HAMMERFALL
Chapter V: Unbent, Unbowed, Unbroken
2005 - Nuclear Blast
DONATELLO ALFANO
06/06/2015
Recensione
Novembre 2002; a pochi giorni dal rilascio di Crimson Thunder gli HammerFall con un concerto a Portland nell'Oregon inaugurano un nuovo ed esteso tour mondiale, gli svedesi fortemente convinti del valore dell'ultimo album girano in lungo e in largo gli Stati Uniti arrivando ad esibirsi in poco più di un mese in ben venticinque città. Il ritorno in Europa a gennaio segna l'avvio della seconda parte del tour, per accontentare tutti i fan sparsi nel Vecchio Continente il gruppo macina chilometri su chilometri fino agli ultimi giorni di febbraio, soltanto pochi giorni dopo il five piece vola in Giappone per quattro concerti in compagnia dei connazionali Nocturnal Rites. A metà maggio gli HammerFall raggiungono il Sud America; le esibizioni in Cile, Argentina e Brasile riaffermano una popolarità che oramai ha scavalcato qualsiasi confine geografico, teoria avvalorata anche dagli show a Guadalajara ed a Città del Messico. Alcuni dei più rinomati festival estivi come il Bang Your Head, il Masters of Rock ed il Metalmania concludono dopo dieci mesi un tour faticoso ma estremamente gratificante sia sotto l'aspetto professionale che sotto quello umano. Il combo inoltre ad ottobre festeggia i dieci anni di attività pubblicando nei formati doppio cd e dvd il live One Crimson Night, fedele ed entusiasmante testimonianza della data al Lisebergshallen di Göteborg (la versione cd si differenzia soltanto per la presenza come bonus tracks di tre estratti dalle date di Guadalajara e Santiago del Cile) il singer Joacim Cans nel frattempo mosso dal desiderio di mostrare le sue doti come compositore al di fuori della band in compagnia del chitarrista Stefan Elmgren dà il via alle registrazioni del suo primo lavoro da solista intitolato Beyond the Gates. Pubblicato ad aprile del 2004 con il monicker Cans l'album oltre ad annoverare una line-up e dei coautori di primissimo ordine presenta dodici tracce all'insegna di un heavy/power affine a quello degli HammerFall ma anche in grado di rivelare un altro volto di una marcata personalità. Il quattro settembre Joacim e Stefan insieme al chitarrista/fondatore Oscar Dronjak, al bassista Magnus Rosén ed al batterista Anders Johansson entrano ai Lundgård Studios di Vejen in Danimarca per incidere Chapter V: Unbent, Unbowed, Unbroken, quinto ed atteso full-length di un'avventura che nonostante i soliti detrattori pronti a puntare il dito contro, continua a procedere a gonfie vele. Sotto la guida di Charlie Bauerfeind (produttore anche del lavoro precedente) il quintetto impiega cinquantadue giorni per portare a termine le recording sessions dell'album, la mossa finale è sancita dal processo di missaggio effettuato a novembre al Mi Sueño di Tenerife. La Nuclear Blast rispettando le strategie commerciali imposte dal mercato discografico e sfruttando la rilevanza di uno dei gruppi più importanti del suo roster a gennaio del 2005 pubblica una piccola anteprima del cd con il singolo Blood Bound; un mini composto da due versioni della title track (la seconda intitolata karaoke version in pratica è una semi-strumentale) e da un'altra registrazione estrapolata dal concerto di Guadalajara in cui gli svedesi travolgono il pubblico messicano sulle note della vecchia The Metal Age. Il sette marzo Chapter V: Unbent, Unbowed, Unbroken arriva nei negozi presentandosi con una fantastica copertina firmata da Samwise Didier (giunto alla seconda collaborazione con la band dopo quella non particolarmente esaltante di Crimson Thunder) partendo dalle idee di Cans e Dronjak questa volta l'artista statunitense ritrae Hector sotto forma di una statua scolpita per glorificare tutte le imprese compiute finora. In un primo momento sembra quasi di trovarsi di fronte ad una commemorazione dell'impavido guerriero, ma l'immagine in realtà simboleggia la sua rinascita attraverso dei fasci di luce emanati dal sole e dalla mezzaluna presenti nel suo mantello, gli unici testimoni di questa resurrezione sono i lupi e le aquile che circondano il paesaggio ghiacciato nel quale è collocata la statua. La scelta di utilizzare dei colori più chiari rispetto a quelli degli album precedenti e di stampare il titolo del platter sul piedistallo donano ulteriore incisività a quella che personalmente ritengo una delle migliori cover ideate per gli svedesi.
Un tappeto tastieristico che sembra provenire dalla soundtrack di un film di fantascienza ed un fraseggio che riporta alla mente l'indimenticabile incipit di Wasted Years degli Iron Maiden introducono l'opener "Secrets" (Segreti) un coro simil-gregoriano ed i colpi di Anders sui tom oltre ad aumentare gradualmente i volumi, al quarantottesimo secondo trasformano il brano in un possente up tempo guidato dalla poliedricità vocale di Joacim. Il cantante muovendosi su un riff-rama influenzato dalla scena metal della seconda metà degli anni ottanta, sfodera la consueta prova in bilico tra irruenza ed epicità, il pre-chorus in pochi istanti mostra una timbrica più alta lasciando poi lo spazio al contrasto tra l'incedere sostenuto dettato dalla sezione ritmica e l'approccio di ampio respiro riversato nel ritornello, quest'ultimo nella sua linearità ricopre un aspetto basilare nel riassumere l'incursione di un manipolo di cavalieri tornati sul campo di battaglia per osteggiare un avversario apparentemente invincibile. Spronati da un incrollabile spirito di fratellanza e dall'audacia scolpita nei loro cuori sono pronti a combattere fino alla morte per difendere i popoli vessati dalla malvagità del nemico, la forza di questi soldati risiede nei segreti che custodiscono tenacemente, una serie di misteri millenari capaci di renderli artefici di una nuova e splendente alba per tutto il genere umano. Nella parte centrale un clavicembalo accompagnato nuovamente dagli accenni in stile gregoriano attenua la tensione per una manciata di secondi, la batteria interrompe questa parentesi idilliaca aprendo la strada al turbinio creato dagli assoli di Stefan e Oscar; il primo predilige la velocità di esecuzione mentre il secondo indirizzandosi maggiormente sulla melodia elabora un ottimo ponte con una parte caratterizzata da una serie di fraseggi immersi in un'atmosfera barocca riconducibile al maestro Malmsteen o al periodo d'oro degli Stratovarius. I chitarristi senza eccedere nei virtuosismi dei loro colleghi evidenziano le abilità strumentali di un segmento che si protrae per oltre un minuto, terminando nel reinserimento della struttura originaria e nella doppia ripetizione del ritornello, degna conclusione di una traccia formalmente impeccabile, segnata da qualche piccola novità ed impreziosita, così come era avvenuto per Crimson Thunder, da un lavoro in fase di produzione compatto e capace di mettere in risalto l'operato di ogni componente. In "Blood Bound" (Legati dal Sangue) gli HammerFall rispolverano i tratti distintivi di alcuni classici della loro discografia come Stone Cold e Let the Hammer Fall in una versione più aggressiva; nelle battute iniziali gli accordi di chitarra incastrandosi sulle movenze di un roccioso mid tempo eseguono la melodia principale e sfruttando un rapido stop and go preparano il terreno all'ingresso di Cans. Supportato da un consistente utilizzo dei cori e da un riffing quadrato, il frontman nei versi irrompe con delle tonalità energiche e taglienti per poi mostrare un'impostazione più armoniosa in un bridge che ricalca in maniera fin troppo evidente quello di Riders of the Storm (opener dell'album precedente). Il ritornello imprime un sigillo significativo per il modo con cui alterna l'intonazione a pieni polmoni del titolo e l'accattivante progressione che riveste le frasi successive, ovviamente siamo al cospetto di una formula con la quale il quintetto ha sempre vinto a mani basse, anche se i cultori del power scandinavo individueranno più di una similitudine con il refrain di In the Heat of the Night dei connazionali Vanessa (gruppo meteora autore di un full-length omonimo pubblicato nel 1995) parlare di plagio è eccessivo, ma indubbiamente è impossibile non notare dei punti in comune tra i due brani, alla resa dei conti si tratta di un peccato veniale, soprattutto considerando che anche gli svedesi in passato sono stati vittime di questo "processo", per averne piena conferma basta mettere a confronto la straordinaria Heeding the Call con The Round Table dei Grave Digger. Il break presenta l'unica variazione melodica con un rapido intervento di Cans ricco di enfasi ed un solo di Elmgren che seguendo la linea tracciata dal singer si divide con mestiere sul binomio tecnica/melodia, il ritornello torna a dominare la scena nell'epilogo ponendo l'accento nelle ultime battute su tre parole legate al concept lirico degli HammerFall: "power", "together" e "forever". Queste parole rappresentano la summa del pensiero di un esercito ardimentoso e determinato alla vigilia di una battaglia attuata in nome della libertà; le frasi ricollegandosi a quelle di Secrets, si soffermano principalmente sulla consapevolezza dei guerrieri di poter trionfare in uno scontro che si preannuncia lungo e difficile, il tutto in virtù di una presa di coscienza talmente forte da indurli ad autodefinirsi come i nuovi guardiani del sistema solare. Il desiderio della band di riscoprire i trademark degli esordi emerge nell'immediata "Fury of the Wild" (La Furia del Selvaggio) un riff di pura matrice ottantiana e le rimbombanti stoccate sul rullante avviano una scheggia in cui convivono Judas Priest, Accept e gli onnipresenti Iron Maiden. L'incedere veloce e lineare creato dai musicisti offre a Joacim la possibilità di attaccare nelle strofe con un acuto "sighs" seguito da versi più grintosi; l'ombra di Rob Halford aleggia in ogni istante della sua interpretazione ma il cantante dall'alto di una maturità acquisita in anni di carriera, a differenza dei numerosi cloni del Metal God che popolano la scena riesce a distinguersi senza tradire lo stile di una delle sue principali fonti di ispirazione, questa scalata sfocia direttamente in un refrain contraddistinto da un'avvincente serie di intrecci tra voce e controcanti capaci di riaffermare anche negli episodi più veloci un appeal melodico nettamente sopra la media. La sezione centrale pur avanzando sulle stesse ritmiche dei primi minuti presenta una parte leggermente più dinamica determinata dall'alternanza tra una valida armonizzazione delle chitarre, un solo di Stefan incentrato su una rapida sequenza di note ed una digressione di Joacim dall'attitudine orgogliosamente epic suggellata con degli stop and go avvolti dai termini "unbent", "unbowed", "unbroken" (implacabile, indomito e indistruttibile). Tre termini inclusi per celebrare la figura di un eroico combattente imprigionato per lungo tempo; l'odio e la rabbia sono gli unici sentimenti provati durante la prigionia, la sua sete di vendetta lo porta ad implorare un'entità soprannaturale che può renderlo libero da una detenzione iniqua. Nel momento in cui l'ira cresce a dismisura comincia a percepire il senso di libertà ma sembra quasi passare in secondo piano a favore di una rivincita mossa da una furia diventata oramai incontrollabile. Il combo riprende a marciare sui sentieri battuti da Blood Bound nei quattro minuti e trentotto secondi di "Hammer of Justice" (Il Martello della Giustizia) un paio di colpi di Johansson delineano l'input per un'efficace sovrapposizione delle sei corde; le armonie costruite da Elmgren non si discostano più di tanto da quelle della seconda traccia, rimarcando così l'inclinazione del guitar player nell'eseguire delle trame semplici che si fondono con disinvoltura in quei tempi medi che passo dopo passo stanno prendendo sempre più il sopravvento nel songwriting degli HammerFall. Chitarra ritmica, basso e batteria erigono un muro sonoro sul quale si staglia il timbro evocativo ed iper-melodico di Cans, quest'ultimo raggiunge l'apice nelle irresistibili aperture presenti nel bridge e contemporaneamente trasporta il brano ad un ritornello che, utilizzando una fragorosa unione tra i cori e la sua voce, sembra quasi voler emulare qualche scorribanda del recente passato (in primis quella di The Unforgiving Blade). Gli svedesi però non si limitano alle autocitazioni e modificano il pezzo nel break prima con un rallentamento marchiato dall'ennesimo intervento colmo di epicità del cantante e successivamente da due assoli ben strutturati e saldamente ancorati alle coordinate più classiche del metal, questo intermezzo è la componente ideale per dare maggiore spessore all'intrepido guerriero/vendicatore descritto nel testo, leggendo le frasi è naturale individuare in questo vendicatore diversi riferimenti alla mascotte Hector. Inizialmente la sua presenza è percettibile soltanto nel vento e nella pioggia che sovrastano il territorio in cui si aggira furtivamente nell'attesa di scovare e annientare un nemico feroce e dispotico; come si evince dal titolo il martello oltre a rappresentare l'arma con la quale sconfiggerà il suo antagonista, esalta la vittoria della giustizia su una malvagità destinata a crollare inesorabilmente. In "Never, Ever" (Mai e Poi Mai) gli HammerFall recuperano gli elementi che hanno segnato le ballads degli ultimi lavori per comporre un lento avvolto da un mood triste ed introspettivo; nell'introduzione gli strumenti entrano all'unisono e in venti secondi rivelano la melodia portante confluendo negli arpeggi acustici e nel sottofondo d'archi appena accennato delle strofe, in questa base tanto lieve quanto vibrante Cans mette da parte le tonalità più alte orientandosi su una performance profonda ed emotiva. Il singer con il solito carisma che lo contraddistingue riversa il dolore e la tristezza di un uomo abbandonato dalla donna che continua ad amare; si ritrova seduto a fissare un muro e riflette su come è cambiata la sua vita da quando è stato lasciato, un piccolo errore definito "un momento di stupidità" ha causato la fine del loro amore e ha trasformato tutto in un incubo dal quale sembra impossibile svegliarsi. I suoni elettrici tratteggiati dall'intro ricompaiono nel refrain per supportare al meglio le sovraincisioni effettuate sulla voce di Joacim, in questo frammento la sofferenza del protagonista assume un tono più struggente; il sogno di poterla ritrovare svanisce nella consapevolezza che la sua esistenza non sarà più la stessa e che non sentirà mai più pronunciare il suo nome. Le varie intonazioni del cantante si sovrappongono anche a metà brano e formano il preludio ad una progressione di Stefan votata al pathos trasmesso dalle liriche, il chitarrista allontanandosi momentaneamente dalle evoluzioni esibite nelle altre tracce realizza uno degli assoli più incisivi dell'album e conduce ad un finale dettato dalla ripresa per due volte del refrain, ultima sfumatura di una ballad che non presenta grandi innovazioni sotto il profilo stilistico ma riesce comunque ad attestarsi a dei livelli non così lontani da quelli di alcuni pezzi che hanno contribuito al successo planetario della band. "Born to Rule" (Nati per Governare) punta nuovamente sulla formula del mid tempo anthemico e battagliero; gli svedesi partendo ancora una volta da un riffing affilato e lineare sviluppano una marcia metallica nella quale Cans può dare ampio sfoggio delle sue capacità; il frontman in due strofe frapposte ad un assolo di Elmgren si destreggia tra vigore e oscurità, la tensione accumulata in poco meno di un minuto esplode definitivamente negli imponenti cori che imperversano nel bridge e nel ritornello. Le backing vocals ruotando soltanto sulle parole "rule/born/rule" seguite dalla frase "we were born to rule" (siamo nati per governare) inevitabilmente richiamano alla memoria i proclami dei migliori Manowar, anche in questo frangente l'essenzialità costituisce l'input perfetto nel celebrare la missione intrapresa dai protagonisti del testo. Le vittorie conseguite in tutte le battaglie affrontate durante un percorso segnato da un elevato numero di vittime li hanno portati fino ad un territorio in cui è in atto una rivoluzione destinata a cambiare il destino di un popolo che vuole reagire e combattere per conquistare l'agognata libertà, per i guerrieri si tratta della "chiamata finale", l'ultima mossa di un cammino che ha tramutato il sogno degli abitanti in una fulgida realtà. L'apporto di Elmgren e Dronjak rappresenta uno dei punti di forza nell'ossatura del brano, ma gli axemen si esprimono al massimo delle loro potenzialità nella successione di fraseggi e parti soliste inseriti nei minuti centrali; nelle corde dei due la melodia prevale sulla tecnica ribadendo così la straordinaria alchimia nata ai tempi di Legacy of Kings, ovviamente spetta al ritornello il compito di chiudere un episodio avvincente e contornato da alcuni dettagli che elevano ulteriormente il suo valore. L'intro di "The Templar Flame" (La Fiamma del Templare) in soli diciannove secondi catapulta l'ascoltatore in una dimensione sospesa tra realtà e fantasia; i toni altisonanti forgiati dai guitar players aprono una traccia cadenzata vicina all'impostazione ritmico/melodica della vecchia At the End of the Rainbow o della title track di Crimson Thunder, il drumming di Anders aumenta l'impatto iniziale conficcandosi prepotentemente ai suoni iper-aggressivi delle chitarre e a delle soluzioni canore scolpite nel metal più puro ed incontaminato. Joacim dona ad ogni frase una notevole espressività esternando la collera e la disillusione provate da un uomo nel vedere l'inarrestabile declino che lo circonda, il suo atto d'accusa è rivolto ad un popolo che a causa di una ignobile indifferenza ha permesso una involuzione a prima vista senza via d'uscita, tuttavia il protagonista nutre ancora un piccolo barlume di speranza affinché si possa trovare un rimedio ad una situazione fuori controllo. La voce diventa più irruente nel pre-chorus e cede rapidamente lo spazio ad un refrain rivestito da un sottile velo di malinconia, le melodie dell'introduzione spiccano nella struttura confermando l'impressione di essere al cospetto di un tributo "nascosto" ai Judas Priest di A Touch of Evil; l'utilizzo di una linea vocale simile a quella del masterpiece inciso dagli inglesi accentua il desiderio del protagonista di riportare la sua terra agli antichi splendori ed è convinto di poter trovare la spinta decisiva nel fervore e nella tenacia che in passato hanno determinato tutte le vittorie dei cavalieri templari. L'assolo di Stefan rilegge in maniera piuttosto fedele le progressioni delineate dalle strofe, senza spostarsi di una virgola da quanto sentito finora il chitarrista trova la via più efficace per condurre il pezzo al classico coro oh, oh, oh... che riprende il refrain in una versione più magniloquente. La band firma l'epilogo con questa particolarità, eliminando completamente le parole, una scelta anomala ma da elogiare se l'intento primario come in questo caso, è quello di non calcare la mano su quella ripetitività che nella maggior parte dei casi influisce negativamente sull'esito finale di una canzone. La successiva "Imperial" è un intermezzo strumentale di centocinquanta secondi scritto e suonato da Oscar; dopo Lore of the Arcane il leader mostra un altro lato nelle vesti di songwriter affidandosi esclusivamente alle sonorità unplugged ed eseguendo dei lievi giri armonici dall'impronta folk oriented; la chitarra solista divide il pezzo in due parti leggermente diverse che si integrano alla perfezione per dipingere uno scenario ancestrale ed incantato, mentre la seconda svolge solo la funzione di un accompagnamento estremamente semplice ma altrettanto valido. Lo schema viene ripetuto due volte e in qualche passaggio mette in luce un'ispirazione proveniente da The Bard's Song - In the Forest dei Blind Guardian (dal 1992 un autentico punto di riferimento per il folk moderno) questo aspetto comunque è alquanto marginale e non intacca la singolarità di una parentesi acustica che, grazie al suo mood piacevole e suggestivo, riesce anche a superare lo status di semplice riempitivo. I dettami del power teutonico affiorano in "Take the Black" (Vesti il Nero) partendo dalla lezione impartita dai numi tutelari Gamma Ray e Helloween gli HammerFall compongono una trascinante rilettura di un genere che dopo decenni può ancora reinventarsi con maestria e credibilità; il riff iniziale seguito dalle rullate di Johansson cancella qualsiasi dubbio sulla direzione intrapresa dal quintetto evidenziando un ritmo incalzante ed energico che sprona Cans ad un'interpretazione prorompente e versatile. L'accoppiata strofe/bridge brilla per l'efficacia con cui lega voce e controcanti, i frequenti innesti delle backing vocals amplificano la corsa del frontman fino a portarla sulle vette più alte in termini di intensità nelle magnifiche armonie incastonate in un ritornello che non avrebbe sfigurato in alcuni capolavori della seconda metà degli anni novanta come Somewhere Out in Space o Better than Raw. Elmgren riaffermando un ruolo da abile e valido esecutore realizza un assolo capace di incarnare la vera essenza del power metal, le corde del musicista in trentatré secondi lasciano un segno rilevante sia sotto il profilo tecnico che sotto quello melodico e come era lecito aspettarsi riportano il brano sulla successione dettata dal bridge e dal reinserimento del ritornello in due tonalità differenti. Il testo ispirandosi alla mitologia greca presenta un punto di vista personale sulla figura del Sinistro Mietitore; le liriche tratteggiano l'immagine di un tetro giustiziere arrivato per porre fine all'esistenza di un individuo colpevole di numerosi crimini perpetrati nel corso del tempo, le voci contorte che ripetono il suo nome lo costringono ad attraversare il fiume Stige in una fuga che non potrà cambiare un destino già scritto, l'incontro con il suo carnefice non gli darà scampo decretando in questo modo una visione decisamente insolita del trionfo del bene sul male. La chiusura dell'album è affidata ai dodici minuti e diciannove secondi di "Knights of the 21st Century" (Cavalieri del Ventunesimo Secolo) gli svedesi per la prima volta decidono di sfruttare la chance della traccia suddivisa in più parti creando un compendio di gran parte degli elementi racchiusi nel loro sound. Un temporale in lontananza costituisce il sottofondo a delle urla terrificanti e demoniache, è sufficiente ascoltare la prima irruzione con quel "the prophecy" scagliato con una forza disumana per riconoscere lo stile unico e inconfondibile di Cronos dei Venom, un lento arpeggio di chitarra e l'atmosfera cupa evocata dalle tastiere modellano la base per un duetto colmo di mistero tra Joacim e lo screamer britannico. I due rispettando le loro peculiarità cominciano a narrare le avventure di un gruppo di cavalieri in grado di riscrivere la storia in sette notti; guidati da un'antica profezia alzano le vele delle loro imbarcazioni per intraprendere un viaggio attraverso un fiume che li condurrà ad una terra lontana dove potranno trovare l'ignota verità citata nella profezia. La riproduzione di un tuono e gli assordanti pattern di batteria spezzano bruscamente l'aura tenebrosa accennata dall'introduzione ed innalzano una struttura cadenzata sorretta da un riffing dalle marcate reminiscenze sabbathiane; il cantante adottando un timbro epico e ricercato continua a raccontare la valorosa traversata dei cavalieri; una tempesta si sta espandendo sui sette mari, ma gli uomini sono sempre più determinati nel voler portare a termine una missione proiettata verso un futuro appassionante e luminoso. I cori accompagnano l'ugola di Joacim per ingrandire un refrain eletto a solennizzare il temperamento dei protagonisti, dopo aver affrontato svariate peripezie si ritrovano vicini alla meta (identificata nella terra del Nord) e possono lasciarsi alle spalle tutte le paure e le sofferenze che hanno segnato le loro vite. L'oscurità torna alla ribalta nella ripresa della parte introduttiva, Cronos e il frontman per un minuto sfoggiano un secondo duetto che compone il trait d'union con il segmento più veloce del pezzo; le chitarre irrompono con un riff che spinge i tempi sulle forme di un up tempo diretto e adrenalinico, un paio di digressioni vocali particolarmente ispirate ed i vorticosi solos costruiti da Oscar e Stefan si susseguono senza un attimo di pausa fino al sussulto finale firmato dalle immancabili ripetizioni del refrain e dal rumore del temporale ascoltato nei secondi iniziali. Superato il decimo minuto tutto sembra ormai giunto al termine ma un silenzio di centodue secondi può far sorgere più di un dubbio sulla reale conclusione del brano ed infatti il grido dilaniante di Cronos riemerge un'ultima volta dando l'impressione di un primo segnale di altre rivelazioni esternate dalla profezia...
Chapter V: Unbent, Unbowed, Unbroken è un album che rispecchia in pieno la posizione degli HammerFall nella fase di transizione attraversata dall'heavy/power nei primi anni del nuovo millennio; in un periodo nel quale una larga schiera di band è alla perenne ricerca di nuove strade da percorrere per riportare il genere ai fasti degli anni novanta, gli svedesi proseguono il loro cammino artistico nella direzione diametralmente opposta, dimostrando una coerenza ed un'attitudine paragonabili a quelle dei precursori della scena metal. Esaminato nel suo complesso il platter non presenta punti deboli o eccessivamente ripetitivi, candidandosi a valevole successore di un disco che rasenta la perfezione sotto ogni punto di vista. Indubbiamente gli standard qualitativi raggiunti con Crimson Thunder hanno influito in maniera determinante sulle scelte adoperate da Dronjak e Cans a livello compositivo, teoria confermata da una produzione di Bauerfeind pressoché identica e da un consistente numero di mid tempo inclusi nella tracklist, curiosamente sono proprio questi episodi a ribadire la volontà dei leader di voler modificare e in qualche caso semplificare gli schemi che hanno caratterizzato i primi lavori. Le prerogative esibite da tracce come Hammer of Justice, Born to Rule e The Templar Flame segnano un nuovo passo nel corso delineato dal quarto full-length, mentre altre (ad esempio Secrets e Fury of the Wild) sembrano concepite con l'intento di tratteggiare una sorta di punto d'incontro tra passato e presente del quintetto. Il susseguirsi di queste sfaccettature contribuisce a differenziare Chapter V: Unbent, Unbowed, Unbroken dalla miriade di album orientati sulle stesse coordinate, ma gli elementi che elevano la qualità del platter vanno individuati in una ricerca sulle melodie di assoluto rilievo e nella miglior prova offerta finora da Joacim. Gli ottimi responsi ricevuti da critica e pubblico per Beyond the Gates hanno esortato il cantante a superare se stesso, evidenziando in ogni brano l'incisività e la tecnica scolpite nelle sue corde vocali, un aspetto che non sminuisce la prestazione dei singoli musicisti, ma la sensazione di ascoltare delle composizioni ideate appositamente per focalizzare ogni dettaglio sulla sua voce emerge a più riprese, considerati i risultati ottenuti il gruppo con questa particolarità firma un'ulteriore nota di merito in un lotto di brani omogenei, validi e coinvolgenti. In definitiva gli HammerFall con il quinto capitolo della loro carriera hanno tagliato l'ennesimo traguardo di un'avventura che dall'esordio del 1997 non ha mai subito nessuna battuta d'arresto e che continua a mantenere un posto d'onore nel gotha dell'heavy/power, un genere affidato da tempo nelle mani di quegli artisti mossi da una massiccia dose di determinazione e perseveranza e tra questi il monicker degli svedesi, ancora una volta, resta saldamente in prima fila.
1) Secrets
2) Blood Bound
3) Fury of the Wild
4) Hammer of Justice
5) Never, Ever
6) Born to Rule
7) The Templar Flame
8) Imperial
9) Take the Black
10) Knights of the 21st Century