HARAKIRI FOR THE SKY
III: Trauma
2016 - AOP Records
ANTONINO TOMASELLI
09/01/2021
Introduzione Recensione
Puntuali come un orologio svizzero, a distanza di due anni dal predecessore, gli Harakiri For The Sky ritornano sul mercato con la loro terza fatica discografica sempre sotto l'egidia dell'etichetta AOP, che rilascia III:Trauma il 22 luglio 2016. In tale arco temporale, Aokigahara ha nel frattempo suscitato una notevole attenzione mediatica verso la band, ed un successo neanche tanto inatteso dopo l'ottimo omonimo esordio del 2012. Aumentate le richieste per suonare in giro, soprattutto fuori dai confini nazionali, la band ha la possibilità di allargare la propria audience sfruttando benissimo i suoi incendiari live show come veicolo promozionale. Di fatto, gli ottimi consensi ricevuti con l'album del 2014 mutuano la percezione musicale ed interpretativa del duo austriaco. Resta l'approccio che condensa ruvidità black e melodie molto pronunciate alla Deafheaven, o Alcest per intenderci, ma questo connubio si riveste di una produzione "rock oriented" e abbordabile. Intervistati subito dopo l'uscita del disco, affermarono il loro tentativo di evolversi e provare a cambiare senza snaturarsi, con i rischi dovuti a chi magari avrebbe preferito lo status sonoro di "Aokigahara", piuttosto che quello del nuovo parto musicale. In effetti il filo di Arianna attraverso il quale i nostri si muovono nei sinuosi e labirintici anfratti di un mesto e sempre più decadente depressive rock corposamente "post", perde di aggressività, e l'impulsività sgraziata e sguaiata che aveva caratterizzato i precedenti dischi si dilegua a favore di dinamiche sonore che dipingono scenari meno bruschi e pervasi da un'atavica malinconia di fondo, la quale, rispetto al passato, è adesso espressa a profusione tramite melodie decisamente più orecchiabili e di facile ascolto. Un tentativo di ripulire il suono dalle asprezze del passato prossimo della band che non devono di certo far pensare ad un sound "leggero". Anzi, questo ammorbidimento parziale favorisce paradossalmente la costruzione di brani con una maggiore profondità emozionale. L'idea è quella di sottrarre aggressività per permettere di sommare emozionalità derivante da un abissale ed accorato senso di malessere esistenziale, nonché di meditante nostalgia che trasuda anche dalla lettura dei testi dell'album. Il cambiamento musicale in atto infatti si palesa in modo lampante nei testi a corredo della proposta musicale, che quasi si "adeguano" alle nuove necessità espressive della band. La violenza sonora necessaria a trattare la morte e vivisezionarla in tutte le sue sfaccettature in Aokigahara, non è più utile per trattare in III:TRAUMA argomenti quasi interamente incentrati sul tema della adolescenza e della gioventù perduta, e del fluire inesorabile ed ineludibile del tempo. Quindi, dal punto di vista prettamente musicale, con quest'opera l'etichetta black metal risulta francamente stare ormai stretta rispetto a nuove modalità espressive che stridono se rapportate alle furenti esternazioni soniche dei precedenti album. Qui dentro siamo avvolti dallo shoegaze, e il post-rock assume non i contorni a completamento dell'opera, ma bensì una smaccata priorità e valenza stilistica. Ma nulla si sviluppa per caso nella musica e nel conteso lirico-visivo degli austriaci, che a quel filo di Arianna testuale prima descritto, si aggrappano con forza e rispetto nei confronti di quanto composto nei precedenti album. La basilare continuità di fondo è garantita quindi non solo musicalmente, anche se con le dovute variazioni stilistiche esposte, ma anche tramite il concept riscontrabile dalla cover del disco che, manco a dirlo, ancora una volta come da prassi raffigura degli animali. Gli stessi cervi citati in apertura dell'ultimo brano dell'album precedente, ritornano prepotentemente e non certo casualmente, a mostrarsi ed incornarsi tra loro su un abulico sfondo simil bianco. A ben vedere e da un'attenta analisi risulta di non semplice lettura (come per la copertina del precedente album), comprendere chiaramente lo stato d'animo che i soggetti raffigurati vogliono rappresentare. Così i due cervi (animali dall'alto valore simbolico), non lasciano intendere se si stanno sfidando, se stanno semplicemente giocando o addirittura si stanno dimostrando in questo modo il loro affetto. Enigmatici come lo era la volpe della copertina di Aokigahara e come lo sono una buona parte dei testi delle loro canzoni. È questo il punto di partenza per apprezzare in pieno un album decisamente personale e particolarmente intimista, che tra inconsci richiami di "pascoliana" memoria, e come una versione moderna della Canzona di Bacco di Lorenzo il Magnifico, narra del tempo fuggito e sfuggente, di rimpianti e di quando la vita si viveva senza alcun peso. Torniamo allora un pò tutti fanciulli, lasciandoci cullare da sconsolanti, avvilenti e delicati arpeggi, incapsulati su un substrato musicale diverso ma pur sempre colmo di rabbioso "appeal" emozionale. Il duo viennese in tale contesto continua ad avere ben pochi rivali, maneggiando con estrema disinvoltura e passione la materia in oggetto, e zigzagando all'interno della psiche degli ascoltatori come un fluttuante moto d'onde sospeso.
Calling the Rain
I malinconici accordi di tastiera e piano di Calling the rain (Chiamando la pioggia), danno inizio al disco palesando già in modo più o meno velato il mood che permea l'intera opera. Delle chitarre non particolarmente irruente e dosate in modo preciso sull'atmosfera che ben presto si è venuta a creare ad inizio brano, ne perfezionano l'andamento che parla di una triste storia di amicizia spezzata dall'estremo gesto compiuto da uno dei due, e dello stato d'animo di terribile ed apatico vuoto venutosi a creare nell'animo di chi si sente adesso anche lui "morto come i nostri sogni". Non è di certo la prima volta che la band affronta tale argomento nelle loro canzoni, anzi al tema del suicidio i nostri hanno di fatto dedicato tutto l'intero album precedente, ma nonostante ciò il testo risulta interessante in quanto per la prima volta l'argomento è trattato da un angolatura diversa, non dal punto di vista di chi compie l'irrazionale gesto, ma da quello di chi lo "subisce". A tal proposito la sofferta e quanto mai partecipe interpretazione di J.J., potrebbe anche far pensare ad un testo in qualche modo od in parte autobiografico, e non mancano le pennellate d'autore riversate con l'inchiostro su tale contesto sonoro: "Questo è stato l'anno in cui mi sono seppellito nella polvere dei giorni!".
Il brano (che a voler essere sinceri soffre di un minutaggio eccessivo e che soprattutto nella parte finale tende ad avvilupparsi su riff ridondanti e sin troppo statici), sale comunque di tono e di mordente nel luccicante break centrale, in cui musica e parole interagiscono e veicolano egregiamente l'amarezza, la fine della volontà, e la decisione che prende il sopravvento nei pensieri e negli atti del protagonista, ossia quella di seguire i funesti passi dell'amico scomparso!! Strumentalmente è questa la parte decisamente meglio messa a fuoco del brano, e contiene in un paio di minuti le migliori e tipiche caratteristiche del harakiri sound, basato su riff rabbiosi, doppiati, ed infarciti di urgenti e per nulla banali linee melodiche. Per il resto l'intero brano, e non sarà l'unico, si adagia in territori squisitamente post rock nella forma e nella produzione, con alcuni sussulti leggermente più decisi a punteggiarne l'andazzo.
Funeral Dream
Non me lo spiego se non come l'ennesima coincidenza, ma ancora una volta come già successo in entrambi i precedenti due album rilasciati dagli austriaci, la seconda traccia risulta essere quasi incontestabilmente l'highlight del disco. Il capolavoro stavolta prende il nome di Funeral Dreams (Sogni funesti), brano di cui la band ha rilasciato pure un'esaltante e disturbante lyric video diretto da Andreas J. Borsodi. Dopo un'intro assestata su una bella base ritmata di batteria e di chitarra arpeggiata, il possente ed iroso urlo liberatorio del cantante si staglia ad aprire le danze di un pezzo fortemente metal e ricco di variazioni e cambi di tempo e di atmosfera che lo rendono sin dal primo ascolto molto godibile ed apprezzabile. La prima parte del brano si dimena sulla veloce doppia cassa del batterista ospite di turno, e il vocione roco e caratterizzante di J.J. che sputa fuori il veleno che riallacciandoci al lyric video di cui accennavamo sopra, necessita a descrivere con immagini scioccanti e di forte impatto, quanto il genero umano possa essere in grado di degenerare in crudeltà a volte persino gratuita, e nell'efferata ricerca ed attuazione del male assoluto. Come da prassi Il testo non è di certo prosaico anzi tutt'altro, ed è una fredda e cinica metafora su quanto possa risultare disattesa la realtà ed il futuro su cui da ragazzi si fantastica. Invece la reale realtà sbattutaci in faccia fa causticamente male, come oggettivamente lasciano a tratti inquietati ed inquieti gli spot di pura miseria umana che s'incollano l'un l'altro nel video in questione, in cui guerre, violenza urbana e personale, esecuzioni di massa, cavie umane per esperimenti non meglio identificati, droga, morte e mistificazione del male in tutte le sue manifestazioni, si susseguono in rapida sequenza a martellare mente e spirito. E la musica di riflesso non può fare altro che amplificare il tutto, rivestendo il brano con un mantello di nera mestizia e di ambigua ed oscura violenza, alternata a cambi di umore musicali marchiati nel sacro fuoco della memorabilità. I continui break emozionali, la furia ed i rallentamenti dei pattern di batteria e delle melodie chitarristiche, qui raggiungono il loro climax, in un apoteosi di brividi e vibrazioni a fior di pelle. Non ce una sola nota fuori posto in questo brano, un solo screziante urlo che non sia funzionale al resto. Chapeau!
Thanatos
A completare la doppietta di brani da incorniciare arriva Thanatos (Morte). Senza dubbio il pezzo in questione è quello che maggiormente tende a riportare la mente ai lavori composti precedentemente dal duo. Il ciondolante andamento che vagheggia continuamente tra momenti di calma apparente e dirompenti accelerazioni, e che di fatto rappresenta il trademark della band, qui è infatti perfettamente sublimato in una prestazione efficace ed eccellente, che tiene in tensione e si addice in modo consono alla spietata e cruda rappresentazione di un mondo interiore presente che non si vuole, e di uno, quello dell'infanzia, che si rimpiange ma che è ormai andato senza poterlo più afferrare per trattenerlo.
L'inizio del brano tanto dolce quanto carico di mestizia, si poggia su un delicato arpeggio che si lascia avvolgere da carezzevoli synth, come se il bambino che è in noi si trovasse ancora sospeso nella bambagia del "suo" mondo, non in quello di apatia ed abissale vuoto che subito dopo si può quasi toccare nei detonanti e veloci riff simil post black che scandiscono le amare riflessioni del protagonista fino al quarto minuto del brano. Poi succede quello che non ti aspetti; al diciassettesimo brano ufficiale della loro discografia (non considerando la cover dei Tears for Fears contenuta nell'edizione in vinile di Aokigahara), per la prima volta la burbera, grezza e urticante voce di J.J. si scioglie in un tentativo a mio avviso parzialmente riuscito, di utilizzo delle clean vocals. Sentire il cantante in pulito fa un certo effetto e comunque ci sta nel contesto del brano, che poi riprende a correre su ritmi sostenuti ma mai troppo selvaggi, soprattutto grazie all'indefesso lavoro ritmico delle drums. La seconda parte si rivolta sui riff tirati e precisi di M.S. che si articolano ed intrecciano in continuazione per lasciare spazio ad un finale in crescendo ed a suo modo epico, che è musicalmente in linea con le ragionate e disilluse affermazioni finali di chi adulto, si sente adesso lunatico e paranoico, ed afferma che "A volte le cose devono cadere a pezzi per fare strada ad altre migliori", per poi giungere però all'amara considerazione che si è solo un ombra, un fantasma in un mondo che crolla a pezzi ripulito da "avvoltoi spazzini". Inutile rimarcare come questo sia l'habitat naturale in cui gli austriaci riescono divinamente a trasferire piacevoli e disagianti emozioni.
This Life as a Dagger
Si ritorna sui territori più conformi ad un blando e depressivo post rock di matrice metal con This life as a dagger (Questa vita come un pugnale). Quello che subito colpisce è la produzione dei suoni, che risultano poco spinti e leggermente ovattatati; magari non è così ma si ha l'impressione che la band qui per gran parte della durata del brano suoni con il freno a mano tirato, come se volesse tenere volontariamente a bada piuttosto che scatenarla, la belva covata al loro interno. Se la giocano invece ai confini del genere con un mid-tempo pesante (ma non troppo), e scuro. Interessante e ammirevole la volontà e/o necessità di variare una formula alchemica fino a questo momento vincente, per cercare di dare nuova linfa e brio alle loro composizioni. Il risultato finale lascia però un tantino a desiderare. La prima parte del pezzo (che come per il primo brano recensito certamente avrebbe guadagnato in impatto e valenza se fosse stato più snello e corto nel minutaggio), non è certo paragonabile al meglio della produzione della band, ed anche se riprende quota nella parte centrale con alcuni break e linee armoniche di chitarra degne di nota, purtroppo ricade nuovamente in un prolisso finale che nulla toglie ma francamente niente aggiunge alla composizione, che al momento risulta essere la più debole tra quelle ascoltate, sia nella forma che nella sostanza. Siamo sempre al di sopra della media ma forse i due ci avevano sin troppo bene abituati.
Anche l'argomento trattato dal testo si rifà in modo quasi pedissequo a quello della prima traccia, riprendendone in toto i contenuti ed estremizzandone gli aspetti di rimpianto, rimorso e devastante nostalgia. Ma almeno il meglio del brano forse risiede proprio in tale fine scrittura che con flashback di notevole intensità interiore ne fissa il contenuto: "Il nostro passato mi ha raggiunto di nuovo, questo orizzonte di montagne, come sempre minaccioso si alzò alle mie spalle, tutt'altro che ben disposto come un globo che tutto sconvolge". In definitiva un mezzo passo falso per un brano il cui ascolto non si può di certo definire imprescindibile.
The Traces We Leaves
Il tormentato universo interiore di chi più va avanti nella frastagliata strada della vita e meno trova motivi validi per continuare a percorrerla, si materializza nella quinta traccia dell'album ossia The traces we leaves (Le tracce che lasciamo). Il ragazzino che ha perso la sua adolescenza, che ha perso il suo tempo, che ha perso i ricordi della sua città natale, ed i suoi affetti più cari, adesso dopo la visita alla tomba dell'amico a chiusura del brano precedente, lascia che la tristezza prenda il sopravvento, ed incolpa "il mondo" per averlo reso così depresso, intimamente alcolizzato e drogato, perché il pantheon di atroce disforia che alberga in lui, è dettato da questo mondo che contro di lui sembra essersi accanito.
L'iter atto a descrivere tanto dolore si basa dall'inizio e sino ad una buona metà del brano, dapprima su dei romantici e sopraffini accordi di piano che creano l'humus perfetto al successivo sviluppo sonoro edificato su possenti e marmorei riffoni di chitarra, tartassati da drums ossessive e ripetitive. A seguire il "solito" mirabolante break centrale del pezzo vede salire in cattedra M.S. che sforna una delle migliori linee armoniche dell'album, la quale poi ritorna ad infilarsi di prepotenza nella parte finale del brano, che in un tripudio di chitarre roventi ci stordiscono ed acquietano, supportate sia dalle lancinanti grida di effimera vendetta dell'ottimo J.J., che dalle rime vergate di totale disillusione da lui intonate: "È difficile svegliarsi da un incubo, quando non sei nemmeno addormentato, ma questo mondo distrugge tutti, e poi alcuni sono forti nei posti distrutti..."
Brano accorato e ben delineato che ricalca in modo congruo quella che ormai è chiaramente la scelta stilistica intrapresa in tale lavoro dal duo, ossia un post rock emozionale, sporcato da decise partiture metal e di stampo gaze. Manca il refrain da urlo, il brano necessita di assimilazione e predisposizione per goderne appieno, ma intrinsecamente si lascia ascoltare piacevolmente e riserva momenti di sincero e puro disagio che faranno breccia nel cuore di chi vigila davanti ad un bicchiere di troppo durante notti insonni, o semplicemente adagia la mente su ricordi languidi e nostalgici.
Viaticum
La definizione latina di Viaticum (Viatico) indicava presso gli antichi Romani, la scorta di indumenti, cibo e denaro necessari per un lungo viaggio. Ai giorni nostri in termini figurativi identifica anche il "corredo" spirituale di un individuo e/o un sostegno morale dato o ricevuto. Inoltre a livello ecclesiastico il viatico equivale alla comunione ricevuta dai moribondi in punto di morte. Qualsivoglia significato s'intenda dare al titolo del brano ben si addice all'argomento trattato in questo pezzo, in quanto qui assimilato e fagocitato nella sua globalità. Alla fin fine ormai l'album risulta sempre più affossato negli infimi abissi di uno sconfortante depressive rock mai troppo minimale o soffocante. Il lungo viaggio, il viatico, è quello che metaforicamente (ed in metafore i harakiri nei loro testi sono sempre stati dei maestri), descrive una generazione incompresa, in fiamme, diseredata e dannata. Il viatico è il sostegno morale di cui ha bisogno l'indomito eroe adolescente che tenta di sfidare le ombre e finisce per seguirle vagando con loro in un vuoto labirinto. Il viatico è l'estrema unzione amministrata ad uno spirito che vuole solo essere scortato nella casa madre perché non ha imparato a vivere. La musica che ne deriva è figlia di un "duro" shoegaze, irrobustito ed insufflato con acide vocalità e chitarre che non raggiungono le velocità sostenute dei precedenti lavori, ma ricamano strofe metriche invitanti che si librano in variopinti volteggi ritmici di prim'ordine. Le brevi accelerazioni di metà brano, enfatizzano il ritorno alle strutture armoniche che fungono da assi portati dello stesso, e che di colpo si aprono sul più bell'intermezzo del disco, ripreso, accompagnato, doppiato, e completato nell'incandescente finale. Finalmente un paio di minuti di entusiasmante coralità che ci riappacifica con la follia creativa degli austriaci. "Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica." Così recita un famoso aforisma di Friedrich Nietzsche. E la band qui è animata da sincera passione che a chi non riesce a comprendere né il significato né il valore della loro musica, può farli apparire un po' folli, e non invece mentori di una proposta a cui danno lustro e dignità artistica.
Dry the River
L'indolente e flemmatico abbrivio di Dry the river (Asciuga il fiume), risulta solo apparentemente fiacco e statico, perché possiede una strana e vigorosa intensità, che sfruttando anche la bislacca e feroce vocalità di J.J., prepara in modo impalpabile le basi alle dirompenti progressioni che a breve ridefiniranno in meglio l'evoluzione del brano. La traccia in oggetto gode e soffre contestualmente e forse ancor più delle altre inserite nei solchi di questo disco, dell'ambivalente capacità di contorcersi su se stessa, e nel preciso istante in cui un sottile filo di monotonia possa prendere il sopravvento, divincolarsi in modo ineffabile a furia di cambi di tempo e velocità, cambi di tonalità espressive, di un basso che pulsa come un cuore in iperitmia, e di una rimodulazione costante dell'uso della batteria e delle chitarre ritmiche. Tutta la seconda parte del brano è letteralmente da sballo ormonale sino allo sparo finale, e rappresenta (passatemi il termine), il Bignami del harakiri-sound, installandosi in loop e rilasciando da subito scariche di pura adrenalina. Il miglior brano dell'album assieme alla sopra recensita Funeral Dreams, nonché esempio da utilizzare per spiegare ai neofiti che cosa sia il post metal!
?Il contenuto testuale, a questo punto potrebbe serenamente essere bypassato, ma sarebbe un grosso errore perché l'anima angosciata e la mente sensibile e ricettiva di J.J. creano quello che a mio avviso si guadagna la palma di miglior testo. Siamo sempre immersi forse nella tematica più cara alla band, quella che si ritrova impressa in modo maggiormente ciclico e costante, e che quasi osteggia qualunque altra forma sintattica e di pensiero: in definita ancora una volta si parla di morte e suicidio, ma parafrasando il testo, i nostri lo fanno sempre abbeverandosi sui fiumi di una strabordante creatività metaforica, schizzando un effigie che simbolicamente rappresenta o quanto meno potrebbe universalmente rappresentare ognuno di noi colto nei momenti più difficili della propria esistenza. "Mi sento innamorato, come le falene sono attratte dalle fiamme. Sono il diluvio, il diluvio più grande di tutti, la mia nemesi ...". Immergetevi e cercate di amalgamarvi e di ?asciugare il fiume, non ve ne pentirete.
Bury Me
Per intenderci, l'aggettivo ludico di certo non può essere affibbiato al microcosmo sonoro dei Harakiri for the sky; la loro è musica che galleggia sospesa in una sorta di invisibile alone di estremo antiescapismo, ed anche nell'ultima traccia dell'album Bury Me (Seppelliscimi), tale constatazione si rafforza sulla base di una musica e di un testo criptico e dolente. Quasi a volere musicalmente dar vita e movimento ai sotterranei versi ululati da un J.J. sempre in gran forma, il brano attinge sin dall'inizio da un umorale rock/metal molto melodico nel riff portante, su cui Sollak inserisce le sue consuete armonie chitarristiche di stampo shoegaze a supporto. Ritmo cadenzato e basilare perfetto per la nenia ctonia che J.J. si cuce addosso tramite una rimarchevole interpretazione. Come spesso capita nei loro brani l'andamento viene poi spezzato da un deciso cambio di passo, con melodie che si ravvivano e si fanno più sostenute ed interessanti, sino al bellissimo arpeggio che poi ci conduce per mano alla seconda parte del pezzo, comandata ad arte da uno sfrenato lavoro di batteria asservito a un elegante rifframa. La band cerca e forse trova in un'ottica escotologica, la ragion d'essere ed il destino ultimo di ogni individuo e probabilmente dell'intero genere umano. Quando l'infanzia, l'adolescenza, la gioventù ormai sono come riflessi informi ed intangibili su uno specchio d'acqua, quando gli amici di una vita sono andati via e la stessa scorre in modo inerme, allora ed ancora una volta può far capolino nella mente la subdola e reiterata idea di tornare alla casa madre. Ciò del resto si evince non solo in modo lapalissiano dal titolo del brano, ma anche ad esempio da quel verso che per l'ennesima volta come già nel brano d'apertura Calling the rain, poi in Viaticum, ed adesso non a caso nel brano di chiusura si ripete e serve a conglobare le varie anime dell'album ed a chiuderne il cerchio: "la polvere dei giorni". Gli austriaci si congedano così, con un brano tutto sommato abbastanza lineare, che si mantiene su buoni standard qualitativi pur non eguagliando l'eccellenza di tracce ascoltate sia in questo che nelle precedenti releases.
Conclusioni
La musica dei Harakiri for the sky non è per tutti, non è mai stata di facile ascolto e semplice assimilazione. Vive di abnormi scostamenti ritmici, di propensioni, pulsioni e tensioni che variano profondamente, soprattutto, in base alla predisposizione e allo stato d'animo di chi si cimenta al loro ascolto. Questo strano preambolo serve a mettervi "in guardia" da quello che sarà il resoconto finale sull'album, frutto non solo dell'approccio personale e ben consolidato che il sottoscritto ha al genere, ma pure dalle variabili sopra riportate. Reduci da due dischi accolti unanimemente da critica e pubblico in modo molto favorevole, ed in un 2016 che risulta scevro di uscite di rilevo nel genere di riferimento a parte i nuovi di Neurosis e Cult of Luna, il duo austriaco giunge con il fatidico terzo album ad un bivio della sua pur breve carriera: continuare imperterriti sulla scia dei precedenti lavori, o comunque restare fedeli ai già battuti territori circoscritti da un potente post metal di chiara derivazione gaze e a tinte depressive, oppure cercare di apportare variazioni sul tema alla loro proposta, tentando magari di renderla maggiormente fruibile in un mercato discografico saturo di novità e di nuove uscite discografiche, ed in cui di norma la qualità risulta ormai inversamente proporzionale alla quantità di opere rilasciate. Delle due vie la band decide di percorrere la seconda, assumendosi di fatto i rischi di tale leggera ma sensibile virata presso lidi musicali sì heavy ed in linea con quanto sinora prodotto, ma certamente in modo marcatamente meno irruento ed estremo, quantomeno a livello musicale se non in quello testuale. Non sarebbe però l'approccio corretto quello di giudicare l'album paragonandolo ai precedenti, perchè la valutazione deve tenere conto solo dell'opera in sé, senza dovere di fatto scomodare necessariamente o inconsciamente il recente passato. Il fatto fondamentale però è che indipendentemente da quale sia dei due il punto di vista considerato per l'analisi del disco, il risultato finale ai punti vede la sconfitta dell'ultimo parto in casa Harakiri. Lo scivolone non è evidente e facciamo subito chiarezza; stiamo pur sempre disquisendo di un album abbondantemente sopra la media, e in cui non mancano né sprazzi di sopraffina memorabilità, né talento a profusione. Quello che manca è la "garra", quell'inusitata e sconcertante visceralità recondita, quella gelida e dilaniante epopea emotiva in grado di travolgere e spostare gli equilibri sensoriali dell'ignaro ascoltatore. Direi che il motivo di ciò in parte può essere addott, non solo da un approccio più squisitamente ragionato e molto meno black metal in termini di sonorità e di approccio al sound, ma anche da una vena compositiva meno fluida e da una minore versatilità nei testi. Francamente pur sempre criptico, e foriero di enigmatici e funesti presagi, quanto partorito dalla penna di J.J. in questo album non riesce a raggiungere le iperboliche vette che in Aokigahara spesso rasentavano la perfezione soprattutto nelle variazioni ed approfondimenti geo-storico letterari sul tema trattato. È come se gli scritti di questo album, piuttosto che brandire i suoni in un putiferio di sciamaniche suggestioni, si accontentassero di ammorbarlo senza scuotere la musica prodotta dalla band. Nulla da eccepire, invece, in merito all'aspetto tecnico ed esecutivo dei nostri. Ogni strumentista ed ogni strumento fa il suo dovere e svolge degnamente il ruolo affidatogli. Sollak si destreggia con maestria tra le poche zone spinte verso un metal più estremo, e mostra decisamente il meglio di s nelle tante dirompenti ma gagliarde divagazioni melodiche. La sessione ritmica è presente, possente e precisa, il bassista riempie doverosamente dove necessario i pochi vuoti lasciati da un drumming quasi sempre in primo piano, che in molte tracce funge da vero collante propulsivo, e dà slancio al drammatico e disperato cantato di J.J., che in questo disco generalmente risulta meno rozzo e cafone, cimentandosi addirittura in qualche breve soluzione in pulito. In definitiva un lavoro di buonissima fattura, ma non del tutto privo di sbavature dettate forse dal tentativo di voler dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, nel ragionevole e perseguibile scopo di rinnovarsi restando se stessi. Il giudizio finale su III - TRAUMA non può che essere positivo. Gli austriaci ormai sono pronti per viaggiare a vele spiegate, e questo disco permetterà loro di ampliare l'audience e di ottenere gratificazione personale e riscontri commerciali. Ma attenzione, perché l'effetto boomerang è silente ma dietro l'angolo: il quarto album probabilmente rappresenta la vera prova del nove per testare se i nostri effettueranno il passo decisivo che possa confermarli a protagonisti e fuoriclasse della scena, o declassarli solo a degli ottimi outsider.
2) Funeral Dream
3) Thanatos
4) This Life as a Dagger
5) The Traces We Leaves
6) Viaticum
7) Dry the River
8) Bury Me