HARAKIRI FOR THE SKY
Arson
2018 - AOP Records
ANTONINO TOMASELLI
14/04/2021
Introduzione Recensione
"La fortuna non esiste, esiste il momento in cui il talento incontra l'opportunità".
In questa citazione del famoso filosofo e politico dell'antica Roma Seneca, è racchiuso il seme da cui germoglierà questo album, la scintilla che innescherà la creazione di quello che a tutti gli effetti è il capolavoro dei Harakiri for the Sky.
Arson viene pubblicato come i precedenti dischi, dalla ormai fidata casa discografica AOP Records il 16 febbraio 2018, e il titolo dell'album, traducibile in "incendio doloso", rende bene l'idea del suo contenuto altamente incendiario, di come i nostri siano stavolta dolosamente e fortunatamente per noi utenti riusciti ad appiccare nel nome del rock un sacro fuoco di maestosa portata artistica.
Avevamo lasciato la band sul filo del rasoio chiamato "III - TRAUMA", un album validissimo, in linea con quanto espresso tra i solchi delle varie releases precedenti, ma che se da un lato aveva permesso alla band di raggiungere lo scopo di avvicinare al loro sound di non facile approccio fasce di pubblico meno avvezze ed abituate a tali sonorità, dall'altro aveva insinuato nell'ascoltatore più esigente, e soprattutto più affezionato allo stile violento ma dolcemente disperato dei HFTS , l'atroce sospetto che la band stesse o avesse deciso di virare pericolosamente e definitivamente verso lidi più sicuri e porti più facilmente attraccabili.
Questo quarto album quindi rappresentava il vero punto di svolta della carriera dei nostri, quello in cui dimostrare di sapere e potere reggere l'urto del successo commerciale finalmente raggiunto, e mantenerlo senza scendere a facili compromessi, sputtanando una integrità artistica e di pensiero, che di fatto li aveva resi unici creandone la "fan base", utilizzata negli anni come propellente e benzina per spiccare sorprendenti ed anche per loro imprevedibili balzi verso un audience prima sconosciuta.
Ed ecco che ci si riallaccia alla citazione iniziale: il 2018, l'uscita di ARSON non è la fortuna, è il "momento": quello in cui il mostruoso ed innato talento musicale degli austriaci incontra l'"opportunità"; ossia la possibilità di fondere uno stile sonoro furibondo, desolante e sotterraneo con elementi più ariosi e di diversa estrazione musicale creando un suono unico: quello dei Harakiri for the Sky.
ll risultato di quasi due anni di duro lavoro e riflessioni, si trova cementificato in un album che spazza letteralmente via qualunque dubbio, candidandosi a miglior album non solo dell'anno di riferimento ma da almeno un lustro a questa parte.! Un album che passo dopo passo, brano dopo brano, imprime un magnifico target espressivo all'insieme, tatuando dolorosi furenti e truci paesaggi onirici, su invisibili pagine bianche che ognuno di noi si troverà a riempire in base al mood del momento.
Equilibrio senza alcun compromesso è la nuova parola d'ordine nel variegato contesto sonoro del duo: come una bilancia in cui da una parte vi è la ragione (la giusta prospettiva di vedere riconosciuti i propri sforzi creativi dal maggior numero possibile di persone), e dall'altra il cuore (mantenere al 100% attitudine ed ispirazione non piegandosi alle leggi del marketing).
Da quanto sopra esposto credo risulti chiaro cosa vi aspetta nelle otto tracce (di cui una Manifesto, cover di un brano dei GRAVEYARD LOVERS): l'estremizzazione migliorativa delle due anime contrapposte presenti nella musica della band, e quindi un post metal immerso nel nero ed in forte odore di black, che riversa fiumi di riff color pece e spaccabudella, che incredibilmente però ha la capacità di miscelarsi in modo naturale a partiture quiete e suadenti armonie, come nella migliore tradizione gaze. La teoria degli opposti che si attraggono applicata ad un disco, la dicotomia che si spinge cosi oltre da far lambire gli estremi ed alchemizzare un suono, un'idea.
Non mi soffermo al momento più di tanto sui testi che continuano come nei precedenti album a sondare ed indagare su angoscianti malesseri esistenziali, rapporti interpersonali dolorosi, ed amori finiti ma mai sopiti. Saranno ripresi in modo puntuale nel corso della track by track, invece un'ulteriore mensione di merito va fatta alla solita metaforica e calzante cover dell'album ideata dall'artista ceco di nome Striga, che raffigura una fiammeggiante ed informe aquila stilizzata, pronta a lanciarsi su una ignara e fantomatica vittima. Cosi l'aquila terribile predatrice, ed animale tanto solitario quanto dai connotati regali, ben si confà a definire lo spirito elegante ma belluino e vorace della musica degli austriaci, in grado di sfornare un pietra miliare della musica anni 2000.
E allora non ci resta che appiccare il fuoco e lasciarci ardere di passione musicale dentro a questo incendio doloso di incandescente bellezza.
Fire, Walk With Me
La dichiarazione d'intenti della band è Fire, Walk With Me (Fuoco, cammina con me), e non è di certo un caso che "fuoco" sia il primo termine di un album chiamato "incendio doloso", come non lo è ritrovare da subito uno dei tanto cari testi metaforici su cui il duo è maestro nel crogiolarsi e crogiolare l'ascoltatore. La fine di una relazione sentimentale captata attraverso una fiamma sempre più flebile su cui soffiare, vissuta come un fuoco sempre più tenue alla vista, ma sempre più tremendamente ardente e bruciante compagno di vita dall'interno tanto che: "Vorrei essere kerosene solo per darmi fuoco, vorrei essere kerosene brucerei tutto ciò che abbiamo costruito, vorrei essere kerosene solo per alimentare le fiamme e una bottiglia di whisky dopo".
Musicalmente l'inizio del brano (che s'intitola come il famoso film del 1992 su Twin Peaks di David Lynch, pur non avendo alcun nesso apparente in comune), è subito la diaspora perfetta su cui esalare i voluttuanti rigurgiti canori e strumentali dei due austriaci. Chitarra in tremolo di sottofondo a decadenti note di pianoforte, la sottile e breve quiete prima che in scena irrompano oltre ad una chitarra adesso veloce e feroce, una baldanzosa e tonante scarica di blast beats, e il gracidante growl medio di J.J. che da subito ci guida nell'autostrada emozionale che si percorrerà lungo tutto il percorso del disco. Le precise armonizzazioni di chitarre gemelle, gli stacchi di metà brano, i rallentamenti per ripartire ed accelerare dando tutto il "gas" possibile a bruciare il kerosene citato nel testo, ci proiettano nel microcosmo interiore di questo pilota devastato che corre sull'asfalto rovente e arroventato dalla rabbia per una storia chiusa, e il cui fuoco che internamente cammina con lui, non è in grado di spegnere per trovare rifugio alla disperazione.
?Siamo appena ai primi 5-6 minuti del nuovo lavoro dei HFTS ma già la potenza di fondo della loro musica, e la capacità di avvinghiare i sensi è tale da avvertire un senso di euforia, un rilascio di endorfine che però stavolta non porta benessere e gioia, ma sono responsabili dell'amplificazione di uno stato di stordimento e piacevole malessere, che ci accompagnerà nei rimanenti minuti che separano dalla fine del primo giro di pista, in cui a guidare non è il pilota ma i suoi altisonanti ed altalenanti stati d'animo affrescati da un black metal non oltranzista, e dai contorni sfumati e delicatamente tratteggiati da passaggi di piano intramezzati da riffoni grevi e malinconici. Si chiude il brano, l'incendio doloso è appiccato ed il primo capolavoro è già stato servito!
The Graves We've Dug
Un bell'arpeggio aperto, assaltato da chitarre che lo frustano e sferzano cavalcandolo sulle ritmiche ossessive e chirurgiche delle pelli battute dal connazionale Kerim "Krimh" Lechner, ossia il tentacolare ex batterista dei Decapitated, nonché attuale drummer dei greci Septicflesh in prestito ed ospite fisso in tutte le composizioni di questo album, danno inizio alla seconda traccia di questa opera d'arte: The Graves We've Dug (Le tombe che abbiamo scavato) si dipana a seguire sulla screziante e monotonale vocalità di J.J., abile ad articolare sui fulminei e tremolanti riff di stampo post black metal un testo di prezioso e triste romanticismo noir. Ancora una volta si parla di solitudine, di morte, di quello che è o non è stato, di giovinezza andata e sottesi rimpianti. Ma non c'è neanche il tempo di assimilare i contorni della abulica e sofferta melodia di riferimento, che subito si cambia, e lo switch che vira su sonorità tra lo gaze, il post rock e la seconda ondata wave, mette superbamente in risalto sia l'immane lavoro ritmico di Kerim, che alterna tempi serrati e distorti ad altri di ampio respiro, che il lavoro all'unisono ed ad incastro delle chitarre da cui si denota una cura del tutto maniacale degli arrangiamenti, che mai come in questo quarto lavoro della band fanno risaltare contemporaneamente melodia e vigore, fragorosa armonia e rigorosa violenza. E mentre il pulsante basso si accartoccia sulle sempre più saltellanti e veloci timbriche della martoriata batteria del fuoriclasse Lechner, la poesia latente di un disperato e vano tentativo di risollevarsi da un destino avverso si spegne: "almeno trenta estati sono passate e crollate su di me come foglie cadute. No, non chiediamo nemmeno la felicità...solo un pò meno dolore. Ora cantiamo e beviamo accanto alle tombe che abbiamo scavato".
Poi il gran finale. Accelerazioni al cardiopalma, dribblate da un nuovo break melodico doppiato mirabilmente da chitarre ultra trattate, ed una inquietante e dolce tastiera a sfumare un brano tanto intenso nella sua progressione musicale, quanto altrettanto marchiante l'animo nel suo poderoso incedere concettuale. Strano ripetermi ma vi dovete abituare: il secondo capolavoro è servito!
You're the Scars
Vi sieti mai chiesti cos'e una cicatrice? E' solo il tessuto di guarigione che si forma sulle lesioni? E' solo il segno che rimane sulla pelle in seguito a una ferita rimarginata? Oppure è memoria dolorosa e traccia indelebile di esperienze passate?
Per i HFTS forse è tutto questo e non soltanto, ed in You're the Scars (Sei le cicatrici), ci regalano l'ennesimo scrigno saturo di oscure vibrazioni, ci donano la consueta dose di metadonico misticismo sonoro, inoculandoci in vena sin dal vibrante inizio di piano e synth, un tappeto "nero" su cui ben presto J.J. sferraglia guidato dai mai canonici e robusti riff di Sollack, i suoi sconfortanti e sanguinanti testi da poeta maledetto.
Il brano non è mai eccessivamente veloce nella prima parte, quasi a preparare terreno fertile e di conquista per i successivi turbinii sonici addivenire. L'incessante e variegato lavoro chitarristico funge da crescendo emotivo per le disserzioni del cantante che si traveste da nuovo Verlanine ed esprime la sua dannazione: "il mio cuore è un oceano... E penso che sia dove mi trovo adesso: fluttuando, andando alla deriva. Troppo debole per continuare a nuotare, ma non abbastanza debole per arrendersi e affondare".
I continui ed insistiti contrappunti di pianoforte sostenuti da un basso pieno e vigoroso danno vita ad una digressione armonica che si liquefà verso i due terzi del brano in uno stacco sospeso e leggiadro da sogni ad occhi aperti, poi subentrano chitarre ritmiche e soliste a contornare un breve e furente attacco in blast beats tipicamente black che enfatizza la perdita, il lutto, le cicatrici. Colorami di nero urla J.J. perché c'è un posto nel mio cuore che non sarà mai riempito anche durante i momenti migliori. Ma anche se la funesta progressione finale chiude senza speranza la terza traccia dell'album, in realtà la band in questo brano raggiunge il suo obiettivo.
?Secondo un'antica usanza, quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la crepa riempiendo la spaccatura con dell'oro, perché credono che quando qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello. Se l'oggetto rotto sono le ferite, e le spaccature le cicatrici della vita, ecco che questo meraviglioso brano degli austriaci è l'oro che riempie le crepe per restituirci il BELLO. Non trovo altri appellativi e mi ripeto: il terzo capolavoro è servito!
Heroin Waltz
Heroin Waltz (Valzer di eroina), è un biglietto di sola andata verso destinazione ignota, senza nessun'altra meta che non sia l'inappuntabile sublimazione e nobilitazione della forma canzone elevata alla massima espressione/espressività. Non paghi della tripletta da urlo costituita dai precedenti brani, i nostri riescono miracolosamente a spingersi oltre condensando in 10 minuti abbondanti la summa di quanto proposto sinora: ne viene fuori un qualcosa ai limiti del tangibile, un'entità oserei dire quasi "fisica".
L'argomento è palese sin dal titolo del brano, si parla di droga e dipendenza, di abuso di sostanze stupefacenti, ma stupefacente è l'abilità descrittiva di J.J. nel mettere nero su bianco (come i colori del fascinoso e toccante video postato in rete come singolo dell'album), prosciugando ogni verso del testo da inutili manierismi, e donando peso specifico e sostanza ad ogni singola parola in quello che reputo uno dei migliori scritti concepiti dal cantante per poetica drammaticità e capacità di lasciar trasparire angoscia e depressione : "Da qualche parte c'è un giardino di amore eterno dentro di me. Ma temo che tutto ciò che riesci a vedere sono le cicatrici che abbelliscono la mia pelle. Queste passeggiate senza luce ci irriteranno e solo le droghe ci terranno al caldo. Le persone si sentono così sole al buio, io mi sento così solo alla luce".
?Il comparto musicale dal canto suo, non soffre di certo questo ingombrante peso testuale, e le danze o meglio parafrasando il titolo il giro di walzer inizia lasciando senza fiato: su un arpeggio in chitarra acustica di struggente bellezza, s' inseriscono sinuosi archi e una decadente slide in slow motion, appena il tempo di sentire i brividi lungo la schiena, che una spietata esplosione di violenza 100% black irrompe tra tremolanti chitarre e sfiancanti drums, urla liberatorie e consueti riffing serrati e melodici a fare da contraltare. Un perfetto marasma sonoro, che non concede spazio ad ulteriori brividi dietro la schiena perché subito si cambia ancora registro: bridge arpeggiati, cambi di umore, batteria infernale e certosina, Sollack che si diverte a mostrare muscoli e cuore, una intelaiatura degna di un musical in salsa post metal. Il brano si trascina, anzi ci trascina con sé nei tre minuti finali che musicalmente continuano ad ondivagare tra tempi fitti e compatti, e duelli di chitarra/batteria che non vedono alcun vincitore ne vinto. Le ultime dolorose riflessioni esistenziali del protagonista, sono sputate in faccia da un cantato ruspante ed al vetriolo. Stabilire termini di paragone mi risulta complicato: il quarto capolavoro è servito!
Tomb Omnia
Dal matching tra un termine inglese ed uno latino nasce Tomb Omnia, traducibile in "tomba totale", o "tomba assoluta". L'utilizzo di tale locuzione latina è dettata secondo quanto espresso in un intervista dallo stesso singer J.J., dalla forza espressiva che il termine racchiude e sottende, che riesce in modo puntuale a descrivere rapidamente e senza fraintendimenti il contenuto del testo.
Si narra di perdita, di afflizione, di un figlio che si rivolge ad un padre mai conosciuto perché in grado di compiere la scelta più drastica e atroce che si possa fare, suicidandosi prima della sua nascita, e abbandonando sia la sorella che lui al loro destino, ai loro dubbi, ai mille perché. Non ci è dato sapere quanto di autobiografico possa esserci, o quanto meno se lo spunto iniziale per scrivere e descrivere di ciò, si basi su esperienze personali o di persone care e legate al cantante, sta di fatto che una certa forma di retorica dannosa che sembra suggerire un sottile ma nitido destino comune di padre in figlio si rivela in un testo pregno di "vissuto" e di lampanti percezioni riversate su lapidarie frasi tombali: "Ho all'incirca la tua età, presto raggiungerò i giorni in cui hai perso la tua scintilla vitale, anche se non sei mio padre sono comunque il fratello di tua figlia... Questi giorni d'autunno alla fine hanno spezzato le nostre vite. Non c'è modo che qualcuno possa guarire di nuovo".
Il sentimento che maggiormente emerge dal testo è la rabbia verso un padre sconosciuto e ripudiato, covata dentro ed adesso pronta non ad implodere ma a detonare come uno tsunami sensoriale nel perfetto abito sonoro con cui i nostri la rivestono e addobbano. Partenza su un riff circolare arido e veloce sorretto come tutto il disco da una produzione stellare, aggressione vocale e chitarre ad intrecciare calde melodie di riferimento, drums ipercinetiche e dinamiche, il tutto ci spinge su e giù a toccare le corde più intime del nostro io senza alcuna fatica, incantevoli raddoppi di chitarra e break quasi new wave. Sono passati appena tre minuti e mezzo degli oltre otto lungo cui si inerpica questo brano, ed ha già scritto e consolidato più input musicali di interi altri album. Si prosegue con un guitar work da capogiro che accelera quando necessario e snellisce le partiture quando serve dare ulteriore vigoria ai latrati melodici di un ineccepibile J.J.
?Il tremolante e serrato andirivieni ritmico di Sollack riesce poi allo scoccare del quinto minuto e fino alla fine del brano, a donarci probabilmente i migliori momenti dell'album, innestando pulite e cangianti melodie sul solito corposo tessuto di iroso metal, supervisionato da un drumming di eccelsa fattura. Su tutto sembra aleggiare l'ombra regale e fiammeggiante dell'aquila di copertina. Una perla rara, un indomabile incendio doloso dell'anima, ecco come definire in modo semplice ed efficace quello che abbiamo ascoltato, in poche parole il quinto capolavoro è servito!
Stillborn
Che il terreno fertile su cui seminare il loro melange stilistico (non di certo il tipico caffè con panna viennese che ha tale nome), sia per i HFTS quello montagnoso e scosceso da abbeverare con inqueti, malinconici, e mesti sentimenti ormai è ben chiaro. Ma che pur rimanendo in questo raggio d'azione reputato a volte ed a torto limitato, il duo austriaco trovasse il modo di tirare fuori dal cilindro un altro pezzo da novanta del calibro di Stillborn (Nato morto), beh questo non era per nulla scontato. La più grossa novità di questo brano rispetto a quanto finora proposto, risiede a mio avviso nello sviluppo di un certo mood solenne, deciso, di antica e cadenzata sacralità, che lo rendono almeno nella parte iniziale, decisamente il primo esempio di pezzo dal forte accento doom metal da loro composto.
L'abbrivio, l'impulso iniziale che mette in movimento e stabilisce la velocità di crociera dei nove minuti circa del brano, è una drammatica e sotterranea chitarra strappaossa, che staglia un lento e tormentato riff doomy su un tappeto di fondo che ne armonizza ed accentua il senso di sulfureo disagio. La batteria sembra un solenne requiem ed il disperato cantato di J.J. un sermone proveniente da chissà quale indefinito pulpito. Per i primi due minuti e mezzo si respira incenso, la musica sembra un rito catacombale di "passaggio". Poi come spesso accade nel tourbillon sonoro a cui ormai siamo abituati nei loro pezzi, tutto si stravolge in pochi attimi e l'headbanging più puro e duro s'impadronirà di voi!!. In questo frangente ad entrare in tackle e non fare prigionieri, è il terremotante, asettico e rutilante drumming del vero valore aggiunto di tutto ARSON, il buon Lechner infatti ci dimostra che anche senza strafare e soprattutto anche suonando uno strumento che non sia quello principe nella storia del rock ovvero la chitarra, si può essere decisivi ed impattanti per la buona riuscita e creazione di un brano. Quello che segue ed insegue l'ossessivo drumming di Lechner sono delle furiose ed indemoniate chitarre all black che si girano e rigirano su contrappunti melodici e balzi ritmici tanto assassini quanto piacevolmente lineari e gradevoli, soprattutto nella parte finale in cui basso/batteria inventano e salgono ancora di più in cattedra a divenire direttore d'orchestra delle ultime ferali schitarrate e delle ultime esili e furenti grida di inquieta solitudine vitale. Infatti non è certo di scarso rilievo l'aspetto testuale del brano, semmai l'argomento è semplicemente uno di quelli standard, la depressione che non lenisce e finisce, portando a quei strani pensieri, perché si balla sul filo della lama e si rischia di tagliarsi a metà, e ci si chiede se "annegare sotto le onde o morire di sete" o perchè "Non sono morto ma nemmeno vivo sembro un fantasma con un cuore che batte".
?A voi le risposte a tali quesiti, la risposta sul versante sonoro è che siamo nei pressi della perfezione stilistica, siamo vicini al concetto di sensazioni epidermiche che provocano altrettante reazioni fisiche, siamo ai limiti del piacere! Questo è Stillborn, l'enfasi, lo stato di grazia che unge contemporaneamente tutti i musicisti partecipanti alla sua composizione. Il sesto capolavoro è servito!
Voidgazer
L'ultimo tassello inedito di Arson (il successivo e conclusivo brano è una cover), prende il nome di Voidgazer. Qui il blackgaze degli austriaci sembra sensibilmente rifarsi a panorami di desolanti scenari urbani e solitarie dimore vuote, tipiche nei lavori di alcune band di nicchia quali Amesoeurs, i neofolker Ulvesang, ed in equilibrata misura anche nei più conosciuti Lantlôs. Ma anche in questo brano le divagazioni meramente post, shoegaze o neofolk, pur influenzandone l'andamento, vengono filtrate, immesse e misturate su classici stilemi black metal: la sincresia creata dalle diverse modalità espressive si compatta e trova il suo talamo tra voce in scream, chitarre in tremolo che incessantemente costruiscono spartiti di fine bellezza, e blast-beat centellinati nella giusta dose. La creatività della band non conosce cedimenti regalando altri 9 minuti di emozionante carosello tra una ridda di effetti vari, uso silente di flanger e tastiere non invasive a coprire i brevi buchi neri, lasciati aperti dalle sezioni di chitarra a tratti arpeggiata ed a tratti quasi invasata e zanzarosa. Una quintana moderna in cui i nostri cavalieri armati di strumenti e non di armi medioevali, si destreggiano affinando l'impalcatura del loro wall of sound su basi e pilastri artistici ormai quasi del tutto scevri di punti deboli. A garantire la circolarità nel metodo di scrittura ci pensa il solito J.J., ed il ripetersi ciclico nel brano di alcune parole dai contorni specifici, di termini che gravitano fluttuanti e costantemente in loop, rimandando come fosse un percorso a ritroso ai brani se non addirittura agli album precedenti: "Le mie cicatrici trattengono i tuoi sogni?Ora questo fiume ripulirà le nostre tracce, possano i ponti che brucio illuminare la tua strada?Purtroppo questa vita è il mio cappio?Sono questa tomba con vista siamo questo vuoto". Cicatrici, cappio, tomba, fiume diventano termini non astratti, ma dei mantra cosmici che hanno forma e forza figurativa, paletti da affrontare e schivare nel corso dello slalom gigante della nostra vita. Voidgazer non offre però un passapartout per muoverci liberamente alla ricerca di noi stessi, e socchiude il disco con amare tinte d'inevitabile fatalità. Anche il settimo capolavoro è servito!
Manifesto
La bonus track Manifesto, contenuta nella versione delux CD, è la cover di un brano dei Graveyard Lovers contenuto nell'omonimo Ep rilasciato dalla band post rock americana il 5 dicembre 2012. Dopo aver coverizzato in Aokigahara la ben più famosa Mad World dei ben più famosi Tears for Fears, gli austriaci rigiocano questa carta che presenta di base sempre una quota parte di rischio intrinseco; come affrontare il remake di un brano? Stravolgerlo e personalizzarlo, o riarrangiarlo mantenendone feeling ed umore originale? I HFTS furbescamente cercano di andare sul sicuro, reinterpretando nel loro classico stile un brano che oggettivamente non è tra i più noti. Ciò ha permesso al gruppo di non dover sentire il peso e la responsabilità di quanto preso in prestito.
Nonostante i nostri avessero ampiamente dimostrato con la precedente ed eccellente cover gusto, inventiva e capacità reinterpretativa da vendere, devo ammettere che già a priori la scelta di tale canzone aveva suscitato in me delle perplessità, che stavolta purtroppo non sono state disattese dall'ascolto. L'originale mostra un brano dalla pronunciata vena poetica adagiata su una basilare struttura di ammiccante ed innocuo poprock, la cover suona decisamente più avvolgente sostituendo a quella poetica una sottile vena di drammatica disperazione. La splendida interpretazione canora della semisconosciuta Silvi Bogojevic dona ulteriore lustro ed aiuta a dare una marcia in più ai riff profondi di Sollak, ed ad un testo che ben si sposa con l'attività di pensiero, e le personali norme di comportamento universale descritte ovunque da J.J., e quindi almeno sotto tale aspetto i riferimenti sono calzanti e ben si adeguano anche alla musicalità espressa nei suoni.
?Tuttavia, il brano in se non è di certo trascendentale, e nonostante a mio avviso questa cover risulti di gran lunga più a fuoco e centrata dell'originale, non è possibile seguendone le strutture armoniche di base farla diventare quello che avrei voluto fosse ossia l'ottavo capolavoro. Ecco, se la valutazione finale che avete visto in testa a questa recensione è mezzo punto in meno di quella massima, lo si deve a questo piccolo inciampo chiamato cover, che nulla aggiunge e forse qualcosa toglie, pur senza scalfire lo stratosferico, immenso, sublime lavoro espresso dalla band durante tutto il divampare di questo incendio doloso impossibile da spegnere!
Conclusioni
In un anno che sarà ricordato per una serie di accadimenti - tra i quali la minaccia di uno scontro armato e nucleare tra Corea del Sud e U.S.A., i dazi imposti dagli Sati Uniti alla Cina, il matrimonio reale tra Harry e Meghan, il caso Kashoggi, i gilet gialli in Francia, e il rapimento di Silvia Costanza Romano in Kenya - il mercato discografico commercialmente già al collasso, con le vendite dei CD che nell'ultimo decennio è crollata dell'80%, ha quasi l'obbligo di reinventarsi (ritorna in auge il vinile le cui vendite si attestano su quelle di circa 20 anni prima), e di puntare sulla qualità delle proposte per invogliare l'utente a quell'ormai sopito e antico termine che è l'affezione, il recondito e incommensurabile piacere del possedere, toccare e studiare un supporto fisico, e nel contempo supportare gli artisti maggiormente meritevoli. Ebbene sperare o credere che i 72 minuti scarsi di Arson possano essere ricordati come un "avvenimento" del 2018, o che la vendita di tale CD potesse invertire la rotta dell'attuale sorte del caro vecchio Compact Disc, più che un disegno utopico è solo un filosofeggiare sul nulla; ma attenzione perché per Platone "La filosofia è la musica più grande", per Baricco "La musica ambisce, anche esplicitamente, a un significato spirituale e filosofico", e per Beethoven "La musica costituisce una rivelazione più alta di qualsiasi filosofia." Quindi si, voglio pensare da sognatore indefesso che ARSON possa essere stato nel 2018 qualcosa d'importante, e di sicuro basilare lo è stato nell'avere tracciato un modus operandi maestro, un solco di riferimento, una ben delineata via luminosa da seguire come fosse la pista di partenza ed atterraggio di un aeroporto. Il sound che viene cristallizzato nelle sette tracce del disco (non me ne vogliate ma sulla cover si può soprassedere), è rafforzato e magistralmente spiegato dallo stesso Sollak: "Per noi il post (rock) black è il perfetto mix di rabbia, sensibilità e stanchezza del mondo, oltre che musicalmente anche liricamente, l'immagine che vogliamo trasporre in musica è quella di una corsa a rotta di collo sul pendio di una montagna ed il salto dal punto più in alto verso il vuoto più assoluto.
Ormai affrancati dagli ultimi residui riconducibili a band della scena sia in attività che purtroppo defunte (Agalloch ed Alcest su tutte), i nostri suonano ormai in modo autoctono, ponendosi come nuovi paladini a cui parametrarsi e rapportarsi. Un nuovo status quo guadagnato prepotentemente negli anni a suon di album di caratura eccelsa, e ad un percorso artistico che in questo lavoro raggiunge la sublimazione in termini di coesione stilistico-espressiva e personalità comunicativa.
Mi preme sottolineare che un disco di tale portata sarebbe stato monco, approssimativo ed incapace di elevarsi sino a raggiungere delle inarrivabili vette himalaiane, senza il concreto apporto di quella piovra umana rispondente al nome di Lechner! Il taciturno batterista dei Septicflesh, è un autentico fuoriclasse spesso poco considerato, un macchina da guerra che arzigogola tempi ibridi furiosi e di sorprendente propulsione poliritmica, librandosi su tessuti velocissimi e di tempestosa tempra. Trovato il collante che rappresa tutta la cascata di note provenienti dai restanti membri, per questi ultimi risulta quasi una banalità produrre a raffica riff e brani da spartiacque del genere. Ogni canzone diviene uno stato di grazia, non uno strumento per raggiungere un fine, ma l'alfa e omega in se stesso compiuto. Qualunque sinonimo di capolavoro esprime compiutamente quanta genesi creativa risalti tra le fiamme incendiarie di ARSON.
?Fiamme che incendiano i palati più fini alla ricerca di dolorose trame che seppur infarcite di melodia a iosa, si alternano a scorribande d'impressionante ma sempre "educata" violenza. Fiamme che bruciano e trasformano i sentimenti umani da nascondere o mostrare, le nostre debolezze a cui sopperire, i mancamenti a cui rassegnarsi, i cedimenti da sostenere. Gli argomenti principali che traggono ossigeno dalla contorta natura schiva e criptica di J.J., sono di fatto quasi tutti sciorinati brano dopo brano, anche se a differenza di quanto vergato nelle meravigliose trame liriche di Aokigahara e del primo album omonimo, si riscontra una sottile caduta qualitativa che ovviamente non va ad intaccare minimamente il giudizio finale di un'opera magna da tramandare ai posteri, perché l'arte non ha epoca: è l'emozione che dorme su guanciali d'eternità.
2) The Graves We've Dug
3) You're the Scars
4) Heroin Waltz
5) Tomb Omnia
6) Stillborn
7) Voidgazer
8) Manifesto