GODFLESH
Pure
1992 - Earache Records
DAVIDE PAPPALARDO
05/11/2018
Introduzione Recensione
Riprende oggi la nostra disamina sul mondo dei Godflesh, il duo britannico costituito da G.C Green e Justin Broadrick, simbolo del metal industriale più pachidermico e caustico. Li abbiamo lasciati con l'EP futuro "Merciless", dato che il nostro è come sempre un viaggio a ritroso nel tempo, ed ora affrontiamo il precedente "Pure - Puro", secondo album da studio dei Nostri. Ma facciamo il punto dela situazione: siamo nel 1992, e la band ha già sconvolto il mondo del metal, e non solo, con il debutto "Streetcleaner", una vera e propria ode ad un genere allora nuovo ed inedito, ovvero una fusione tra il metal più distorto ed oppressivo, e i canoni della musica industriale, ed inoltre ha anche dato alla luce l'EP "Slavestate", che aggiungerà climi cibernetici al discorso, dando il via ad una serie di epigoni che fonderanno chitarre e sintetizzatori per tutto il corso degli anni '90. Avvalendosi della collaborazione della chitarra del vecchio amico, e precedente collaboratore nei Fall Of Because, Paul Neville, e del secono chitarrista Robert Hampson per le sessioni di loop, il duo scrive tra le pagine più importanti della sua storia, gettando le basi per un suono allora disumano e distaccato, ma impossibile da ignorare, in cui confluiscono trame monolitiche ricavate dall'influenza dei Black Sabbath e dall'esperienza di Broadrick nei Napalm Death, il post-punk più grezzo e rumoroso, e naturalmente l'esempio dei padri dell'industrial come i Throbbing Gristle; non pochi aspettavano la band al varco, dopo il successo del primo disco, aspettando di vedere se sarebbero riusciti a confermare la loro posizione dopo l'impatto iniziale, o se si sarebbero rivelati una delle tante meteore del metal più sperimentale. Il già citato EP successivo aveva fatto pensare ad alcuni ad una svolta verso lidi più elettronici e legati al formato canzone, ma come sempre i Godflesh non seguono le aspettative altrui, e vengono invece guidati da una propria musa che, ironia della sorte, nemmeno loro stessi sanno controllare del tutto. Il risultato sarà quindi un album diverso dal primo, ma che allo stesso tempo ne segue coerentemente il filo conduttore, in un'evoluzione costante di un tema comune che caratterizzerà tutta la loro carriera. Per anni verrà considerato un episodio singolare, un album che coglie a piene mani dalla scuola industriale, ma anche da influenze urbane, come per esempio i ritmi spezzati di matrice hip-hop, il noise più atmosferico, ed un certo groove che inizia a prendere timidamente piede ma che esploderà nei lavori successivi. Una sperimentazione sonora che confonderà ancora di più chi cerca di ingabbiare, inutilmente, i Nostri in un genere familiare, e che dovrà attendere il 2017 con l'arrivo di "Post-Self" per avere qualcosa di vicino, ma non uguale, al suo spirito. Ma occorre scavare ancora più nel passato, per capire le radici e le basi del suono qui proposto: nel 1982 Green fonda insieme a Neville i Fall Of Because, band che proponeva un post punk dalle caratteristiche noise e sperimentali, supportata da una drum machine al posto di un batterista fisico, cosa inusuale per l'epoca. In contemporanea Broadrick, già dall'età di tredici anni, stava portando avanti suoni dark ambient sotto il nome di Final, e sarà nel 1983 che egli incontrerà gli altri grazie all'amico comune Diarmuid Dalton; ecco quindi che si aggiungerà alla band come batterista e seconda voce, completando la formazione. Il progetto andrà avanti negli anni pubblicando alcuni pezzi, mentre nel frattempo Broadrick diventerà membro dei Napalm Death suonando come chitarrista sul primo lato di "Scum", pubblicato nel 1987, cantando nel pezzo "Polluted Minds" e scrivendo parte dei testi. Sarà il passaggio proprio di Broadrick come batterista nella band post punk/industrial Head Of David (autrice del brano "Dog Day Sunrise", in futuro ripreso dai Fear Factory in "Demanufacture") a segnare la fine dei Fall Of Because, ma non della sua collaborazione con Green; solo sei mesi dopo infatti i due uniranno le proprie forze, ed ecco che i Godflesh prenderanno forma, con Broadrick come chitarrista e cantante, Green come bassista, mentre la ritmica verrà affidata alla drum machine. Tutto questo lascerà un bagaglio che i Nostri si porteranno dietro per sempre, andando ben oltre il concetto di metal band (termine rifiutato nelle interviste da un Broadrick che, in reazione al machismo spesso associato al genere, ne prendeva le distanze, a volte anche in modo fin troppo caustico e non reale rispetto alla loro musica). Una commistione di generi, atmosfere, temi, che troverà qui uno dei punti più alti, regalandoci un mondo sonoro gelido, meccanico, spietato, ma allo stesso tempo in qualche modo malinconico e pervaso da una certa tristezza.
Spite
"Spite - Disprezzo" ci accoglie in paesaggi sonori contornati da una drum machine secca ed ossessiva, controbilanciata da effetti industriali e strappi di chitarra accennati, pronti però ad esplodere in loop martorianti ed incisivi. Un suono spaccaossa, granitico, ma anche affascinante, in una sequenza che fa da sfondo alle vocals in riverbero di Broadrick; egli ci illustra un mondo fatto di disprezzo, odio, rapporti rovinati, dove non esistono sentimenti veri, ma solo rancore. Chiede di essere visto, sentito, ascoltato, ma in realtà viene solo corrotto, e non rimane che essere odiati, dimenticati, e non più visti, mentre facciamo sentire tutto il nostro disprezzo. La musica rimane massacrante, tra ritmi in quattro quarti e snare ipnotici, mentre le urla del cantante vengono sottolineate da esplosioni di fraseggi stridenti, arricchiti da passi pachidermici e sferraglianti, in un groove malevolo che ammalia e punisce allo stesso tempo. Il connubio tra suoni dall'andamento meccanico e furia umana è perfettamente bilanciato, dando forma all'essenza stessa dei Godflesh ed al loro mondo tematico e musicale. La tensione cresce, mentre prosegue la disamina del Nostro: ancora una volta chiede di essere visto, ascoltato, sentito, ma al massimo può ottenere di essere scopato e basta, e poi come di consueto odiato, dimenticato, non visto come essere umano, e rimane solo da liberare per l'ennesima volta il proprio disprezzo. La batteria industriale miete vittime in continuazione, mentre le chitarre seguono il loro corso ritmato, liberandosi poi in loop dal drone accentuato, dove i giochi di ritmica e chitarra s'intersecano perfettamente tra di loro. Si aggiungono così dissonanze dal gusto malinconico, fulgido esempio di quella ricerca dell'anti-melodia capace per contrasto di evocare emozioni piene di pathos esistenziale, dando una dimensione completa al suono dei Godflesh. Dopo un verso di Broadrick riprende la marcia cadenzata, ed addirittura prendono posto assoli squillanti, in un uso originale di motivi metal, tra i quali torna il cantato altisonante, urlando le parole già incontrate in precedenza, e declamando come il suo disprezzo deve essere sentito e succhiato dall'interlocutore; si presenta di seguito la coda finale, con nuovi passaggi più "atmosferici", destinati a regredire in una distorsione conclusiva che si perde nell'etere. Un brano che metto in chiaro sin da subito la natura del lavoro, presentando già una serie di punti forti ed un songwriting che, pur mantenendosi su molti aspetti minimale e giocato su pochi elementi, ci dona un universo sonoro dove vari piccoli aspetti compongono un'esperienza dove l'ostico diventa godibile, a patto naturalmente di apprezzare certe trame sonore.
Mothra
"Mothra" è uno dei singoli più famosi del disco, subito introdotto da suoni industriali imperanti e pesanti, ma dal movimento cadenzato e trascinante. Essi sono destinati a proseguire, portandoci con loro verso il famoso riffing che compone la parte portante di chitarra, contornato da suoni di snare spediti e sessioni meccaniche. Inevitabile l'arrivo delle vocals di Broadrick, roboanti e in pieno riverbero, cariche di una carica inquisitoria, con la quale ci spiega come il nostro dolore non significhi nulla di speciale, e di come dobbiamo servire la sofferenza, per poterla conquistare (citando in alcune parti versi presi dalla canzone di Leonard Cohen "Avalanche", in un omaggio/sample lirico). Il dolore quindi non è un credito in questo mondo, semmai semplicemente un'ombra della ferita che egli porta, simbolo del nostro mondo privo di umanità e pietà, dove per sopravvivere dobbiamo reprimere le emozioni e diventare come esseri meccanici. E di corrispondenza, la musica rimane ossessiva e dai tratti industriali, tra atmosfere martellanti da fabbrica e chitarre ad accordatura bassa, sature di dissonanza: è in questi elementi che vediamo allo stesso tempo le somiglianze, e le differenze, tra la band inglese e i vari epigoni che si ispireranno ad essa. Se infatti il groove metal e il nu-metal useranno tali elementi per creare contrasti tra attacchi e lasciate abbastanza marcati, i Godflesh invece riescono ad instaurare un impianto quasi monotono, ma che con piccole variazioni conosce varie fasi e movimenti. Chitarre robuste e drum machine perentorie fanno di nuovo da sfondo per la voce risonante del cantante, pronto a reiterare la lezione che vuole impartirci: se vogliamo conquistare il dolore, dobbiamo imparare a servirlo bene, e ricordarci come non ci dia nessun credito, sempre ombra di una ferita, che è il mondo del cantante. Ancora una volta musica e mondo tematico si allacciano perfettamente, e tutto evoca un andamento marciante ed opprimente, che sembra voler ribadire la disillusione e distacco delle parole espresse, nonché la mancanza di pietà nei confronti dell'ascoltatore, troppo oltre per poter più provare empatia umana. Ritmi meccanici e suoni stridenti e sgraziati ci investono, e nonostante l'andamento sia pachidermico, la sua forza e palpabile. Bordate ritmate e striscianti alzano la posta in gioco, immerse in un mare di dissonanze quasi psichedeliche; sfociamo così in un ritorno ai motivi iniziali, tra intro da fabbrica e riprese del fraseggio portante, mentre Broadrick ripete da capo il testo, concitato come sempre. Ecco nuove sessioni graffianti ed implacabili paesaggi ritmici, così come nuove bordate dall'effetto appassionante, ripetute fino alla conclusione improvvisa della traccia, che subito collima in quella successiva.
I Wasn't Born To Follow
"I Wasn't Born To Follow - Non Sono Nato Per Seguire" ci investe subito con un synth onirico contornato da marce robotiche, creando uno strato sonoro presto raggiunto da chitarre ariose e squillanti. Un'atmosfera incalzante, ma anche evocativa, dove il basso completa la scena prima dell'esplosione di piatti e cimbali martellanti, con un gusto tipico dei Nostri dove elementi tipici del metal vengono filtrati e rielaborati secondo logiche inedite ed allora quasi aliene. Broadrick interviene con vocals quasi spettrali, totalmente in riverbero, esprimendo un senso di non appartenenza e ribellione al controllo, dichiarando di avere una mente libera, e di non farsi soggiogare. Accenni a temi sociali e, in senso lato, politici, che però non si dilungano in comizi o riferimenti espliciti, mantenendosi invece legati ad un flusso di coscienza personale che vive nell'interiore di chi si esprime. Non siamo nati per seguire gli occhi altrui, possiamo sopravvivere mentre gli altri cercano sempre di schiavizzare la nostra mente. La musica ha qui connotati molto vicini al post-rock, tra atmosfere ariose e riff di chitarra più lanciati ed energetici, mostrando quasi un lato "positivo" (con tutti i distinguo del caso) del mondo dei Godflesh, qui manifestando la propria ferma opposizione alla massificazione; ecco quindi falcate ruggenti, sottolineate dai colpi duri di drum machine, poi delineate da alcune digressioni più sparse ed atmosferiche, seguite da ritmi più lenti. Ritroviamo i synth cosmici iniziali, mentre una cavalcata ipnotica fa da substrato per la ripresa del cantato: siamo stati seguiti nei nostri sogni, chi l'ha fatto si nascondeva, ma stava sulle nostre tracce, ed ora ci ha trovati. Un senso quindi di oppressione, di continuo tentativo di controllo, che si riflette nei suoni inumani che fanno da contrasto con le parti più evocative ed ariose. Nuovi attacchi ritmati sottolineati dai cimbali ossessivi, e nuove digressioni di raccoglimento, ci trascinano in un groove meccanico che si promulga tramite movimenti che risuonano nel tempo, e anche fraseggi più delicati e sospesi, puntellati da piatti cadenzati, hanno posto nella composizione, dandoci una lunga pausa. Di seguito, troviamo dissonanze magistrali e galoppi ben congegnati, mentre la batteria sintetica picchia duro, e i suoni elettronici riempiono i vuoti. La voce quasi sognante di Broadrick ripete ora la sua lezione, incalzando nel finale, lasciando poi spaio ad un ultimo riffing marziale, in un loop che chiude sulle sue note la traccia, ma non prima di ripresentare le digressioni piene di pathos.
Predominance
"Predominance - Predominanza" si apre con suoni dub ripetuti, in un'atmosfera acida presto violata da scosse di chitarra graffiante e colpi duri di drum machine, sottolineati da fraseggi distopici che sembrano sirene da guerra. In questo clima belligerante subentrano le vocals inumane di Broadrick, totalmente distorte e vicine a quelle usate nel disco di debutto, riportando in bella vista il lato più distaccato e "mostruoso" dei Godflesh. Egli usa questa tecnica per delineare un quadro tematico questa volta astratto e non chiaro, che sembra però accennare a temi di controllo e dominazione, con velati riferimenti al matrimonio. Non un discorso chiaro, bensì una manifestazione sotto forma verbale di sensazioni improvvise e sentimenti negativi, non a caso mostrati tramite trame che di normale hanno ben poco, più suoni che voci vere e proprie. Ecco quindi che mentre osserviamo il cielo, i nostri occhi vedono quelli altrui, evocando la predominanza, e dichiarando che gli altri sono la nostra congrega, forse riferendosi anche al potere religioso, spesso criticato nella musica dei Godflesh. La ripetizione delle ultime parole trova sfondo in una serie di digressioni lente e dissonanti, delineate da colpi squillanti, in una costruzione lisergica che amplifica l'effetto estraniante del brano. Di seguito, nuove bordate martellanti promulgano la distopia sonora, tra sirene a tutto spiano e riff robusti e taglienti. La drum machine si mantiene, come sempre, senza pietà ed ossessiva, dai colpi continui che seguono un corso prefissato, richiamando la ripetizione altrettanto ossessiva incontrata poco prima con i versi di Broadrick. Ed è proprio quest'ultimo che torna con i suoi versi alieni, totalmente filtrati: siamo in una stanza fatta per pensare, senza limiti, e riferendoci ad un anello nuziale, intimiamo di toglierlo, ripetendo poi i concetti di predominanza e di congrega, in un fare che ha il gusto dell'esaltazione esagitata, non fosse per il modo usato per esprimerlo, legato tutto tranne che ad emozioni. E' invece la musica a passare dalle solite digressioni striscianti, fatte di suoni stridenti e dissonanze appoggiate su cimbali cadenzati e colpi sparsi di batteria, ad esplodere dopo un grido più chiaro del Nostro, tra rullanti concitati e bordate spacca ossa, trascinandoci in un marasma sonoro. La trama apocalittica prosegue, tra suoni squillanti e riffing marziale, in una lunga coda che ci dona un esempio dei Godflesh più intransigenti. Tornano le parole iniziali, in una ripetizione che incontra tutti i modi ormai conosciuti, tra cui le digressioni psichedeliche che stordiscono l'ascoltatore con i loro giochi, ed anche le esplosioni furiose e martellanti, destinate ancora una volta ad investirci, mentre la traccia si annulla in un feedback sferragliante finale.
Pure
"Pure - Puro" si apre con ritmi jungle, in un suono più sincopato, presto aperto da riff distorti e colpi robusti di drum machine. Una sequenza meccanica, sulla quale, come un megafono, si staglia la voce filtrata di Broadrick, pronto a parlarci, con pochissime parole, di una falsa purezza, un senso di elevazione che nasce dal negare la propria malattia interiore. I riferimenti al potere religioso sono questa volta più chiari, in una critica all'ipocrisia ed il senso di superiorità legate al fanatismo. Viene quindi negata la malattia, e ci si isola in modo da sentirsi puri; intanto la musica prosegue sulla sua linea concitata, tra colpi secchi di batteria e rullanti martellanti, riprendendo poi con movimenti più cadenzati e distribuiti, ma sempre dal segno duro ed ossessivo. Tornano le vocals dissonanti del cantante, che termina il suo discorso con una nota di sarcasmo, sottolineando come la parte critica sia pura stando da sola, e dichiarandosi molto impressionato da questa falsa purezza. Riesplode quindi l'andamento meccanico, tra una batteria ipnotica e chitarre sferraglianti, dai fraseggi dissonanti; si configura così un gioco di botta e risposta tra suoni rallentati e contratti, in una struttura atipica che gioca sull'atonalità, consegnandoci un'orchestrazione cacofonica, ma organizzata. Un corso strisciante, scolpito da cimbali e riff dilatati, ma stridenti, pronto ad esplodere nella solita marcia militante, loop che non lascia riposo all'ascoltatore. La voce graffiante, ma eterea, di Broadrick torna con maggiore rabbia, annunciando nuove digressioni martellanti, ed anche ulteriori parti sincopate dove regna l'estraniamento dovuto alla distorsione ed alla dissonanza, usate senza remore. Andiamo così ad infrangerci contro un feedbakc rumoroso, sul quale il Nostro urla i suoi versi, mentre fraseggi distorti ci guidano verso il brano successivo. Nonostante la non breve lunghezza della traccia, essa passa come un soffio, fatta di motivi lunghi e ripetuti ad oltranza varie volte, in un songwriting ossessionate ed ossessionato; ma non bisogna assolutamente pensare che questo possa essere il prodotto di pigrizia o mancanza di idee, anche perché diverse volte i Nostri hanno dimostrato di saper costruire brani ben più complicati. Semplicemente, qui siamo davanti ad una canzone che gioca più sull'atmosfera, data però non da sessioni ariose o facili melodie, bensì dall'uso della dissonanza. Così come le parole sono poche e ripetute, così anche i motivi musicali vengono reiterati in un ciclo meccanico che trasmuta in chiave metal la musica industriale più ipnotica e legata al drone. Una sovrapposizione di linguaggi che costituisce allo stesso tempo il fascino, e l'osticità dei Godflesh, difficili da comprendere se si affrontano da un'ottica legata la metal classico e al suo songwriting più lineare.
Monotremata
"Monotremata" parte con una serie di rullanti secchi e caustici, interrotti da brevi pause in un andamento cadenzato, presto ripreso da un riffing marciante e trionfale; ecco quindi striature e montanti dal gusto metal pachidermico, promulgati in una serie di giri circolari ripetuti, granatici e rocciosi. L'insieme di colpi duri e suoni graffianti si dilunga in giochi ritmici, tra i quali vanno ad inserirsi le vocals in riverbero di Broadrick; egli è intento a parlarci di liberta e solitudine, esprimendo un senso di non appartenenza contornato dalla sofferenza, ma anche l'importanza di essere se stessi in un mondo pieno di conformità. La rigidità strutturale del substrato sonoro si alterna a queste parole, quasi a voler rappresentare proprio quel sistema a cui esse si contrappongono. Ci sentiamo liberi, ma anche preoccupati, come dei reietti, ma manteniamo sempre la testa alta, e le braccia innalzate verso il cielo. Fraseggi stridenti e battiti meccanici proseguono nel loro strano groove, creando ancora una volta una sorta di anti-melodia che fa della dissonanza la propria linea guida, in un movimento ossessivo. Riprende il cantato arioso con la sua lezione grigia, ma piena di una sorta di sensazione a metà tra il pathos e la rassegnazione: anneghiamo nel dolore, non volendo appartenere a nulla, senza il bisogno di appartenere. Un contrasto contraddittorio che esprime sentimenti contrastanti, tra la sofferenza della solitudine, e la ferma volontà a non conformarsi e mantenere la propria dimensione, distaccata dal mondo. Quasi a voler esemplificare tutto ciò, le chitarre si fanno ancora più stridenti e dissonanti, in un'orchestrazione caotica che esprime dissidio anche nel suono; intanto il basso greve prosegue con i suoi trotti rocciosi, in un songwriting ben lontano da qualsiasi facile ritornello o melodia accattivante. Non dobbiamo avere paura, per creare queste mura che ci imprigionano, dobbiamo solo ritornare e chinare la testa, così dichiara ora il Nostro, con versi dal gusto astratto, ma che seguono il tema principale della traccia, tra costrizioni che vengono vissute come una minaccia. I galoppi lenti e striscianti proseguono nei loro giochi squillanti, mentre cimbali cadenzati e rullanti decisi segnano il passo ritmico. All'improvviso, dopo una cesura dai passi sospesi e dai fraseggi accattivanti, prende piede una marcia dal gusto thrash, più energetica, ma sempre controllata. Essa va però ad infrangersi presto verso nuovi momenti dilatati, slavo riprendere il suo corso, con una serie di bordate. L'alternanza si ripresenta più volte, mentre suoni stridenti dalle scale alte restaurano climi cacofonici. Ci sentiamo liberi, e sempre lo faremo, tenendo in alto la nostra testa: ecco l'ultimo monito di libertà lanciato da Broadrick, che lascia il posto alla ripetizione di versi precedenti, mentre la musica imperterrita segue il passo marciante fino ad un'ennesima cesura dai timbri evocativi, sconvolta da un nuovo attacco di giri circolari, destinato a collassare presto nelle alternanze ormai ben familiari. Ed è su queste note che s'instaura un ultimo assalto monolitico, in una delle tracce più vicine a momenti metal propriamente detti; la conclusione non può non prevedere distorsioni di chitarra, ripetute con fare cadenzato, fino al silenzio improvviso.
Baby Blue Eyes
"Baby Blue Eyes - Occhi Azzurri" presente il suo nome da un brano della band industrial australiana SPK, presente nell'album "Leichenschrei", tra le ispirazioni ed influenze di Broadrick. La traccia si apre con una melodia dissonante e sbilenca, come una sorta di musica da circo con qualcosa di decisamente sinistro, Il suo passo viene segnato da una drum machine cadenzata, mentre di seguito saranno fraseggi distorti e suoni grevi ad accompagnare l'andamento. Ecco quindi montanti rocciosi e decisi, sui quali il cantante delinea i suoi versi gridati e sgraziati; egli ci illustra scenari di desolazione e perdita di speranza, tra sogni naufragati, schiavitù esistenziale, e spreco di vita in nome dei dettami della società. Seppelliamo i nostri sogni, ed affoghiamo la nostra pelle, ridotti a rovine utili, in parole che mettono in chiaro il corso spietato della tematica portante, mentre i suoni falsamente allegri, e decisamente oppressivi, suonano in modo sarcastico, se collegati a queste parole. Ecco una serie di bordate pestate, sulle quali viene cantato in modo arioso il titolo del brano, ripetendosi varie volte, prima di collimare nuovamente nel movimento contratto ed alienante, mostrando una canzone dal piglio decisamente sperimentale, ma non scevra di momenti chitarristici dal forte impatto. Suoni stridenti e dissonanze si manifestano, lasciando poi il passo a loop ritmici ossessivi ed accordature basse; il cantante prosegue con la sua declamazione, ripetendo le parole precedente in un fare ipnotico e cadenzato, pronto ancora una volta ad aprirsi ad un ritornello arioso, ma volutamente stonato, sottolineato dai colpi duri di batteria e dalle cacofonie di chitarra. Ora il tutto si sviluppa in una cavalcata con giochi ritmici di cimbali e rullanti, con orchestrazioni stridenti e climi vocali quasi paradisiaci, in un'unione di elementi contrapposti che funziona egregiamente, fornendo l'ennesimo esempio del gusto per il contrasto che caratterizza i Nostri, tanto nei suoni, quanto nei temi e nel modo in cui vengono enunciati. Inevitabilmente, ritorna la melodia sarcastica, sempre con un passo pachidermico, presto scosso da riff nervosi e squillanti, seguiti da imponenti bordate decise e dal gusto thrash. Broadrick offre una nuova interpretazione vocale, seguendo tutte le evoluzioni ormai familiari, così come i rullanti di drum machine e le dissonanze in sottofondo; largo a nuovi paesaggi ariosi, immersi nella cacofonia e nei colpi alternati a cimbali decisi. Ma all'improvviso tutto cessa, lasciando solo un loop vocale protratto per alcuni secondi, prima della conclusione della traccia.
Don't Bring Me Flowers
"Don't Bring Me Flowers - Non Portarmi Fiori" è uno degli episodi dal tema astratto, un'immagine quasi poetica dove i fiori per i morti diventano una metafora per il disinteresse e la falsità della persona a cui il Nostro si rivolge, con accenni ad un'aridità interiore che evoca un mondo personale privo di speranza. Un passo felpato, ma duro, con cimbali striscianti e suoni ambientali dal gusto lounge, si protrae, aggiungendo poi ritmi più decisi. Ecco che prende ora spazio un suono arioso ed evocativo di chitarra, dal sapore epico, creando paesaggi sonori ammalianti, che investono l'ascoltatore. Altrettanto ariosa è la voce con effetti in riverbero di Broadrick, la quale delinea come in una cerimonia le sue parole: accusiamo il nostro interlocutore di dire menzogne, una persona che ha cambiato personalità diverse volte nella vita, e i cui fiori non sbocciano, e non sbocceranno mai. I suoni meccanici seguono il loro corso, amplificando per contrasto l'effetto sacrale delle chitarre rumorose, mentre subito dopo troviamo aperture con dissonanze squillanti e fraseggi solenni, sempre strutturate tramite colpi cadenzati di batteria. Una battaglia tra chitarre squillanti e passi ossessivi, monolitici, prende piede, con una calma che sembra voler esemplificare in musica il giudizio espresso dalle parole; il cantato torna quindi con i suoi movimenti quasi spettrali, persi tra nebbie sonore. Vediamo la persona con una rosa, ma tenuta tra i denti, e subito ricordiamo come i suoi fiori non fioriranno mai, dando immagini di aridità interiore, in un testo forse rivolto verso qualcuno di conosciuto, o forse un'ennesima autoaccusa di Broadrick verso se stesso, cosa che succede spesso nei testi dei Godflesh, per lui momenti di introspezione e catarsi, anche fin troppo onesta e brutale. La drum machine mantiene i suoi timbri pressanti, mentre in sottofondo le orchestrazioni squillanti continuano in loop, anche durante le parti più ariose ed evocative, segnate da una bella anti-melodia. All'improvviso prendiamo ritmo con una cavalcata dai suoni alti di chitarra e dal passo più sostenuto, in una marcia trionfale che spacca le ossa, delineata da suoni dissonanti, ma allo stesso tempo arricchiti da un'ennesima melodia nascosta nel caos; essa si mantiene nell'etere anche quando il passo rallenta, portandoci in una dimensione sonora pronta ad aprirsi a soluzioni dilatate e dal gusto ambientale, in una serie di costruzioni ben articolate. Il cantante torna con i suoi modi ormai familiari, delineando da capo il testo della canzone, mentre i passi cadenzati ci preparano ad un' ennesima galoppata robusta, segnata da cimbali ben presenti e chitarre squillanti e dilatate, con una struttura ipnotica che trascina l'ascoltatore verso il finale, dove rimane solo una serie di suoni sgraziati che vanno a perdersi nell'etere.
Love, Hate (Slugbaiting)
"Love, Hate (Slugbaiting) - Amore, odio (Usando Il Lumachidicida)" ci accoglie con un suono cacofonico dall'animo noise-rock, fatto di distorsioni squillanti e colpi di batteria in modalità lo-fi, con vocals che ricordano più uno spettro che grida in lontananza, che un essere umano. Esse illustrano, in modo molto adatto alla musica, scenari di solitudine e di conflitto esistenziale, ripetendo con poche parole il contrasto tra sentimenti di amore ed odio, considerando le relazioni come una trappola, un veleno come quello usato per le lumache, che uccide. Ci sentiamo soli, e questo ci rovina, portandoci in una spirale di amore ed odio, senza la quale non possiamo vivere, ma con la quale ci distruggiamo. E' come un sogno sbagliato, un'ossessione che si ripete in modo ossessivo, tanto nelle parole, quanto nella struttura sonora totalmente votata al caos e a suoni assordanti. L'andamento sferragliante non offre alcun tipo di quiete, portandoci con se come un fiume in piena, senza alcuna possibilità di compromesso; ecco quindi squilli fastidiosi, feedbakc volutamente aspri, e una drum machine confusa tra le nebbie sonore, con un gusto sperimentale molto anni settanta. Probabilmente, siamo davanti all'episodio meno immediato e più distaccato dalla norma dei Godflesh, una sorta di pastiche che, ascoltato oggi, ricorda certo black/death bestiale underground, paragone che non avrebbe certo lusingato il Broadrick dell'epoca, ma che oggi egli stesso probabilmente ammetterebbe, avendo superato i suoi pregiudizi verso il metal estremo di tale matrice. Ecco però, proprio quando siamo convinti di aver inquadrato il brano e la sua natura, che succede qualcosa: un fraseggio con colpi sparsi di piatti e batteria, ci porta ad una dimensione ben più frontale, ristabilendo un mixaggio non più sotterraneo. Ora suoni ipnotici, di matrice industriale, che sembrano usciti da una fabbrica, ci guidano in un lento movimento seducente, sul quale Broadrick dispone la sua voce, ora ben più ariosa ed evocativa. Il loop di ritmica e suoni sferraglianti si arricchisce grazie a parti più gridate e colpi più decisi, instaurando un'atmosfera possente e risoluta, ma anche uno dei tanti "anti-groove" presenti nel disco. Il songwriting mutante si dimostra per l'ennesima volta una delle grandi forze dei Nostri, unendo il pathos emozionante del cantato ai climi freddi e meccanici della musica, dando anche qui forma ai temi di contrasto e dissidio presenti nelle parole. Riff di matrice metal scolpiscono bordate appaganti, mentre collimiamo in fraseggi severi e dilatati, dalle qualità atmosferiche. I passi striscianti di batteria si danno anche a giochi non lineari, mentre assoli in dissonanza hanno breve spazio tra i solchi del movimento. Un traccia che gioca anche sulla sospensione, come avviene nella cesura che segue, fatta di piatti sospesi e suoni pressanti improvvisi, in una marcia strumentale dove riff distorti fanno da substrato. La lunga coda che si va a creare, usa ancora una volta cacofonie sommesse e psichedeliche, in un'atmosfera spettrale ed aliena, ma anche post-moderna, evocando paesaggi grigi fatti di fabbriche e cemento; essa va a perdersi nell'etere, mettendo così fine all'episodio, come un ricordo che si disperde nelle nebbie della memoria.
Pure II
"Pure II - Puro II" è una reinterpretazione strumentale del brano "Pure", qui reso un gioco ben articolato di assonanze e suoni stridenti, feedback e movimenti spettrali e nervosi. Ecco quindi un suono lontano ed evocativo, che si protrae a lungo, aggiungendo poi effetti vibranti dal gusto dark ambient, che si avvicinano sempre di più, collimanti in colpi come da pressa industriale, monolitici e dilatati. Un paesaggio sonoro desolato ed imponente, anzi inquietante, che gioca sull'attesa e sulla suspense, presentando anche loop diafani e momenti squillanti ad alta intensità, esasperati in suoni atonali fatti di suoni stridenti, dal gusto quasi orchestrale. Su questo andamento monotono, che ci riporta alla musica concreta ed alla nowave, incontriamo ulteriori asperità, capendo sin da subito che non siamo davanti a qualcosa di piacevole o di facile ascolto, ultimo scotto da pagare prima di lasciare il mondo dei Nostri. Troviamo anche climi assordanti, improvvisi, subito però stemperati dai fantasmi sonori che fanno gioco sulla dissonanza e sul riverbero. La cacofonia ha però una sua struttura, un movimento che va evolvendo, aggiungendo poi una ritmica strisciate, ma più presente, fatta di suoni da fabbrica, una vera e propria suite industriale che ci riporta all'aspetto più meccanico del genere. La sinfonia astratta e rumorosa prosegue, con feedback continui e toni altisonanti, in un mare sonoro dove è proprio l'ostico a creare fascino, riuscendo anche qui ad evocare quel anti-melodia che caratterizza tutto il lavoro, quella capacità di trovare bellezza ed ordine la dove normalmente viene percepito solo caos e stridore. Il paesaggio sonoro, grigio ed aspro, è ben chiaro, un drone che ad orecchie inesperte può sembrare senza senso, ma che in realtà viene arricchito da sottili variazioni, che ne alterano in modo quasi impercettibile lo sviluppo. Nuove trame dark ambient si mostrano con i loro toni abissali, richiamando alla mente l'opera di Lustmord e i suoi ruggiti cosmici, anche se in chiave più sommessa. Baritoni immensi, trapani ossessivi, continue linee nervose, si sovrastano, alternano, integrano, in un gioco ben calibrato, lontano da qualsiasi dimensione metal, ed appartenenti alla sfera più sperimentale. Nel finale della lunghissima suite, incontriamo loop distanti, che rendono suoni inumani una sorta di cori bestiali, come versi di maiali, aumentando la cifra inquietante del brano, poi disperso nell'etere con effetti di synth epocali e gracchianti.
Conclusioni
Un'opera fondamentale e significativa, non solo nella storia dei Godflesh, ma del metal moderno in toto, capace di aprire porte prima inesplorate, e di avvicinare due mondi che all'epoca potevano sembrare totalmente separati e lontani, ma che invece hanno molte cose in comune, soprattutto nella loro forma più estrema. La disumanizzazione musicale e tematica dell'industrial incontra le chitarre pachidermiche e dissonanti del metal estremo, configurando paesaggi sonori che, tra ritmiche cadenzate ed attacchi graffianti, delineano l'alienazione moderna in un modo unico. Groove ipnotici e minimali, giocati sulla ripetizione, seguono un percorso segnato dalla drum machine, mentre anche la voce, filtrata in riverbero, diventa come uno strumento, un cyborg furioso, ma anche stanco, che narra di un mondo fatto di rapporti distruttivi, menzogne, solitudine, sogni infranti, e fanatismo religioso. Come sempre nella prima fase della loro storia, ma anche dopo, non abbiamo narrazioni dai lunghi discorsi o dalla trama discorsiva: più che pensieri, i testi dei Godflesh sembrano la traduzione in parole di sentimenti trasformati in chiave meccanica, di una base umana fatta di negatività, che diventa fredda e robotica. Un'atmosfera senza pietà o redenzione, dal suono opprimente e senza tregua, che si adatta perfettamente al nichilismo degli anni '90, conquistando diversi ascoltatori alternativi in cerca di qualcosa che esprimesse il loro mood esistenziale; un corso che poi verrà ritrovato anche nel post-rock, nel crossover e nu-metal, nel groove metal più tecnico ed ostico, e anche nel metal industriale che scaturirà in quegli anni. Tutti generi con molti debiti, anche dichiarati, nei confronti dei Nostri, ma che non ripeteranno mai quanto da loro proposto. Il minimalismo calcolato, l'abrasione con anti-melodie che raccolgono in qualche modo la melodia dentro di sé, quell'impossibile connubio tra pathos atmosferico e durezza meccanica, rimarranno qualcosa che solo loro sanno davvero creare, o meglio al quale solo loro sanno davvero dare forma musicale, utilizzando chitarre, bassi grevi, interventi sintetici e drum machine come fini per un qualcosa che va oltre il genere o lo strumento usato. L'innesto di cori e sessioni dalla melodia sintetica offre una contrapposizione spesso mancante alla furia cieca del debutto, incominciando ad ampliare il discorso sonoro dei Godflesh, pur senza stravolgere gli elementi fondamentali di quella fusione tra uomo e macchina che li caratterizza; snare martellanti e colpi duri incontrano loop di chitarre distorte, mentre fraseggi più ariosi evocano una sorta di realizzazione esistenziale piena di solennità. Una certa struttura emerge nel caos, mostrando una band capace di creare brani basati sulla dissonanza e suoni discordanti, sovvertendo le regole del songwriting classico in nome di una sperimentazione senza catene, ma anche capace di offrire momenti di robusto metal e trame mutuate dal post-punk, che getteranno le basi per molto del post-metal a venire. Il risultato piacerà tanto alla band (con un Broadrick generalmente molto severo con le sue produzioni, che lo considererà tra le manifestazioni più oneste e riuscite di quello che la band vuole essere, pur concedendo di essere insoddisfatto dal mixaggio, per lui troppo leggero), quanto alla critica, che lo vedrà come un'evoluzione positiva che non tradisce le basi lanciate in precedenza, ma nemmeno vive di rendita ripetendo quanto già detto e fatto. E sarà proprio su queste basi che proseguirà la carriera della band, tra esplorazioni ancora più approfondite di elementi qui accennati, e anche con l'aggiunta di ulteriori ricerche, anche al costo di mettere in dubbio gli autori stessi della musica. Di sicuro, "Pure" rimarrà un momento topico e per molti aspetti unico della loro discografia, un crocevia che li cattura nel loro primissimo periodo, più fresco e pieno di dirompente energia, e il corso sperimentale che li porterà a navigare in un mare sonoro avventuroso, ma sempre seguendo una precisa direzione. Da qui passa molto del metal alternativo anni '90, e anche naturalmente il futuro dei Godflesh, un album che ancora oggi suona come un mondo distaccato e dalle proprie regole.
2) Mothra
3) I Wasn't Born To Follow
4) Predominance
5) Pure
6) Monotremata
7) Baby Blue Eyes
8) Don't Bring Me Flowers
9) Love, Hate (Slugbaiting)
10) Pure II