Harakiri for the Sky
Aokigahara
2014 - AOP Records
ANTONINO TOMASELLI
26/10/2020
Introduzione recensione
"Non siamo sempre depressi, anche le persone allegre ascoltano la nostra musica. Noi traduciamo in musica gli aspetti e le esperienze negative delle nostre vite, al contrario di chi magari picchia la gente per strada per sfogare la rabbia. La musica è il nostro canale".
Da questo assunto di base si sviluppa gran parte del percorso artistico del duo austriaco, il quale circa un anno e mezzo dopo l'esordio omonimo col "botto", in grado di destare notevole interesse sia negli ascoltatori più esigenti ed avvezzi a sonorità post black metal, che in sede di critica da parte degli addetti ai lavori, si ripresenta sul mercato discografico con questo Aokigahara, rilasciato come il precedente album via Art Of Propaganda Records, il 21 Aprile del 2014. Un processo creativo ed un modus operandi abbastanza rapido chiaramente favorito dall'essere soltanto in due, e soprattutto dal tenere strettamente separate le parti musicali a completo appannaggio di M.S., da quelle testuali di cui si occupa soltanto J.J. Sul disco (che è stato registrato nell'autunno e nell'inverno del 2013), figurano come ospiti svariati cantanti della scena underground black metal austriaca: Torsten (Agrypnie), Eklatanz (Heretoir), Seuche (Fäulnis) e Cristiano (Whisky Ritual). La band ne ha supportato l'uscita con un mini release tour dal 21 al 24 Aprile, imbarcandosi poi in una serie di date live che nel breve periodo, man mano che un'audience sempre crescente ha apprezzato la loro proposta, li ha portati da astri nascenti, ad esibirsi in giro per le principali nazioni europee, nonostante non avessero alle spalle e a disposizione i mezzi promozionali di una grossa label. Come se già l'esordio non fosse stato esaustivo delle affrante e ciniche dinamiche intellettuali e sonore del duo austriaco, la band con questo disco riesce addirittura a calcare la mano su tali aspetti, dimostrando una spiccata ed oserei dire naturale indole a crogiolarsi in temi quali abbandono, solitudine, rimpianto e soprattutto morte. Tutti temi trattati quasi in modo terapeutico, come elaborazione "costruttiva" delle sensazioni negative che possono attanagliare l'individuo. Una esternazione di esperienze e stati d'animo narrati quasi sempre tramite metafore per far uscire la negatività interiore. Come già intuibile e chiaramente evincibile dal titolo dell'album, il tema centrale del disco in oggetto è la morte, approcciata e percepita utilizzando l'asprezza del black metal e le melodie vellutate e molto pronunciate dello shoegaze: insomma il perfetto connubio per introdurci in "Aokigahara" o come da tutti meglio e tristemente conosciuta: la foresta dei suicidi. Aokigahara è una foresta situata alla base del Fujiyama in Giappone. Peculiarità di questa zona verde del Sol Levante è quella di essere molto fitta: un vero e proprio labirinto naturale. Infatti è conosciuta anche col nome di Jukai, che in italiano può essere tradotto come: 'Mare di alberi'. Durante le stagioni autunnali ed invernali, su di essa scende una fitta nebbia che ricopre col suo manto spettrale alberi, cespugli, rocce e tutto ciò che si ritrova ai piedi del monte Fuji, conferendo alla zona un'aspetto davvero inquietante. Detiene il triste primato di essere uno dei luoghi più utilizzati dalle persone intenzionate a morire per suicidio. Del resto secondo la tradizione già nei secoli passati si svolgeva in questa foresta un macabro rituale: l'ubasute. Era praticato nel Giappone antico e consisteva nel lasciare morire (di sua spontanea volontà) un membro anziano o infermo della comunità affinchè non pesasse sul resto della comunità. Molti giapponesi credono che la foresta sia infestata da fantasmi, e non pochi dei visitatori sostengono di avere sentito al suo interno strane energie negative. Tale convinzioni sono alimentate dalle storie di spiriti e demoni delle credenze popolari. Ad esempio quella secondo cui la foresta fosse abitata dai Kodama, spiriti che risiedevano negli alberi e che si divertivano a imitare le voci umane nelle foreste, creando degli echi: abbattere un albero che era dimora di un Kodama era considerato fonte di sventura. Oppure quella secondo cui la foresta sarebbe stata infestata dagli Y?rei, ovvero le anime di coloro che sono morti tra i suoi alberi, defunti prematuramente e senza un'appropriata sepoltura: come i fantasmi occidentali, gli Y?rei non riescono a raggiungere la pace nell'aldilà e a lasciare il mondo dei vivi. Un posto così arcano e suggestivo non poteva ovviamente non essere fonte d'ispirazione sia per scrittori e romanzieri (ad esempio il romanzo di Seich? Matsumoto che narra le vicende di due amanti che finiscono entrambi suicidi nella foresta, o ancora il celebre "The Complete Manual of Suicide" di Wataru Tsurumi), che per la settima arte. Tra i film a tema vanno sicuramente citati i seguenti blockbuster: la foresta dei suicidi - Grave Halloween (2013), la foresta dei sogni (2015), Jukai - La foresta dei suicidi (2016). Stranamente invece, almeno a quanto mi risulta, non vi sono stati a livello musicale molte band ad occuparsi dell'argomento. Mi sovviene solo un brano tratto dell'album di SHINING 'X - Varg Utan Flock' dal titolo 'Mot Aokigahara', e qualche spunto dell'album Kodama, magnifico lavoro pubblicato a fine settembre del 2016 dai francesi Alcest, che tra l'altro sono stati indubbiamente uno dei punti di riferimento primari nello sviluppo dell'attuale suono "autoctono" della band austriaca. A tale mancanza rimediano egregiamente i Harakiri for the sky: "Ci piaceva l'idea che vi fossero tutte queste persone che, per compiere un gesto così drammatico, si recassero in un luogo così bello, tranquillo, lontano da tutti. Qui, circondati dalla natura, decidevano di togliersi la vita. Uno scenario sicuramente cupissimo, eppure posseduto da una singolare bellezza, visto il luogo prescelto. Aokigahara poteva allora racchiudere la tristezza e la bellezza della nostra musica, non vi è nessun altro posto al mondo che gli somigli". Interessante notare che anche in questo album come per l'esordio la cover raffiguri un animale come soggetto "neutro" atto a rispecchiare in modo più o meno diretto testi e musica. Il tutto sempre permeato da quell'auera metaforica e sospesa tanto cara alla band. Cosi una volpe in stato indefinito e catatonico tale da non capire se dorma, riposi, soffra o sia in agonia, fa mostra di se accovacciata su un rifugio di spine e rovi. Aokigahara è uno sfarzoso lavoro di black metal evoluto, che fonde ed integra furia cieca e violenza con una decisa componente melodica e atmosferica. Tanto avvolgente quanto gelido nell'alternanza di accelerazioni furibonde e ritmiche coinvolgenti ed introspettive, nel suo incedere depressivo ed oscuro il disco metaforicamente si snoda agile attraverso gli anfratti più bui della foresta, orientandosi verso la meta finale che è la suprema concezione della morte. Addentriamoci allora in questa selva oscura e citando il Sommo Poeta: "Lasciate ogni speranza voi che entrate".
My Bones to the Sea
My Bones to the Sea (Le mie ossa al mare) è il lugubre biglietto da visita con cui la band si ripresenta ad inondare i nostri sensi. Un percorso musicale ad ostacoli che poco differisce dalle buie e pessimistiche visioni a cui già i nostri ci avevano abituati con il precedente lavoro. Il brano ha un bella intro strumentale e prende forma da un delicato quanto doloroso arpeggio di basso e chitarra ben presto sostenuto da un altrettanto languida melodia di piano. Poi subentrano gli ormai classici riff di chitarra saturi a delineare su una possente e lenta base ritmica di batteria la strada che il brano percorrerà. Ed in effetti già i primi due minuti iniziali sono perfetta sintesi e colonna sonora a corredo dei mesti pensieri di un uomo deciso ad abbandonare la "nave", di vivere e morire giovane, lasciandosi alle spalle gioie e dolori strazianti causati dal vano scorrere di un freddo e gelido fiume nelle sue vene. Sempre invidiabile la facilità con cui si concretizza nel mix di musica e parole della band, il travaglio di una figura umana sbiadita ed erosa. Chiudere gli occhi ed immaginarsi così, come si fosse un unicum, che ha dichiarato guerra alla nostalgia ed ai ricordi, che ha bruciato tutte le foto per farne ceneri simile alla cocaina, deve essere a suo modo un'esperienza: magari angosciante e paralizzante, ma di sicuro toccante e tremendamente consona al temperamento della band! L'andamento del brano per tutta la parte centrale, si avvale di una struttura lineare ed armonica che enfatizza questo senso di passività emotiva, ed a tratti echi neanche tanto nascosti di "paradise-lostiana" memoria sono udibili in modo abbastanza lampante. Quelle chitarre piangenti e "parlanti" alla Gregor Mackintosh, che all'unisono riescono ad essere contemporaneamente base ritmica e solista affiorano palesemente, mentre il cantato acido, a tratti gelidamente urlato ed alienato accompagna il pezzo sino al cambio di atmosfera finale. Uno stacco fluido e shoegaze che crea una breve stasi, a cui si abbevera l'anima travagliata ed in continuo tormento del protagonista, che si racconta e si sfoga senza trovare conforto alcuno. Ed allora sfruttando la stessa scia emotiva e musicale la violenza ritorna a farla da padrona ed il "solito" eccellente break post metal-rock strumentale di fine brano ancora sensibilmente debitore ai Paradise Lost d'annata, avvolge e stigmatizza un cambio sonoro necessario a rendere vivida e quasi tangibile la meta ormai prossima nonchè scopo ultimo da raggiungere. Tornare indietro per quanto sia allettante non si può e sarebbe un errore, mentre il futuro è cosi spaventoso da non volerlo affrontare. Ed allora meglio lasciarsi andare, e passo dopo passo consegnare le proprie ossa al mare!
Jhator
Tagliamo subito la testa al toro: da sola questa traccia rade al suolo interi album del genere, ed innalza la valutazione finale del disco per la sua clamorosa intensità ed intrinseca valenza artistica. Già il titolo del brano Jhator (fare l'elemosina agli uccelli), incute istantaneamente un senso di disagio e mistero che spinge all'ascolto e di riflesso proietta in uno sconfortante e macabro vortice dettato dai metodi di questo antico rito dell'Asia centrale. Jhator infatti è il nome dato ad un rituale religioso ancora diffusamente praticato in Tibet, una sepoltura celeste la quale prevede che il corpo del defunto venga scuoiato, smembrato ed esposto agli avvoltoi per cibarsene. Il tomden, il maestro buddhista del cerimoniale, scuoia il cadavere dalla testa ai piedi, lasciando al contatto dell'aria le interiora e le ossa. Gli avvoltoi attirati dal fumo del ginepro e dall'odore della carne, scendono dal cielo e si nutrono del corpo dell'uomo morto. Le ossa e il cervello poi vengono frantumati e mescolati con farina d'orzo, per divenire nuovo pasto dei volatili che ridiscendono per cibarsi degli ultimi resti. Ci soffermeremo più avanti sugli aspetti sacrali e spirituali che mutuano e non poco lo spiacevole senso di ribrezzo che può provocare l'immaginare una tale visione, e questo perché l'attacco devastante del brano fotografa e traspone perfettamente in musica codesto impatto visivo: piatti e tom a dettare i tempi d'ingresso, riff secco ed aperto che ti lascia appeso ed in attesa dell'esplosione che senza esitazione deflagra subito dopo in un ipercinetico e forsennato assalto frontale dal forte "flavour" apocalittico che va a nozze con l'argomento trattato. La dicotomia insita nella proposta degli austriaci ci regala come già accaduto nel precedente album perle testuali di finissima poetica, e cosi sul burrascoso tappeto sonoro d'inizio brano scendono come lacrime silenziose versi scritti in punta di penna: "Un tramonto rosso sangue e il sipario della notte divora la luce, in qualche modo questo crepuscolo sembra un dipinto di due mondi che si scontrano". Il brano prosegue sui binari di assoluta coerenza stilistica ai dettami di un black metal 2.0, che per quanto si sforzi di essere tradizionale è invece sempre intriso di quel substrato di malsano malessere, ed è spesso stemperato da ariose melodie gaze a presa rapida, dove fondamentale è l'apporto delle chitarre mai così eclettiche nella gestione delle varie fasi in cui il brano si dirama. Alla canzone che racchiude dei bei versi cantati in lingua madre ha prestato la voce come ospite Seuche dei Fäulnis, mentre la ferale voce di JJ non fa prigionieri ed esalta con le sue ultime digressioni esistenziali ("C'è solo una scelta nella nostra vita che possiamo decidere da soli: Avvoltoi o vermi?"), l'impianto sonoro che la sostiene. Un impianto sonoro che gradatamente e soffusamente sfuma il brano lasciandoci in eredità il pensiero tibetano secondo cui il corpo è un semplice involucro che permette di compiere il viaggio della vita, e non ha alcuna necessità di essere conservato. Lasciare il proprio corpo in pasto agli avvoltoi è un atto finale di generosità da parte del defunto nei confronti del mondo della natura che crea un legame con il ciclo della vita. Alla fine di questo "rito" si rimane basiti tra la speranza che il resto dei brani sia della stessa portata, e la certezza di avere appena preso coscienza di cosa significhi opera d'arte. Senza ulteriori giri di parole il migliore brano dell'album.
Homecoming: Denied!
Homecoming: Denied! (Ritorno a casa: Negato!), prende lentamente vita su dei perseveranti accordi elettrici di base, rivestiti da un bel pianoforte e da un metronomico riff portante di chitarra. I sinuosi synth che incessantemente aleggiano lungo tutto l'arco del brano, riempiono la traccia donandole un avvolgente senso di "tuttopieno". Si nota un notevole lavoro sulle ritmiche di batteria, sia in fase di accompagno che durante le scorribande in doppia cassa sempre ben bilanciate e mai ridondanti. Anche in questo brano si percorrono le tortuose strade del post black venato di shoegaze già solcate in precedenza, ma la maestria è tale che mai un passaggio, uno stacco, un riff doppiato o ripetuto su diverse tonalità, risulti stantio o monotono. Paragonerei la struttura musicale del brano ai pezzi di un puzzle, che a livello lirico e visuale, permettono di addentrarci all'interno della foresta dei suicidi. Il quadro d'assieme non sarebbe completo e tanto pregnante se si tenessero separate le singole parti che lo compongono senza incastrarle tra loro. Se con i precedenti brani si è preso coscienza del nulla cosmico che ci attanaglia, e si è contestualizzata la morte quasi come atto dovuto al ciclo vitale della natura, adesso tutto appare chiaro e disincantato perché solo la morte è reale, e quindi non si può resistere ad un viaggio terreno testualmente definito come "irto di sentieri acciottolati di cocci". Del resto, il testo di JJ è per tutta la prima parte particolarmente enigmatico e da interpretare a più livelli, non da netta parvenza di logicità, e galleggia su versi che sembrano potere vivere a se stanti e di vita propria. Versi invece che pur connessi al resto, hanno il bizzarro pregio di essere interscambiabili all'interno delle varie strofe, quasi a glissare quell'idea di puzzle sopra riportato. Ma probabilmente è questo l'effetto che la scrivente voleva dare, vestire il brano con un abito molto poco comodo da mettere addosso a chi ha deciso l' extrema ratio. E quindi la vita che è intesa come un'avvilente maratona attraverso mine vaganti, presto dovrà volgerà al termine, e la seconda metà del brano si sviluppa sapientemente su questa trama cantata in modo rovinoso ed efficace, e si dipana poi su un doppio intermezzo rock-gaze molto arioso, per rientrare alla "base" con sonorità cariche di rabbia e saturazione, che fanno da preludio al gran finale dove accelerazioni al cardiopalma si aprono a leggiadri ricami chitarristici di "alcestiano" sentore. Ritornare a casa ci è negato, ed il letargo è giunto al termine: finita l'ultima sigaretta si è pronti a lasciarsi il mondo alle spalle senza essersi mai voltati, si è pronti a raggiungere Aokigahara, legare la corda all'albero più alto e compiere l'estremo gesto togliendosi la vita.
69 Dead Birds For Utoya
Non si cambia di certo argomento nemmeno con il quarto brano in scaletta, e dopo averlo dapprima trattato da prospettive paranoiche e naturalistico-religiose, adesso la morte viene affrontata, ma non brutalmente sbattuta in faccia come ci si aspetterebbe, in 69 Dead Birds For Utoya (69 Ucelli Morti per Utoya). Ovviamente il titolo fa esplicito riferimento alla strage di Utoya, avvenuta sull'omonima isola norvegese a nord-ovest di Oslo il 22 luglio 2011. In quella carneficina persero la vita 69 persone (per lo più ragazzi) e ne rimasero ferite un centinaio. Un raduno di giovani attivisti in attesa della visita del primo Ministro sfociò in un eccidio quando il killer (Anders Breivik), raggiunta l'isola sotto falsa identità di poliziotto e armato di mitra, prese a sparare sugli inermi ragazzi per spezzare sul nascere le fondamenta di una Nazione e di un continente che lui non sentiva rispecchiare i suoi ideali. Fu l'atto più violento mai avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale. Colpisce subito del brano quello che sarà pure il suo unico punto a favore, ossia la capacità di trattare un argomento tanto spinoso con un testo ricco di sottile e umorale intimità. Si respira l'amara consapevolezza che sa tanto di rassegnazione, di vivere in un loop temporale chiuso in cui niente cambia nel corso dei secoli. Un totale fallimento del genere umano, la solita guerra che magari cambia nome e pelle ma alla fine non la sostanza. E colpisce positivamente anche l'utilizzo di animali (volpe in copertina, avvoltoio in Jhator, e generici uccelli in questo caso), a collettare pensieri e parole. Un evento così tragico corredato da un testo tanto arguto, avrebbe dovuto sposarsi perfettamente con il mood generale che pervade la proposta sonora degli austriaci; ed invece inspiegabilmente la musica che ne scaturisce rappresenta il primo (e per fortuna unico) buco nell'acqua dell'album in oggetto. Il brano da subito si basa su un chitarrismo sin troppo rock-oriented e quasi da classifica se consideriamo gli standard di riferimento della band, e ciò va a discapito della fondamentale componente di sulfurea rabbia e nera mestizia che i nostri sinora avevano sempre elargito a pieno ritmo!! Il pezzo scorre in modo scolastico ed un filino monotono senza riuscire a decollare neanche nei successivi minuti, e si arena staticamente su un cantato stranamente incapace di dare calore e colore alla sofferta bellezza intrinseca del testo. Non si ammanta di oscure percezioni, ed anche i pochi break e cambi di atmosfera presenti all'interno, non risultano funzionali ne innalzano il tasso qualitativo ed emotivo dell'insieme. In definitiva quello che più manca è il pathos: la canzone sembra spoglia, ed è del tutto priva di quella estetica musicale che mi ha sempre fatto considerare questo gruppo il Baudelaire delle sette note.
Parting
A rimettere in carreggiata il fiammante bolide targato Harakiri for the sky ci pensa la successiva traccia, che con un netto colpo di spugna cancella le incertezze sensoriali percepite con il precedente brano, e risucchia l'ascoltatore nei più neri gorghi della psiche. Siamo quindi nuovamente a bordo e passeggeri interessati a Parting (Separazione), brano che si attiene ai prodromi del post rock più puro, e dopo un inizio soave e setoso, prosegue con un andamento più duro e moderatamente pacato, sotto il controllo vigile di un cantato rozzo ma nonostante tutto non privo di un accentuato garbo espressivo. Come fossero poeti maledetti, i nostri profanano valori e convenzioni scegliendo l'autoannientamento per svincolarsi da una vita misera. Si parla d'impulsi distruttivi, di attrazione per la morte, di storie andate in frantumi, e JJ come un novello Rimbaud o Corbière, s'inerpica con disinvoltura in strofe ad effetto: "Ancora un altro alterco e questi muri cadranno sulle nostre teste, in modo che finalmente saremo sepolti vivi, in questa prigione di bugie". Le parole sono usate come flash back, come istantanee di vita vissuta, e siamo catapultati nella quotidiana quotidianità di una coppia ormai stanca, e di chi non resiste più all'ultimo fuoco divampato, all'ultima esalazione di zolfo amaramente ingoiato, e siamo lì quasi inermi spettatori dell'ultimo atto di una commedia dal finale scritto e da vomitare addosso l'uno all'altro! Si parla di uggia, di noiosa inquietudine, del paradosso per cui chi ama ed è felice non abbia storie interessanti da raccontare, perché la tediosità stanca ed aliena facendoti sentire morto. Per questo è meglio patire ma sentirsi vivo, per tale ragione è giusto congedarsi, separarsi e riappropriarsi di un nuovo respiro. L'argomento principe dell'album su questo brano è trattato in modo del tutto allegorico, ed in una veste tesa a sottolinearne da una parte l'ineludibile esito conclusivo, ed in contrapposizione dall'altra il virtuale senso di rinascita. A contornare tale funesto ma speranzoso scenario negli ultimi minuti del brano, ci pensa un penetrante tema musicale basato in una prima fase su dei sommersi accordi di synth e piano glissati da un toccante sound di chitarra, e poi su una breve quanto utile tempesta ritmica e sonora, atta a preparare la via al rush finale, in cui tutti gli stilemi tipici del rifframa della band si fondono coralmente sugellando in modo a dir poco strepitoso la fine di un brano che citando Proust può anche lasciare una speranza: "Molto spesso, per riuscire a scoprire che siamo innamorati, forse anche per diventarlo, bisogna che arrivi il giorno della separazione".
Burning from Both Ends
Si prosegue su un percorso stilistico che affonda le radici nel black metal di matrice depressiva per aprirsi sulle contorte strade del post rock venato di sfumature dark, con la successiva Burning from Both Ends (Bruciare da entrambe le estremità). In questo brano la band si mostra particolarmente eclettica nel fondere con estrema naturalezza e capacità di sintesi lo spirito più aggressivo con una spasmodica ricerca melodica, che ci proietta con un "back to the past" alle decadenti e notturne melodie del periodo d'oro della new wave anni '80. Esemplificativo in tal senso l'imprinting dato all'inizio del pezzo dall'eccellente lavoro di batteria, e gli azzeccati cambi di atmosfera chitarristici che ad intervalli regolari spezzano durante il brano, sia l'esagitata tensione dettata dal cantato declamatorio e strafottente dell'ospite Torsten degli Agrypnie, che gli usuali rigurgiti vocali del buon J.J. Se quanto riportato da l'impressione di trovarsi di fronte ad un brano che non dovrebbe fare dell'originalità il suo forte, in realtà si viene del tutto smentiti dall'ascolto dello stesso. Un sensoriale tourbillon che amalgama le contrapposte anime buie che formano la personalità musicale del duo austriaco, riuscendo a palesarsi pur sempre in un'ottica di sentimenti negativi, attraverso un brano capace di accogliere tutte le sfumature comprese tra la furia e l'afflizione. Sul versante lirico, che come da prassi ha una valenza molto accentuata nell'economia complessiva delle composizioni della band, siamo ancora dentro gli angoscianti vortici provocati dalla morte di un sentimento, e dalle impervie vie per dimenticarlo. Non so fino a che punto voluto o meno, ma il testo tra l'altro cita espressamente i Nirvana, quasi a rendere un inconscio omaggio al trio grunge per eccellenza, che di certo per storie di desolante tristezza urbana non era secondo a nessuno. "All these sore memories, hidden in a heartshaped-box, which I buried so deep", così recitano alcuni versi, mentre nei restanti si è risucchiati nella nostalgica rivisitazione di quello che è stato e che non si riesce a scordare. Non mancano le solite criptiche visioni trasposte in una scrittura aperta su più livelli interpretativi, che lasciano spazio al nostro vissuto, alla nostra esperienza e sensibilità. Ci puoi immaginare la storia di un suicidio in tale testo, piuttosto che semplicemente una storia finita, o perché no quella di un amore spezzato da chissà quale terribile malattia! Bellissima, ma non è una novità, tutta la seconda parte del brano che si muove tra silenti arpeggi di chitarra, tastiere che ricoprono ma non ostentano, e disperati intrecci canori e sonori di cui i Woods of Desolation andrebbero fieri. In definitiva brano tra gli highlights di un album che si appresta comunque a riversarci addosso un finale ancora maggiormente ispirato e pirotecnico!
Panoptycon
Ed infatti con Panoptycon (termine leggermente storpiato traducibile dall'etimologia greca in "Visione integrale"), il secondo capolavoro del disco è servito. Un autentico masterpiece che non presenta punti deboli e bombarda con quanto di più vicino al black metal tout a court la band abbia sinora realizzato. Sonorità malefiche e malvagie s'innalzano come fossero pareti portanti e mura invalicabili del panottico, ossia di una tipologia di carcere progettato sul finire del 18esimo secolo dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. La particolarità di tale struttura carceraria era quella di permettere ad un unico sorvegliante di poter osservare tutti i detenuti residenti all'interno del carcere senza permettere a questi di capire se fossero in quel momento controllati. Il nome si rifà anche ad Argo Panoptes, un gigante della mitologia greca descritto con un centinaio di occhi, e per tale motivo considerato un ottimo guardiano. Nessuno spazio a momenti di relativa tranquillità è inizialmente concesso in un brano che da subito si lancia all'assalto dei nostri sensi, come fosse uno dei detenuti alla veemente ricerca di un uscita per evadere. Duetti di chitarre ribassate e velocissime, plettrate sulle prime corde ad effetto zanzara, batteria arrembante ed al fulmicotone, ed un cantato leggermente iconoclasta che si calibra su tanta furia esecutiva a cementare il tutto e gettare benzina su una fiamma ardente che come da prassi esecutiva del gruppo, si modella successivamente su tonalità più melodiche ed empatiche. Sembra antitetico rispetto a quanto si ascolta, ma è proprio il dono di plasmare su tanta irruenza sonora roboanti melodie per nulla banali, ed in grado di viaggiare a circuito chiuso nella mente, che rendono unica questa band austriaca, ed in questa canzone si tocca l'apice di tale innata sensibilità artistica. Sensibilità che si svela inoltre, anche nell'intelligenza descrittiva e nella scelta del soggetto su cui elaborare finissime trame liriche. Così il testo cresce su un idea, su un pensiero filosofico che intende il panottico come metafora di un potere invisibile atto a controllare ed ottenere il dominio di una mente su un'altra sulla base di una struttura architettonica. La dimora del protagonista è il panottico in cui si trova rinchiuso e dominato/dominante, in un testo come al solito sin troppo ricco di versi da scoprire ed elaborare su base personale, ma che risulta sempre pregno di una mesta carica luttuosa. Onestamente difficile pretendere di più dall'ascolto di un brano musicale. Una esperienza da testare addosso, da farsi scivolare sulla pelle, facendosi sferzare da questi sette minuti d'inusitata intensità musicale.
Nailgarden
Nella simbolica e intima Via Crucis verso Aokigahara si ha una brusca accelerata con questo brano, legato a doppia mandata a una traccia precedentemente analizzata: Parting. Di fatto Nailgarden (Giardino di chiodi) è l'alter ego del brano prima citato. Una sorta di secondo tempo di un strana rappresentazione in musica del film Dr. Jekyll and Mr. Hyde. Il testo è la naturale e frustrante prosecuzione del tema della separazione trattato nel brano precedente, e non solo rimane ancora in primo piano, ma è in modo lampante ripreso e connesso citando addirittura in una strofa la stessa identica frase: "Hai mai visto persone felici con un storia interessante da raccontare?". Ma mentre in PARTING potevamo immaginare il nostro fantomatico Dr. Jekyll trasandato e rifugiato in un bar di periferia, a trangugiare esecrabili veleni tossici per lenire e stemperare i suoi strazi, con in sottofondo quelle note a tratti relativamente dolci e pacate, adesso invece troviamo il nostro fantomatico Mr. Hyde irato e violentato in membra e spirito, che ormai si è appropriato di una nuova coscienza, e scappando da tutti e tutto si dirige allegoricamente alla "base", nell'unico posto che possa acquietarlo donandogli l'ultimo panorama di serenità prima, a voler restare in ambito cinematografico dell'intuibile "the end". Ed al giardino di chiodi ovvero alla cara foresta dei suicidi, si arriva attraverso impervie e scoscese strade da percorrere con in cuffia le sgargianti e trucide melodie sonore su cui questo brano si appoggia. Strutturato sull'ennesimo giro di giostra chitarristico veloce ed avvolto da synth a tutto tondo, il black melodico e armonicamente perfetto del pezzo si installa dentro come fosse un virus difficile da mettere in quarantena, e di cui francamente non si vuole più fare a meno. La band da una ulteriore prova di pregio, e cala il tris d'assi con un altro pezzo da novanta da collocare all'istante nella loro personale e definitiva top ten. Tra l'altro a sorpresa, a monte della superba parte conclusiva, arriva dopo quasi due interi album, il primo assolo di chitarra composto dalla band. Nulla di tecnicamente memorabile o irripetibile, ma indubbiamente assai valido e totalmente in linea con la matrice funerea e poetica da cui trae spunto per svilupparsi. E così con in mente l'ultima frase del testo "L'amore è sempre stata la parola d'addio e di separazione", si giunge senza accorgersene alla fine del brano ed alla tappa conclusiva del viaggio: benvenuti ad Aokigahara.
Gallows (Give 'em Rope)
E ad Aokigahara si arriva e ci si addentra testualmente "come cervi che si rifugiano nell'oscurità". Anche nel brano Gallows (Give 'em Rope) ossia Forca (Dai la corda), ultimo atto di questo desolante ed onirico pellegrinaggio musicale, la figura di un animale funge a tratteggiare uno status. Il cervo e le sue corna che annualmente cadono e rinascono con una ramificazione in più, diventano simbolo del rinnovo continuo della vita in un perenne processo di morte e rinascita. Corna che innalzandosi verso il cielo raffigurano inoltre l'albero della vita, facendo così da tramite fra il mondo terreno e quello spirituale. Il cervo diviene quindi figura di unione e trapasso fra i due mondi, quello dei vivi e quello dei "non vivi", piuttosto che un ponte tra il conscio e l'inconscio. Il testo è trasposto in un altalenante scambio tra prima e terza persona, che aumenta sia alla lettura che all'ascolto, l'avvilente senso di disagio, aiutandoci ad essere quasi partecipi al funesto rito di passaggio a cui a breve assisteremo. Da recenti studi di settore il suicidio risulta tra le tre principali cause di morte in soggetti adulti di età compresa tra i 15 ed i 45 anni, assieme ai problemi cardiovascolari ed agli incidenti stradali. E per gli uomini il secondo metodo maggiormente utilizzato per compiere tale azione è proprio l'impiccagione. E quale miglior posto se non la foresta giapponese più famosa al mondo in tal senso!? Dal canto suo la musica si adegua a pennello, ed i nostri utilizzano tutte le frecce al loro arco per rendere figurato il finale della storia. Siamo nei territori plumbei delineati da chitarre e tastiere tribolanti, che affrescano in modo atro e del tutto consono il tetro paesaggio immaginabile all'interno del luogo prescelto. L'esecuzione sonora e canora risulta barbara e selvaggia, ma imbastita su armoniosi e ricercati riff di riferimento che nel corso del brano si liquefanno in sonorità più meditanti senza perdere comunque un'oncia di pathos emotivo. E non può perderlo perché si parla di miseria umana, di perdita di speranza nei confronti di se stesso e del mondo, e della presenza costante di un sentimento di disperazione per cui il suicidio diviene l'unico appiglio per fronteggiare il proprio a volte inspiegabile tumulto emotivo: "E mentre scende l'alba ricordo: la morte è sempre rimasta più perfetta della vita?.l'alba segna il loro inizio, l'alba segna la fine.Dagli la corda!" Così l'indissolubile legame a cui sono agganciati i due album sino ad allora realizzati dal gruppo, si concretizza attraverso i versi sopra citati e la fine improvvisa e repentina del pezzo, che ben raffigura il decisivo salto nel vuoto e la stretta del cappio alla gola. Ciò richiamando velatamente la fine dell'ultimo brano del primo album sul versante sonoro, e sostituendo in quello lirico lo strumento da utilizzare per lo scopo finale. Si chiude il cerchio e si chiude un album che senza alcun dubbio brilla di luce (nera) propria, e che senza indugi si può definire di assoluto spessore artistico.
Mad World (Tears for Fears cover)
La cover di Mad World (Mondo folle), è inclusa solamente nella versione in vinile dell'album. Si tratta del terzo singolo rilasciato dalla band britannica Tears for Fears a supporto del disco di debutto The Hurting uscito nel marzo del 1983. Tale brano ottenne un notevole riscontro trainando il gruppo inglese al grande successo commerciale. Sono state realizzate molte cover del pezzo, tra le più apprezzate si ricordano quelle di Gary Jules e Michael Andrews composta come colonna sonora del film "Donnie Darko", e quella di Adam Lambert. Ed allora per quale motivo una band come i HFTS avrebbe dovuto coverizzare un brano simile? Alla domanda si può dare una spiegazione, che magari di primo acchito sfugge, magari in ragione del fatto che gli universi sonori dei due gruppi sembrerebbero essere agli antipodi. Ma un'analisi più incisiva potrebbe cambiare tale prospettiva e dimostrare che in definitiva solo il percorso è differente ma il mezzo per raggiungerlo è simile e parallelo. Il testo è stato scritto all'età di 19 anni dal chitarrista Roland Orzabal, osservando il mondo lì fuori, attraverso la finestra della sua discreta abitazione sopra una pizzeria a Bath, cittadina poco distante da Londra. Si scorgono facilmente nella canzone i suoi sentimenti di inadeguatezza ed alienazione verso se stesso ed il mondo circostante, la ricerca di un significato dell'esistenza, per giungere invece alla conclusione che la vita delle persone inclusa la sua, ruoti in realtà senza alcuna meta. Insomma il mondo tira avanti ma tutto sembra anche non avere senso. Vi sono strofe che descrivono noiosa rassegnazione "all around me are familiar faces", altre tristezza e desolazione "their tears are filling up their glasses", ed in altre ancora il protagonista sembra quasi desiderare la morte visto che i suoi unici momenti di sollievo sono i sogni in cui vede se stesso morire "the dreams in which I'm dying , are the best I've ever had". In definitiva il domani che tutti sogniamo è solo un'illusione in questo mondo folle, e Mad World è una canzone di una tristezza infinita. Il prioritario punto di contatto appare adesso svelato in tutta la sua eclatante semplicità: il testo è il mezzo, ed il microcosmo lirico di tale brano, è il riferimento principe rappresentabile come le colonne d'Ercole della band austriaca; che è ineluttabilmente e totalmente a suo agio nel trattare tali argomenti e trasdurli con nuova veste e linfa in altrettanti comuni e sofferenti sentimenti. Il percorso ci porta invece sul versante strettamente musicale, che vede il duo viennese dimostrare una spaventosa capacità reinterpretativa. La musica viene plasmata e rimodellata senza che venga meno il dovuto rispetto alla celebre e fortunata versione originale del brano, ma immergendolo nel calderone di un post rock fortemente metallizzato, in grado di amplificarne sia i tratti più tenui che quelli più prettamente wave e derivati dalla nascente scena new romantic a cui il duo inglese (anche loro un duo tra l'altro), si accoda. Così nella cover ai sintetizzatori tanto in voga nei primi anni 80, si sostituisce un pianoforte dai connotati lenti e regali che fa da apripista ai solidi e corposi riff su cui si staglia la rude ugola di J.J. Contrariamente a quanto ipotizzabile, nel complesso il brano si snoda su tempi volutamente più lenti rispetto alla versione originale, come a volere enfatizzare il contenuto del disco, con un andamento più pachidermico e meno leggiadro e allegro tipico di un certo tipo di approccio dell'epoca. La cover si chiude con un elegante movimento di pianoforte basato su una melodia non presente sull'originale, e che risulta calzante e di grande effetto. Coverizzare un brano così famoso di una band che lo è stata altrettanto aveva i suoi rischi; ma gli austriaci hanno egregiamente superato la prova, e tra i tanti artisti che si sono avventurati in questo esercizio, anche se non tra i più noti (ma notorietà non sempre è sinonimo di qualità soprattutto in quest'ambito), senza possibilità di smentita sono stati tra quelli in grado di riproporlo nel modo più fantasioso e caratterizzante.
Conclusioni
Per convenzione si è tentati a considerare il terzo album di una band quello della maturità, quello della prova del nove, quello in grado di consolidare le prospettive ed aspettative di una artista o di una band. Ci sono tanti esempi a conferma di tale regola non scritta, che però non è applicabile ai Harakiri For The Sky, che bruciano le tappe e con il loro secondo album in studio s'iscrivono di diritto tra i big del genere lasciando velocemente lo status di new sensation meritata con l'ottimo esordio. L'album con una operazione di marketing che si rivelerà azzeccata, viene immesso sul mercato discografico ad aprile del 2014, ossia un paio di mesi dopo "As The Stars" dei Woods Of Desolation, e neanche un mese prima dell'uscita di "The Serpent And The Sphere" dei purtroppo adesso sciolti Agalloch. Tale mossa se da un lato garantiva visibilità alla band, permettendogli di cavalcare l'onda lunga creata da un nuovo album stilisticamente in linea con quelli dei loro ben più blasonati mentori, dall'altro avrebbe potuto per lo stesso motivo stritolarli e schiacciarli in mezzo. Ciò non è affatto successo per un duplice fattore. Il primo riguarda le coordinate su cui viaggia Aokigahara, che risultano tangibilmente distanti sia da una certa rilassatezza di fondo riscontrabile nel lavoro degli Agalloch, che dalla crudezza espressiva tendente ad un sound più epico e glaciale molto evidente nei Woods of Desolation. Il secondo risiede nelle virtù e nella personalità insita nei 70 minuti circa di questo morboso e magniloquente disco di trapasso verso gli inferi dell'alma. Al netto di un brano poco riuscito e trascurabile, e di una piccolissima flessione riscontrabile solo nei minuti centrali del brano successivo, siamo di fronte ad un album che snocciola uno dopo l'altro pezzi di strabordante qualità emozionale, sotto l'uraganica spinta di un suono che rispetto all'esordio affina ed estremizza le opposte facce della stessa medaglia. Sono i testi a condurre la musica verso testa o verso croce, sono le parole a dettare sul pentagramma le rovinose irruenze che danno vita ad altisonanti e furiose partiture di black melodico, sono le frasi a costruire variopinte sovrastrutture da cui librarsi cullandosi su nostalgiche e toccanti linee musicali. Nel complesso Aokigahara è un lavoro più completo ed organico del predecessore. Completezza data prima di tutto dal numero di brani (nove rispetto ai cinque dell'esordio), che permette alla band di spaziare e variare maggiormente i confini delle loro oniriche visioni, ed in secondo luogo da una migliore presa di coscienza delle fonti d'ispirazione a cui attingere senza scimmiottare, ed utili ad integrare e definire organicamente la loro proposta. Ed in effetti organico è l'aggettivo che focalizza al meglio lo sviluppo e l'attitudine imposta ai pezzi, che seppur di durata a volte chilometrica, e seppur avulsi a qualunque forma di orecchiabilità, fluiscono amabilmente e scevri d' inutili orpelli e riempitivi. La performance dei singoli musicisti è sobria e lineare. Non siamo di fronte ad artisti che fanno della tecnica sopraffina una esigenza, o che amano sciorinare funambolismi vari. Ciò non toglie che nonostante il loro interesse primario sia comunicare mortifere emozioni e teletrasportare la mente su grigi panorami e nerissimi orizzonti senza fine, con gli strumenti sono tecnicamente capaci, e sono decisamente a loro agio nello sfruttare effettistiche varie. Inoltre un plauso particolare merita il turnista che si è occupato di incidere le parti di batteria. Quello che nel primo album era stato forse il tallone d'Achille, adesso diviene punto di forza e motore propulsivo; sulla quasi totalità dei brani le dinamiche e le varianti in termini di velocità, cambi di tempo, break e ripartenze fornite dal batterista, di fatto rendono di gran lunga più interessante il fruire degli stessi. Evito di soffermarmi sull'operato del tuttofare Sollak, vi basta leggere la track by track per rendervi conto dell'enorme talento di questo musicista, mentre un appunto può essere fatto al cantante, che rimanendo ancorato alle medesime modalità esecutive ed espressive per tutta la durata dell'album, probabilmente alla lunga tende leggermente a stancare rendendolo sensibilmente pesante all'ascolto. Ma è una questione di sensibilità soggettiva. Il dato oggettivo è che Aokigahara è un misterioso contenitore alchemico con al suo interno tre perle nere di autentica e suprema bellezza (Jahtor, Panoptycon e Nailgarden), e le rimanenti tracce (tranne la già citata 69 Dead Birds for Utoya) , si attestano abbondantemente ben al di sopra della media. Non siamo ancora nei pressi del capolavoro, ma potrebbe non mancare così tanto, e con una carriera davanti tutta in divenire, e già impreziosita da due candide bestie di virulento black depressivo diluito in sfumature gaze e post rock, ai Harakiri For The Sky nessuna meta è preclusa.
2) Jhator
3) Homecoming: Denied!
4) 69 Dead Birds For Utoya
5) Parting
6) Burning from Both Ends
7) Panoptycon
8) Nailgarden
9) Gallows (Give 'em Rope)
10) Mad World (Tears for Fears cover)