GODFLESH
Selfless
1994 - Earache Records/Columbia Records
DAVIDE PAPPALARDO
23/09/2018
Introduzione Recensione
Riprende il nostro viaggio nella discografia dei colossi britannici del metal di matrice industriale più pachidermico e corrosivo, ovvero i Godflesh, duo storico composto da Justin Broadrick e G.C Green. Siamo nel 1994, anno in cui i Nostri danno alla luce il loro terzo album (senza contare vari EP e singoli), ovvero quel "Selfless - Altruista" che incomincerà ad avvicinare il progetto verso alcune tendenze che verranno sviluppate più ampiamente nei lavori futuri. Ora il loro suono pesante ed asfissiante si apre sempre di più a motivi che potremmo definire, con i dovuti distinguo, rock, abbracciando strutture più libere e formati vicini alla tradizione. Certo, definire un disco dei Godflesh in questo modo, comporta un forte rischio di finire nel fraintendimento: è improbabile che si possa scambiare l'opera per un disco di rock classico anni settanta, dato che rimane una certa pesantezza supportata da un'elettronica caustica e minimale, accentuata oltremodo da una drum machine glaciale e da chitarre ad accordatura bassissima. All'epoca, comunque, l'album ebbe un certo effetto, anche perché si trattava della loro prima uscita tramite una major, ovvero la Columbia, risultando nel maggior numero di vendite fino ad ora ottenute; un risultato però questo che, a fronte di "sole" cento ottantamila copie, non diede soddisfazione alla nuova label, la quale abbandonò subito dopo la band. Inoltre, non mancarono i puristi della prima ora, indignati dalla maggiore melodia e dalle tendenze più ragionate, nonché dalla produzione più pulita, presenti nell'opera, gridando al tradimento in nome del denaro. Per capire questo, dobbiamo un attimo tornare indietro e ripensare alla carriera del duo finora; nati dalle ceneri dei Fall Of Because, i Godflesh sconvolsero il mondo del metal alternativo con "Streetcleaner" del 1989, un disco dove la perfetta sintesi tra estetica e suono industrial e metal diede luce ad un ibrido, allora, inedito e violento, perfetta rappresentazione della realtà alienante della società post-industriale. Qualcosa di pachidermico, asfissiante, disumano, capace di portare alle estreme conseguenze la lezione del doom, del grind, dell'industrial, del post-punk più grigio e sperimentale, creando un suono difficilmente inquadrabile, ma che in poco tempo divenne simbolo della band, rispettata tanto dal pubblico metal più estremo, quanto da quello punk ed alternativo. In realtà ogni opera dei Nostri conoscerà una diversa elaborazione di queste coordinate, pur conservando di base una coerenza che permetterà loro di mantenere un'identità ben definita. Ecco quindi ad inizio anni novanta esempi di suono sempre claustrofobici, ma in qualche modo più umani, come il singolo Cold World, o addirittura sperimentazioni con synth e motivi "techno" nel EP Slavestate, arrivando al secondo disco "Pure", il quale mostrava un mondo sonoro ancora più glaciale, ma allo stesso tempo più malinconico nella sua fredda rabbia meccanica. Il successivo EP "Merciless" amplificcava questi aspetti, dandoci tra i migliori esempi di sempre del suono dei Nostri, smussando gli angoli senza in alcun modo snaturare l'essenza della band. Come sempre, quindi, nulla nasce dal nulla, ed in realtà "Selfless" non è un tentativo commerciale dell'ultima ora (a maggior ragione alla luce del presunto "fallimento" del disco per le major), bensì un tassello di un'evoluzione continua e coerente con la visione musicale di Broadrick. Quest'ultimo infatti può essere definito il prototipo dell'ascoltatore moderno, abituato a vivere in contemporanea diversi generi filtrandoli sotto una lente mutante, capace di sintetizzare il tutto in qualcosa di altamente unico. Caratteristiche queste non certo comuni all'epoca, dovute ad una natura onnivora cresciuta con Black Sabbath, Throbbing Gristle, Killing Joke, Joy Division, il grind, il noise, e quant'altro di pesante e corrosivo aveva da offrire il suono inglese; natura che si mostrerà sempre più nel tempo, sia negli sviluppi dei Godflesh stessi, sia nei progetti paralleli portati avanti in contemporanea. In tutto questo, però, si farà strada anche un altra sua faccia: la sua eterna contraddizione nel voler sperimentare ed allo stesso tempo essere coerente con quello che i Godflesh rappresentano, nonché le mille nevrosi di un animo fragile e prono al collasso. Tutti aspetti che si rispecchieranno nel suono unico della band, sintesi di queste contraddizioni, un cyborg che vorrebbe essere il meno umano possibile, ma che finisce invece per rappresentare all'ennesima potenza un marasma esistenziale ed una malinconia che potremmo definire "umani, troppo umani". "Selfless" è quindi un punto di apertura verso tutto questo, un album che appartiene allo stesso tempo a quello che potremmo definire i loro primo periodo, e anche a quello successivo, un innesto di emozioni congelate e dilatate, su un substrato grigio e sferragliante; una parte importantissima della discografia della band, nonché un disco di grande valore per l'evoluzione del alternative anni novanta. I testi sono minimali e misteriosi, come da tradizione per i Nostri, basati più su suggestioni spezzate, piuttosto che su sensi compiuti, il che rende, anche su questo, il tutto più enigmatico, ed allo stesso tempo più spersonalizzato ed evocativo: la copertina, che vede una cellula nervosa fatta crescere su un microchip, è la geniale realizzazione grafica di quanto fin qui detto.
Xnoybis
In Xnoybis Il brano sembra parlare, con i suoi pochi versi, del peso delle emozioni e dei ricordi, che bruciano la nostra mente e ci fanno sentire stanchi e carichi di un senso di disperazione, tale da farci cercare qualcosa di elevato per fuggire da tutto questo. Dopo alcuni secondi di silenzio un suono di chitarra squillante annuncia un trotto incalzante, fatto di riff martellanti bilanciati da suoni squillanti che ne delineano l'andamento. Broadrick interviene con ruggiti epici, enunciando le sue parole con sentito vigore, ma sempre filtrato da un'aria alienante, e scandendo il tutto seguendo il movimento musicale. Ha visto così tanto che i suoi occhi bruciano, e non può fare altro che alzare le braccia verso il cielo, sentendosi come nessun altro al mondo. La marcia ossessiva prosegue con i suoi modi, mentre la voce del cantante assume anche connotati ariosi, regalando una melodia vocale inedita per quelli che erano stati, fino ad allora, i Godflesh, marcando già i primi segnali di cambiamento. Ecco che le chitarre si lanciano in una cavalcata più decisa e libera, regalando anche allo strumento a corda espressioni più emotive, ma presto si ritorna all'andamento meccanico, sovrastato dai ruggiti di Broadrick, che ripete le poche parole che compongono il testo ad oltranza. Il passaggio da vocals ruggenti ad altre filtrate ed ariose svela il tema ben più delle parole in sé, semplici pretesti: un'unione di rabbia e desiderio di elevazione, tra meccanico ed umano, che è da sempre il fondo tematico dei Nostri, qui esplicitato ben oltre la freddezza disumana dei primi lavori. L'elemento umano inizia a dimenarsi tra le pareti d'acciaio della struttura minimale del brano, e la musica sembra alienarsi, consapevolmente o meno, proprio a questo. I trotti sferraglianti proseguono decisi, passando ancora una volta a corse più sentite e dalle melodie dissonanti, proseguendo di seguito con passaggi sospesi e dilatati, sui quali si organizzano giochi ritmici di rullanti cadenzati, tra i quali s'insinuano melodie liquide. Riecco gli attacchi spavaldi, in un'impostazione che ha un che di epico e declamatorio, anche questo elemento nuovo per i Nostri; il cantato si ripresenta con i suoi modi ammalianti, e le sue note ariose accompagnano un ennesimo montante di chitarra, destinato ancora a scontrarsi con suoni desolati e melodie minimali dall'effetto spettrale. La linea ritmica prosegue sui loop di chitarra, in una sequenza ipnotica che fa del minimalismo strutturale un'arma a proprio vantaggio. Ed è sulle note accennate che va a spegnersi il brano, ottimo biglietto da visita per il lavoro che mostra uno dei vari aspetti dell'album. S'infiltrano qui dosi di alternative anni novanta, nonché chitarre più ariose e vocals più umane, mentre rimane una certa tendenza astratta per i testi, non espressioni compiute, ma accenni e declamazioni che preferiscono dare immagini mentali, piuttosto che discorsi. Ma, come prima detto, quello che non dicono le parole, dicono i modi con i quali vengono dette: il "personaggio" tenuto da Broadrick nel primo disco, un essere disumano fatto di cemento ed odio, aveva già incominciato a perdere la propria armatura nei lavori successivi, ma è qui che il Nostro osa momenti apertamente rilassati, anche se accompagnati da contrasti più aggressivi e ruggenti. Nonostante quindi il peso delle parole, troviamo un maggior vigore ed un'energia inediti, ed in generale strutture che possono interessare anche chi trova troppo ostico il sound della band.
Bigot
"Bigot - Bigotto" tocca, con pochi versi, uno dei temi cari ai Godflesh, e in particolare modo a Broadrick, ovvero l'ipocrisia del potere religioso, che controlla le menti e le spinge al fanatismo ed alla morte. Un suono di synth in levare offre un'introduzione misteriosa e dal gusto fantascientifico, presto però sostituita da una marcia pachidermica dai colpi secchi ripetuti, segnata da chitarre severe ad accordatura bassa. Si arriva così a striature più graffianti, inserite nella struttura precedente, le quali poi collimano in una serie di riff nervosi. Otteniamo un movimento imponente dalle falcate meccaniche, sul quale un Broadrick decisamente più robotico ed in linea con quanto sentito nelle produzioni passate, declama le sue parole perentorie. Dio parla con una lingua biforcuta, e riceve l'anima aperta totalmente: già si palesano i temi d'inganno legati alla religione, e di come chi vi si abbandona totalmente tolga ogni difesa. Suoni lenti e rocciosi di stampo quasi doom segnano il passo greve dell'episodio, mentre il cantato prosegue con la seconda parte del brevissimo testo: il flusso viene controllato, e guardiamo gli altri mentre seguono ciecamente le parole altrui e muoiono. Il tutto viene distribuito su suoni cosmici di synh e chitarre disperse, quasi a voler dare forma sonora ad un mondo celeste qui beffardamente evocato, ed accostato al duro suono concreto delle chitarre. Si continua con un galoppo più concitato, fatto di arcate ossessive e riff tagienti ad oltranza, creando un movimento distorto, ma non cacofonico, altro segnale dell'equilibrio raggiunto nel disco tra strutture in qualche modo appassionanti, ed osticità salvaguardante la natura del progetto. Broadrick s'insinua sempre con un tono inumano ed indifferente, mentre percepiamo sempre in sottofondo linee ambient sovrastate però dal resto della strumentazione; giungiamo così ad altre falcate rocciose e lente, aperte poi da cesure dilatate con ritmica cadenzata e chitarre che ricordano colpi di martello ripetuti. Si ritrovano i suoni distorti di poco prima, in una marcia imponente dove trame metal e strali inquietanti si legano indissolubilmente, trascinandoci con loro verso momenti cinematici dai synth a spirale e dai riff ruggenti. Broadrick ora grida sempre di più le sue parole, in un crescendo che collima in una digressione finale, ultimo vagito del brano, che va a prolungarsi in un'ultima espressione cosmica dai toni tutt'altro che rassicuranti, evocando piuttosto uno spazio freddo e vuoto. E' interessante analizzare anche questa traccia, vagamente più simile al suono dei Godflesh usato prima del disco, ma allo stesso tempo in linea con quanto presentato nell'album qui recensito. La struttura è minimale, ma si arricchisce di un'elettronica mai invadente, mentre per quanto distorte e massicce, le chitarre hanno un groove appassionante, scandito dai colpi di drum machine e dagli snare, marchio di fabbrica della ritmica meccanica dei Nostri.
Black Boned Angel
"Black Boned Angel - L'Angelo Dalle Ossa Nere" può essere considerata, con tutte le cautele del caso, una ballad dei Nostri, una sorta di rammarico accennato, una volontà di purificarsi ed essere di più, superando il dolore dell'esistenza. Una melodia malinconica viene delineata da chitarre ariose, sospese su una ritmica dai colpi dilatati, sottolineati da piatti cadenzati. L'atmosfera è quasi onirica, una sorta di cerimonia languida, presto arricchita giri circolari evocativi e dalle vocals appassionanti di Broadrick, qui votato ad una sorta di sgraziata melodia ; se solo i dannati rimanessero tali, non ci sarebbe un per sempre che ci condanna, non ci sarebbe nessuna perdita. Poche parole, ma che esprimono già tutto un mondo interiore perfettamente corrisposto dalla musica. Un forte rammarico esistenziale pervade ogni nota, e la struttura semplice, dove pesantezza ed evocazione vengono uniti in un'unica cosa, sensazione questa potenziata dalle vocals quasi perse nel suono, come uno spettro lontano. Il songwriting vede leggere variazioni con suoni ancora più dissonanti e sospensioni ritmiche, dandoci atmosfere acide che fanno da contrappunto alla ripresa dell'andamento dominante, più sereno. Se solo potesse essere ripulito, declama il Nostro, se solo potesse essere di nuovo intero, allora forse potrebbe non esserci dolore: ancora una volta l'elemento umano ha il sopravvento, e se fino a poco tempo fa i Godflesh si limitavano ad una descrizione fredda e distaccata, a volte crudele, della realtà, ora l'interiorità ha modo di mostrarsi. I suoni sospesi ed ariosi proseguono tra una batteria presente, ma distribuita, conoscendo un movimento lento che ci fa soppesare ogni passaggio e parola, destinato a conoscere ulteriori compressioni rumorose. Ecco però che all'improvviso prende piede un bel galoppo accompagnato da una sottile melodia, scolpita da effetti stridenti: non dura molto, infatti presto riprendono i movimenti iniziali, riproponendo sia le parole, sia i suoni ormai familiari. Un senso di vuoto viene in qualche modo sottinteso dal suono esteriormente pacato, presentando una nuova carta dei Godflesh che verrà ampiamente usata in futuro, ovvero la capacità di creare il senso di asperità e minaccia anche la dove apparentemente non dovrebbe esserne alcuna. Non esiste una vera tranquillità nel mondo del duo, e anche le pause ariose come questo pezzo, non sono altro che una calma prima della tempesta, durante la quale vengono soppesati pensieri tutt'altro che positivi. Intanto la musica prosegue, ripresentando i suoi modi, e collimando di nuovo in una marcia più vivace, scandita dai colpi di drum machine ed arricchita da chitarre in qualche modo sognanti, ma contenute. Il loop ottenuto ci porta con sé in una tirata che viene interrotta all'improvviso da un'ultima digressione, aperta poi ad un feedback sospeso tra effetti vari, una sorta di ronzio che sembra volersi vendicare dalla natura fin troppo melodica e candida del pezzo.
Empyrea
"Empyreal - Empireo" è una sincera espressione di debolezza, una richiesta di aiuto che fa trasparire un'umanità che volente o nolente prende posto nella musica dei Nostri, un grido dove tutta la nostra decadenza interiore e solitudine prende forma. Un suono onirico ed evocativo dal gusto sintetico si leva, creando un'introduzione presto sostituita da una lenta marcia dai colpi pesanti e dilatati, sottolineati da riff stridenti e percussioni severe; s'instaura un andamento emicranico, raggiunto di seguito dalla voce umana, ma filtrata da riverberi, di Broadrick, che distribuisce nell'etere le sue poche parole: non tutti sono fatti per poter portare il peso del mondo. Un concetto semplice, ma gravido di significati grazie ai sottintesi creati dalla musica, dove l'andamento trascinato e pesante è perfetta rappresentazione di un senso di enorme stanchezza esistenziale e sconfitta, raccontandoci di un vissuto non esplicitato, ma fatto di delusioni e dispiaceri continui. Un peso che un animo fragile non può sostenere, crollando oltre ogni abisso. Passaggi più ariosi fanno da ponte tra i vari punti, presentando un suono sempre strisciante, ma più dinamico; ci ritroviamo quindi al mantra iniziale, sfondo per nuove esternazioni pacate del Nostro, quasi leggiadre, se non fosse per il loro significato. Egli ci chiede di sentire la sua decadenza e il modo in cui si sente solo, mettendo a nudo i risultati di quel peso di cui ha parlato poco prima. Un Broadrick che non si nasconde più dietro ad una maschera di cemento, e che mette in gioco, anche, il suo lato più intimo e personale, tanto nella musica, quanto nei testi, per quanto minimali e dalle pochissime parole. Aperture ariose e battiti pressanti ci portano verso montanti leggermente più vivaci, ma sempre lenti e controllati, e per di più di poca durata. Un flusso asfissiante ci conduce alla ripesa della sessione iniziale, ed ancora una volta la marcia angosciante accompagna un Broadrick che, come in un ripetere all'infinito la propria vita, ci ripete le stesse identiche parole, con lo stesso senso di spossatezza e rassegnazione. Piatti cadenzati e rullanti secchi sono le armi adoperate, mentre le chitarre squillanti conoscono cambi di consegne con loop dissonanti e dilatati, persi tra le nebbie sonore delle distorsioni. La conclusione vede una coda minimale dove effetti vocali si ripetono come in una sorta di canto tribale, sospese sul vuoto lasciato dalla musica, come un eterno ricordo che si propaga in un'eco che non ha fine. Ormai l'alternanza tra brani più legati al vecchio orso, ed episodi come questo dove viene mostrato un movimento più pacato, è chiara, dandoci la cifra della struttura interna del disco; un'apparente addolcimento che solo un ascolto totalmente superficiale e molto premunito può interpretare come una fuga verso la commercializzazione: di sicuro il songwriting pesante ed asfissiante non incontrerà i favori degli amanti di tracce colorate o facili, dandoci la versione "leggera" di un suono che appartiene ad un universo a parte, espressione unica del mondo interiore di Broadrick e delle chitarre di Green, portate alle 'estreme conseguenze dello spettro sonoro più greve. Insomma, anche i momenti di umanità dei Godflesh comportano un certo grado di alienazione e difficoltà, e se non sono qui attacchi caotici o caos continui ad assaltarci, bensì qualcosa di ben più subdolo e sottile: un'elegia mortifera e rassegnata, un livello superiore di malessere che non può più nemmeno diventare rabbia.
Crush My Soul
"Crush My Soul - Schiaccia La Mia Anima" tratta ancora una volta di temi legati alla religione ed al potere, collegando le due cose, e portando in campo anche il vuoto esistenziale che spinge le persone verso di essa. Un rumore caotico di matrice noise si insinua subito nelle nostre orecchie con il suo incedere pesante, presto aggiungendo passi grevi ad accordatura bassa; eccoc he si va così a creare un riffing meccanico dove i colpi di chitarra dialogano in un botta e risposta con i suoni elletronici, delineando un cyborg sonoro sferragliante ed ipnotico. Brevissime digressioni squillanti delineano il passo del movimento pachidermico, mentre Broadrick si aggiunge con la sua voce declamante e ruggente: egli chiede di essere ingoiato per intero, e di fargli imparare, perchè non abbiamo bisogno di lui, dobbiamo solo schiacciare la sua anima. Intanto la drum machine prende più velocità con i suoi rullanti, ed un fraseggio stridente e notturno sottolinea la composizione ad intermittenza, creando un gioco di risposte con i battiti senza pietà. Si configura già uno degli episodi migliori del disco, capace di convogliare nel suo suono martoriante ed ossessivo il messaggio del testo, qui esplicato con qualche parola in più, ma sempre minimale, come da tradizione per i Nostri. La rigidità dei dogmi diventa una rigidità ritmica che non conosce sosta o quiete: ed è su queste note che ritorna il cantato, gridato con una forza dettata dalla disperazione, dal bisogno di doversi liberare. Ci si chiede come si possa vedere la speranza, quando non vediamo mai la luce, poiché siamo vuoti dentro. Parole semplici, ma che denunciano la vana illusione offerta dalla religione, incapace di colmare davvero i vuoti che abbiamo dentro. Come per reiterare la cosa, la musica tira dritto decisa, aprendosi però a nuovi fraseggi severi e colpi veloci, in una struttura tanto lineare, quanto ammaliante. Troviamo però una leggera variazione, che ci conferma come il songwriting minimale adottato dai Nostri sia dovuto ad una scelta artistica ben ponderata, e non alla pigrizia; s'inseriscono brevissimi momenti dissonanti, che ci consegnano un ulteriore contrappunto, in un'orchestrazione stridente di ottima fattura. Un'atmosfera quindi estraniante, che configura un mondo duro e fatto di dominazione, come ricordato dalle parole di Broadrick, che riprende con le sue grida sentite. Ecco quindi i passi familiari con sessioni stridenti e colpi sintetici massacranti, in un gioco d'incastri che ormai conosciamo bene. Si prosegue su questa linea, facendoci trasportare fino ad una coda fatta di suoni baritonali e ruggenti, che collimano con una conclusione dove, come all'inizio, in effetti noise e colpi sincopati. Si conclude così il singolo dell'album, non a caso uno dei epzzi migliori in assoluto, capace di dare una forma con più "groove" al primo suono dei Godflesh, quello più industriale e belligerante, ma allo stesso tempo più freddo e monolitico.
Body Dome Light
"Body Dome Light - La Luce Della Cupola Corporea" tratta in modo astratto e non diretto di temi legati all'ossessione, del pensare troppo, e del sentire che si è qualcosa di diverso dal resto, ma allo stesso tempo ignorati e non capiti. Una serie di colpi ritmati di batteria aprono il brano, subito seguiti da un riffing lento e macilento, il quale si muove monolitico ed imponente, trascinandosi con un'atmosfera schiacciante e pesante. Si configurano anti-melodie dissonanti, mentre la drum machine configura un passo cadenzato e ripetuto; il gioco di lasciate e riprese si arricchisce in corso d'opera con la voce in riverbero di Broadrick, qui arioso e distante. Non può smettere di pensare, nel luogo in cui si trova, e nemmeno può smettere di correre, da dove si trova ora. I suoni stridenti e ripetitivi ci consegnano una perfetta rappresentazione dell'alienazione e dei toni acidi del testo, ed ecco che dopo che viene annunciata la frase che da il nome alla traccia, brevi suoni cosmici di synth e falcate un po più vivaci, ma alternate al corso normale, ci consegnano un ponte sonoro che spezza la monotonia voluta del songwriting. Torniamo di seguito a riff circolari rocciosi e vocals pulite, ma allo stesso tempo inumane, che evocano immagini fantascientifiche in spazi interiori senza confini. Ora il Nostro non riesce a smettere di brillare, ma nessuno lo vede, e non può nemmeno smettere di vivere, ma nessuno sente qualcosa, in questo momento. Descrizioni di stati emotivi ed esistenziali contrastanti, chiamando in causa temi cari alla band, tra sensazione di separazione dal resto del mondo, vuoto interiore, e mancanza di sentimento. Ritroviamo i suoni stridenti e granitici, in una marcia destinata come sempre a trascinarci nelle sue arie lisergiche, aperte a parti circolari dove Broadrick s'inserisce brevemente, lasciando poi spazio alle alternanze di chitarra e ritmica. Ecco che, proprio quest'ultima, si lancia in colpo duri e ripetuti, contrastati da suoni striduli dal grande effetto; il passo combattivo struttura un momento metal, poi lanciato in inaspettati fraseggi severi delineati da groove convergenti e dissonanti. Una sessione elaborato, pur se ancora minimale, che mostra tutta la bravura dei Nostri. Si ripetono ora i riff rocciosi, mentre il cantato riprende i evrsi già incontrati, in una riproposizione dei primi passi dell'episodio. Riecco quindi i suoni di synth, così come i loop di chitarra stridenti, e le cesure ritmiche dure come martelli sull'incudine, le quali proseguono con tono militante. Ed è su questa marcia di drum machine e chitarre ad accordatura bassa, che giungiamo di nuovo ai fraseggi serrati, sempre alternati da suoni stridenti, portati alla loro logica conclusione in un suono sotterraneo nervoso e rumoroso, gran finale del pezzo.
Toll
"Toll - Pedaggio" ci parla con poche parole, come ormai d'uso per i Godflesh, di sensazioni poco piacevoli di disfatta e depressione, di un baratro dove si provano emozioni purtroppo familiari, che conosciamo fin tropo bene. Alcuni colpi di piatto cadenzati aprono la strada per una serie di riffing pesanti e rocciosi, che spingono avanti la composizione fino all'esplosione in un motivo sferragliante. Una locomotiva sonora dal passo greve, tempestata da colpi secchi, dal movimento delineato da alcuni suoni dissonanti e stridenti: il perfetto impianto sonoro per l'arrivo delle vocals gridate e graffianti di Broadrick, perfettamente innestate tra i "groove malati" della composizione. Proviamo una brutta sensazione, ci sentiamo davvero giù, come se il paradiso fosse stato distrutto. I versi vengono ripetuti con ossessione, in un mantra ipnotico che fa del loop la sua arma di propaganda. Ecco che montanti fumosi, dalla matrice metal, fanno da contraltare al passo altrimenti lineare del brano, aprendosi a suoni squillanti e colpi ritmici secchi e duri; riprende quindi la marcia familiare, arricchita da attacchi circolari e drumming meccanico. Broadrick ritorna, portandoci la seconda ed ultima parte della sua declamazione: non riesce a dirci quanto vicina sia la sensazione, ma di sicuro riesce a percepirla, a sentirla nell'aria, inevitabile e fin troppo conosciuta da lui. Ritroviamo di seguito sia le linee taglienti, sia le contrazioni più ritmate, in un gioco di struttura minimale, come sempre, ma ben pensato ed applicato, capace di dare forma sonora al pachidermico tumulto interiore espresso dalle poche parole. Un malessere che avanza, e schiaccia tutto quello che trova sulla sua strada: questa l'essenza della traccia, data da suoni allo stesso tempo trascinanti e rumorosi, marchio di fabbrica dei Nostri. Colpi e montanti circolari si legano in una maestosa avanzata, la quale collima in un fraseggio ruggente, poi unito alle solite falcate granitiche, riproponendoci la prima parte del brano, con tanto di cavalcate finali sottolineate da parti squillanti e colpi di batteria decisi e ripetuti. Ed è così che va a chiudersi l'episodio qui analizzato, conciso e diretto, tanto quanto il suo tema; pochi fronzoli o filosofie per la band, soprattutto in questa fase della loro carriera, e spesso le cose espresse, non permettono discorsi compiuti o dibattiti. La descrizione minimale è all'ordine del giorno, e non si tratta di un dialogo aperto, bensì di un gettare la realtà in faccia, senza mezzi termini o filtri. Come sempre, ci dice più la musica, ostica, abrasiva, ma non priva di elementi che danno possibilità all'ascoltatore (avvezzo a certi suoni, naturalmente) di seguirne il corso.
Heartless
"Heartless - Senza Cuore" è forse l'episodio più criptico del disco, almeno sul piano tematico, legato a temi che possiamo intuire come riferimenti al potere religioso, la contrasto tra una forte fede e sottomissione, ed un cuore vuoto, anzi mancante. Ennesima proposta dei Nostri dove non si vogliono dare facili discorsi o trattati, bensì gettare fuori senza filtri costruzioni verbali che appartengono più alla sfera dell'immaginario interiore, che al ragionamento fatto e compiuto. Un effetto sintetico grattante e di matrice noise ci accoglie, mentre di seguito un fraseggio secco e drammatico s'instaura, insieme a colpi duri di drum machine, su di esso. La marcia apocalittica si muove pesante come un panzer, schiacciando senza pietà ogni cosa; ecco che all'improvviso si levano chitarre squillanti e stridenti come allarmi da guerra, segnali sui quali prendono piede le vocals altrettanto eclatanti, quasi nasali, di Broadrick, dilungate nei loro andamenti eterei, pieni di riverbero. Egli arriva e rimane in ogni porta, in un cuore che si trova sempre alla sua fine. Parole espresse su strati cosmici e chitarre ossessive, con un fare quasi monotono, che ci da tutto il vuoto e mancanza di sentimenti, qui espressi. Ecco che riff rocciosi e bordate pesante aprono il corso a contraccolpi metal, dando alla composizione un certo groove solido e trascinante; seguono poi i fraseggi taglienti e magistrali, presto violati da nuove dissonanze e suoni a spirale: il cantato ora evoca un padrone per il quale siamo sempre molto deboli, probabilmente il divino che sempre giudica e sempre ci vede in peccato, e ci consideriamo senza cuore, ma con una forte fede, unico appiglio rimasto in vita. I montanti devastanti ed i suoni notturni ci accompagnano fino ad una coda epica e sospesa, dove suoni grevi, ma pieni di pathos, si ripetono in una linea quasi doom, sottolineata da cimbali ritmati. Un'inaspettata cesura emotiva, presto però collimante in un nuovi corsi striscianti e graffianti, ennesima marcia dall'ossatura di ferro, minimale, portata avanti fino alla ripresa degli ormai familiari strati astrali ed onirici, che segnano la ripetizione del testo da parte di un Broadrick distante. Si ripetono poi le alternanze ormai conosciute, giungendo alla coda onirica, qui commutata in un finale sospeso e pieno di elemento umano, sul quale il cantante staglia le sue parole in una sorta di catarsi esistenziale, molto contrastante con il vero senso dell'episodio.
Mantra
"Mantra" tratta di un mondo interiore dove ci sentiamo liberi, dove possiamo essere noi stessi, e pensare ai nostri veri bisogni, e non a quelli imposti dall'esterno. Una linea di synth dal sapore cosmico si staglia nell'etere, evocando spazi siderali e freddi, mentre di seguito piatti cadenzati e cimbali instaurano una ritmica dagli incastri ben delineati e cesellati tra arie eteree e passi squillanti. Ecco dunque che si impone un corso ammaliante, pregno di un'anti-melodia accattivante e dalla gran presa. Broadrick interviene con vocals ariose in riverbero, mentre i riff rocciosi proseguono il loro lungo movimento; dentro di noi ci sentiamo liberi, dichiara, e sempre dentro di noi possiamo venir fuori per come siamo, come davvero siamo. I toni paradisiaci, ma sempre con contrasti sonori, della musica danno una perfetta colonna sonora allo stato esistenziale qui rappresentato, un'oasi interiore tra i dissidi emotivi e pratici della vita quotidiana, tra marasmi ed abissi. Ora fraseggi dissonanti e strati onirici di natura sintetica ci prendono per mano, con un pathos che non conosce climax, ma rimane strisciante, incastrandosi con gli altri elementi sonori, tra cimbali serpeggianti e suoni grevi di chitarra ad accordatura bassa. Viene qui anticipata quella tendenza quasi shoegaze che in futuro avrà largo posto nei suoni della band, e che getterà i semi per il progetto Jesu, e di sicuro abbiamo in questa traccia l'episodio più emotivo ed evocativo del disco, quello che probabilmente metteva in chiaro una nuova faccia dei Godflesh, l'altra della medaglia, che convive con la disumanizzazione robotica proposta in altri frangenti. Torna anche il cantato, sempre posto su suoni di synth e bordate ritmiche sparse: siamo li, dentro di noi, e dettiamo i nostri desideri, qui liberi di farlo senza censure e costrizioni esterne. E la musica sospesa ed eterea è ancora una volta perfetta sintesi di questo, epica e commovente, grazie a chitarre ricche di suoni malinconici e parti elettroniche evocative; ecco dunque una cesura fatta di colpi più duri e digressioni più severe e notturne, altra struttura magistrale che mette in gioco un'anima più "rock". Un suono ammaliante che evolve, e che va ad incontrare giochi di ritmica e loop ipnotici, dal movimento lento. Broadrick ripete da capo la sua lezione, presenta sempre diafana dalla voce in riverbero, dilatata e distante; ci ritroviamo nuovamente in un mondo cosmico, dove bordate decise di matrice metal arricchiscono i suoni più delicati, andando anche a sconfinare in effetti di synth siderali. Trame dai fraseggi appassionanti ci portano con loro, verso una coda conclusiva che striscia verso la conclusione, regalando solo suoni ritmici nella sua chiusura.
Go Spread Your Wings
"Go Spread Your Wings - Vai Ed Apri Le Tue Ali" è la gran conclusione del disco, un lunghissimo brano che rappresenta perfettamente sia la natura più umana ed emotiva, sia quella più abrasiva e sperimentale, della band. Esso parla di sensazioni di soffocamento, prigionia, ma anche di desiderio di liberarsi, di spiegare il volo, in un contrasto che richiama anche, ancora una volta, il potere religioso e l'illusione di un eterno, spesso usato come mezzo per incatenare in vita le persone. Un suono acustico introduce il pezzo, evolvendo grazie ad un'intensità sempre maggiore, in un effetto catartico che ricorda un mantra tibetano che gioca sull'ossessione ritmica, in modo tale da creare uno stato di concentrazione. Ecco però che all'improvviso troviamo digressioni di natura ben più caotica, in un'orchestrazione dissonante lo-fi dai tratti industriali, sottolineata da una linea caustica di synth in levare, e note sgraziate. Una struttura ripercussiva severa prende piede, mentre Broadrick s'insinua con una voce sospirata, ma tutt'altro che benevola, salendo poi d'intonazione: i nostri occhi sono neri, non riusciamo a respirare, ma non rimane che prendere, e dispiegare le nostre ali. Le parole vengono ripetute con una pesantezza che ne impone il senso, circondate da effetti sonori da film horror, altrettanto pachidermici; ma ecco che all'improvviso parte un fraseggio carico di enfasi, il quale va ad inserirsi tra gli elementi precedenti, in una marcia imponente, aperta da suoni dilatati e squillanti, base per spettrali melodie di synth. Interviene quindi l'elemento umano, malinconico e misterioso, mentre il cantato prosegue con la sua drammatica descrizione. Non riusciamo a vedere, ma nonostante questo non cadremo, non riusciamo a sentire, ma non ne abbiamo bisogno, vaste catene ci tengono giù, ci spingono giù. Mentre la musica prosegue con le sue note stridenti ed emotive, è la voce a darci una sensazione di crescendo, aumentando la sua energia progressivamente, in un apice costante che sembra voler raggiungere un grido di liberazione. Abbiamo bisogno di un paradiso, ed anche di un inferno, di limiti, e soprattutto di provare colpe. Ora parti più corrosive e metal sottolineano le vocals più ruggenti, che ci parlano di come non scapperemo mai da tutto questo: un riffing greve e roccioso fa ad contraltare sonoro alla rabbia esistenziale, stemperata poi da nuovi synth malinconici e fraseggi notturni dalla bellissima fattura, cesellati da bordate squillanti. Viene ripetuto il testo, questa volta con una voce sommessa, ma destinata a crescere nuovamente, in una comunione di elementi che ci consegna la cifra di un suono saturo e ricco, perfetta conclusione per il disco. Dopo l'ennesimo climax tematico ritroviamo marce pachidermiche e meccaniche, marchio di fabbrica dei Nostri, destinate a collimare in una serie di riff taglienti e nervosi, manifestazione dell'energia finalmente liberata. Ma dura poco, ed ecco di nuovo passi striscianti e graffianti, ponti sonori verso nuove sospensioni diafane, dalle linee spettrali e dai battiti dilatati, con una voce quasi supplicante. Si torna quindi agli elementi iniziali, ma con un'anima più umana, sempre ossessiva e drammatica; una costruzione quasi teatrale, dove è inevitabile il ritorno a corsi più ruggenti e rocciosi, ma sempre lenti e pesanti. Una marcia ipnotica, fatta poi di bordate dure e decise, ennesimo climax dalla rabbia controllata, sul quale Broadrick ruggisce in modo sempre più brutale. Andiamo quindi ad infrangerci contro un'improvvisa sezione ambient, fatta di suoni dissonanti e campane ripetute, in una costruzione dal gusto meditativo e spirituale, con tanto di mantra vocali. Si raggiungono livelli progressivi non di certo comuni per il suono della band fino ad allora, chiamando in causa elementi psichedelici che ci trascinano con loro, tra effetti delicati e suggestioni vocali, delineando un paesaggio sonoro unico, che scivola piano verso l'oblio.
Conclusioni
Un disco importantissimo per la storia dei Godflesh e per l'evoluzione del loro suono, spartiacque tra il periodo iniziale, votato alla fusione più dura e disumana tra musica industriale e metal, e quello successivo, più aperto a momenti umani e malinconie post-rock, per quanto sempre caustico e permeato da una sorta di cappa esistenziale grigia ed opprimente. Qui vengono elaborate le strutture più aperte e i groove più rock presenti nei singoli ed EP precedenti, offrendoci anche un Broadrick a tratti più arioso e confidente con la sua voce naturale, senza però mai strafare, e senza abbandonare l'uso del suo stile più robotico e rabbioso. L'armatura di cemento incomincia a far intravedere delle falle, dalle quali viene fuori l'umano che c'è dentro, l'uomo post-moderno che vive e soffre in una civiltà dove i sentimenti vengono spesso repressi, e dove si prova frustrazione e senso di prigionia, sia interna che esterna. Di sicuro qualsiasi accusa di commercializzazione diventa risibile davanti all'ascolto del disco, tutt'altro che facile o identificabile, per un orecchio abituato a strutture più familiari e confortanti. Il suono dei Nostri rimane minimale e sferragliante, pieno di momenti grevi e disturbanti, in un'abrasività che non vuole scomparire, parte essenziale del messaggio del duo inglese, ma si aggiungono un uso sapiente dei synth, e momenti catartici che richiamano i tratti più evocativi ed emotivi del post-rock e del doom, ripescando dagli ascolti ed influenze da sempre care alla band, ma in precedenza meno riconoscibili, tra le bordate di cemento e pece offerte dai primissimi dischi. Mancano del tutto gli elementi "techno" sperimentati con "Slavestate, dando invece spazio a suoni dal groove rock, dove l'elettronica rimane molto limitata, e in supporto a momenti specifici del disco. Il caos rimane, ma diventa un contraltare per le melodie spigolose e per i giochi ritmici che spesso s'incontrano durante l'ascolto. Se in precedenza il basso di Green era figlio del metal più greve, ora trova punti di contatto anche con l'alternative anni novanta e con passaggi post-rock, ma senza sconfinare ancora in un pieno abbraccio di questi generi. Siamo in un momento di passaggio, e non dovuto ad una decisione conscia, bensì ad un'evoluzione sintomatica che spesso sorprenderà i due musicisti per primi, soprattutto Broadrick, quasi autori guidati dalla loro musica verso territori che loro stessi non avevano pensato o messo in conto. L'abbandono da parte della Columbia, dettato da interessi ed aspettative meramente commerciali, non è il simbolo di un fallimento, bensì di un'incapacità da parte della cultura mainstream di catalogare o sfruttare i Godflesh, elemento da sempre di fascino e repulsione. Non ci sono appigli veramente facili, infatti, per entrare in sintonia con il loro suono, e anche i momenti più umani e ariosi vengono accompagnati da strutture grantiche ed ossessive, avulse al ritornello classico o a un songwriting dalle soluzioni lineari. La musica della band viene giocata su variazioni minime, ma estremamente importanti, collocate con fare certosino in un oceano sonoro dove un orecchio meno attento, o non abituato, sentirebbe una monotonia senza arte né parte. Questa essenza apolide, questo non sapersi, e non volersi, collocare in nessuna categoria sonora, neanche nell'industrial metal anni novanta, che già stava diventando una formula consolidata dalla natura ben più vivace e di presa sul pubblico, sarà sempre la forza e la condanna dei Godflesh, spesso poco capiti dal business musicale, dal pubblico, e addirittura da loro stessi. Intanto, vengono gettate le basi per il suono futuro della band, che vedrà anche incursioni hip hop, drum 'n' bass, ed un avvicinamento al metal più umano e classico, seguendo anche l'evoluzione del gusto di un Broadrick onnivoro e impegnato in mille progetti musicali. Per ora, abbiamo comunque un disco importante, sia per la sua collocazione filologica, sia per il materiale proposto, ennesimo tassello di una carriera che non scenderà mai sotto i livelli del buon lavoro, e che spesso avrà picchi alti.
2) Bigot
3) Black Boned Angel
4) Empyrea
5) Crush My Soul
6) Body Dome Light
7) Toll
8) Heartless
9) Mantra
10) Go Spread Your Wings