GODFLESH
Streetcleaner: Live At Roadburn 2011
2013 - Avalanche Recordings, Roadburn Records
DAVIDE PAPPALARDO
20/06/2020
Introduzione Recensione
Riprendiamo oggi il nostro viaggio nella discografia dei Godflesh, pionieri britannici del metal d'estrazione industriale capitanati da G.C. Green e Justin K Broadrick, per trattare del loro primo e al momento unico live ufficiale "Streetcleaner: Live At Roadburn 2011" pubblicato nel 2013. Si tratta, come da titolo, della registrazione del loro live presso il famoso festival olandese dedicato al rock, metal, e musica sperimentale; ambiente più che adatto ai Nostri, che qui hanno tenuto un set interamente improntato sul loro debutto e capolavoro "Streetcleaner", riproposto seguendo l'ordine originale delle tracce. Un evento molto importante e altamente simbolico del periodo in questione. Siamo a cavallo tra il ritorno sulle scene del duo dopo uno hiatus di svariati anni, e la pubblicazione nel 2014 di "A World Lit Only by Fire", lavoro che segnerà anche la ripresa della loro discografia in studio, e di uno stile più vicino a quello degli esordi. Una volontà insomma di ricollegarsi al passato portata avanti anche tramite queste operazioni, una presentazione di quella che per molti, tra cui la band stessa, è l'essenza dei Godflesh. Occorre fare il punto della situazione: nel 1982 il bassista Green fonda insieme al chitarrista Paul Neville (in futuro collaboratore dei Nostri sia in studio, sia e soprattutto in sede live) i Fall Of Because, band influenzata dal post punk, ma con derive decisamente più noise e sperimentali, supportata da una drum machine. In contemporanea Broadrick, già dall'età di tredici anni, stava portando avanti suoni dark ambient sotto il nome di Final, ed ecco che nel 1983 egli incontrò gli altri due tramite il loro amico Diarmuid Dalton (più avanti negli anni collaboratore di Broadrick nel progetto post rock Jesu), aggiungendosi alla band come batterista e seconda voce. Il progetto andrà avanti negli anni pubblicando alcuni pezzi, mentre nel frattempo Broadrick diventerà membro dei Napalm Death suonando come chitarrista sul primo lato di "Scum", pubblicato nel 1987, cantando nel pezzo "Polluted Minds" e scrivendo parte dei testi. Tuttavia, il passaggio proprio di Broadrick come batterista nella band post punk/industrial Head Of David (autrice del brano "Dog Day Sunrise", in futuro ripreso dai Fear Factory in "Demanufacture") segnò la fine dei Fall Of Because, ma non della sua collaborazione con Green; solo sei mesi dopo infatti i due uniranno le proprie forze, ed ecco che i Godflesh prenderanno forma, con Broadrick come chitarrista e cantante, Green come bassista, mentre la ritmica verrà affidata alla drum machine. Passeranno gli anni, caratterizzati da dischi storici come "Streetcleaner", "Pure" e "Selfless", sperimentazioni elettroniche di stampo drum'n'bass in "Us And Them" e l'uso di batteristi umani in "Songs of Love and Hate" e "Hymns", mentre Broadrick nel frattempo esplorerà con una miriade di side project mondi diversi dello spettro musicale, dall'hip hop mutante di Techno Animal e Ice, al dub di Curse of the Golden Vampire in compagnia di Alec Empire degli Atari Teenage Riot. Nel 2001, dopo il disco "Hymns", la band fermerà la propria produzione, con Green concentrato sugli studi e la vita privata, e Broadrick in crisi artistica ed esistenziale, interessato ora a esplorare prima il mondo post rock e shoegaze con il suo progetto Jesu, poi la ripresa dell'unione tra industrial e chitarre con Greymachine, e l'elettronica sperimentale con JK Flesh, quest'ultimo progetto che in tempi recenti ha conosciuto un'evoluzione di stampo techno industrial. Una storia costellata da diversi capitoli e contraddizioni interne, dove nessun disco è uguale all'altro, spesso nato da dissidi di vario tipo, e causa essi stessi di ulteriori dubbi, ripensamenti, da parte di due artisti, Broadrick in primis, scissi tra la voglia istintiva di sperimentare, e una sorta di fedeltà verso l'idea di quello che i Godflesh dovrebbero essere. Ecco perché questo live è un'esperienza catartica, un ritorno alle radici di un mondo momentaneamente lasciato alle spalle dai suoi protagonisti, ma evidentemente mai cancellato davvero dai loro cuori.
Like Rats
"Like Rats - Come Ratti" apre le danze proprio come nel disco originale, riempiendo gradualmente lo spettro sonoro con un loop rumoroso e stridente di chitarra, che si prolunga fino allo scontro con una marcia possente fatta di colpi cadenzati e pesanti, uniti a suoni di chitarra rocciosi e altrettanto monolitici. Il brano illustra ancora una volta un disgusto verso la società e le persone, viste come ratti che si diffondono senza controllo, in un'esistenza vuota, morte dentro. Concetto che Broadrick esprime tramite versi urlati da cyborg, più slogan che frasi dal senso complesso; ecco quindi che la marcia si ripropone con riff in loop, base per i ruggiti del cantante. I ratti si riproducono, stilizzati, deformi, senza guardarsi indietro, questo lo scenario dipinto dal cantante, in un disgusto costante che trova manifestazione sonora nei toni combattivi e massacranti. Montanti contornati da rullanti marziali portano avanti la composizione, mentre Broadrick si cimenta in nuove esternazioni gridate. I ratti continui a riprodursi, mentre vanno verso l'oblio, in un mondo fatto di menzogne e deformità, esseri morti sin dalla loro nascita. Un messaggio distopico e negativo, perfettamente in linea con il tema portante dell'album, ovvero una visione alienata della vita e dei rapporti umani. Un mondo che viene visto come una discarica morale e reale, infestata da ratti-persone che vivono una vita senza consapevolezza e identità, destinate a perpetuare all'infinito la loro genia, in un'esistenza vuota e priva di un vero significato. Allo stesso modo, la musica si mantiene aggressiva e pachidermica, in un impianto asfissiante che non lascia possibilità di esaltazione o sublimazione all'ascoltatore. Il mantra distorto prosegue con i suoi andamenti ipnotici, in una serie di loop dove riff ben congegnati e ad attacchi più concitati si alternano, consegnandoci un episodio basato su una ritmica minimale. Al secondo minuto un galoppo più concitato prende piede, portandoci con sé verso fraseggi striduli e caotici, in un songwriting allora moderno e diverso dal metal tradizionale, giocato su suoni dissonanti e difficili. Ritroviamo di seguito suoni di basso greve e riff rocciosi sui quali si stagliano le vocals distorte di Broadrick, cantore senza pietà della società post-industriale. Inevitabili nuove esplosioni ritmate e corde squillanti, in una saturazione del suono che è una delle carte principali dei Godflesh, tanto quanto la drum machine quadrata e senza sosta, che prosegue fino a una coda stridente e sospesa, fatta di assoli lancinanti e battiti improvvisi, ripetuta sui groove di basso fino alla chiusura del brano.
Christbait Rising
"Christbait Rising - Sorge L'esca Di Cristo" si apre con una serie di piatti sospesi e sottolineati da un basso greve, in una coda che raggiunge distorsioni di chitarra e suoni di drum machine meccanica e marciante; Broadrick interviene con le sue vocals piene di riverbero, in un cantato ritmato dal gusto urbano, pregno di caustica belligeranza, dove parla dell'opposizione alla religione, vista come mezzo di oppressione e controllo, che prosciuga l'umanità. I toni duri della musica accompagnano le sue esternazioni, mentre ci parla di come egli viva un inferno e di come non voglia essere sedato, una vera e propria esca divina che funziona come un lumachicida destinato a farci sprofondare e a prosciugare il nostro sangue. Il movimento si ferma con una cesura dilatata, dove tornano i ritmi sospesi e le distorsioni ariose, configurando un'atmosfera nervosa pronta a liberarsi di nuovo in marce industriali. I colpi di drum machine s'incastrano tra i suoni dissonanti delle chitarre, facendo da sfondo per le declamazioni veloci del Nostro. Colpi duri e suoni grevi, qui non c'è posto per gli assoli, le facili melodie. L'attacco ossessivo si blocca di nuovo con una cesura fatta di fraseggi dilatati e colpi improvvisi. Ecco che dopo alcune ripetizioni, riprendono i movimenti cadenzati di drum machine, con rullanti militanti sopra i quali si elevano i versi rabbiosi di Broadrick, intento nel suo attacco al vetriolo contro la religione vista come inganno e trappola, uno specchio per allodole che intrattiene e imprigiona la massa, mentre viene prosciugata e resa schiava. I Godflesh non hanno riserve nella loro musica, e nella loro analisi grigia dell'esistenza, soppesando ogni aspetto di controllo e anche l'attitudine passiva delle masse, che si vogliono far soggiogare, piuttosto che ragionare con le proprie menti. Gli incastri continuano in un suono marziale, basato su lunghe sequenze concitate, alternate con cesure sospese e strisciatati, che raccolgono energia per gli assalti. Ad un certo punto un bel movimento fatto di suoni squillanti prende piede, contornato da cimbali combattivi e colpi pestati, in una sequenza ritmica da manuale che fa quasi dimenticare la natura artificiale della batteria, perfettamente programmata dai nostri. Un'ennesima sospensione, altri fraseggi notturni e atmosfere controllate, così come nuove esplosioni marcianti: di sicuro il songwriting non rifugge qui la ripetizione, usata come mezzo per esprimere la pachidermica monotonia dell'esistenza, e il carattere imponente, inquisitorio, del potere religioso. Le vocals in riverbero si muovono come fantasmi rabbiosi tra i suoni violenti, e ormai le alternanze con climi più distesi non ci prendono alla sprovvista, in un movimento a onde continue. Un suono metal nervoso e scolpito, ci guida con le sue bordate vibranti, in un mondo sonoro caustico, ma anche ammaliante. Rispetto alla versione originale, qui il finale non offre muri di chitarre, preferendo invece un fraseggio distorto, dilungato per diversi giri.
Pulp
"Pulp - Polpa" ci accoglie con una marcia marziale, contornata da rullanti ripetuti e distorsioni squillanti, creando un tema poi ripreso da riff ruggenti e sottolineato da assoli dissonanti. Broadrick interviene con i suoi toni pieni di disprezzo, illustrando un testo breve e criptico, più una suggestione che un significato completo. Intuiamo temi legati al mantenere la distanza da tutti sentendosi liberi, ma anche senza più nulla di proprio per cui vivere. La drum machine si accompagna nel suo corso a bordate grevi e dissonanze abissali, mentre il cantato declama una lezione aggressiva, destreggiandosi tra accordature basse e climi dittatoriali. Esso ci parla di come, quando è solo, si senta libero, potendo rifiutarsi di stare al gioco degli altri e alle regole imposte dalla società, mentre le sue braccia attendono, avvolgenti, con nulla rimasto più per lui. La musica ossessiva dal gusto drone rispecchia perfettamente Il tedio monolitico espresso dalle parole, l'attesa eterna e solitaria. Sottili variazioni permettono ondate di movimento, ma la struttura si mantiene sempre strisciante e controllata, votata all'ipnotismo. I Nostri usano un setting minimale imbastendo trame sonore pulsanti e grevi. A un certo punto ci scontriamo con suoni squillanti, contornati sempre dalla solita batteria meccanica, ripetuta a oltranza. Ci scontriamo con montanti rocciosi, quasi thrash, i quali s'incastrano perfettamente con i rullanti militari, seguiti da dissonanze evocative. Musica e tema diventano tutt'uno, in una serie di attacchi che non conoscono tregua, freddi e calcolati, dall'andamento meccanico e industriale. Tale elemento prosegue, andando poi a fermarsi all'improvviso, mettendo fine alla traccia, che in sede live risulta ancora più ossessiva e lineare. Un ritorno allo stile più minimale e secco della band, perfettamente in tema con il ritorno alle origini portato avanti in questo set, un riappropriarsi delle proprie radici.
Dream Long Dead
"Dream Long Dead - Un Sogno Morto Da Tempo" parte con un suono di chitarra sottolineato da colpi continui, un effetto distorto contornato da montanti marziali e dalle vocals cavernose di un Broadrick spettrale. Egli ci parla di sogni sono morti, come una fiamma ormai fredda, un guscio che va rimosso. Disperazione esistenziale, ma sempre glaciale, quasi calma nella sua rassegnazione. Le visioni acide del testo prendono vita tra marce picchiettanti e cesure dissonanti; in una stanza riempita da fumi, nella quale vediamo uno schermo totalmente vuoto, fragile e morbido, sentiamo di volerci riprendere qualcosa indietro. Parole che ricreano un' atmosfera disorientante e malsana, perfettamente resa dalla musica monolitica e stridente. Percepiamo come una dilatazione temporale, segnata da suoni asfissianti e pachidermici. I ruggiti del cantante trovano come sempre posto in tutto questo, enunciando con un tono carico di disgusto le sue parole: la fiamma interiore diminuisce, mentre il nostro tempo arriva agli sgoccioli, ed è giunto il momento di liberarci dal peso di sogni morti da lungo. Come sempre, non c'è spazio per la speranza nella musica della band, troviamo solo ossessioni sonore grevi e suoni ripetuti che danno la cifra di un mondo post-moderno, una società basata solo sullo sfruttamento e sul ricavo materiale, in cui l'individuo è annientato e schiacciato, distrutto anche interiormente. Un requiem per sogni e speranze, che di conseguenza si manifesta come una lunga marcia dove non mancano rallentamenti doom soffocanti e chitarre dalle scale altisonanti, spremute letteralmente nei loro squilli assordanti. Ad un certo punto una bordata martellante prende piede trascinandoci verso nuove tensioni sospese, tra loop stridenti e vocals infernali, coadiuvate da un basso militante e cimbali cadenzati. Sono inevitabili i nuovi rallentamenti, saturi ancora di dissonanze, così come la ripresa delle bordate schiaccianti che ci conducono in giochi dai riff rocciosi e dalla drum machine massacrante. La parata monolitica prosegue, arricchita da una sorta di "groove sublimale" che va a collassare in un feedback prolungato dai toni quasi meditativi, segnato dagli applausi del pubblico in chiusura.
Head Dirt
Con "Head Dirt - Sporco In Testa"inizia con un galoppo concitato, sottolineato da un basso tellurico, ci accompagna con i suoi suoni stressanti, in una marcia concitata, ma pachidermica. All'improvviso essa s'imposta su un percorso sincopato, dove un groove alienante e acido, dal gusto contratto e meccanico, si giostra tra suoni di basso grevi e le vocals feroci di Broadrick. Il cantato esprime l'ennesimo testo astratto, legato a una serie di parole che funzionano più come un flusso di coscienza, piuttosto che un discorso dal senso compiuto. Descrive come potrebbe essere schiacciato mentre parla, e tutto ciò che sentiamo viene scritto su una roccia; egli non vuole assolutamente essere chiamato per nome, semmai possiamo chiamare noi stessi (forse un riferimento all'idea d'identità e di allontanamento dalla massa, tipico delle tematiche dei Godflesh). Seguono riferimenti alla testa sporca, che egli vede nei suoi sogni, il tutto in un impianto onirico estraniante, che si lega indissolubilmente alle soluzioni musicali qui adottate, dai tempi contratti e dalle ritmiche irregolari . Una fabbrica sonora dai climi industriali e caotici, una sorta di lezione noise-rock applicata al metal, dove chitarre squillanti, ritmiche spezzate, e versi robotici generano un mantra intervallato da cimbali spediti e colpi duri di drum machine. Muri di chitarra distorta e batterie ossessive creano una sorta di rituale funereo, basato su loop perpetrati con cieca devozione. Troviamo diversi cambi di andamento, e troviamo anche rallentamenti dalle cesure dal gusto doom, scolpite da colpi duri come l'acciaio e da fraseggi notturni pregni di dissonanza evocativa, sottolineata da cimbali veloci. Viene ricreata, con abilità, e per l'ennesima volta, un'atmosfera che ci riporta all'incubo acido, distorta, "fuori fase", convogliando tutta la confusione e rabbia insite nelle parole del Nostro. Sono molti i connotati vicino a certo sludge metal, ma il tutto ha sempre quel substrato industriale, freddo e meccanico, tipico del duo britannico. All'improvviso suoni spettrali e squillanti, tra chitarre altisonanti e passi di basso grevi, si muovono su territori ancora più caotici, lasciando spazio a una distorsione che fa ad assolo con i suoi suoni volutamente massacranti. Esso assume connotati sempre più eterei, pur mantenendo un sapore noise, offrendo una sorta di momento progressivo che si dilunga fino all'ultimo feedback che chiude il brano.
Devastator
"Devastator - Devastatore" si ripropone anche in sede live in versione congiunta musicalmente e tematicamente con "Mighty Trust Krusher", diventandone a tutti gli effetti la intro. Un suono di basso greve e una batteria dai toni di guerra, più un tamburo, si muove tra chitarre spettrali e stridenti, donandoci un percorso dal gusto quasi cinematografico. Colpi improvvisi scolpiscono l'etere con aggressività trattenuta, mentre bordate rocciose mantengono il passo. La lunga coda si arricchisce di suoni distorti e squillanti, in un climax ripetuto dove i loop dati tanto dagli strumenti, quanto dai già citati campionamenti, la fanno da padrone. Broadrick interviene con la sua voce cavernosa, toccando temi legati alla fiducia abusata, che si possono legare sia al potere religioso e alla sua falsa promessa d'amore, che nasconde invece distruzione e morte, sia a quello politico, con accenni alla guerra, sia nei rapporti interpersonali. Egli elargisce una serie di invettive contro colui che usa male la fiducia, colui che abusa e vende la morte, il devastatore delle nostre vite. Intanto i riff proseguono, granitici e delineati da parti stridenti, creando una sorta di rituale giocato su ritmi quasi tribali. All'improvviso il tutto si ferma con una serie di assoli spettrali e dissonanti, generando una coda che va poi a unirsi a rullanti duri come macigni, in un passo pachidermico che sottolinea le urla del cantato. "Qualcuno finirà inevitabilmente ucciso" ripete il Nostro, mentre la musica prosegue, pronta a confluire nella traccia gemella. L 'esegesi narrativa di "Streetcleaner" viene mantenuta anche in sede live, in un songwriting ci mostra la capacità di creare un flusso sonoro e tematico che pervade l'anima dell'album.
Mighty Trust Krusher
"Mighty Trust Krusher - Potente Distruttore Della Fiducia" riprende la dove la precedente "Devastator" aveva lasciato, usando le chitarre dissonanti come introduzione. Si continua quindi con parole legate al tema del bisogno e all'abuso di quest'ultimo, in un rapporto di dipendenza dai connotati decisamente distruttivi e deleteri. Il loop squillante viene delineato durante il suo movimento ossessivo da contrazioni, raggiungendo poi una serie di falcate nervose, scolpite dai colpi duri di drum machine e dai versi quasi doloranti di Broadrick, sempre aggressivo e saturo di riverberi. Egli declama come abbia bisogno di tutto questo, di noi, e di come insieme pregheremo sulle nostre ginocchia. La musica prende energia, arricchendosi di galoppi monolitici. Senza sforzo, si manifesta il potente distruttore della fiducia, in una sorta d'iniziazione e introduzione alla sua figura. L'energia del brano è ora del tutto liberata, coadiuvata da riff rocciosi e rullanti dilatati, mentre in alcune parti andiamo a rallentare nella ripresa delle bordate pesanti dal sapore ritmico, sottolineate dalle ormai familiari dissonanze squillanti. Il cantato riprende con i suoi toni rauchi e altisonanti: il narratore ha bisogno di tutto questo, è nel suo cuore, e promette in modo malevolo amore, e una fiducia che cresce sempre di più. Quasi a voler esprimere la minaccia nascosta, la musica si mantiene dura, viene quindi ripetuta l'annunciazione, tra scariche taglienti di chitarre e ritmiche militanti. Ma invece di esplodere, come potremmo aspettarci, il tutto si risolve in una discesa verso cesure segnate dal ritorno dei suoni iniziali, ripetuti sempre con fare ipnotico e disorientante. Seguiamo questa sequenza fino al ritorno dei colpi devastanti di batteria e dei suoni stridenti in sottofondo, perfetta colonna sonora per le parole di Broadrick. Possiamo odiarlo e tradirlo, avendo prima insegnato tutto a lui, e ora lo uccidiamo, finalmente. Parole sarcastiche che esplicitano il tema della fiducia tradita e dello sfruttamento, dove la vittima è quasi volontaria. Non è difficile pensare agli effetti dell'asservimento al potere politico e religioso, che portano l'individuo verso la rovina e la morte, in cambio di false promesse di benessere, terreno o spirituale che sia. La canzone riprende velocità, riportandoci ai toni concitati del ritornello, segnato dal cantato sentito e dai suoni combattivo.
Life Is Easy
"Life Is Easy - La Vita È Semplice" parte con un basso greve sottolineato da piatti cadenzati e cimbali, in una coda preparatoria che esplode improvvisamente in un riffing marciante e pregno di atmosfere oniriche, sul quale s'introduce il cantato ora ariosa ed evocativo di Broadrick. Egli delinea un tema sarcastico che riprendendo il titolo del pezzo, descrive la vita nella società moderna, vista solo come profitto, guadagno, qualcosa di poco conto. Un'esistenza dove siamo morti dentro, e a volte anche fuori. Qualcosa di sacrificabile, qualcosa di cui non deve importarci, la vita vista solo come denaro. Parole descrivono la visione materialista che domina il mondo e la società, tramite un amara ironia dove ci si appropria di un'idea che non è la nostra, ma che influenza le nostre vite senza che possiamo avere scelta. La musica e il testo seguono un movimento pachidermico, onirico e legato ad influenze doom, in una rielaborazione indissolubilmente legata allo stile dei Nostri ; ogni parola viene quindi dilungata, ogni passo della composizione assume un'importanza monolitica, sospesa nel tempo e nello spazio. Lo stile creatosi è una sorta di sludge corrosivo, e non sono poche le somiglianze con quanto fatto dai Ministry da "Filth Pig" in poi, ancora una volta mettendo in chiaro la forte influenza che la band ha avuto sul panorama metal alternativo. Nella seconda parte del pezzo abbiamo l'altra faccia della medaglia, il lato negativo e distruttivo di questo modo di concepire l'esistenza: la vita moderna è fatta di debiti, i quali la uccidono, la rendono morta, la corrodono. Se la vita è denaro, significa quindi che è anche l'antitesi di se stessa, diventa la morte, in un mondo in cui ogni valore legato a essa è perduto. Ancora una volta il malessere della società post-industriale viene mostrato in tutta la sua natura, sena sconti o edulcorazioni, in modo freddo e meccanico, ma anche con una rabbia spietata. La musica si mantiene greve e asfissiante, dando un perfetto sfondo sonoro al messaggio qui espresso, tra chitarre ad accordatura bassa e paesaggi onirici, densi e caratterizzati da andamenti rocciosi e sospensioni. Broadrick rilascia punte vocali velenose, alternate a vocalizzi ariosi, coadiuvato dal riverbero e da feedback stridenti di chitarra. Ecco che all'improvviso, il pezzo si conclude, terminando senza fanfare o presagi: proprio come la vita non ha importanza, ridotta a mero calcolo economico, così il nostro viaggio si chiude con una digressione in feedback, accompagnata da una misteriosa melodia in sottofondo.
Streetcleaner
"Streetcleaner - Spazzino" si apre con lo storico sample vocale del serial killer Henry Lee Lucas, dove l'assassino dichiara lucidamente di aver compiuto i suoi omicidi non per follia ("non ho sentito alcuna voce" precisa), bensì per una sua volontà, una ricerca di potere sulla vita. Un campionamento presente anche nell'originale, accolto dagli applausi del pubblico che lo riconosce subito; ecco quindi che dopo un breve silenzio prende piede con un riffing marziale, sottolineato da fraseggi severi e rullanti senza pie, una marcia militante dove dissonanze familiari rafforzano la tensione atmosferica, e dove improvvise accelerazioni ci consegnano impennate che traducono un rilascio di energia tramite la musica. Il tema della traccia con poche parole dipinge un quadro che richiama la copertina del disco, tra visioni infernali, desideri di rivalsa, genocidio e potere usurpato. Un movimento meccanico dove improvvise cesure introducono esercizi quasi progressivi in un gioco di alternanze dove rilasciate e riprese scolpiscono l'ammanetto dittatoriale della canzone. La marcia dura a lungo, instaurando un'atmosfera feroce e monolitica, al momento incentrata su una rappresentazione sonora completamente strumentale; ecco però che all'improvviso si palesano i versi mostruosi di Broadrick, che grazie all'uso di effetti diventa un cyborg rabbioso, dai tratti inumani. Egli descrive visioni che fuggono, mentre sentiamo come giusto, ciò che succede nell' inferno in cui siamo. Non ci rimane che prendere il potere, mentre noi tutti moriamo. L'associazione di queste parole alle immagini che abbiamo citato all'inizio, e al campionamento d'introduzione, amplifica il substrato inquietante che fa da base alla vera e propria resa in musica del collasso umano e sociale. Niente esplosioni violente, niente attacchi veloci: i Godflesh puntano alla lenta corrosione tramite suoni lenti e ripetuti, stridenti e forieri di un malessere che si esprime in un tedio spavaldo. Cavalcate ritmiche e chitarre squillanti sono la colonna sonora di fiamme infernali che si levano altre tra persone crocefisse, mentre i rallentamenti doom esemplificano la presa di coscienza di tutto questo, il momento di realizzazione che ci lascia ghiacciati dentro. All'improvviso tutto rallenta, andando a disperdersi con un fraseggio fumoso, destinato a disintegrasi in un'ultima digressione.
Locust Furnace
"Locust Furnace - Fornace Della Locusta" inizia con un colpo di bacchette, seguito da cimbali compulsivi e suoni di basso lenti e pesanti. Il mantra procede tra effetti meccanici e suoni industriali, incontrando poi chitarre dissonanti e vocals ruggenti. Broadrick espone uno scenario apocalittico, un mondo freddo e morto dove rimangono i segni della decadenza e della corruzione, tra il silenzio eterno. La musica si mantiene sospesa e strisciante, in un'atmosfera malsana e pregna di tensione trattenuta. Una trama sonora da film thriller, che va a scontrarsi con disturbi improvvisi e suoni stridenti dall'animo noise, seguiti da bordate di basso sulle quali il cantato prosegue con la sua nera lezione. Troviamo visioni legate a una profezia raggelante, rese dal punto di vista musicale tramite le chitarra che suonano come violini stridenti, mantenendo dei toni quasi "orchestrali" . La Terra è congelata, un mondo pallido e morto, ed ora noi siamo come un pezzo di carne che sventola da un gancio da macellaio, destinati a morire. Ogni parola viene distesa con enfasi, seguendo il lento andamento della batteria, creando così una struttura asfissiante e monolitica, dove ogni enunciazione è carica di gravità assoluta; ritornano le cesure industriali, unite a tamburi martellanti, i quali dominano di seguito la scena con la loro parata. Siamo nella fornace della locusta, e la corruzione dilaga tra il gregge di capre, e la carne soccombe e decade nel mondo reale. Un movimento contratto, in qualche modo "sbagliato", caratterizza la sessione, in un andamento che mette in gioco il songwriting sperimentale dei Nostri. Suoni grevi, colpi improvvisi, vocals declamanti, sono gli ingredienti di un pezzo quasi asfissiante, tanto quanto i rallentamenti che discendono verso climi infernali. Il silenzio desolato ora domina la fornace della locusta, un appello di cui non conosciamo il senso. Un flusso di coscienza, più che un significato vero e proprio, una serie di visioni oniriche che hanno il gusto della profezia da rivelare, ma che forse non ha altro senso che le immagini stesse. È la musica a parlarci di passi grevi e monolitici, trame stridenti e ossessioni che ci schiacciano. Le parole vengono ripetute come in un mantra, reiterando il paesaggio devastato dove la carne decade, e la terra è solo una fornace dove periamo tutti. Broadrick ora grida il suo disgusto, mentre le chitarre in sottofondo vengono spremute in feedback che vanno a chiudere la traccia.
Tiny Tears
In "Tiny Tears - Piccole Lacrime" ci accoglie con una drum machine ritmata, raggiunta da riff dal groove appagante e stridente. Presto la ritmica si fa combattiva e veloce, mentre Broadrick s'incastra tra i galoppi di batteria con le sue vocals ariose. Qui il testo mostra il lato più umano della band, legandosi al tema del dolore, rappresentato in modo poetico da piccole lacrime che dovrebbero essere emesse dal mondo in commemorazione del suo stesso dolore. Una drum machine cadenzata introduce un ritmo meccanico, intervallato da chitarre squillanti, in un movimento contratto. I tempi sono insoliti per i modi normalmente pachidermici dei Nostri, con un effetto trascinante che ha presa sull'ascoltatore. "Tiny Tears" in realtà era nella versione originale dell'album la prima di quattro tracce finali presenti come bonus della versione in CD di "Streetcleaner". Tracce che sono state prese da un EP mai pubblicato e registrato prima dell'album stesso, caratterizzato quindi da uno stile ancora più acerbo e derivativo, più vicino al precedente EP omonimo alla band. Il cantato pieno di riverbero e dal gusto psichedelico e disteso, proseguo con le sue parole: dal luogo in cui ci troviamo, sentiamo il dispiacere dell'universo. Un'immagine immensa, per quanto semplice, rappresentata dalla musica che prosegue senza pietà, caratterizzata da una ritmica spacca ossa e contornata da riff distorti dalla natura molto metal, in un'orchestrazione selvaggia che va a scontrarsi contro cesure dal basso greve e roccioso, sempre delineate da suoni stridenti improvvisi. Il songwriting è semplice, ma dal grande effetto, contornandoci di assalti continui e atmosfere diafane, dove la voce spettrale del cantante contrasta con i suoni duri di batteria e chitarra. Ora egli ci parla di come il mondo dovrebbe quanto meno versare una piccola lacrima, la nostra piccola lacrima; notiamo qui un lato più umano dei Godflesh, estremamente malinconico e caratterizzato da una lucida disperazione che si traduce in una sorta di fredda calma, ma contornata da una furia musicale che esprime un tumulto esistenziale che non riesce a nascondersi. Il cantato vede anche una sorta di ritornello, mentre i riff mostrano montanti appassionanti, in una struttura ancora più "tradizionale", ma dove già il gusto per le accordature basse e i suoni stridenti si mostra. Un galoppo continuo, dove ora non si può fare altro che ripetere con furia sempre più grande come il mondo dovrebbe piangere per il nostro dolore, rabbia che nasce dalla sua indifferenza continua difronte al nostro dolore. Di conseguenza, la musica va a creare una serie di contrasti tra colpi in quattro quarti e dissonanze, le quali poi dominano tutta la coda finale del brano sotto forma di una distorsione che va a perdersi nell'etere.
Wound
"Wound - Ferita" parte con un suono gracchiante e roccioso, dove colpi duri di drum machine, cimbali, riff distorti si uniscono in un avanzare monolitico. Broadrick appare come uno spettro in sottofondo, parlandoci di ferite interiori e tradimenti, accusando qualcuno di essere astuto e silenzioso, causa di morte per noi. Per colpa di quanto è stato a noi inferto moriamo dentro soli. Il cantato prevede una voce piena di effetti, aliena e sospesa nel tempo, che ora ci descrive come Il sole continui a splendere sugli edifici, e le strade vuote, mentre i piccoli tradimenti che avvengono ogni giorno lasciano il loro stampo nella mente del narratore. I Climi quasi siderali e psichedelici contrastano con il pessimismo delle liriche, andando a rafforzare tanto la maestosità, quanto la sensazione di rabbia trattenuta nelle parole, scandite con un sarcasmo velenoso. Le chitarre si danno a montanti fumosi, in un galoppo rallentato che si apre improvvisamente a marce di drum machine contornate da ruggiti stridenti e bordate militanti dal gusto quasi thrash, in un songwriting dove ritmica e suoni grevi risaltano su tutto; largo quindi a piatti cadenzati e riff severi, sui quali tornano le vocals spaziali del cantante. Sempre con estrema ironia, egli nota come il suo silenzioso interlocutore (o interlocutrice?) si muova con tanta grazia, lasciando ferite da tradimento, a causa delle quali moriamo. La massa caotica costituita da loop di chitarra e colpi di batteria prosegue, tra piatti scanditi con forza e marce improvvise, interrotte da mitragliate decise, scolpite dalla drum machine fredda e senza pietà. Proseguiamo su questo corso fino alla conclusione improvvisa, che vede una breve dissolvenza. Una versione abbastanza fedele all'originale, che ne ripete le varie parti offrendo una conclusione meno caotica.
Dead Head
"Dead Head - Testa Morta" si apre con un suono vibrante e distorto, raggiunto da picchiettii cadenzati che presto lasciano il posto a montanti rocciosi contornati da colpi duri di drum machine. Broadrick interviene con le sue vocals ariose, mostrandoci visioni apocalittiche di morte e decadenza. Il suo filtro vocale è qui ancora più astratto, perfetto per raccontarci di marce fatte da esseri senza anima e di oceani morti, situati in mondi senza cielo. La struttura conosce anche impennate dai riff ruggenti, presentando un clima saturo; Il cantante delinea gli elementi tematici prima accennati, tra figure prive di anima in un'ambientazione dai toni nefasti, ma narrati con una fredda calma eterea che rende il tutto ancora più sconcertante e d'impatto per l'ascoltatore. La drum machine alterna colpi duri e piatti distribuiti tra i giri meccanici di chitarra, i quali poi prendono potenza in attacchi ritmati. Broadrick si ripresenta con i suoi riverberi distanti, parlandoci di pagine che vengono osservate da un luogo sicuro, privo di cielo, dove tutto è solo pieno di lui, e di nulla d'altro. Parole astratte, che ci trasmettono un senso di rammarico e solitudine, mentre la musica ripresenta toni quasi epici, grazie ai suoni saturi e grevi, all'insegna della distorsione spinta al massimo. Andiamo ora incontro a giochi ritmici fatti di lunghe marce dove rullanti e piatti s'incastrano perfettamente con loop rocciosi delle accordature basse. Seguono cavalcate dal forte impatto, sottolineate da belle anti-melodie distorte e sferraglianti. Il galoppo iniziale prende di nuovo posto, dando modo al cantante di ripetere la sua spettrale lezione, coadiuvato dalle aperture ariose dei suoni che riempiono l'etere con la loro carica combattiva, ma quasi sognante. Ora gli esercizi ritmici aggiungono assoli dissonanti dal sapore industriale, in una scala che trasmuta i modi del metal classico secondo un'ottica acida tipica dei Godflesh, ed è proprio poi la chitarra in solitario, a chiudere il pezzo con una digressione. Un brano che fa parte del lato più onirico e disteso dei Nostri, capace però di mantenere con coerenze il loro gusto per distorsioni, suoni lenti e grevi, dissonanze. Un brano che inoltre presenta un'altra caratteristica della band, ovvero quella di riuscire a creare contrasti tra testi negativi e, in questa occasione, apocalittici, e una certa malinconia epica emotiva, in un fattore umano che risulta presente, ma danneggiato e alla goccia. L'uomo post-moderno, e soprattutto le sue paralizzanti angosce, trovano qui perfetta collocazione.
Suction
"Suction - Suzione" è la traccia finale anche nella versione live del disco, un addio che si apre con ritmi martellanti e suoni duri. Una coda sferragliante si prolunga con i suoi modi graffianti, incontrando impennate improvvise che poi introducono i ruggiti spettrali del cantato, sottolineato da cimbali ossessivi. Il testo tratta in modo accennato e criptico di paesaggi che rappresentano uno stato di malessere interiore, forse rappresentazione di quella Birmingham sentita come un luogo oppressivo dai Nostri, fonte di molti testi della band. Il narratore si descrive come privo d'illusioni e con gli occhi iniettati di sangue, con o senza pelle (riferimenti criptici aperti alle interpretazioni, forse legati alla vulnerabilità di un crollo nervoso), una situazione che si palesa come la sua e la nostra. L'atmosfera è lisergica e disorientante, con tratti quasi sludge, contornata da parti ariose e cesure improvvise dal gusto ritmato. Un inferno sonoro, terribile e gelido, dove le chitarre scolpiscono immagini di fiamme che si innalzano mentre battiti ipnotici proseguono senza tregua; ecco nuove bordate devastanti, che scuotono l'etere con i loro colpi ripetuti. Il cantato non perde tempo, e si ripresenta quasi subito con le sue grida in riverbero, proseguendo le sue desolate descrizioni fatte di paesaggi desolati e devastati, corrispondenza di un mondo interiore altrettanto distrutto e senza via di ritorno. Una piccola città esaurita, si trova presso una riva (quasi sicuro riferimento alla già citata Birmingham), il luogo in cui si svolge la nostra esistenza, privi o meno di una pelle spessa che ci protegga da quanto accade a noi e intorno a noi. Il loop sonoro avanza, tra montanti ritmici e suoni distorti, mentre il passo viene segnato da bordate duro in uno schema ben preciso. Ecco ora accordature basse che ricordano disturbi statici e battiti ancora più incisivi, giostrati in galoppo che portano in avanti la composizione. Un tripudio di andamenti concitati, per un industrial metal che offre uno dei momenti più diretti e feroci del disco. La drum machine la fa da padrona, mentre i suoni dissonanti di chitarra creano un substrato che fa da base per i giochi ritmici ripetuti, protratti fino alla pausa improvvisa che vede un feedback etereo, prolungato nei suoi toni evocativi e dal gusto ambientale. Esso vibra fino a diventare un disturbo statico, sottolineato da alcuni tratti gracchianti di chitarra e da atmosfere noise che offrono una sorprendente variante rispetto alla versione originale, raddoppiando la durata della traccia. Gli effetti statici proseguono, in un drone che non conosce variazioni per diversi minuti, fatto apposta per mettere a dura prova il pubblico. Esso però sembra conoscere bene i Godflesh, accogliendo tra applausi la conclusione improvvisa, mostrando di aver gradito l'esperienza.
Conclusioni
Un album live che ha rappresentato sia un ritorno alle proprie radici per i Godflesh, sia un punto da cui ripartire con la loro discografia. Un processo di analisi che si sarebbe tra poco concretizzato nell'album "A World Lit Only BY Fire", vera prima opera originale del secondo corso della band inglese, portando a un suono di molto debitore verso il loro primo album, seppur filtrato con un ottica leggermente più groove e influenzata da alcuni tratti derivati dall'esperienza di Broadrick a nome Jesu. Se visto sotto quest'ottica, il live qui recensito assume un ulteriore significato, una sorta di rituale catartico dove il duo riprende le redini del discorso e sui riabitua al proprio ambiente, passando proprio tramite le loro origini. Da un punto di vista meramente pratico questa uscita può sembrare non necessaria per chi non è un cultore sfegatato della band: le tracce, salvo alcuni piccoli accorgimenti e finali alterati, riprendono in maniera abbastanza lineare la struttura delle versioni in studio, ripresentate secondo lo stesso ordine e con le stesse canzoni della versione su CD di "Streetcleaner". Sorge spontanea quindi la domanda sul perché possedere e ascoltare questo live, quando esiste già la versione in studio di quanto qui sentito, che offre un'esperienza più completa e diretta, e qualcuno potrebbe dire anche più autentica. Difficile dare una risposta univoca: sicuramente a conti fatti la release è un corollario della discografia dei Nostri riservato a chi vuole completare la sua collezione del duo, che non sostituisce lo storico debutto (e nemmeno vuole farlo) e non si pone nemmeno allo stesso livello della maggior parte degli altri album che compongono la lunga storia dei Godflesh. E' quindi più realistico considerare l'importanza simbolica accennata all'inizio per dare una giusta collocazione a questo live cosi' volutamente "conservatore". La band non vuole qui rinnovare, o presentare nuovi spunti e riflessioni sul loro passato, magari filtrate tramite le evoluzioni successive. Qui abbiamo un abbraccio totale e senza scuse della loro primissima forma, dei modi che hanno caratterizzato i suoni e le strutture di un'opera fondamentale per il metal alternativo, un togliere dalla mente quanto successo negli oltre vent'anni successivi e ripartire. Non per rinnegare quanto avvenuto nel mentre, per quanto travagliato spesso il rapporto tra i Godflesh e le loro opere, ma per permettere l'inizio di un secondo corso che si presenterà come una sorta di evoluzione alternativa che dalle stesse ardici porterà a risultati diversi. Molti gruppi quando ritornano dopo anni di pausa, tendono a presentare un suono molto diverso, oppure cercano di ricatturare la magia dei primi anni. Qualcuno potrebbe argomentare che il duo ha scelto la seconda strada, ma è richiesta un'analisi più approfondita se vogliamo essere totalmente obiettivi. Il già citato "A World Lit Only BY Fire" riporterà in pista molti dei motivi classici degli albori dei Nostri, tra drum machine pachidermiche e drone di chitarre grevi e pesanti, mentre il successivo "Post Self" ci consegna un'idea diversa d'industrial metal dove viene ripreso lo spirito più sperimentale e legato agli anni '70 della musica industriale, innestandolo su quanto incominciato con il disco precedente. Insomma, ancora una volta i Godflesh riescono contemporaneamente a cambiare le carte in tavola e a ripetersi nella loro essenza, fattore unico questo che li ha sempre accompagnati, anche a loro malgrado. In tutto questo "Streetcleaner" si configura come un crocevia imprescindibile che attraversa varie strade, sia stilistiche che temporali, attraversate dal gruppo. Volendo dirla tutta, probabilmente tutta l'esperienza musicale di Broadrick, anche le esternazioni più elettroniche e il progetto techno JK Flesh, in qualche modo passa da qui e si porta dietro l'ombra di quanto qui partorito. Nel mondo dei Nostri il primo album diventa non un primo tentativo poi superato (e a conti fatti in realtà il loro primo "acerbo" approccio lo si può sentire sul EP omonimo uscito poco prima) bensì un imprinting che irradierà la sua influenza negli anni a venire. Tornando al live, troviamo qui un duo che dopo anni ha ritrovato la confidenza di riappropriarsi di quelle origini che erano diventate quasi un fardello, una sorta di fantasma che giudicava ogni loro nuova opera e creava un senso di colpa dovuto alla contrapposizione tra il desiderio di sperimentare insito in Broadrick e la fedeltà verso quel monolitico modello. Grazie forse anche alla maturità raggiunta con l'età e gli anni passati a distanza, ora il tutto viene vissuto diversamente. In maniera terapeutica, ogni nota ripercorre quel passato prima ingombrante, facendo pace con esso e preparando la strada per un nuovo inizio. Ed è così che nasce un live che diventa qualcosa di particolare, un disco che ha a che fare forse più con chi lo suona, che con chi lo ascolta. Certo, pragmaticamente abbiamo anche la testimonianza di un concerto ritenuto molto importante proprio per il soggetto su cui si basa e che vissuto in diretta deve essere stato emozionante anche per i fan, partecipi al ritorno di un progetto che in molti probabilmente davano definitivamente per concluso, ma la sensazione è che se preso solo in quanto tale, il disco perda di molta parte di senso. Un'uscita quindi non imprescindibile per l'ascoltatore e nemmeno per gli amanti del duo, ma che ha una sua collocazione filologica nella storia della band anche più grande di quanto possa sembrare, fatto comunque che non va a cambiare quello che il suono proposto e la natura necessariamente derivativa del materiale. Se si cerca una rappresentazione su disco di un live tipico della band, forse si rimarrà delusi in quanto qui non abbiamo la ripresa di pezzi provenienti da epoche diverse, e probabilmente questo succederà anche se ci si aspetta una reinterpretazione che dia una nuova identità a "Streetcleaner". Se invece si vuole possedere una reinterpretazione ben suonata, consci del suo valore altamente simbolico e legato al momento in cui è stato registrato, e del fatto che difficilmente lo asi ascolterà al posto del capolavoro a cui fa riferimento, "Streetcleaner: Live At Roadburn 2011" svolge perfettamente il suo compito.
2) Christbait Rising
3) Pulp
4) Dream Long Dead
5) Head Dirt
6) Devastator
7) Mighty Trust Krusher
8) Life Is Easy
9) Streetcleaner
10) Locust Furnace
11) Tiny Tears
12) Wound
13) Dead Head
14) Suction