GODFLESH

Post Self

2017 - Avalanche Recordings

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
23/12/2017
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Inizia oggi un nuovo viaggio all'insegna della musica, questa volta nella storia di uno dei progetti più importanti per l'evoluzione del metal sperimentale, e soprattutto per la sua fusione con la musica industriale e l'elettronica. Parliamo dei Godflesh, creatura di Justin K Broadrick e G.C. Green, due musicisti inglesi di Birmingham che decideranno di fondere chitarre in loop e ritmiche di drum machine, ispirati tanto dal post punk ossessivo dei Killing Joke, dalla prima scuola industriale dei Throbbing Gristle e dal noise dei Whitehouse, quanto dal suono greve e lento dei primi Black Sabbath e dal grindcore britannico. Ma partiamo con ordine: nel 1982 il bassista Green fonda insieme al chitarrista Paul Neville (in futuro collaboratore dei Nostri sia in studio, sia e soprattutto in sede live) i Fall Of Because, band influenzata dal post punk, ma con derive decisamente più noise e sperimentali, supportata da una drum machine. In contemporanea Broadrick, già dall'età di tredici anni, stava portando avanti suoni dark ambient sotto il nome di Final, ed ecco che nel 1983 egli incontrò gli altri due tramite il loro amico Diarmuid Dalton (più avanti negli anni collaboratore di Broadrick nel progetto post rock Jesu), aggiungendosi alla band come batterista e seconda voce. Il progetto andrà avanti negli anni pubblicando alcuni pezzi, mentre nel frattempo Broadrick diventerà membro dei Napalm Death suonando come chitarrista sul primo lato di "Scum", pubblicato nel 1987, cantando nel pezzo "Polluted Minds" e scrivendo parte dei testi. Tuttavia, il passaggio proprio di Broadrick come batterista nella band post punk/industrial Head Of David (autrice del brano "Dog Day Sunrise", in futuro ripreso dai Fear Factory in "Demanufacture") segnò la fine dei Fall Of Because, ma non della sua collaborazione con Green; solo sei mesi dopo infatti i due uniranno le proprie forze, ed ecco che i Godflesh prenderanno forma, con Broadrick come chitarrista e cantante, Green come bassista, mentre la ritmica verrà affidata alla drum machine. Passeranno gli anni, caratterizzati da dischi storici come "Streetcleaner", "Pure" e "Selfless", sperimentazioni elettroniche di stampo drum'n'bass in "Us And Them" e l'uso di batteristi umani in "Songs of Love and Hate" e "Hymns", mentre Broadrick nel frattempo esplorerà con una miriade di side project mondi diversi dello spettro musicale, dall'hip hop mutante di Techno Animal ed Ice, al dub di Curse of the Golden Vampire in compagnia di Alec Empire degli Atari Teenage Riot. Nel 2001, dopo il disco "Hymns", la band fermerà la propria produzione, con un Broadrick interessato ora ad esplorare prima il mondo post rock e shoegaze con il suo progetto Jesu, poi più avanti la ripresa dell'unione tra industrial e chitarre con Greymachine e l'elettronica sperimentale con JK Flesh, quest'ultimo progetto che in tempi recenti ha conosciuto un'evoluzione di stampo techno industrial. Ma la fiamma non si spegnerà mai del tutto, e a sorpresa nel 2014 prima l'EP "Decline & Fall", poi l'album "A World Lit Only By Fire" riporteranno i Godflesh sulle scene musicali, ancora una volta alfieri di un suono meccanico e monolitico che unisce chitarre mastodontiche e grevi con ritmiche fredde e artificiali; lavori di buona fattura, ma non ai livello dei loro capolavori, comunque accolti egregiamente da pubblico e critica, ma che lasciavano un interrogativo riguardo a quello che sarebbe poi venuto in futuro. Oggi ogni dubbio viene sfatato grazie a "Post Self - Post Io", non solo un lavoro di livello più alto rispetto al disco precedente, ma addirittura uno dei punti più alti della loro carriera, momento di svolta che reinterpreta le radici dei Nostri mantenendo la coerenza di fondo del loro suono, allo stesso tempo proiettando i Godflesh nella realtà della scena alternativa del 2017. Vengono infatti qui generati alcuni brani che si riappropriano dei modi ed elementi del post punk più grezzo e sperimentale, nonché di quelli della prima scuola industriale, con uno spirito però che va aldilà della mera operazione nostalgica, mantenendo l'elemento industrial metal e una freschezza e convinzione che dominano tutto il disco. Per quest'opera i Nostri non hanno fornito liriche, volendo evidentemente sottolineare la natura liberamente interpretabile e volutamente astratta delle loro canzoni, dandoci così la possibilità di dare una nostra personale visione alla loro poetica. Evidenziamo inoltre che le tracce finali bonus sono versioni presenti al momento solo nella versione digitale del disco e nella versione su cd per il mercato giapponese.  

Post Self

"Post Self - Post Io" ci accoglie con un riff secco e greve, presto protratto in un loop meccanico arricchito da piatti e rullanti cadenzati, in una marcia delineata da alcuni fraseggi stridenti, clap, e dissonanze. Ecco che Broadrick interviene con i suoi versi feroci e pesantemente filtrati, veri e propri ruggiti urlati in cui percepiamo a malapena parole come waste (spreco), e in generale declamazioni piene di malevola consapevolezza. Un'atmosfera tipica dei Nostri, che qui sembra riferirsi all'andare oltre l'idea dell'Io, in un'epoca dove l'identità e qualcosa di sempre più astratto e materia di discussione. Nel frattempo, i giri di chitarra asfissianti proseguono, aprendosi ancora a parentesi snervanti, le quali vengono ora seguite da arpeggi drammatici e oscuri, scolpiti da una ritmica pulsante e battagliera, ma sempre monolitica nel suo lento incedere; il tutto viene coronato da nuovi riff squillanti, seguiti dalla ripresa dei versi disumani del cantante, perpetrante il suo messaggio nichilista. La struttura del songwriting è ormai chiara, e ritroviamo il crescendo fatto di suoni dissonanti e sottolineato da oscurità ambient, pronto a degenerare per la seconda volta in una marcia carica di tensione trattenuta: una musica che esprime un conflitto interiore ed esteriore, a malapena trattenuto sottopelle, un dissidio che contamina e non va via, ma nemmeno esplode del tutto, portando ad un'implosione dagli effetti ben più nefasti e duraturi. Loop ariosi dominano dal terzo minuto il brano, creando una cesura carica di pathos, accompagnata da giri di basso grevi; si aggiunge di seguito una drum machine tagliente e battagliera, la quale ci conduce verso piatti tuonanti e finali con feedback di chitarra in digressione. Ecco ora la conclusione dell'episodio, cesellata da arie sintetiche che sanno di calma tra le rovine. Un'analisi sonora quindi di uno stato di alienazione e consapevolezza della realtà in cui siamo immersi, tipico del progetto britannico, nato per esprimere proprio questi fenomeni della società post-industriale tramite una musica altrettanto fredda e disumanizzata, dove spesso le parole più che frasi coerenti, vengono usate a loro volta come strumenti pesantemente distorti, versi sparsi e ossessivi che contengono una rabbia che ha poco di razionale.

Parasite

"Parasite - Parassita" assalta l'ascoltatore sin da subito tramite giri roboanti fatti di riff circolari grevi e ritmiche pestate, con un gusto metal sottolineato da suoni squillanti ed ossessivi. Broadrick entra in gioco con un growl aggressivo ed autoritario, perfetto complemento vocale per il substrato musicale che sa di battaglia in corso; intuiamo parole come "Lies", ovvero menzogne, e in generale una declamazione contro certe persone e i loro comportamenti, individui che agiscono come parassiti, sfruttando il prossimo e succhiandogli energie ed emozioni. I movimenti pachidermici proseguono, andando poi a scontrarsi con bordate dissonanti e rullanti pestati, in una ritmica a tratti sincopata, ma generalmente ossessiva nei suoi quattro quarti marziali. Ritorna il cantato gutturale dedicato alla riproposizione di nuovi immagini, dove veniamo invitati a combattere vanamente contro il parassita, il quale trarrà forza proprio da questo: si delinea quindi un significato che può anche essere sociale e politico, oltre che personale, legato all'azione dei poteri forti e del loro sfruttare la paura e il disagio delle persone, per trarne maggiore potere. Nuove linee rumorose e loop squillanti ci portano verso una cesura industriale, fatta di basso greve ed effetti inquietanti, scolpito da drum machine improvvise, e poi completata da arpeggi severi. Ritorna di seguito la marcia iniziale, ora probabilmente ancora più agguerrita nei suoi attacchi che sembrano scariche di mitra, quasi death metal nella loro natura brutale ed aggressiva; riprende la sequenza con cantato ruggente e movimenti meccanici, destinata ancora una volta a collimare in dissonanze disumanizzanti ed effetti dal gusto industrial, basati su basso, distorsioni, e ritmi freddi. La conclusione, improvvisa, viene affidata ad una dissolvenza di pochi secondi: ci rimane il senso di una tempesta appena passata, la quale ci ha colpiti duramente con le sue scariche, e con il suo messaggio che è risuscito, almeno nell'inconscio, a far presa su di noi. Un mondo pieno di bugie e sfruttamento, dove i rapporti sociali e le istituzioni sono fonte non di accrescimento e sviluppo, bensì di perdita e di decadenza: ecco l'immagine che i Godflesh, cantori da sempre di un'esistenza condotta tra le rovine di ogni speranza e fiducia, riescono a trasmettere perfettamente.

No Body

"No Body - Nessun Corpo" parte con una sequenza disturbata e dai battiti meccanici ripetuti in un gioco ormai familiare all'ascoltatore, un loop ipnotico che viene ripetuto fino all'aggiunta di pulsioni ancora più rumorose e distorte. Ne ricaviamo un'ennesima marcia post-urbana dove le ritmiche della cultura hip-hop diventano qualcosa di totalmente diverso, una tribalità di cemento che narra di fumi, fabbriche, paesaggi grigi e strade piene di desolazione umana; ecco che all'improvviso il cantante esplode nei suoi versi ruggenti, sottolineati da riff drammatici ed asfissianti, gridando come sempre con ferocia le sue declamazioni. Possiamo intuire un testo basato sul gioco di parole del titolo, ovvero quel "nessuno" che così scritto diventa un "nessun corpo", un messaggio dove la solitudine moderna, dove ironicamente grazie alla tecnologia si è connessi con più persone, ma si hanno meno rapporti reali, si lega alla sensazione di estraneità verso se stessi, una perdita di contatto con il corpo e con i sensi, mezzo necessario per decifrare la realtà che ci circonda. La sequenza martoriante prosegue tra loop taglienti e batteria che a tratti assume connotati più veloci, ma sempre dalla natura monolitica e pesante; riprendono i versi disumani, che ci prospettano non-relazioni dove i sentimenti e la comprensione dell'altro non esistono, e dove tutto dipende dalla valenza pratica che possiamo ottenere, sia essa sessuale o di altra natura. Le bordate tempestanti continuano, tra loop meccanici e distorsioni grevi che saturano l'etere: all'improvviso abbiamo una cesura fatta di dissonanze dalle scale squillanti, supportate da una batteria meccanica che poi esplode in colpi duri e veloci, creando un movimento trascinante che colpisce duro. Ci infrangiamo quindi in nuove pause dall'essenza industriale, seguite dal ritorno dei movimenti iniziali, scolpiti da riff solidi e ruggiti ormai "all'ordine del giorno". Il rituale caotico sviluppa nuovi giri ossessivi, e non ci stupiamo per il ritorno delle cesure dissonanti, e nemmeno della corsa picchiata, questa volta però raggiunta da epici effetti ambient-noise, i quali vanno improvvisamente a mettere fine al brano, usando un metodo incontrato spesso all'interno del disco. Una visione distopica del rapporto con sé stessi e con gli altri, dominato da un estraneità rispetto alle nostre emozioni e sentimenti, con un contatto che viene perso sempre di più ogni giorno. 

Mirror Of Finite Light

"Mirror Of Finite Light - Lo Specchio Della Luce Limitata" presenta un'introduzione onirica e tribale, dove rullanti cadenzati e drone evocativi si legano in una galoppata ritmata; ecco quindi riff elettrici che si aggiungono alla composizione, regalandoci un gusto post-punk presto potenziato da inserti etnici e suoni spezzati, ricordandoci certi episodi di band quali The Pop Group ed un certo modo di intendere in chiave sperimentale il genere prima menzionato. Broadrick utilizza questa volta un registro più umano, senza growl, ma con toni monotoni e vocals sovrapposte che creano un'eco estraniante che da definizione ad un'atmosfera acida e disorientante; una visione legata al riflesso, spesso distorto e miope, di noi stessi e della realtà, come appunto in uno specchio dove c'è poca luce, un contorno poco chiaro, metafora di come non ci conosciamo, di come abbiamo tutta una serie di idee riguardo a noi stessi che, spesso a nostra insaputa, vengono disattese dalla realtà. Cacofonie di chitarra e batterie felpate vanno ad alternarsi con un passo lento e quasi meditativo, ma sottinteso da motivi sempre tesi e carichi di tensione; ecco quindi che dopo momenti dalle chitarre drammatiche, si prosegue a più riprese verso un muro di dissonanze, ma non prima di nuove narrazioni che ci donano messaggi di freddo e mancanza di una guida. La struttura è quindi basata su queste improvvise perturbazioni, e al minuto e quarantacinque un fraseggio greve ad accordatura bassa riprende l'elemento atavico iniziale, in una sequenza in loop che ci trascina verso al ripresa del movimento portante; arie sature di ossessione e riff malevoli dominano ancora una volta l'etere, mentre il cantato, volutamente spento e privo di energia, ripetono di una vita in cui manca un amore una volta presente, trasmettendo un vuoto interiore perfettamente caratterizzato dalla musica estraniante. La marcia vira nuovamente verso toni dissonanti, i quali questa volta evolvono in parti atonali condite da campane perentorie in una lunga coda dal gusto sempre più noise e urgente: all'improvviso si passa ad una ritmica minimale dove i toni tribali iniziali sia accompagnano alle gotiche campane e a disturbi sottili, regalandoci un finale che, ancora una volta, è basato su effetti di natura elettronica.

Be God

"Be God - Sii Dio" mette le cose in chiaro sin da subito, grazie alle sue linee di tastiera con cori onirici ed evocativi, sulle quali presto prendono posizione fraseggi grevi ed effetti industriali; ecco che il suono degenera sempre di più grazie a stridenti campionamenti da fabbrica e drum machine potenti, salvo poi aprirsi a momenti di calma apparente con corde bassissime ed elettronica ossessiva nelle sue dilatazioni. Ora la struttura viene raggiunta da bordate baritonali e dissonanze meccaniche, mentre vocals che non hanno assolutamente nulla di umano ci presentano momenti che ricordano il black metal di gruppi quali i Blut Aus Nord (ironicamente, un progetto da sempre grandemente influenzato dai Godflesh) e Deathspell Omega. Qualcosa quindi di "oltre l'uomo" comunica con noi, non di certo in maniera calma o benevola: moti superomistici si legano, nel nostro immaginario, con le manie di onnipotenza e controllo che ossessionano la razza umana, visioni di un mondo devastato proprio a causa di ciò, vengono perfettamente rappresentate nella cacofonia industriale che aumenta sempre di più, ai limite della power electronics. Ritmiche incalzanti e suoni distorti ci accompagnano in un girone infernale, con un passo sempre lento, ma carico di tensione. L'elemento noise è ben vivo, consegnandoci un'epicità al rumore bianco, ennesima espressione del brano che sin dal titolo, vuole comunicare un'esaltazione distruttiva che non lascia scampo; un loop senza molte pause o respiri, varia grazie agli aumenti e alle diminuzioni d'intensità di un caos sempre presente. Broadrick assume ormai connotati più vicini al brusio industriale che all'essere vivente, portando a logico finale il processo di disumanizzazione di suoni e voce, il quale al terzo minuto e trenta esplode in baritoni ed arie drammatiche, dalle note dissonanti e dai colpi sempre più forti e decisi. Un'apoteosi che va poi consumandosi con fraseggi spezzati e dissolvenze in loop, lasciando nella conclusione solo il primo elemento, e poi feedback vibranti: finale di un tour de force dove cogliamo la capacita dei Nostri d'inglobare sottilmente nuove influenze in un songwriting che rimane unico e perfettamente riconoscibile come loro. Il metal estremo dalle derive industriali, che molto deve proprio a loro, serve qui come da spunto per un episodio meccanico, ma allo stesso tempo onirico ed epico, espressione di una divinità artificiale, riflesso del delirio ed esaltazione umana. 

The Cyclic End

"The Cyclic End - La Fine Ciclica" ci accoglie con arie sognanti e ritmi costanti, con un gusto shoegaze dove la distorsione strema diventa fonte di un'anti-melodia che intuiamo sin da subito essere debitrice del progetto di Broadrick, Dalton, e Ted Parsons, ovvero Jesu. Ecco quindi una ritmica lenta e pulsante, sulla quale si stagliano suoni ossessivi e trame vocali questa volta pulite, dove Broadrick delinea immagini di eterni ritorni, tra eventi che avvengono ad oltranza, in un loop ben espresso dalla base musicale non meno continua. Oscurità siderali si aggiungono in sottofondo, dandoci un'atmosfera onirica e severa, presto potenziata da chitarre grevi e dissonanti, incastrate tra batterie cadenzate e linee di synth senza pietà; ecco che una ritmica continua s'inserisce nello strato, portandoci verso l'improvvisa ripresa dei toni iniziali, ben più sognanti. Il brano ci trasmette l'idea di una sorta di sogno dove, a tratti, ci rendiamo conto della realtà: un meccanismo ciclico, senza fine, in cui siamo prigionieri benedetti dall'ignoranza, se non per alcuni drammatici momenti di consapevolezza . Si ripropongono dunque i movimenti già vissuti, i quali ci riportano verso le evoluzioni familiari, tra loop saturi e improvvisi stop dall'aria ben più oscura e malsana; solo questa volta, collimiamo in una serie di bordate doom squillanti e decise, coda egregiamente orchestrata e ripetuta , potenziata poi da fraseggi estranianti. Si genera così una sequenza lenta, ma trascinante, destinata spegnersi in un feedback sintetico che lascia il retrogusto del risveglio. Sicuramente una delle tracce più malinconiche e atipiche dell'album, molto legata al già citato progetto di Broadrick e compagnia, ma anche a tutta la scena shoegaze, tra Slowdive, My Bloody Valentine, e altri esponenti di quel suono che ha dominato l'ascolto di molte persone "disagiate" ad inizio e metà anni novanta, prima dell'esplosione grunge. Una calma soave, e apparente, nasconde nell'ossessione delle parole ripetute e dei loop riproposti ad oltranza, un'opprimente realtà, un'oscura consapevolezza che serpeggia tra strati di accecante rumore reso melodia, un'esperienza fatta per colpire i sensi e stordire.

Pre Self

"Pre Self - Pre Io" parte con chitarre drammatiche e distorte, dal gusto post punk rumoroso e secco, protratte per alcuni secondi in solitario; ecco poi un fraseggio disturbante in sottofondo, altrettanto scarno, presto raggiunto da loop elettronici estranianti. Una drum machine marziale e spaccaossa completa il quadro, fatto di pesantezza industriale caustica e potente, un vero e proprio colpo in faccia. Broadrick arriva insieme ad una serie di riff dissonanti, con vocals in riverbero dove crea immagini nichiliste dove ci ricolleghiamo ad atavici inizi dove la nostra personalità non aveva costrutti e maschere, mettendo in discussione il concetto stesso di Io ed identità; intanto la base sonora si fa sempre più pesante e combattiva, dominata dalla ritmica senza freni, ormai tradotta in bordate distruttive ed asperità di chitarra usata più come elemento di disturbo, piuttosto che come strumento musicale. Mentre il cantato prosegue con la sua narrazione, si aggiungono alla sequenza i fraseggi iniziali, saturando ora il crescendo sempre più caotico, creato da un gioco di somme portato avanti sin dall'inizio della traccia. Superato il terzo minuto, la batteria sintetica passa in rilevanza, colpendo duro con i suoi movimenti secchi, sottolineati ora da piatti cadenzati e loop dissonanti di chitarra; un'epopea sonora carica di tensione e rigida oscurità, per qui è tutto tranne che un dolce ed idilliaco mondo ideale, anzi viene qui mostrato una sorta di caos primordiale pieno di tempeste striscianti e scosse improvvise, un magma dal quale è pronto ad emergere qualcosa di terribile. Ecco che ora il pezzo va a scemare nel finale, mettendo però in primo piano le chitarre sature e strazianti, mentre Broadrick ripete in loop i suoi versi, concludendo il tutto con una chitarra ad accordatura bassa in solitario. Ennesima trama sonora dei Nostri piena di un'urgenza che non esplode in cavalcate veloci ed attacchi diretti, corrodendo invece man mano il passo ritmico e sonoro, aggiungendo pesantezze ed elementi caotici fino al raggiungimento di un pathos catastrofico che è perfetta esemplificazione dell'atmosfera che si vuole trasmettere, dando messaggi che spesso non possono essere convogliati dalle sole parole.

Mortality Sorrow

"Mortality Sorrow - Dispiacere Della Mortalità"si delinea con suoni grevi e ossessivi, partendo con chitarre ad accordatura bassa e batteria cadenzata, mentre intrusioni meccaniche creano un'ossatura cibernetica poi sostituita da synth epocali e sinistri, in seguito raggiunta da vocals in vocoder che trasmettono una sensazione di distacco dall'umanità, elemento che come da titolo crea spesso dolore e dispiacere, completando la trama estraniante e di matrice sintetica che compone il brano. Una sorta di new wave malata e parecchio corrotta, fatta di strutture analogiche sulle quali vengono sovrapposte tastiere vintage cariche di malinconia e cantato freddo e filtrato. Broadrick è qui più che un cantore, uno strumento tra i tanti, immesso tra i movimenti ciclici del suono; superato il minuto eventi improvvise bordate e suoni più opprimenti ci assaltano, mantenendo però sempre un'imperturbabilità agghiacciante. Ora i movimenti precedenti proseguono sul nuovo elemento, dando una certa energia spenta al pezzo, tra cimbali cadenzati e ossessioni di synth. Quest'ultimo rimane poi in solitario alla fine della coda, creando un ponte onirico che raggiunge dall'altra parte nuovi terremoti sonori e vocals ancora una volta sottoposte all'effetto de filtro, espressione di un cyborg malevolo che rantola; andiamo quindi ad evolvere per l'ennesima volta in drammi di synth e attacchi metallici di batteria, creando un loop devastante protratto fino all'unione di elementi che domina ora la traccia. Ancora una volta è il synth a rimanere sulla scena in solitario, ricreando quell'ariosità improvvisa che fa da contraltare alle ossessività precedenti; ed è così che si chiude il tutto, tra cori in sottofondo e digressioni verso il nulla. In pratica, una sorta di "episodio strumentale non strumentale", dove l'attenzione è del tutto spostata sull'atmosfera generata dalla musica, mostrando ancora una volta l' abilità dei Nostri nel convogliare certe sensazioni non tramite le parole, spesso ripetute in modo semplice e senza un vero pretesto narrativo, bensì tramite i suoni e le strutture da essi instaurate tramite i cambi, le sovrapposizioni, i passaggi di consegne. Altro tassello in una seconda parte dell'album decisamente più sperimentale, vero cuore della natura del lavoro qui analizzato.

In Your Shadow

"In Your Shadow - Nella Tua Ombra" si apre con bordate grevi e ritmi secchi, in una coda doom dalle implosioni continue, la quale poi si arricchisce di pulsioni urbane dal gusto hip hop. Ecco che ora i colpi di batteria si uniscono a fraseggi post punk in un'atmosfera lisergica e ossessiva, all'improvviso contornata da vocals ultra distorte che non hanno assolutamente nulla di umano e comprensibile, espressione di qualcosa di orribile (la nostra ombra? Il nostro lato oscuro?) che non attende altro che divorarci, o almeno rinfacciarci i nostri errori e bassezze. Un'unione di elementi che sulla carta potrebbe suonare come poco coerente o facilmente caotico, ma che nei fatti viene condotto magistralmente, facendo funzionare perfettamente ogni parte del meccanismo in funzione del risultato finale; viene qui dunque creato un suono "hardcore", strisciante come da tradizione della band, saturo e granitico. Verso il minuto e cinquanta la scena viene controllata da riff metal dissonanti e frenetici, uniti a ritmiche dai cimbali ossessivi. Si raggiunge così una cesura greve fatta di fraseggi secchi e colpi ripetuti, pronta a riportarci alle strutture urbane iniziali sulle quali poi tornano i vari elementi, tra chitarre estranianti e vocals disumane. La narrazione robotica prosegue, mentre la tensione sonora rimane palpabile, pronta ad esplodere per l'ennesima volta in un riffing macilento e potente, contornato sempre da cimbali pulsanti e colpi sicuri e decisi; ora andiamo a degenerare in un loop dal gusto noise, bombardato da ritmi sincopati ed aspri, raggiungendo una struttura ipnotica fatta per collimare in un muro finale fatto di feedback in loop. Si chiude quindi così una traccia potente ed ossessiva, ennesima espressione di un suono mutante, ma mai senza senso e direzione, qui decisamente vago nel suo indecifrabile significato, a causa della voce totalmente trasformata in qualcosa di proveniente da un altro mondo, ma sicuramente non legato a qualcosa di rassicurante. 

The Infinte End

"The Infinte End - La Fine Infinita" è la grande conclusione della versione standard dell'album, introdotta da chitarre a tutta distorsione e battiti in riverbero, elementi che sin da subito catturano la nostra attenzione immergendoci in un'atmosfera carica di pathos; dopo oltre un minuto di preparazione, una batteria cadenzata e movimenti marziali completano il quadro, consegnandoci una trama sonora suggestiva, potenziata da linee di synth magistrali ed eteree. Un oceano emotivo completato finalmente dalla voce di Broadrick, qui dai tratti dilatati grazie ad un riverbero continuo, supportato da una tensione che sale insieme a begli arpeggi evocativi, creando un culmine che trasmette perfettamente una sensazione di fuga dal tempo e dalla realtà, in un un immenso e infinito loop che protrae oltre le barriere del tempo un finale che non sembra tale. Trovano qui spazio molti elementi già visti nel disco, tra suoni shoegaze e malinconie sintetiche, senza dimenticare chitarre grevi ed ossessive, il tutto però al servizio di un crescendo che, in altri contesti, potremmo associare ad una ballad finale. Sale quindi l'impatto dell'episodio, tra cantato sempre più altisonante e suoni dal muro sempre più deciso e presente; rullanti di doppia cassa danno energia al tutto, trascinandoci verso un tripudio che libera tutta la tensione finora trattenuta, ma non con un'esplosione violenta, bensì con una magnifica sequenza di synth ammaliante e cosmica, ricca di elementi soavi, contornati però dal passo distorto dei fraseggi di basso e dalla drum machine fredda e continua, poi coadiuvata da riverberi evocativi. Siamo quindi lasciati al finale puramente sintetico, nota dal sapore ambient e "kraut" che ci riporta ai Tangerine Dream di inizio carriera. Perfetta chiusura sia per il pezzo, costruito tutto su crescendo emotivi e sovrapposizioni di elementi, sia per il disco tutto, mostrandoci il lato più etereo e sognante del suono dei Nostri, senza rinunciare ad una certa malinconia disperata di fondo, marchio dei Godflesh anche nei momenti più rilassati. Una trama cosmica che esprime un finale eterno, una non-fine che sa di rimpianto, ma anche di superamento di ogni emozione e fragilità umana: la dicotomia uomo-macchina, individuo-società si ripresenta sempre, anche se in una chiave esistenziale a spettro ampio e dalle diverse interpretazioni possibili.

Parasite (Alternative)

"Parasite (Alternative)" è la prima delle versioni bonus contenute nella versione digitale dell'album, acquistabile da bandcamp, e in quella su cd per il mercato giapponese. Si tratta di una reinterpretazione in chiave caotica e minimale del brano principale contenuto già nella versione standard del disco, dai connotati più secchi e severi. Essa parte con un brusio tagliente in loop, presto unito a colpi potenti ed oscurità in sottofondo, poi sostituite da chitarre cadenzate e squillanti. La produzione non offre qui il groove della versione definitiva, dandoci invece una sequenza scarna dove i ruggiti di Broadrick hanno ancora più rilevanza, messi in primo piano tra le raffiche di chitarra e le dissonanze in loop che seguono poco dopo, qui ancora più estraniante. La sensazione è quella di un demo dallo spirito ancora meno edulcorato e dall'impatto destante, una versione che qualcuno potrebbe preferire a quella definitiva, e che di sicuro ha una sua presenza e ragione di esistere. I riff circolari proseguono con il loro gusto marziale, accompagnati da fraseggi atonali, conducendoci verso il ponte fatto di bordate grevi, suoni inquietanti, e ritmica cadenzata. Ecco che l'enfasi sale grazie a piatti concitati, mentre di seguito giochi di riff potenti dal gusto death e colpi potenti di batteria si alternano. Il cantato ritrova posto tra gli elementi sonori, mentre si ripetono le evoluzioni ormai familiari, ritrovando sia passaggi scolpiti, sia digressioni grevi e sospese; il finale vede un'ultima cavalcata dai ritmi incalzanti e dalle striature ripetute, firmata da una digressione in solitario. Come detto, un'interpretazione più minimale e dall'ossatura ben in vista, vicina ai suoni del disco precedente, e quindi con tutta probabilità in realtà una versione precedente a quella poi usata come principale.


The Cyclic End (Dub)

"The Cyclic End (Dub)" già dal nome ci presenta una versione del brano legata al sottogenere del reggae dove si mantengono batteria e basso, filtrando il tutto tramite riverberi ed echi. Ed è infatti quello che qui succede, enfatizzando la natura onirica delle distorsioni e rendendo i suoni di basso dei veri e propri terremoti sonici accompagnati da suoni che ricordano tamburi da guerra. Le vocals diventano versi distanti e dilatati, mentre l'atmosfera si fa lisergica e decisamente più opprimente rispetto all'originale. Tutto si dilunga, dilatato in strati ripetuti; ecco al secondo minuto un fraseggio in riverbero, scandito dalle batterie altrettanto manipolate, sottintese da una bassline pulsante e graffiante. Si raggiungono così effetti cosmici e suoni grevi che ricordano il post rock più pesante e monolitico, mentre ritornano anche le vocals modificate. L'effetto complessivo è vicino a certo stoner e sludge metal, con un'atmosfera allucinata e confusa, ben delineata sia nel lento incedere del basso, sia nelle improvvise aperture. Al quarto minuto si aggiungono note severe, presto però alternate da nuove chitarre ariose in una lunga sequenza dall'incedere controllato, ma ciclico e continuo; pulsioni e fraseggi sognanti si uniscono poi ad echi che salgono sempre di più, perdendosi poi in una digressione che diventa un loop protratto come un feedback nell'etere. Sostanzialmente quindi una versione che allunga i tempi e filtra i vari elementi del brano originale, risultando più un esperimento su quest'ultimi, piuttosto che una traccia votata all'ascolto per fini di godimento estetico. Detto questo, rimane indubbio che l'operazione sia stata eseguita magistralmente senza lasciare nulla al caso, complice l'esperienza di Broadrick in tali territori musicali, maturata in vari progetti come Techno Animal e soprattutto Curse of the Golden Vampire

In Your Shadow (JK Flesh Reshape)

"In Your Shadow (JK Flesh Reshape)" è l'ultimo remix, questa volta eseguito con il nome usato da Broadrick quasi si avventura in territori post industriali dall'elettronica ben marcata, e in esplorazioni legate alla techno britannica di derivazione industriale e post punk. Ecco quindi un fraseggio secco scolpito da un battito di cassa e dissonanze ripetute, presto raggiunto da effetti tribali dal gusto primitivo. Una ritmica notturna va ad instaurarsi tra connotati minimali ed ossessioni da dancefloor alternativo; le vocals disumane dell'originale acquisiscono qui una valenza più musicale, pur rimanendo totalmente lontane da qualsiasi comprensione. Ora la struttura si fa ancora più incalzante, e non è per nulla difficile immaginare il passaggio del pezzo in un luogo come il famoso Berghain di Berlino, tra trame suadenti ed oscure, e suoni compulsivi che si fanno man mano sempre più violenti grazie ad una drum machine distorta che ricorda sferzate di frusta; ad essa si aggiungono snare ripetuti, ma subito dopo andiamo a finire in un loop evocativo, sul quale strisciano movimenti di base elettronica. Ritorniamo quindi ai suoni iniziali del remix, pulsanti e ora sconfinanti in un effetto ovattato da vinile, con l'inconfondibile brusio della puntina sul solco, sul quale prosegue l'andamento: si va quindi a chiudere il tutto, mettendo fine ad un interessante rivisitazione che si dimostra essere quella più funzionale tra le tre presenti, trasformando il pezzo in un numero da pista oscura. I legami tra Broadrick e il mondo techno, recentemente cementificati tramite una serie di EP e album a nome JK Flesh, vengono a galla, ma naturalmente seguendo una linea sempre sperimentale insita nel Nostro e in tutto ciò che tocca. 

Conclusioni

Un disco che, dopo quasi trent'anni di carriera, riesce a ricreare il suono della band, ma non attraverso l'aggiunta di elementi prima esterni e modifiche radicali, bensì anzi riprendendo il fulcro e le radici dell'inizio del gruppo, e trasportando il tutto nel 2017. Le varie sperimentazioni ed esperienze di Broadrick degli ultimi anni, tra le uscite in ambito post-industrial e techno come JK Flesh e la frequentazione di personaggi chiave della scena noise e techno-industrial odierna quali Dominick Fernow (Prurient, Vatican Shadow, proprietario dell'etichetta Hospital Productions) Samuel Kerridge, e Regis (Karl O'Connor, creatore del così detto Birmingham sound e una delle menti dietro l'etichetta Downwards Records), hanno di sicuro contribuito a creare in lui un nuovo interesse ed impeto verso certi suoni, unito anche alla rivalutazione da parte sua del black metal più sperimentale, e in generale al clima musicale e culturale che si respira al momento in Inghilterra e Germania. Se con il precedente "A World Lit Only By Fire" i Nostri hanno riscoperto gli elementi base del loro suono, ovvero drum machine, chitarra e basso, riportandoli in primo piano, ora su questi elementi vengono aggiunti strati ripresi tanto dal primo post punk, quanto dall'elettronica anni settanta e dalla prima scuola industriale, senza però dimenticare gli aggiornamenti più recenti tra incursioni metal ed elementi shoegaze; il risultato è un suono rinvigorito, convincente come non mai, e con un'energia creativa e una potenza di espressione che ci riporta ai primi, rivoluzionari dischi della band, senza però copiarli. Un'atmosfera distante, ma allo stesso tempo malinconica, senza speranza, ossessiva, domina tutto il disco, anche nei momenti più umani ed emotivi, marchio di fabbrica dei Godflesh sin dagli albori del progetto, e partendo da questi piccoli accorgimenti e cambi di rotta donano ad ogni traccia una sua identità, senza però eliminare la sensazione di star ascoltando un album con un'evoluzione, e non una semplice raccolta di tracce. Se infatti i primi pezzi suonano molto legati a quanto la band ci ha abituato nel tempo, dopo le cose cambiano grazie ad un estro sperimentale che domina la parte centrale e finale del disco. Non è da tutti riuscire a proporre un album così importante nella propria discografia dopo tutto questo tempo, ma è chiaro che il ritorno sulle scene del progetto dopo tanti anni di silenzio non è stato dettato da un mero interesse economico legato al nome, bensì ad una reale nuova linfa vitale che sta dando i suoi frutti. A conti fatti "Post Self" suona come il vero nuovo inizio dei Godflesh, completamente immersi nella realtà contemporanea, ma anche senza tempo nel loro suono greve e saturo che non è mai stato legato a mode o momenti storici, regalandosi quindi al capacità di risultare sempre attuale, coerente, ma in qualche modo diverso. Le loro grandi passioni sono tutte qui: batteria sintetica fredda e ossessiva, chitarre grevi a metà tra doom e post punk, basso altrettanto rumoroso, inserti di synth, vocals distaccate, ossessive, spesso inumane, espressione nichilista di un mondo privo di emozioni e di una realtà grigia e dissociante. L'ombra dei Killing Joke, dell'esperienza industriale, del noise prima scuola, del hip hop britannico più urbano, aleggia sul tutto, ma qui è accompagnata da nuove intuizioni che chiamano in gioco anche astrazioni tedesche, tra Tangerine Dream e lavori soliti di Klaus Schulze, il black metal dissonante della scuola francese ed islandese, e tutte le proposte moderne che sono sorte in Europa ed America mischiando con disinvoltura e mancanza di reverenza EBM, industrial, post punk, minimal wave e quant'altro. Tutto questo, vale la pena di ribadirlo, senza mai copiare o seguendo semplicemente una linea: il dono di Broadrick è quello di prendere, inglobare, assimilare e riproporre in maniera propria le cose, caratteristica che qui si ripropone perfettamente. L'ascolto del disco offre un'esperienza a metà tra l'incubo e la catarsi, un'offerta di spazi sonori saturi e neri dove si può raggiungere l'estasi nell'ossessione, ma nei quali non viene offerta nessuna risposta, bensì la fredda descrizione dei fatti e di come viene percepita la realtà. I momenti più onirici ci ricordano le "ballad" di dischi quali "Selfless" o "Hymns" nella loro fragilità allora inedita nel suono meccanico dei Nostri, mentre gli episodi più violenti e disumani ci riportano allo spirito di "Streetcleaner", e le trame elettroniche ed industriali a "Slavestate" e "Pure", il tutto comunque rivisto e filtrato secondo i dettami e le suggestioni sopra elencate. Un suono autentico e convinto, che ammalia l'ascoltatore e lo porta dentro di sé con grande efficacia; i Godflesh si confermano come una delle realtà in assoluto più importanti per il suono post-metal da fine anni ottanta in poi, ancora una volta conduttori e non seguaci, ma allo stesso tempo curiosi e voraci verso il mondo musicale che li circonda. Il cerchio quindi prosegue riportandoci alle sensazioni vissute agli albori della band, ma il nostro viaggio è a ritroso, ed è per questo che analizzeremo in seguito il già citato "A World Lit Only By Fire", ritorno dei Nostri dopo più di dieci anni di silenzio, il quale non ha la stessa pregnanza di questo episodio, ma si configura comunque come un tassello importante nella storia del progetto inglese, punto da cui partire per trovare i risultati odierni. 

1) Post Self
2) Parasite
3) No Body
4) Mirror Of Finite Light
5) Be God
6) The Cyclic End
7) Pre Self
8) Mortality Sorrow
9) In Your Shadow
10) The Infinte End
11) Parasite (Alternative)
12) The Cyclic End (Dub)
13) In Your Shadow (JK Flesh Reshape)
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