Harakiri for the Sky
Harakiri for the Sky
2012 - Art of Propaganda
ANTONINO TOMASELLI
12/09/2020
Introduzione recensione
Il post metal probabilmente assurge a genere musicale a partire dalla metà degli anni '80, sotto la spinta emotiva e deragliante di un gruppo allora di confine quale i Neurosis, fautori di uno scabroso e dissonante concentrato sonoro, che tra vagiti sludge e furia crossover/hardcore ne codifica le primigenie coordinate stilistiche. Dopo un decennio vissuto relativamente ai margini e come genere di nicchia, destabilizzato come per altri sottogeneri heavy dei primi anni '90 dall'onda d'urto del grunge, a partire dalla seconda metà degli stessi, e nel decennio successivo, viene rivitalizzato da band quali Isis, Cult Of Luna, Rosetta, Agalloch ed i già sopracitati Neurosis. Sono anni di profondi cambiamenti all'interno della scena, in cui le commistioni sonore diventano genesi di nuove forme espressive. Il proto post metal degli albori si fonde ad esempio, sia con le derive più atmosferiche del dark, che con quelle più estreme ed oltranziste del black, dando vita alla nascita di realtà musicali di primaria importanza che ad oggi sono motore propulsivo del genere: Deafheaven, Solstafir, Nachtmystium, Kylesa, The Ocean, Alcest, Novembre sono solo alcuni dei più validi rappresentanti. In questo contesto creativo che si forma a Vienna nel dicembre del 2011 una band che accoglie nelle sue corde lo spettro sonoro delle precedenti tre decadi, ridefinendo il concetto di post metal: Harakiri for the Sky. Il gruppo è effettivamente composto soltanto da due membri, il cantante ed autore di tutti i testi Michael "JJ" V. Wahntraum, ed il chitarrista nonché polistrumentista e mastermind Matthias "MS" Sollak. I due in realtà prima di tutto sono amici di vecchia data e l'unione artistica risulta la normale conseguenza di questo legame rimasto ben saldo e coeso nel corso degli anni. L'idea di formare la band balena nella mente di "JJ" mentre seduti a bere un drink, risuona nel locale un brano dei Woods Of Desolation (band australiana di black metal atmosferico formatasi nel 2005). Michael propone all'amico di accantonare i progetti musicali portati avanti sino ad allora da entrambi, per suonare qualcosa di diverso e più in linea con lo stile degli australiani. Wahntraum abbandona quindi sia gli Hoffnungstod (in cui pare suonasse addirittura anche il flauto), che gli Schabbock, mentre Sollak accantona momentaneamente i suoi BIFROST per gettarsi a capofitto in questa nuova avventura. Come da loro dichiarato a più riprese, non hanno alcuna intenzione di modificare questo stato di fatto, e non vogliono essere limitati nelle scelte artistiche da altri musicisti. Ovviamente durante i tour sono accompagnati al basso ed alla batteria da turnisti di livello (quasi sempre loro amici). La band ha riscosso un discreto successo in Patria, ed è stata nominata nel 2017 nella categoria metal agli Amedeus Austrian Music Awards, in pratica l'equivalente austriaco dei Grammy Awards americani. Non di rado il primo lavoro è il disco omonimo, ma poche volte come in questo caso tale scelta risulta quasi "obbligata" ed esplicativa dell'universo di riferimento di una band. L'album di debutto datato 23 ottobre 2012 su etichetta Art of Propaganda, è infatti una splendida crisalide pronta a trasformarsi presto in farfalla, ed in sole 5 lunghe tracce nessuna delle quali inferiori ai 7 minuti di durata, standardizza chi e cosa. "Il nome nasce dalla sensazione di sentirsi morire, di cadere, di non farcela più, e quasi in contemporanea di sentirsi come se si stesse per spiccare il volo e librarsi in cielo: è come correre verso un precipizio e saltare". Già da sola tale definizione rilasciata in più interviste da SOLLAK, apre le porte al mondo concettuale e musicale della band austriaca e del relativo disco di debutto. Un mondo che sa essere delicato e cangiante, devastato e devastante, drammaticamente pervaso da un senso di oppressione e di oscura bellezza, un mondo vissuto nella tormentata ed inutile ricerca della luce pur non perdendo mai la speranza che ciò possa accadere. Musicalmente siamo su livelli espressivi superiori e cosi ben delineati da rendere immediatamente riconoscibile la band. Post rock, black metal (più nella forma che nella sostanza), shoegaze, un quid di depressive e vaghe reminescenze darkwave, si fondono in un coacervo unico di emozioni gestite dalle harsh ma intelligibili vocals di "JJ", che magari non sarà tecnicamente dotatissimo, ma riesce con il suo incedere dilaniato, disperato e fortemente aggressivo, a dare un taglio unico alle pennellate tetre ed oscure, dolci e decadenti, ma comunque sempre sature di violenza interiore, tinteggiate dal fido compagno di viaggio. La maggior parte dei testi è il perfetto compendio di questa dicotomia sonora, affrontando temi quali follia, sregolatezza, tristezza, disperazione per amori finiti, e soffermandosi su altri quali suicidio e morte. Il tutto condito da riferimenti autobiografici celati dietro ad interessanti metafore. Cosi come decisamente metaforica e funzionale al concept lirico e visuale dei nostri è la cover dell'album, nella quale su uno sfondo grigio e cupo campeggia un corvo con le zampe legate che tenta invano di spiccare il volo. Panacea e catarsi dell'anima: questo sono loro, lasciatevi trasportare nei viaggi senza fine.
Lungs filled with water
Un basso ipnotico e un delicato e melanconico arpeggio di chitarra, si ergono sopra al rumore di tuoni e di pioggia battente. In crescendo, un riff distorto ed insistito si prende la scena sorretto da una invadente chitarra ritmica, sino a convergere in un cantato urlante ed urticante: ha inizio cosi Lungs filled with water (Polmoni pieni di acqua). Siamo di fatto già catapultati nel mondo ombroso e tribolato della band, impersonificata qui da un uomo solitario afflitto da una storia d'amore giunta oramai alla fine. E la si può immaginare questa figura impalpabile che ondivaga senza meta in una notte piovosa per le strade della città, in un viaggio più mentale che fisico attraverso le terre desolate tracciate dalla scelta di non abbandonarsi alla speranza, e di abbandonare l'amata dileguandosi e confortandosi nell'oblio. E ci si sente parte in causa, ritrovandosi a ripensare quante volte abbiamo noi solcato strade vuote e testimoni dei nostri cuori affranti, o a rimembrare i sacrifici e le rinunce fatte per un amore morente, rendendosi conto che vivere di speranza significa morire di delusione, e che scomparire in silenzio forse è meno doloroso che dire in faccia addio. Quello che da subito colpisce, è la capacità di trattare a livello sonoro in modo completamente diverso dalla norma un argomento scontato e a dirla tutta anche abbastanza trito e ritrito. Si percepisce pur senza scadere in suoni melliflui o strappalacrime, un desolante senso di inutilità che toglie significato a tutte le cose, un dolore che inaridisce, e rende sterili ed indifferenti soprattutto verso se stessi. Un dolore amico nonostante così poco gradito. Il brano prosegue prima su un bel riff portante decisamente post metal, per poi snodarsi in una serie di variazioni sul tema centrale in un susseguirsi di saliscendi emotivi, tra chitarre addolorate che si doppiano e poi s'inseguono in violente sfuriate, batteria dinamica e tentacolare, ed arpeggi che s'incastonano come pietre preziose sul tessuto sonoro e testuale, permeandolo di una greve eleganza. E così mentre un'alba infinita sfuma lentamente la fine della notte, nel logorio di un corpo fradicio e di una mente offuscata prende forma l'idea che l'unica soluzione forse è la soluzione, perché senza la persona amata non si è niente, ma si può essere terribilmente soli anche con lei accanto. Le accelerazioni finali gestite da percussioni e chitarre black ed old school sono da brividi, raffigurando in modo consono le conseguenze terribili di un amore svilito ma pieno di una rabbia di cui forse si può in futuro essere contenti, perché primo segnale di ripresa e di rivalutazione di se stessi. Le liriche nella parte finale del brano, si integrano perfettamente ai continui rallentamenti e cambi di tempo, che segnano emotivamente dentro, e lasciano spazio agli ultimi lancinanti e metaforici strepitii d'inquietudine esistenziale del protagonista, e di chi s'identifichi in tale ineluttabile limbo di solitudine e caducità. Così l'oceano diventa metafora di un amore tanto vasto quanto lontano, mentre i polmoni pieni di acqua lo sono del vano tentativo di poterlo salvare, attraversandolo a nuoto in balia delle onde. Si giunge alla fine di 8 minuti scarsi di mero esistenzialismo in musica, con alcuni dogmi "sartriani" a fungere da catalizzante nello sviluppo dell'intera traccia, la quale mette da subito in evidenza sia il target stilistico che le notevoli capacità compositive del duo austriaco.
02:19 A.M., Psychosis
La seconda traccia dell'album 02:19 A.M., Pychosis lascia letteralmente senza fiato! Un capolavoro di blackgaze, che si collega musicalmente e concettualmente al primo brano utilizzando come trait d'union i rumori della pioggia scrosciante ed il mood malinconico d'inizio brano, questa volta affidato a raffinati accordi di chitarra che fanno da apripista ad un sorprendente giro di arpeggi di stampo darkwave. Ma è solo un breve relax, perché un urlo lancinante spazza via questi attimi di serenità, e le classiche sonorità della band con chitarre in tremolo e batteria in perenne doppia cassa, accompagnano il cantato in simil black di "J.J.", le cui parole più che un testo sembrano le confessioni kafkiane dell'amante disperato e solitario del brano precedente. Vi è la constatazione delle paralizzanti e flebili possibilità umane, dell'insicurezza, della banalità e dell'insignificanza della quotidianità: l'inutilità diventa nichilismo, visione distorta di un mondo in cui la realtà perde di significato e diviene assenza, sensazione di annientamento. All'interno di tale stillicidio emotivo nessuna azione si differenzia da un'altra e tutto scorre con noncuranza; adesso non più fuori ma ingabbiato dentro stanze labirintiche, nel suo animo sgorga angoscia e mal di vivere. "La città è terra di nessuno e lui è lì perso in mezzo, e si sente perduto ovunque, anche nella sua stanza che percepisce come fosse una bara". Tutto il disagio interiore e la perdizione dell'anima, traspare nella straniante parte recitata a mo' di cantilenante preghiera, dopo un nuovo intermezzo "wave" ben incastrato sulla solida base metal del sound. Si prosegue nella fase centrale tra stacchi acustici, grida strazianti, blast-beat e riff armonizzati che sanno essere veloci, melodici e memorizzabili: la fantasia compositiva della band è eccelsa, e la musica assume una valenza catartica, con il nostro eroe di cartapesta che diventa simbolo dell'esistenza umana sbilanciata tra le molteplici ambizioni ed il misero riscontro delle possibilità, tra i voli pindarici della mente e la brutalità del reale. Perché si cercano ragioni e nuove vie oltre queste rovine, ma il silenzio dell'inverno è un rumore assordante e le notti si trascinano senza fine mentre le ombre si allungano. Questa è musica che scava in fondo, da ascoltare al buio, da soli. Una beffarda esperienza sensoriale che porta fuori da qualsiasi contesto spazio-temporale. Qualcosa difficile da descrivere ma alquanto semplice da provare, che in un parossistico intreccio lirico e sonoro materializza la precarietà e la vacuità del ciclo vitale dell'uomo, e la sua solitudine di fronte alla morte. Così le quasi "Ungarettiane" strofe finali del brano: "Non capisco quest'agonia, a cosa serve? Quando potrò trovare finalmente il mio rifugio autunnale?", e soprattutto il superbo e mirabolante break strumentale che lo chiosa, condensano in una orgasmica alcova sonora di circa un minuto la quintessenza della band, mettendo il punto esclamativo ad una prestazione maiuscola.
From yesterday to ashes
Delle tristissime e soffuse note di pianoforte introducono From yesterday to ashes (Da ieri alle ceneri). Lo stesso incipit sonoro viene ripreso da riff armonizzati ed a tratti in tremolo, e dal lavoro delle vocals stavolta leggermente meno urlate, quasi a voler rimarcare la mesta e cupa poesia di cui è invaso il brano, che è un amaro affresco sulla giovinezza perduta, ed illusoriamente vissuta come se mai dovesse finire. Il testo pur mantenendosi aderente al feeling malinconico ed ai canoni formali della band, a mio avviso risulta essere l'apice compositivo raggiunto in questo album da "J.J.", che riesce a tirare fuori da un argomento tutto sommato abbastanza inusuale (e con ogni probabilità autobiografico) il meglio di sé, ricamando uno scritto di sensibilità e bellezza abbacinante. Fulgido esempio i criptici versi iniziali, densi di una magnifica carica introspettiva: "Percorremmo sentieri sassosi per evitare questa siccità cristallina del destino". A ben pensare sino ad ora quest'album pur non essendolo si presenta come fosse un concept, un viaggio lungo una sottile linea rossa nei meandri di un'anima, che porta dentro di sé tutto il dolore del mondo, in un agghiacciante sconforto dettato ora da un amore finito, ora dalla depressione e dal mal di vivere, e adesso dal nostalgico pensiero di avere sprecato gli anni migliori della propria vita. Ancora una volta immediato risulta confrontarsi al protagonista del brano, e del resto che sia la generazione X piuttosto che quella dei millennial, molti lettori più o meno attempati avranno (e avremo) basi su cui potere stilare un bilancio degli anni che furono. E chissà se anche per voi/noi, la nostalgia è un doloroso rimpianto procurato dal desiderio di tornare in luoghi e periodi felici ma ormai trascorsi, e di cui non resta che un lontano miraggio che non tornerà più. Nostalgia degli anni più belli, quelli in cui si pensava di avere tutta la vita davanti, quelli in cui non si aveva paura di niente e si viveva alla conquista del futuro affrontando tutto con spirito battagliero e positivo. Il brano musicalmente prosegue su tempi medi e senza grossi sussulti per tutta la parte centrale. Sollak cesella e stratifica le sue classiche linee potenti e melodiche, che si coniugano alla perfezione con le riflessioni nervose ed inquiete di un uomo ormai adulto che paragona la sua vita (utilizzando un'altra delle metafore tanto care al cantante), ad una candela che brucia da entrambe le estremità. E tutta la rabbia repressa sfocia e si libera nel finale del pezzo, in cui repentinamente tutti gli strumenti e la batteria in particolare, aumentano il numero di giri, ed il cantato ritorna ad essere più incazzato e fiero per gridare con insistenza al mondo il suo inno alla giovinezza! Come nella traccia precedente, anche qui una breve chiusura su un black/riff aperto ed elegiaco strappa applausi a scena aperta.
Drown in nihilism
Cosa aspettarsi da Drown in nihilism (Annegato nel nichilismo)? Esattamente ciò che il titolo suggerisce. Urlo lacerante e immersione istantanea in un brano intenso, dove un muro sonoro potente e non eccessivamente veloce, valorizza con il suo duro incedere, lo strazio interno e la totale mancanza di empatia verso il mondo esterno, che la volutamente monocorde e lancinante vociona del cantante ci vomita addosso. Un mondo bugiardo, in cui la solitudine è isolamento, l'amore è una prigione di specchi, vivere è un'illusione distopica. L'andamento del brano risulta più lineare del solito, strutturato quasi interamente su un riff portante, che si alterna ad un break che si ripete in loop circolare su accordature ribassate di chitarra, che aumentano il senso di cupezza e decadenza che aleggia sull'intera composizione. Poche volte mi è capitato di "sentire" in modo così tangibile un brano addosso, tanto da risultare del tutto superflua la conoscenza del testo o dell'argomento per essere rapiti in un vortice di cui si riescono a scorgere i grigi contorni. Non mancano i brevi e sempre ben ponderati momenti in cui le chitarre si rilassano, per spezzare la tensione e preparare mente e corpo alle fini osservazioni di critica demolitrice di ogni etica e valore. Una predisposizione a considerare inutile e senza alcun scopo ogni azione della vita aleggia come un'aquila pronta a fiondarsi sulla sua preda. Ed in un contesto di tale nichilismo e d'irreversibile dissolutezza dell'io, non sembra esserci altro rimedio possibile se non il più cinico dei pensieri: la voglia di morire, di lasciarsi andare ed annegare in un lago più profondo del mare di ricordi che divorano e corrodono. Non sembra esserci luce stavolta, né la minima forma di speranza, ed il tutto è rimarcato dal certosino lavoro di chitarre gemelle che creano sofferte e piangenti melodie, ben assestate inoltre su un accomodante e corposo lavoro della sezione ritmica, che scandisce colpi pulsanti come fossero gli ultimi battiti aritmici di un malato terminale deciso a smetterla di resistere. Ma potrebbe non essere così. Il suicidio e l'idea di voler essere seppellito senza tomba e senza nome sotto ad una quercia forse sono solo un nuovo inizio. Il maestoso albero simbolo di longevità, forza e di sacralità in tanti popoli antichi come i Romani e soprattutto i Celti, chiude e racchiude con un'altra magnifica metafora il cerchio lirico compositivo del brano: annegare nel proprio nichilismo, rigettare tutto e non credere a niente, avere sprezzo della vita, ma in fondo anelarne una diversa ed eterna, con una nuova forma di religiosità.
Dancing on debris
Il brano di chiusura dell'album di debutto è Dancing on debris (Ballando sui detriti), un perfetto compendio di quanto prodotto ed espresso dalla band nei precedenti pezzi, nonché ulteriore passo verso lo sprofondamento finale nel fosco microcosmo dei viennesi, fatto di rinunce, di anni sprecati per sentimenti perduti, di aneliti disillusi, di voluttuari pensieri. Ancora una volta quasi a sottolineare il filo conduttore che trasversalmente attraversa la totalità delle composizioni di questo disco, il pezzo si apre con in sottofondo il rumore di pioggia battente, a cui si unisce in lontananza quello di sirene di ambulanze. Su tale base si adagia un'intro di chitarra pacata, riflessiva e malinconica che all'ascolto genera un'angosciante senso di deja-vu rispetto alle liriche del brano precedente, e che soffermandosi a riflettere su quelle sirene spiegate appena udibili, sembrano già far presagire il tanto agognato e terribile atto finale! Questa canzone sembra un fil rouge, il luogo dove s'incontrano tutte le molteplici sfaccettature presenti nei precedenti brani, per giungere ad un epilogo che purtroppo mal si sposa con l'antico proverbio cinese dalla cui declinazione romantica pare abbia preso vita tale espressione: "un filo invisibile unisce coloro che sono destinati ad incontrarsi". Ma qui non è cosi, non per chi balla sui detriti di un amore e della propria esistenza. Avviluppata addosso a questo tragico feeling, l'ultima traccia è decisamente quella musicalmente più nera e depressiva, quella in cui tutti i vari stratificati e sedimentati stati d'animo, si riflettono in un contesto di ermetismo ed isolazionismo di forte impatto. Il cantato di JJ se possibile risulta ancora più corrosivo e sprezzante, supportato da bassi discreti ed avvolgenti, drums indolenti e funamboliche, e trame chitarristiche a tratti furibonde ed a tratti meditanti, cariche di effettistica e riverbero. Siamo trasportati in una luna park atmosferico sino al climax in cui il nostro antieroe, ormai sfibrato dentro ed incapace di qualsivoglia reazione, percepisce il gesto estremo come unica ed ultima possibilità. Affogato ormai in fiumi di alcool, psicofarmaci e con un'arma in mano, adesso dopo aver resistito varie volte alla tentazione di premere il grilletto è deciso a farla finita. Un brano che rappresenta la summa filosofico-stilistica del harakiri-pensiero tradotto in musica, e che si conclude all'improvviso, in modo secco e inaspettato quasi fosse uno sparo: quel maledetto colpo di pistola definitivo.
Conclusioni
Siamo sul finire del 2012 quando accanto alle nuove uscite di band blasonate quali Neurosis, Alcest ed Isis, di altre più o meno affermate come Old Man Gloom, Toundra e Downfall of Gaia, e di qualche piacevole sorpresa come gli Amenra e i Locrian, irrompono sul mercato discografico i Harakiri for the Sky con questo disco d'esordio dal potenziale altamente esplosivo. Terminato l'ascolto di quest'opera prima infatti, l'impressione è quella di trovarsi di fronte ad una possibile "new sensation" del genere, e molto forte risulta l'istinto di premere nuovamente il tasto "play", nonostante il raggio di azione del gruppo non sia né il più confortevole né tantomeno il più easy listening possibile. L'intero album infatti affonda le sue radici nel malessere, nella cupa disperazione, nella dolente consapevolezza di essere come una fiamma perpetua che ciclicamente smette di ardere senza lasciare spazio alla luce. Le strutture musicali si adeguano al contesto e le note sono l'arma contundente con cui ferirsi e mettersi a nudo interiormente, lo strumento di decostruzione/ricostruzione a corredo di tale impalcatura emozionale, provocata dall'avere ancora un respiro affannato da rincorrere, un muscolo involontario che si ostina a pulsare. Musicalmente la band coagula questa proposta lirico teorica, tramite alcune peculiarità di base che la rendono da subito facilmente riconoscibile all'interno di un quadro musicale che sembrerebbe non offrire poi così tanti colori utilizzabili. Ma a fare la differenza invece è l'innata capacità di Sollak di mescolarli riuscendo a sfruttarne al meglio tutte le tonalità e gradazioni. Quando sopra si accenna ad alcune peculiarità, prima di tutto il riferimento è alla clamorosa fluidità delle composizioni del polistrumentista austriaco, che si rivela un abile songwriter, e nonostante basi i brani su pochi e basilari riff ripetuti talvolta quasi allo sfinimento, riesce ad arricchirli, infarcirli, e contornarli continuamente e circolarmente sempre di nuovi piccoli e diversi dettagli. Un' orecchio attento ed assuefatto ad ascoltare un brano e non a farselo scivolare addosso, non potrà che constatare quanta fine ricercatezza e capacità tecnica ci sia nel comporre pezzi di così lunga durata ma mai stucchevoli, o semplicemente stiracchiati senza motivo per aumentarne il minutaggio complessivo. Del resto la strana e piacevole sensazione di appagamento e stupore, è garantita da queste canzoni anche a chi è poco avvezzo a tutto ciò che sta dietro e dentro la costruzione di una canzone. Insomma nonostante la pesantezza di fondo e la durata media dei pezzi, non ce alcuna possibilità di stancarsi od annoiarsi ascoltando uno qualunque dei brani di questo album, che per inciso contiene già almeno due canzoni da inserire in un ipotetico futuro "best of" (le splendide 02:19 am psychosis e from yesterday to ashes). La seconda ma non meno importante delle peculiarità risiede nello stile alquanto personale del cantante. Come già accennato all'inizio della recensione, non lo reputo molto dotato tecnicamente, ma sopperisce a tale gap con un'indole sgraziata e selvaggia, che rende la sua voce primordiale ed istintiva un biglietto da visita di spessore e caratura: se basta anche un solo urlo a farti capire chi stai ascoltando hai raggiunto l'obiettivo. JJ ha un timbro si lacerante e dilaniato, ma facilmente riconoscibile ed ancora più facilmente capace di generare emozioni epidermiche, e ciò non è affatto un fattore di poco conto. Stiamo quindi parlando di un album capolavoro? Ovviamente no e francamente considerando che si tratta del primo disco sarebbe stato chiedere troppo. Se ben pochi appunti possono essere addotti rispetto alla maturità compositiva, che risulta decisamente sorprendente per degli esordienti, sul fronte della varietà stilistica e della gestione personale della materia trattata, il tutto è di sicuro perfettibile, anche per evitare che uno dei punti di forza della band diventi sulla lunga distanza anche quello di maggior debolezza. Sono presenti inoltre echi di gruppi ai quali inevitabilmente e forse inconsciamente la band si rifà, ed alcune spigolosità ed asperità sono da smussare. Infine nonostante l'ottimo lavoro svolto, a tratti si avverte la mancanza di un batterista di ruolo o quantomeno i pattern e le dinamiche sono migliorabili e variegabili. In definitiva si tratta comunque di difetti quasi scontati ed a cui si può tranquillamente soprassedere, considerando che per quanto ancora sensibilmente acerbo, il sound della band ha un suo preciso marchio di fabbrica, è stiloso anche se da rifinire, ed è già agli albori della carriera abbastanza personale da richiamare l'attenzione dei non pochi amanti di sonorità ruvide, strazianti ed in grado di cicatrizzare l'anima con massicce dosi d'intima violenza sonora e testuale.
2) 02:19 A.M., Psychosis
3) From yesterday to ashes
4) Drown in nihilism
5) Dancing on debris