminile, a sua volta innamoratasi dell'uomo. Il brano finisce con una supplica da parte della figura femminile -che, ormai terrena, potremmo definire semplicisticamente come "donna" - nei confronti dell'innamorato, a cui supplica di restare, dicendogli di voler divenire il suo sole ("Mi sei piombata addosso proprio come la pioggia,/ distruggendo la mia solitudine./ Mi hai detto di aver affrontato il tuo Dio,/ che ti ha lanciata quaggiù [...] Mi hai trovato mentre ero intento ad ammirarti,/ ad ammirare la tua graziosa tristezza./ Sei come un Angelo che mi è caduto dritto in testa./ E mentre me ne andavo, la tristezza esplodeva sotto la tua pelle../ poi la pioggia, che mi si è riversata addosso.").

Tweed

Si continua con la quarta traccia, "Tweed", più ritmata della precedente ma assolutamente non scevra della componente iper-melodica che caratterizza un po' tutti i brani del lotto. Melodica abbiamo detto, ma al contempo più dinamica, più "grintosa", specie nel refrain, energico e vitale e meno irrorato (come del resto il brano in toto) della componente più malinconica e trasognata che invece caratterizzava il brano precedente. Il pezzo ha inizio con la voce di SerJ, che in maniera vellutata si presta ad un accenno introduttivo. A sedici secondi parte il ricamo strumentale destinato ad accompagnarci praticamente per tutta la durata del brano (salvo nel refrain più energico, in cui si cambia parzialmente registro):la chitarra inanella un riffing ottantiano (che avrei visto bene anche su un qualche pezzo AOR di quelli meno ruffiani/melensi) mentre la batteria si mantiene dinamica. La voce in questo contesto assume un registro meno suadente rispetto all'introduzione, più grintosa. A quarantadue secondi il refrain: arrembante, giostrato su un guitar work più carico e ancor più rockeggiante, con la voce che si fa un pizzico più energica. A quasi un minuto si ritorna sui binari di base, con un riagganciamento alla struttura portante precedentemente udita (intarsio ipnotico di fondo coadiuvato da una batteria non invasiva). Si continua dunque su questo schema sino alla riproposizione del refrain, a staccare con il resto (1 minuto e 25). Terminato il refrain, invece della riproposizione dello schema strumentale di base, notiamo che il proseguo strumentale è affidato ad un'appendice della struttura usata nel refrain: la chitarra continua dunque sulla scorta di quanto intarsiato nel ritornello infilando - tanto per gradire - una "coda" di gran pregio, destinata a scemare gradualmente su toni più malinconici (stavolta si), pronti ad accogliere la voce, stavolta più dimessa: è l'inizio di un nuovo piccolo frangente, in cui la chitarra, molto placida, ricama soffuse note ad accompagnare la tessitura vocale del singer, stavolta placida e quasi ispirata da un senso di quiete. Tale frangente, verso i due minuti e otto si elettrizza quel tanto che basta per rinvigorire tale troncone: la chitarra, dapprima dimessa cesella note accese, e anche la voce sembra riprendere tono. A due minuti e ventisei ci rincanaliamo nella struttura principale, con, a due minuti e quarantuno, una nuova, ulteriore riproposizione del refrain. Finale dimesso, con gli strumenti in sordina e la voce di SerJ che declama poche, ultime parole. Il testo del brano è incentrato su di una graziosa signorina vestita d'un abito di tweed, che il protagonista del pezzo incontra una sala d'aspetto. La sente parlare, pronunciare una miriade di parole, ma non ne comprende neanche una, tanto è sovrappensiero. Tutto questo, nonostante sia stato proprio lui ad abbordarla, per cercare di far colpo. L'uomo, dunque, si perde in riflessioni in cui capiamo che vorrebbe avere con lei un qualche tête-à-tête, essere il suo barboncino (visione servile ma innocente) e addirittura sarebbe lieto di avere il suo stile, la sua classe. Sarebbe fantastico per lui se potesse "sputare e scopare come lei" (come ci riferisce il testo). L'uomo fantastica quindi di avere un appuntamento con la donna, per poterci far l'amore. Agogna tutta la sua attenzione, e si sente, in quel momento, come un paio di scarpe in vendita (nel senso di trovarsi come "in vetrina", in attesa che possa "accendersi" qualcosa). L'uomo rimane così perso in una trepidante attesa in balia dei suoi pensieri e non sappiamo se quanto suggerito dalle sue fantasie troverà poi un effettivo riscontro ("Una ragazza in abito di tweed,/ ti ho vista entrare attraverso la porta di una sala d'aspetto../ e sono stato l'unico che ti abbia parlato./ Una ragazza piena di difetti../ hai pronunciato milioni di parole,/ ma non ne hai capita neanche una./ Tutto quello che volevi era essere ammirata./ Ragazza in abito di tweed,/ vorrei tanto avere il tuo medesimo stile di vita/ il tuo stile di esprimerti../ vorrei essere il tuo barboncino, e passeggiare con te").

Changing

Con la successiva "Changing (Cambiando)" abbiamo un'altra traccia molto catchy, ritmata, di stampo indie/alternative. L'introduzione è affidata a un motivetto ricamato dalla chitarra, coadiuvata da un lavoro di batteria semplice e funzionale (se in precedenza si parlava di influenze New Wave, qui possono essere colte, seppur di misura, nel lavoro ritmico). Dopo circa venticinque secondi, terminata questa parte introduttiva, la sezione strumentale si fa più soffusa per lasciare spazio alla voce, ora vellutata e quasi melliflua, di SerJ. Mentre la chitarra dilata note algide, la batteria risalta con rintocchi decisi -anche qui certe influenze "wave" e post punk si leggono tra le righe-. Al trentasettesimo secondo il refrain, in cui la chitarra si irrora di energia e la voce diviene più grintosa. Un refrain che rispetto alla precedente strofa sembra animato da uno spirito molto più rock. Verso il cinquantesimo secondo, terminato il ritornello, ci rincanaliamo nella struttura principale (viene riproposta la precedente strofa), destinata a durare sino al minuto e uno, quando ancora una volta riemerge vigoroso il refrain. A un minuto e un quarto, la fine del refrain coincide con una strofa molto ariosa, aperta, ancora una volta di gusto spiccatamente rockeggiante, dapprima forte di un guitar work più deciso, quindi, al minuto e ventuno, più pacato (note lunghe sostenute da sporadici accenti di batteria) per mettere in evidenza l'enfasi della parte vocale. A un minuto e ventisette la chitarra torna fieramente su un guitar work più dinamico a definire ulteriormente l'essenza rockeggiante di questo troncone. A un minuto e tre quarti si ritorna sul cesello iniziale (quello udito nei primi venticinque secondi del brano). Quanto segue ripropone in parte lo schema rodato nei primi frangenti del brano. Arriviamo dunque, a due minuti e trentaquattro, ad una parte strumentale più soffusa che lascia spazio a declamazioni ovattate di una voce distante. A due minuti e cinquantatre lo sfondo strumentale perde quell'aura soffice per tornare prepotentemente rock, molto carico e grondante potenza, tutto gestito su un granitico guitar work al quale si addiziona un sibilante cesello di chitarra - molto evocativo e un pizzico malinconico -  destinato a perdurare sino ai tre minuti e venticinque, in coincidenza con il ritorno della voce. La struttura si assesta su ritmi roboanti, ma non privi di quel sottile spleen caratterizzante buona parte dei parti nel genere grunge (e in artisti adiacenti alla scena, come i già citati Smashing Pumpkins). A tre minuti e cinquanta ancora una ripetizione del cesello strumentale di partenza, per un paio di volte, prima della fine. Il testo sembra in apparenza una sorta di "invocazione" al Divino: il protagonista del brano si perde in quello che immaginiamo sia un monologo interiore in cui sembra supplicare, o più semplicemente chiedere a Dio (se il "Signore" di cui si parla è effettivamente il Creatore) una fetta di beatitudine sino ad ora negata. Il suddetto "Signore" sembra non avere ascoltato suppliche di nessun genere, sino ad ora relegando l'uomo -nel caso specifico il protagonista "narrante" ed altri (il "narratore" parla al plurale)- ad un sempiterno purgatorio. Ma l'uomo non smette di pregarlo, dicendo con molta umiltà e circospezione, che tutto quel che vorrebbe è avere almeno un lavoro, considerando che lui ha un diploma e reputa di saper fare tutto e di essere supportato da un certo grado di intelligenza. Ma a pensarci bene quello che abbiamo azzardato essere Dio, in realtà potrebbe trattarsi di qualunque autorità superiore, considerando che nell'effettivo, i dati a nostra disposizione sono abbastanza sfumati. Dunque la supplica potrebbe essere rivolta ad un a un presidente, un capo di stato o un dittatore. Non escludendo in tal proposito la possibilità che questo "signore" sia effettivamente il Divino ("Scusi, Signore../ sappiamo di avere le nostre colpe./ Certo, è tardi../ ma non vogliamo perderci lo spettacolo! [...]Mi scusi, Signore.. sto cercando un lavoro!/ ho un diploma,/ so fare tutto, sono intelligente...").

Drawbridge

Un giro di basso - addizionato a minimali singulti di chitarra - dà il via alla seguente "Drawbridge (Ponte Levatoio)". Dal quattordicesimo secondo viene messa in piedi una parte ritmica, in cui a farla da padrone sono maggiormente basso e batteria -con un lavoro delicatissimo di chitarra- che ancora una volta ci solletica con un velato gusto "wave"/post punk. Tale spunto iniziale è utilizzato da qui come leit motiv del brano, stabilendosi come il motivetto conduttore destinato a far parte dell'architettura portante del pezzo. Al venticinquesimo secondo abbiamo il subentrare della voce di SerJ, delicata e vellutata, quasi carezzevole (sempre accompagnato dal motivo portante visto in precedenza). Lo schema non subisce variazioni sino al minuto e tre, quando i ritmi si distendono in concomitanza del refrain, ancora più languido rispetto a quanto sentito (la voce si fa più introspettiva e il fondale sonoro è affrescato da un cristallino suono di chitarra e una batteria ancora prodiga di efficaci rintocchi). Ritmicamente ci troviamo su sentieri che farebbero piacere a certi Smashing Pumpkins più soft, magari quelli di "Mellon Collie". Dopo una strofa non troppo differente da quanto sentito prima del refrain, a un minuto e cinquantatre il tappeto strumentale impone un energico rinvigorimento alle trame, gemellato dalla voce del singer che, seguendo tale impennata grintosa, adegua la sua voce al contesto iniettandole una discreta dose di testosterone. A due minuti e ventisette torna a regnare un moto di quiete, con trame più rilassate ancora sostenute da una batteria pulsante. Anche la voce torna soffice e suadente, adagiandosi perfettamente sull'arioso tappeto strumentale di fondo. Gradualmente c'è un aumento del climax emotivo imposto dalla voce, sempre più energica e sofferente. Finale ricamato su note di chitarra tanto malinconiche quanto pregne di grinta, e sulla voce, ora distante del vocalist. Volendo azzardare un parallelismo, direi che stavolta ci troviamo in ambiti abbastanza cari ai primi Radiohead, in una possibile fusione con determinate cose degli Smashing Pumpkins più evocativi. Il "ponte" del titolo funge da incipit per il testo del brano, che parla di un metaforico "ponte levatoio" gettato tra due "mondi", due territori distanti che secondo il protagonista sarebbe bello se convivessero in una sorta di complice reciprocità. I due "mondi", i due territori, è inutile a dirsi, rispecchiano metaforicamente due persone: il protagonista e una seconda persona non meglio specificata (una donna possibilmente) che la voce narrante vorrebbe integrare nel suo mondo eliminando qualsiasi possibile barriera che li divide. Superando ogni ostacolo che può concretizzarsi nella diffidenza, nel pregiudizio, nell'orgoglio, nell'indifferenza, nell'incapacità all'interrelazione. Porre rimedio è così semplice, basta lasciarsi guidare dal cuore, gettare il proprio ponte illusorio e raggiungere empaticamente l'"altra persona" per stabilire un contatto che non sia più oscurato da sentimenti miseri e pregiudiziali ("Costruisci un ponte, senza rimorsi../ cerca di far combaciare due differenti territori./ Non voglio più parlare da solo,/ mai più./ Mai più/ Costruisci un ponte,  scatena i tuoi sogni..").

When The Lights Go Down

Al settimo posto troviamo la bella "When The Lights Go Down (Quando le luci si spengono)", una delle mie preferite del lotto, ancora una volta solleticata da vagiti dei primi Radiohead, dei Pumpkins e di un certo alternative rock. L'inizio è molto arrembante, con un rifferama dinamico e scattante ma venato di un sottilissimo, indecifrabile spleen. A quasi venticinque secondi, con il subentrare della voce, la tessitura strumentale di fondo perde vigore per divenire improvvisamente più soffice e vellutata , sorretta da decisi rintocchi di batteria. La voce evita invece di adagiarsi su tale parte, evitando toni melliflui e mantenendo un'espressività vagamente sprezzante e quasi punkeggiante. A quasi cinquanta secondi la tessitura rockeggiante di partenza fa di nuovo capolino, smarcandosi dal precedente frangente, più soffuso. Anche la voce si stoppa, per riprendere verso il minuto, quando si ripresenta di nuovo una strofa soffice per nulla dissimile da quella sentita verso i venticinque secondi. A circa un minuto e diciotto colpi decisi di batteria e un intervento energico della chitarra aumentano il climax emotivo e ci portano in concomitanza del refrain, particolarmente emotivo e con un non so che di sofferto, molto rockeggiante (i ricami di chitarra sono vigorosi, e anche la batteria scandisce il tempo con forza. La voce risulta comunque la parte "emotiva", dall'espressività particolarmente "sentita"). A un minuto e trentasei ci rincanaliamo nella tessitura di partenza, un po' il leit motiv del brano. A un minuto e quarantotto ancora un cambio di umore, e siamo riportati su lidi soffici simili a quanto sentito più volte (dal venticinquesimo secondo, per dire). Ancora una ripetizione del refrain a 2 minuti e 23, quindi un bell'intarsio chitarristico destinato a rendere il tutto ancor più carico di emotività. A tre minuti gli strumenti si stoppano. La chitarra comunque non lesina di ripresentarsi poco dopo, molto di misura e in lievi accenti. La voce pronuncia poche parole assumendo ancora toni sul "malinconico andante". Quindi, a tre minuti e venti la voce, e tutta la parte strumentale, riprendono vigore regalandoci un finale tanto rockeggiante quanto emozionante. Il testo, altamente introspettivo, vede l'uomo, protagonista e voce narrante, guardarsi indietro rimuginando su vari "se", su una trafila di questioni che "se fossero andate come il protagonista avrebbe voluto ora molte cose sarebbero differenti". Ma la realtà presente è univoca e frutto di quel che sono state le scelte passate, e quel "che ora è" è difficile da cambiare perché frutto di situazioni ed eventi che anche volendo è impossibile controllare. Dunque, la tristezza di cui parla la voce narrante, che vorrebbe avvolgere di nebbia per poter camuffare, in realtà è destinata a perdurare, e solo flebili fantasie possono fungere da panacea a tale nefasto sentimento. Alla fine tutti i "se avessi" e "se potessi" finiscono per torturare la coscienza del protagonista, che riflette gli stessi "se" ad una figura terza", una donna, che "se aprisse i suoi occhi vedrebbe la sua tristezza - dell'uomo - e quanta vita lei ha sprecato". Un'amara riflessione sulla condizione umana concretizzata nelle elucubrazioni di un uomo in balia del proprio dolore, inasprito per una donna e un rapporto non proprio perfetto.

Rain

E siamo giunti alla traccia numero otto, intitolata "Rain (Pioggia)", aperta da Mauro Macchia con un mid tempo sincopato, seguito a ruota dal fragoroso basso di Luca Murano e dal cristallino arpeggio della chitarra. I nostri ricreano un'arcana atmosfera che si sposa a meraviglia con la graffiante voce di Sergio Strada, il quale si presenta con una intrigante linea vocale che si lascia dietro una scia di mistero. Il bridge viene rafforzato dal distorsore e mette in mostra una accattivante linea vocale, poi dopo due geniali pause arriva l'inciso. Siamo subito colpiti dall'insolita ritmica da stadio, gli acidi accordi della chitarra grazie agli effetti a pedale, ci avvolgono in una lisergica spirale di note, dalle quali emerge la calda voce di Sergio. Ritorna la strofa, che evidenzia un netto cambio atmosferico rispetto all'inciso. L'articolato arpeggio acustico si intreccia alla perfezione con il graffiante giro di basso e l'enigmatica linea vocale, che nuovamente si fa più grintosa nel bridge, dopo il quale incontriamo un caustico assolo di chitarra. Le note corrosive della sei corde ricoprono di ruggine gli altoparlanti. Ritorna l'inciso, stavolta in una emozionante versione acustica, che vede protagonista il solo Sergj, che si fa strada fra le note della chitarra ed il rilassante rumore dell'incedere della pioggia. A seguire un melanconico arpeggio di chitarra che diffonde un atmosfera enigmatica, il drummer Mauro inizia una travolgente corsa sul rullante, che in crescendo apre le porte ad un bellissimo interludio strumentale. Il basso leggermente sporcato si intreccia con le trame della chitarra, si respira un'aria mista fra i Muse ed i Placebo. Grazie ad una buona dose di distorsione, i fraseggi di chitarra si fanno più presenti. Sulla scia dell'epica cavalcata Sergio ritorna a cantare, con la sua graffiante timbrica prettamente a stelle e strisce. Effimero stacco stoppato che mette in evidenza la sezione ritmica e poi si riparte con il trascinante special, che va ad allacciarsi al bridge, stavolta con i BPM a ranghi ridotti, seguito dall'inciso in una insolita veste acida. Il gli effetti a pedale conferiscono un senso di ridondanza allucinogena alle trame degli strumenti a corda, che in maniera lisergica ci accompagnano verso l'epilogo di questo ottimo brano, dove grinta e melodia sono mixate alla perfezione e spiccano interessantissimi ed intelligenti arrangiamenti. Come spesso accade, le liriche scritte con maestria ed intelligenza, si prestano ad interpretazioni personali, che non sempre sono in linea con i messaggi voluti lanciare da chi le ha scritte. Io, nelle liriche di Rain trovo un vuoto incolmabile lasciato da una persona amata, che pervade l'animo del Cantastorie Fiorentino. Andando via si è portata dietro il sole che lo illuminava, lasciandolo sotto una triste pioggia che tinge di grigio tutti i santissimi giorni, facendo vivere di ricordi il nostro, la cui vita non ha più senso e viene paragonata ad un brano che lentamente si dissolve in fader, da sottolineare questa splendida licenza poetica. Ma la voglia di risorgere e tornare a vivere è tanta, e citando un amato personaggio del cinema horror, "non può piovere per sempre". 

Mold

Andando avanti incontriamo "Mold (Muffa)", aperta da un cristallino riff di chitarra pieno di delay, dai sentori marillici. Cassa e charleston ritmano brillantemente con orde di sedicesime, mentre il basso armonizza in maniera fragorosa spostandosi sulle toniche. Un delicato climax ci porta alla strofa, aperta da una serie di "Eh Eah" sporcati da un nostalgico effetto, che saranno un elemento portante del brano, da qui in avanti usato come bridge. In questi primi sessanta secondi di brano, forse per la struttura, forse per il particolare timbro vocale di Sergio, ci viene in mente subito le spensierate atmosfere dei Bon Jovi degli anni novanta. Arriva l'inciso, il drummer ci tiene magicamente sospesi con funambolici passaggi sul charleston ed un tappeto di gran cassa, Sergio Strada, con pochi acidi accordi che lo accompagnano esplode, concludendo poi con il bonjoviano bridge che ci riporta dritti alla strofa. Il basso ci martella con un insistente tappeto di note, mentre i bellissimi fraseggi effettati della chitarra fanno volare il Cantante Toscano, che con la mente ci trasporta sui paesaggi mozzafiato della Route 66. Arriva lo special, che porta un po' di grinta al brano, seguito dall'azzeccatissimo bridge che ormai si è impresso in maniera indelebile nella nostra mente, rubando la scena all'inciso che lo segue a ruota, rafforzando la mia idea di brano "alla Bon Jovi". I nostri chiudono con un paio di battute della strofa. Le atmosfere da Route 66 rievocate dalla musica le ritroviamo nelle liriche, dove c'è voglia di cambiare aria, di dare un netto taglio al passato e guidare lontano, in cerca di una radicale svolta da dare alla vita. Il nostro da una sveglia ai "Big Boy", che potrebbero essere i suoi amici, ancora radicati alle proprie origini, ma c'è essere un altro percorso più articolato per dare un senso al termine. "Big Boy" è un famoso modello di una gigantesca locomotiva a vapore della Union Pacific Railroad, che oggi non più in servizio, ma che fra gli anni quaranta e sessanta ha girato in lungo ed in largo la Nazione a Stelle e Strisce, lasciandosi dietro suggestive nuvole di vapore, quindi potrebbe simboleggiare il treno dei desideri. Comunque sia, il messaggio lanciato da Sergio è quello di farsi coraggio, prendersi le proprie responsabilità e cambiare aria, lasciando amici e famiglia e fuggire da un brutto periodo, con la promessa di ritornare rigenerato, prima o poi.

What I Hope to Find

I nostri cambiano completamente registro con la prossima "What I Hope to Find (Cosa Spero di Trovare)", la breve introduzione semi acustica viene subito spazzata via da travolgente impatto sonoro che strizza l'occhio all'alternative metal americano. La chitarra erge un caustico muro di note, trascinata dalla ritmica punkeggiante del duo Luc-Mau. Nella strofa, Serj ritorna al suono pulito con le trame della chitarra che vanno ad intrecciarsi con il graffiante giro del basso plettrato. Il nostro recita tutto d'un fiato la strofa e mette in mostra un'ottima padronanza con la lingua inglese. Si preme nuovamente il pedale della distorsione, e ritroviamo il potente unisono sentito ad inizio brano, che fa da bridge al ritorno della accattivante strofa, stavolta dotata di un'ammaliante appendice che apre le porte al grintosissimo inciso. Spinto dal potente impatto sonoro prettamente punk rock, Sergio arriva a graffiarsi la gola, rievocando i momenti migliori dei Circle Jerks. Si cambia nuovamente atmosfera, con il ritorno della strofa, che dopo alcune battute strumentali ci viene proposta in una suggestiva veste blues, che mette in mostra tutte le doti del Vocalist Toscano. Rientra in gioco Luc, che in crescendo ci porta dritti verso un lisergico special. Gli effetti a pedale creano un'acida e psichedelica spirale di note che inghiotte la graffiante voce di Serj. A seguire uno spensierato assolo di chitarra, semplice e scarno, in pieno stile Ramones. Nonostante le sonorità che emergono siano quelle del punk rock, i nostri riescono a non rendere banale il brano sfruttando intelligenti soluzione in fase di composizione ed arrangiamento, e cambiano nuovamente atmosfera. L'accordo distorto in fader lascia il compito al graffiante giro di basso in questa versione alternativa della strofa. In sottofondo percepiamo le articolate trame della chitarra, ma ad emergere è Sergio, che ci sorprende con dolci vocalizzi, spazzati letteralmente via dal ritorno del cattivissimo inciso. Le grida di Serj ci accompagnano verso il finale, lasciato nelle tentacolari mani del Drummer Toscano. Le liriche continuano a lanciare il medesimo messaggio che prevale nel contesto del platter, quello di una voglia di cambiare, di rimediare quanto prima ad errori commessi e di vivere al massimo ogni singolo istante di vita. Per farsi una corazza che ci permetta di sopravvivere, bisogna azzardare, e Sergio ci lancia il messaggio con un calzante riferimento al gioco del poker, dove ogni giocatore è ben conscio, che dopo ogni singola puntata, ci sono molte probabilità di incassare una bruciante sconfitta. Se la scommessa da vincere è una bella ragazza che darà una svolta alla nostra vita, allora è bene azzardare, magari anche bleffando, l'importante è riuscire ad aggiudicarsi la posta in palio e ritornare a sentirsi vivi. Brano energico e cattivo, che fa emergere le influenze punk del power trio toscano.

Venice Souvenir

Con "Venice Souvenir (Souvenir di Venezia)" si ritorna alle calde sonorità del rock melodico americano. Ad aprire il brano è un caloroso arpeggio di chitarra, le profonde note del basso lavorano sulle toniche, e richiamano all'ordine il Drummer Mau, che entra con grazia, usando la stecca. La calda voce di Sergio, nei momenti di calma, inevitabilmente ci fa pensare ancora una volta al Biondo Cantante del New Jersey. La strofa scorre via piacevolmente, fino all'arrivo del bridge, dove possiamo percepire una velata traccia di chitarra distorta, che dona una impercettibile venatura di verve, aprendo le porte all'inciso. La sezione ritmica, pur con grazia si fa più incisiva, mettendo in evidenza il basso, mentre la parte di chitarra rimane la stessa della strofa. Breve replica strumentale dell'introduzione e ritorna la strofa, stavolta con una base ritmica più sostenuta. I fraseggi del basso si intersecano con la ridondante trama della chitarra. Nel bridge la chitarra distorta si fa più presente ed in crescendo Sergio apre di nuovo i cancelli al ritorno dell'inciso, dove rimane solo lui, in compagna della sua chitarra, sfoggiando una interpretazione da brividi, a seguire troviamo un'energica versione del ritornello con la chitarra distorta, rispettando il vademecum della power ballad anni ottanta, con gli accordi distorti che accompagnano l'emozionante linea vocale. In conclusione una bellissima appendice più energica, con suggestivi vocalizzi. Quando il brano sembra sfumare verso l'estinzione, Mau inizia una prolungata corsa sulla pelle del rullante, enfatizzata dalle graffianti cavalcate del basso. I nostri con un prolungato climax ci portano nuovamente verso il ritorno dell'inciso. Accompagnato dagli accordi distorti, Sergio insiste con la melodica linea vocale, che ormai si è impressa in maniera definitivamente nella nostra mente, impreziosendola con scolastiche escursioni vocali. Di nuovo un falso finale e troviamo lo special, la chitarra spara un brioso riff di Udueiane memorie che invita la sezione ritmica a farsi più incisiva. Con grinta, Sergio urla più volte ai quattro venti il titolo del brano fino che i vortici creati dagli strumenti ci portano bruscamente verso il mellifluo finale. Il souvenir di Venezia non è né una classica gondola, né un prezioso vetro di Murano, bensì una passionale storia d'amore vacanziera, di quelle che lasciano un segno indelebile nel cuore, tanto da farci prendere in considerazione l'idea di rimanere lì per sempre. In un solo giorno, l'effimera storia di amore consumata in laguna, ha realizzato tutti i sogni, i due hanno fatto tutte le cose che amano. Ma purtroppo poi arriva il drammatico ultimo giorno di vacanza, quello che porrà fine alla meravigliosa fugace storia di amore, lasciando nel cuore un eterno ed indistruttibile souvenir. Bellissima e struggente ballata d'altri tempi, che dimostra quanto siano ampi gli orizzonti musicale del power trio toscano.

Monkey Seeking

Si cambia decisamente atmosfera con la briosa "Monkey Seeking (Scimmia In Cerca Di..)", brano che mette in mostra tutta l'ammirazione che i nostri hanno nei confronti dei Foo Fighters. La cassa ci martella con le sedicesime, accompagnando il cristallino arpeggio di chitarra, scandito da profonde pennate sul basso. Sergio dimostra che per lui la lingua inglese non ha segreti, e recita in stile scioglilingua le poche righe dell'introduzione. A seguire ci piomba addosso un brioso riff di Ramonesiane memorie, degno di uno spot pubblicitario, riff che sarà la colonna portante della strofa. Un trascinante bridge, dove emergo un vocalizzo alla Beach Boys annuncia l'inciso, fra i meno orecchiabili del platter. La ritmica complicata mette in secondo piano la grintosa linea vocale, accompagnata da una trama di chitarra pulita. Breve stacco strumentale che mette in mostra il riff portante, poi troviamo una versione soft della strofa. La sezione ritmica riduce ai minimi termino il supporto, lasciando tutto nelle meni e nella voce del bravissimo Sergio. Come un ciclone ritorna la strofa nella sua veste originale, seguita da bridge e dall'inciso, anch'esso in una insolita veste più soft, che esalta la linea vocale. Ritorna la strofa, dove Serj si graffia la gola urlando il titolo del brano. A chiudere, ritroviamo l'interessante introduzione. La scimmia è la selvaggia anima gemella che prepotentemente è entrata nel cuore di Sergio, uno che ha imparato a vivere da solo, costruendosi con il tempo una dura corazza che gli ha permesso di andare avanti, e di trovare la sua giusta dimensione, ma allo stesso tempo, Sergio è affetto dalla Sindrome Di Peter Pan, quella atavica paura nascosta dentro ognuno di noi, che tende a farci rimanere eterni bambini, diffondendo in noi la paura di diventare grandi e di prendere decisioni importanti. E allora il nostro deve migliorare il suo self control, rallentare i battiti del cuore e metterlo in sintonia con la mente, per tenere a bada quella furia che si è impossessata del suo cuore e che lo ha stregato, cercando di prendere la giusta decisione, che molto probabilmente darà una svolta fondamentale alla sua vita. Piena di energia, lei ha mille grilli per la testa, che alimentano dubbi nella mente di Sergio, e contemporaneamente controllano il suo cuore, letteralmente conquistato dall'empatia della ragazza, che con molte probabilità, diventerà la "donna della sua vita".

Same Name

I nostri continuano a disorientarci con continui sbalzi atmosferici, con "Same Name (Stesso Nome)" ritornano le melanconiche atmosfere new wave. Con l'aiuto della pedaliera multi effetti, i pochi accordi di chitarra ricreano un'avvolgente e malinconica atmosfera che va a sposarsi alla perfezione con la calda voce di Serj. Dopo circa trenta secondi arriva l'inciso, che non si manifesta in tutta la sua interezza. Secchi colpi di gran cassa, seguiti all'unisono dalle corpose note del basso scandiscono il ritmo, poi dopo un breve break strumentale ritorna la strofa, stavolta arricchita dalla presenza della sezione ritmica. Brillanti fraseggi di chitarra portano una ventata di freschezza al brano, facendo da bridge. Con grinta Serj apre le porte al ritornello, dove emerge prepotentemente con una ammaliante linea vocale, accompagnata da uno arpeggio sporcato dal distorsore e da una brillante ritmica. Arriva lo special, un brioso unisono degli strumenti, con Sergio che mette un pizzico di peperoncino sulla linea vocale. Al minuto 02:05 i nostri cambiano completamente atmosfera, sorprendendoci con un caustico impatto sonoro dal sapore epico, che si lascia dietro un alone di mistero. Arriva l'assolo di chitarra, con alcuni brevi e funambolici fraseggi, supportati da potenti accordi distorti. Luc fa ruggire le quattro corde, mentre Mau inizia a picchiare di brutto sul drum setting. L'assolo prende una gradevole piega melodica che diffonde una piacevole sensazione di malinconia. Maurizio cambia ritmo ed inizia una tribale cavalcata sulle pelli, Sergio segue la strada aperta dal basso e dalla chitarra e si graffia la gola con una serie di vocalizzi che lasciano trasparire una buona dose di rabbia. Ritorna l'inciso, prima in una versione strumentale che mette in evidenza dei cori lamentosi che sembrano provenire da un'altra dimensione, poi nella sua veste tradizionale, che energicamente ci accompagna verso l'epilogo. Spesso, quando le liriche sono a sfondo personale, rischiamo di dare un'interpretazione lontana dal messaggio voluto lanciare dal compositore. Sperando di non allontanarmi troppo, io fra le righe leggo un forte tributo di stima e di amore nei confronti di un padre, che purtroppo la Grande Mietitrice si è portato via troppo precocemente. Nella mente rimbombano ancora i suoi consigli paterni, fra i quali spicca il più importante, "Imparare e costruire dai propri errori", sinonimo di forza e umiltà, un valore purtroppo quasi estinto nell'era moderna. Il vuoto lasciato dal padre è incolmabile, spesso porta al desiderio di seguirlo, magari potendo scoprire l'atavico mistero di cosa ci sia dopo la morte. Imparando a valorizzare le cicatrici collezionate durante il duro cammino della vita, Sergio è orgoglioso di portare avanti lo stesso nome del padre, colui che gli ha insegnato a vivere basandosi su nobili principi, come il rispetto e l'umiltà. 

Itsalovesong

Nonostante il titolo, la successiva "Itsalovesong (Questa è Una Canzone D'Amore)" non è la classica power ballads, ma si tratta di 121 oscuri ed acidi secondi strumentali, naturale proseguimento dell'altra traccia strumentale che apre il platter. Anche in questo caso è Luc ad aprire il brano, con un avvolgente arpeggio di basso che rievoca atmosfere Powerslaveiane. Mau trilla sui piatti, dando vita ad un climax che culmina con il suo definitivo ingresso in campo. I lamenti della sei corde rendono ancora più oscura l'atmosfera. Successivamente Sergio inizia ad accompagnare con un cupo strumming. Si respirano le oscure e malsane atmosfere dei Porcupine Tree. Una volta premuto il pedale della distorsione, il brano entra nel vivo. I caustici accordi, saturi di note, danno vita ad un lisergico impatto sonoro, Mau inizia a tempestare di colpi il set dei piatti, in pieno stile doom, lo wah -wah dona ai fraseggi di chitarra un'anima malvagia che diffonde un alone di terrore, andando poi a dissolversi lentamente in fader, mettendo nuovamente in mostra l'oscuro arpeggio di basso.

Saint John's Night

Siamo giunti all'ultima traccia dell'album, "Saint John's Night (La Notte di San Giovanni)", propostaci in una brillante veste live unplugged. Si tratta di poco più di un minuto e mezzo che vede protagonista Sergio e la sua chitarra. Lo sferragliante strumming acustico accompagna la calda voce per le prime strofe. Un breve stop, alcune battute strumentali e ritorna la strofa, che mette in mostra l'ottima voce di Sergio, che a quanto pare se la cava egregiamente anche al di fuori delle confortevoli quattro mura di uno studio di registrazione. Altra pausa, poi arriva l'inciso. Lo strumming della chitarra rimane in linea con quello della strofa, Sergio esplode recitando ed intrepretando magicamente le note conclusive del brano, che forse sfuma verso l'epilogo proprio sul più bello. La notte di San Giovanni, che si consuma fra il 23 ed il 24 Giugno, è la notte magica per eccellenza. Si fondono insieme antichissime tradizioni popolari e profondi significati esoterici e religiosi per il fatto che, la ricorrenza di San Giovanni, è legata al solstizio d'estate, che dalla notte dei tempi è sempre stato motivo di riti e leggende. Ma i ricordi di Sergio legati alla magica notte di San Giovanni, non hanno niente a che vedere con streghe e riti magici, ma il nostro associa i variopinti fuochi d'artificio che illuminano il cielo, mescolandosi alle stelle, ad una intensa storia d'amore, di cui non rimpiange nulla, ricordando con affetto la donna che ha dato un senso alla sua vita. Effimera ballata da spiaggia, che rievoca le calde serate passate di fronte ad un falò, magari in compagnia di amici e birre gelate, brano che penso abbia un forte valore affettivo e che comunque non stona di certo con il resto del platter, andando a chiuderlo in maniera dolce e piacevole.

Conclusioni

Di solito, quando ci troviamo di fronte a veri e propri calderoni musicali che miscelano le influenze dei vari componenti, come nel caso dei nostri Hard Reset, risulta difficile classificarli alla perfezione e ci salviamo in calcio d'angolo con un "Alternative Rock" o un "Post Grunge", generi che riescono a racchiudere una vasta gamma di sonorità, addolcendo la verve del rock indipendente con una gradevole spruzzata di melodia. Ed è proprio questo che fanno gli Hard Reset. I nostri riescono a legare perfettamente tutte le loro influenze mediante un filo conduttore logico e ben delineato, che riesce ad amalgamare perfettamente sfumature melanconiche di Muse e Placebo con la verve dei Ramones e dei Foo Fighters e la calda melodia americana di 3 Doors Down e Counting Crows, il tutto senza sfociare nel plagio ma costruendo un loro tipico sound, che mette in mostra la calda voce di Sergio Strada, dalla timbrica prettamente yankee, che nei momenti più melodici ricorda molto da vicino quella di sua maestà Jon Bon Jovi. Il nostro non si limita a cantare in maniera eccellente, confezionando ammalianti linee vocali, ma è anche il compositore delle liriche, profonde e mai banali, che si incentrano su una positiva voglia di cambiamento, nonché l'unico chitarrista del gruppo, con l'arduo compito di dover sopperire all'assenza di una seconda chitarra o di una tastiera. Il nostro punta molto sulle accordature delle chitarre, che non sempre seguono quella standard, in modo da riempire gli spazi con oscuri sciami di note gravi, sature e caustiche. Per smorzare la tensione, ricorre spesso ad articolati e cristallini fraseggi arpeggiati, mentre raramente ruba la scena con funambolici assoli. Anche l'amico di lunga data Luca Murano deve fare gli straordinari al basso, martellandoci con insistenti tappeti e taglienti groove, spesso sporcati dagli effetti a pedale, seguendo le sostenute ritmiche punkeggianti di Mauro Macchia. Senza eccedere in virtuosismi, i nostri fanno della musica la voce della loro anima, mettendo su pentagramma quello che gli viene dal cuore, senza rendere conto a nessuno, come è giusto che sia, puntando solo a diffondere il lor messaggio musicale, badando al sodo. Sergio e compagnia cantante mettono in mostra anche una discreta capacità di songwriting, che però rischia di sfumare e risultare ripetitiva alla lunga dei 15 brani che compongono la track list, a mio giudizio un po' troppi, l'unico punto debole del platter. Ma i nostri hanno deciso di includere tutte le tracce a disposizione, forse a causa di forti legami affettivi a brani che bene o male ripercorrono tutti i duri anni della gavetta, passati a sudare nella sala prove. Con quattro - cinque brani in meno, alcune interessanti trovate in fase di arrangiamento, come le brillanti idee di presentare una versione alternativa di strofa o inciso apprezzate in "Rain" e "What I Hope to Find" non avrebbero suscitato una leggera sensazione di déjà-vu, quando si è nuovamente paventata poche tracce più avanti. "Machinery & Humanity" è venuto alla luce il 19 Giugno del 2015, registrato, mixato e masterizzato presso i Mathlab Studio di Pistoia da Jonathan Mazzeo, dopo aver registrato le parti vocali sempre nella medesima ridente cittadina toscana agli Ampire Studio, con la supervisione di Stefano Tocci. La produzione è una collaborazione fra il power trio fiorentino e la Sliptrick Records, la label che si è accaparrata le prestazioni del combo toscano. L'artwork, molto particolare, raffigura un leonardiano marchingegno che lancia palline da tennis, trasformate poi in coloratissimi cocktail, che vengono serviti ad una scimmia, che a sua volta controlla un simpatico robot a forma di orsacchiotto, che stampa il messaggio della band. La geniale idea è del drummer Mauro Macchia, in collaborazione con la Alkmx.LLC ed è stata messa nero su bianco da Kenneth Brown, mentre le foto sono opera di Simone Ballerini. Tirando le somme, questo "Machinery & Humanity" è un album frizzante, intelligente, grintoso e melodico allo stesso tempo, che di italiano non ha proprio nulla, omogeneo, senza hit da classifica, ma anche privo di brani che invitano a premere le malefiche due freccette che ci portano alla traccia successiva. Album che sicuramente sarà apprezzato all'estero, ma che forse non riceverà lo stesso meritato consenso in patria, visti i bassissimi livelli di cultura musicale che vigono nel Bel Paese, dove oltre ai tre- quattro pseudo musicisti che ormai da anni ci tediano con i soliti tre accordi, si campa di tribute band e patetici format musicali, non valorizzando ottime realtà musicali nell'ambito rock metal, che non hanno niente da invidiare a quelle straniere, e vi assicuro che dalle Alpi all'Etna, ce ne sono molte e per tutti i gusti. Chi come me è ben lieto di dare una mano alle band underground italiane, che senza non pochi sacrifici diffondono il proprio messaggio musicale è invitato ad acquistare il prodotto. Chi ama il frizzante alternative rock americano senza fronzoli, lo acquisti a scatola chiusa e non rimarrà deluso. 

1) When We Collide
2) Cyclops
3) Beautiful Cloud
4) Tweed
5) Changing
6) Drawbridge
7) When The Lights Go Down
8) Rain
9) Mold
10) What I Hope to Find
11) Venice Souvenir
12) Monkey Seeking
13) Same Name
14) Itsalovesong
15) Saint John's Night