GODFLESH

Messiah

2000 - Avalanche Recordings

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
15/04/2018
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Prosegue il nostro viaggio nella discografia dei Godflesh, pionieri britannici del industrial metal propriamente detto, principalmente composti dal duo G.C Green/Justin K Broadrick. Siamo ad inizio millennio, e i Nostri sono reduci da un'uscita controversa e divisoria, anche per loro stessi: parliamo di quel "Us And Them" pesantemente influenzato dagli interessi paralleli di Broadrick di stampo elettronico, in particolare dalla drum 'n' bass e dall'elettronica più caotica e sincopata. Un album che, secondo lo stesso Broadrick, rappresentava la crisi d'identità e la perdita della propria strada da parte dei Godflesh, tanto che per anni lo odierà considerandolo il loro episodio meno riuscito. In realtà l'album è tutto tranne che di pessima fattura, ma è chiaro che, consapevolmente o meno, il musicista inglese sentiva sempre più il bisogno di esprimersi in modi anche diversi da quelli della materia sostanzialmente "metal" della band, incoraggiato in questo dai suoi vari progetti paralleli tra cui Techno Animal e Curse Of The Golden Vampire insieme ad Alec Empire degli Atari Teenage Riot. Passato quindi un anno, i Nostri si ripropongono con Messiah - Messia, un EP composto da quattro tracce originali ed altrettanti remix in chiave dub di queste ultime, per un totale di otto brani totali. Uscito inizialmente nel 2000 in edizione di mille copie per l'etichetta di Broadrick stesso, ovvero la Avalanche Recordings, e poi ristampato nel 2003 dalla Relapse Records, si tratta di una raccolta di pezzi registrati in realtà tra il 1994 ed il 1995, ovvero nel periodo di uscita dell'album "Selfless". Troviamo quindi un suono ben più vicino a quello classico dei Godflesh, con inserti elettronici presenti, ma limitati, drum machine ossessiva, ma dalle inflessioni hip hop in alcuni frangenti, e chitarre grevi unite ad un basso distorto, qui più sognanti e lontane da estremismi puramente metal. Elementi che concorrono ad un mood grigio, marchio di fabbrica della band, come sempre espressione di un nichilismo e di una rabbia che si esprimono anche nei testi criptici e dai versi ripetuti, aperti all'interpretazione dell'ascoltatore, più messaggeri di sensazioni ed emozioni, piuttosto che racconti o frasi descrittive dal senso compiuto. Un lavoro che sembra quasi voler riassumere il punto della situazione alla luce di quello che verrà; infatti dopo il successivo "Hymns", disco caratterizzato da elementi molto più rock e crossover, ma sempre nichilistico, la band conoscerà una serie di eventi (l'abbandono di Green, crisi di panico da parte di Broadrick e conseguenti cancellazioni di tour e debiti economici) che porteranno alla fine del progetto dopo più di dieci anni di attività. La storia dei Godflesh vede da una parte una leggenda cementificata in una serie di opere che hanno definito un genere e dato una nuova visione della musica estrema, dall'altra una fragilità umana che vedrà i Nostri, soprattutto Broadrick, spesso in dubbio e non contenti con quanto realizzato. Una fragilità che in realtà sarà indissolubile da quella rabbia caustica che infonde il loro suono, altra faccia della medaglia e dazio inevitabile per un'energia creativa tanto forte da prosciugare e richiedere un'immersione che non può lasciare indifferenti. Il contrasto tra l'idea di ciò che dovrebbero essere i Godflesh e il sempre più crescente desiderio da parte di Broadrick di avventurarsi in mondi sonori diversi, da un lato lo shoegaze ed il post-rock, dall'altro l'elettronica più sperimentale e caustica, si fa sempre più vivo e pressante, ormai pronto ad arrivare alle estreme conseguenze. Per ora però ci troviamo davanti a quattro tracce che rappresentano molti elementi essenziali del suono della band britannica, tra sperimentalismo, arie malinconiche e climi urbani.

Messiah

Messiah - Messia parte con un arpeggio di chitarra presto raggiunto da un riffing circolare roccioso, ricco di movimenti grevi, ripetuti in loop e scolpiti da suoni metallici di drum machine, condotti da cimbali ossessivi. Un'introduzione potente per un brano che tratta dal concetto di redenzione, legandosi ad un profeta, un messia, capace di vedere la verità e le menzogne, destinato ad essere crocifisso. Un tema "spirituale" aperto a varie interpretazioni, giudizio della società, e probabilmente anche della propria vita personale, in un mondo dove la redenzione è un concetto spesso astratto e lontano dalla realtà. Tutto questo viene esplicitato dalle vocals in eco di Broadrick, pulite e dalla cadenza da mantra: Il messia vede la verità altrui, conosce le menzogne degli altri, ed ecco che gli intimiamo di darci del fuco, ripetendo ad oltranza la richiesta con un cantato ora sottolineato da cori più aggressivi, anche se sempre umani. I suoni di chitarra si aprono ora in fraseggi melodici, di buona fattura e dalle arie epiche, dandoci una serie di belle costruzioni sonore destinate a scemare però nei giri claustrofobici precedenti. Ora il protagonista vede la propria croce, e sarà nostro destino dare colpa alla nostra perdita. Ecco che riprendiamo a chiedere il fuoco, ripresentando il concetto varie volte; l'evoluzione sonora è familiare, e non ci sorprende la ripresa del passaggio più melodico prima incontrato, sempre strutturato in andamenti circolari delineati da piatti cadenzati e sorretti da melodie melliflue. Questa volta però incontriamo anche montanti pieni di pathos, summa di un clima emotivo sotterraneo presente in tutto il brano, e manifestazione dell'anima più melodica presente nel lavoro. Essa ci porta con sé, trascinandoci fino ad una cesura dal fraseggio greve, pronta a collimare nel movimento delineato dalla ritmica tagliente e dai loop di chitarra secchi e minimali. Broadrick sospira ancora una volta la sua cantilena, sempre tra supplica ed intimazione, pronto a lasciare poi posto alla terza reiterazione del motivo sognante dal sapore progressivo, coadiuvato da alternanze ritmiche. Ritroviamo anche i climi sognanti, concludendo l'episodio su una nota decisamente epica, sottolineata da una digressione finale in dissolvenza.

Wilderness of Mirrors

Wilderness of Mirrors - Giungla Di Specchi ci accoglie subito con arie aliene e dissonanti, scolpite da una ritmica hip hop spezzata e marciante, delineando un clima urbano che si muove tra elementi lisergici ripetuti, presto però sostituiti da chitarre appassionanti dal gusto sludge, caratterizzate da un'accordatura bassa. Broadrick s'inserisce in tutto questo con modi serpeggianti, trattando di temi legati a dubbi personali e rimorso, in un'introspezione che evoca l'immagine di una serie di specchi che mettono a nudo le nostre paure e pensieri, uno dei temi spesso toccati dal Nostro durante la carriera della band. Ci intima di rimanere indietro, di non muoverci, di non guardare, mentre la musica prosegue con la sua marcia ossessiva: questo perché è uno stupido, sempre in dubbio, e lo ripete, dandosi la colpa per il fatto che non c'è mai per gli altri, mettendo in luce il proprio rimorso. Queste ultime parole vengono espresse con ritornelli urbani immersi in filtri pieni di eco, reiterando quell'aria distopica e distorta che domina tutto il brano, ma aggiungendo elementi emotivi epici che sanno di climax liberatorio, Segue una nuova sequenza strisciate, sottolineata da rumori come di gas in fuoriuscita, mentre una ritmica dai beat spezzati s'incastra con i riff in loop rocciosi e dilatati. Ritorna il cantato lontano e spettrale: il Nostro declama come tutto questo sia suo, di come si senta libero, ma l'insieme assume un connotato sarcastico quando conclude con un "è tutto tuo", negando quanto appena detto. Riecco quindi il ritornello portante, sempre caratterizzato da un input emotivo sommerso in distorsioni ed effetti disorientanti, tagliati da arcate rocciose ed arpeggi ossessivi. Rincontriamo quindi gli effetti elettronici serpeggianti, collimanti in una bella sequenza dalle chitarre notturne, seguiti poi da giochi dissonanti di chitarra ben più rumorosi e squillanti. Tornano le vocals lontane, mentre la marcia urbana prosegue con tutte le caratteristiche ormai familiari, ritornelli incitanti compresi. Ora la parte strascinate vede la ripetizione di parole come "indietro", "tagli", ""mio", "tuo", dandoci una sequenza legata al cut-up di Burroughs, ricca di elementi sincopati ed urbani, fondo sonoro perfetto per le parole ripetute con vigore. Gli arpeggi notturni prendono di nuovo posto nella scena, intersecandosi con esercizi ritmici sintetici ed effetti di vario tipo, regalandoci un motivo psichedelico dal gusto della jam session. Un'ultima coda finale che si conclude con un ultimo arpeggio, segnato dalla parola "finito" e da effetti elettronici crepuscolari che chiudono così l'episodio.

Sungod

Sungod - Dio Sole si presenta con trame sincopate segnate da piatti cadenzati e chitarre distorte ad accordatura bassa, instaurando un clima roccioso amplificato da una ritmica quasi tribale. Ecco che intervengono dei classici fraseggi notturni, marchio di fabbrica dei Nostri, completando il quadro sonoro con montanti ritmici duri e meccanici, grazie all'uso della drum machine in tandem con un songwriting che potremmo definire "funky", per quanto non certo allegro o facile. Broadrick interviene con il suo cantato filtrato, parlandoci di concetti astratti e di interpretazione personale, delineando immagini di guerre perdute, di luce, e di terrore della carne. Le sue vocals risultano sdoppiate, dandoci un'impressione malevola ed allucinata che ben si adatta alla trama sonora greve qui portata avanti: egli ha combattuto guerre perdute, e nel vedere la luce ha paura della vista, apre la sua mente e ha bisogno di carne, mentre ha paura della propria. Parole senza un senso chiaro e razionale, bensì suggestioni ed espressioni poetiche che trovano perfetto completamento da parte della base sonora pesante e dalla ritmica ossessiva e monolitica, riempita da chitarre altrettanto striscianti e corrosive. Ecco che collimiamo in una sequenza potente, fatta di montanti stridenti e colpi duri, creando un suono saturo ed accattivante, poi guidato dai suoni notturni e dal basso in loop. Riprende quindi la sessione iniziale, con i suoi strimpellii urbani e i suoi passaggi lisergici grevi, così come la voce suadente e disorientante del cantante; egli apre la sua mente, mentre ancora ha bisogno della carne temendo la sua, vede le bugie altrui e si sente triste per esse. I temi allucinati hanno corrispondenza con gli arpeggi squillanti e i riff circolari e rocciosi, parti di elementi post-rock che al secondo minuto e cinquantotto si sfogano in drammi di chitarra sorretti da ritmiche militanti e bordate grevi, raccogliendo un'energia che si fa sempre più imperante e sentita, un vero e proprio mantra di guerra. Ritroviamo di seguito la coda più cadenzata e trascinante, motivo principale del brano, mentre Broadrick ripete sempre in modo serpeggiante, quasi sospirato, la sua nera lezione. Nuove cavalcate, nuove implosione granitiche, perdurano in un episodio dove non mancano di nuovo digressioni drammatiche e passaggi marcianti. La struttura quindi reitera i suoi modi in un passaggio ritmico che ci conduce fino alla conclusione segnata da un feedback dissonante di chitarra dal gusto tecnico, trascinato per diversi secondi prima di perdersi nell'oblio.

Scapegoat

Scapegoat - Capro Espiatorio parte con un suono a metà tra un tuono ed un'esplosione, roboante e potente, subito dopo seguito da un fraseggio squillante intersecato con una ritmica spezzata e delineato da giri grevi e piatti cadenzati. Una ritmica urbana si ripropone, portandoci verso chitarre stridenti ricche di riff taglienti e dilanianti, mentre le vocals aggressive di Broadrick trovano spazio nella struttura del brano. Egli ci parla della figura del capro espiatorio, di come addossandosi tutte le colpe si diventi la scusa degli altri per sentirsi meglio, sentirsi buoni e nel giusto. Un tema che si adatta sia a livello personale, sia a quello sociale e politico, e che si mantiene attuale tutt'oggi; egli sarà la vittima, rimanendo giù e buono, adorerà il prossimo mentre trascina tutto giù. Nel frattempo la musica rimane greve ed incessante nei suoi giri in loop, coadiuvati da montanti dilatati ed altrettanto corrosivi. Un bel riffing dal gusto rock, ma altamente macilente e meccanico, si propaga mentre continua il cantato: sarà una vittima, che abbia ragione o torto, e se avrà ragione sarà colpito comunque, per quanto a torto. Il clima si fa sempre più delirante ed impulsivo, giocato su assonanze e ritmiche ossessive e ripetute, intervallate da colpi metallici e chitarre rocciose e disorientanti. Al secondo minuto e mezzo un motivo assolutamente stridente domina la scena, una sorta di locomotiva sonora sferragliante, poi scolpita da cimbali e chitarre arrugginite. Proseguiamo poi con le grida assertive, piene di eco, che ripetono le parole di Broadrick con rabbia, raggiungendo un pathos che completa l'andamento crepuscolare della traccia. La conclusione vede una breve dissolvenza, la quale porta all'improvviso il tutto verso l'oblio, lasciando solo il silenzio. Un episodio che chiude la prima metà del lavoro con toni certamente caustici e vicini alla natura più caotica della band, con grevi suoni e ritmiche striscianti, spezzate ed ossessive.

Messiah (Dub

Messiah (Dub) apre la seconda aperta del lavoro, fatta di rivisitazioni in chiave dub dei brani principali prima ascoltati; ecco quindi un andamento pesante e greve, giocato su suoni distorti e pieni di effetti in riverbero, i quali avanzano inesorabilmente. Anche le vocals di Broadrick vengono rallentate, rimanendo però comprensibili, pur nella loro qualità cosmica, o meglio psichedelica. Un arpeggio frastornato si leva nell'etere, sorretto da fraseggi delicati e giochi ritmici pacati, che danno un'ossatura al tutto. Ecco che si aggiungono effetti meccanici e diafani, mentre il basso segna ancora una volta il corso del brano. Troviamo una cesura dal gusto progressivo, sulla quale riprende il cantato, ricco in questa rivisitazione di un enfasi sacrale, mistica ed evocativa. Le linee di chitarra si uniscono alla batteria strisciate, dandoci una totalità votata al movimento sornione e felpato; non viene persa la bella sequenza melodica dell'originale, qui anzi ancora più presente nella sua malinconia grazie alla struttura più minimale e scheletrica. I cimbali suonano come sonagli di serpente, mentre sarà poi la parte ritmica a prendere posizione centrale sulla scena, portandoci con se verso la riproposizione del cantato, accompagnato da suoni distorti in sottofondo. Nuovi fraseggi secchi e dissonanti, nuove parentesi ritmiche, ripropongono quanto sentito, consegnandoci poi le melodie emotive, coronamento della traccia in ogni sua versione qui proposta. Ecco quindi il gran finale, lasciato alla batteria marziale e a digressioni di chitarra accennate.

Wilderness of Mirrors (Dub)

Wilderness of Mirrors (Dub) è la seconda versione dub di uno dei brani già ascoltati, qui arricchita dall'impianto originale già urbano e sincopato nella sua natura hip hop. Suoni squillanti, giochi dai rullanti ritmici ed effetti dilatati danno il passo, poi completati da riff grevi, dominanti un'atmosfera psichedelica. Broadrick si ripropone con vocals piene di filtri, ancora più scarne però ed umane, delineate da suoni stridenti, che ricordano fughe di gas. Riprende piede la batteria spezzata, mentre prosegue la lezione del cantato, individuato però da pause disorientanti, e poi scolpito dall'uso abbondante di riverberi. Un suono lento, monolitico, che ben si adatta alla natura dub della traccia, e in generale ai modi dei Godflesh, striscianti e votati all'elemento roccioso e pachidermico. Nuove asperità s'intersecano con il substrato urbano, non dimenticando parentesi cosmiche ed arpeggi dilatati. Tra le vocals abbiamo anche striature quasi orchestrali, con toni non lontani dal dramma cinematografico, ma perdurano i momenti lisergici, ricchi di un suono "space" giocato tutto su effetti, dilatazioni, e distorsioni. Largo quindi ad un gioco ritmico in riverbero, sul quale si librano i suoni, poi rilasciati nuovamente in marcette trascinanti. Una summa di effetti che in mani meno abili sarebbe stata di troppo, ma che invece qui riesce a dare una seconda vita alla canzone, riuscendo allo stesso tempo a seguire i dettami del genere utilizzato, ma anche ad avere una propria impronta personale, riconoscibile anche nel finale in digressione, sempre più saturo di effetti.

Sungod (Dub)

Sungod (Dub) ci accoglie con ritmi e frastaglianti e chitarre grevi, distorte nei loro passi lenti sottolineati da cimbali in riverbero. Una sequenza dissonante si libra sul tessuto sonoro, dandoci la cifra di una sessione giocata su ritmi decisi ed atmosfere alienanti. Anche le vocals di Broadrick ricevono un trattamento estraniante, diventando quasi dei fantasmi sonori inseriti tra gli strumenti, i quali proseguono con la loro marcia meccanica e pachidermica. In questa versione dub il tutto acquista una dimensione ancora più mortifera ed acida, immergendo elementi doom in un calderone di effetti, riverberi e dilatazioni sonori. Si prosegue su questa linea come in un mantra, ed ecco che superato il secondo minuto abbiamo una cesura sottolineata da fraseggi ad accordatura bassa, uniti alla voce suadente del cantante, poi delineati da ritmiche sincopate e distanti. Nuovi fantasmi sonori intervengono regalandoci un viaggio psichedelico,non estraneo a giochi ritmici e bordate accennate, così come a spettrali atmosfere in sottofondo. Una lenta marcia si struttura grazie a questi elementi, vivace nel movimento, ma sempre mortifera nella sua essenza. Si ripetono gli elementi ormai familiari, conducendoci tra arpeggi squillanti che si intromettono con gusto antagonista, dandoci un aria caustica riproposta anche negli andamenti spezzati che seguono poco dopo. Il finale non può non essere lasciato ad un loop frastornante di chitarra, protratto per diversi secondi fino alla conclusione improvvisa di questa rivisitazione estraniante e ricca di elementi urbani e lisergici.

Scapegoat (Dub)

Scapegoat (Dub) è l'ultimo remix del disco, aperto da un suono statico presto sottolineato da colpi filtrati; giunge subito dopo un fraseggio greve unito a ritmi sincopati dalla natura trip hop, molto anni novanta nel loro movimento strisciate e spezzato, sconvolti da alcune linee elettroniche. Ecco le vocals di Broadrick, ora filtrate in modo tale da collocarsi tra il cavernoso e il robotico, contrastanti con i suoni altrimenti felpati e controllati, dalla struttura minimale, ma spesso sconvolta dall'arrivo di suoni stridenti e dalla matrice industriale. Riecco quindi il cantato distante, accompagnato dalle linee elettriche, sospese tra ritmi tribali ed arpeggi ben presenti nella struttura sonora, Nuove abrasioni e nuove pause vengono proposte, così come fraseggi ritmati e passaggi lenti, come nella cesura giocata tutta su un suono roccioso, poi sovrastato da grida ricche di filtri. Riecco dunque la batteria dai rullanti sincopati, vera ossatura per gli interventi sporadici di una chitarra dilatata; ma ecco che all'improvviso rimane solo un feedback dal sapore drone, il quale prosegue in un loop perdurante molti secondi. Si riprende altrettanto all'improvviso con gli elementi più familiari del pezzo, sempre controllati e pachidermici, pronti però ad unirsi a nuovi momenti di elettronica cosmica e statica, così come ad esercizi di piatti cadenzati. Mantra vocali e parti di batteria ancora più presenti ci conducono con loro, mentre esploriamo le possibilità sonore date dall'uso pesante di riverberi e di suoni minimali, andando quindi a collimare con asperità stridenti, nuove marcette sature ed arpeggi uniti a distanti suoni corrosivi. Si continua su questa modalità, fino alla conclusione dove i cimbali ritmati lasciano lo spazio ad un feedback prolungato, epitaffio tanto della traccia, quanto del lavoro qui recensito.

Conclusioni

Un mini album che, pur facendo riferimento a brani dell'allora recente passato della band, sembra voler fare il punto della situazione sul loro presente, una sorta di summa del loro suono che tiene conto di elementi nuovi e vecchi. Troviamo infatti il loro classico suono greve, minimale e mastodontico, ma in una chiave più rock e psichedelica, condito da ritmiche hip hop meno industriali, ma non meno accurate ed incisive, e da momenti melodici cari alle evoluzioni del periodo precedente. Mancano invece quelle incursioni nettamente drum 'n' bass tipiche dell'album precedente al lavoro qui recensito, le quali saranno cronologicamente posteriori, e legate solo adesso. Quattro tracce che arricchiscono il repertorio dei Nostri, dando la possibilità al pubblico più largo di entrare a contatto con un "anello mancante" del loro suono. Le trame urbane qui presenti si ricollegano a quanto fatto con la batteria umana di "Songs Of Love And Hate", mentre la matrice rock ed alternative ci ricorda "Selfless", andando quindi a darci una visione filologica completa per quanto concerne lo sviluppo della direzione intrapresa dalla band negli anni. Inoltre, la presenza delle rivisitazioni dub anticiperà una tendenza ampliamene sfruttata negli anni recenti, mostrando già l'amore di Broadrick per il genere, spesso esplorato con i suoi progetti paralleli. Ironicamente, quest'opera diventerà largamente diffusa solo dopo lo scioglimento della band, rimanendo per i più come una sorta di epitaffio postumo, pur gettando luce sulla prima metà degli anni novanta e su quello che per molti versi è stato il periodo più camaleontico per i Godflesh, nato dall'irrequietezza creativa di un Broadrick che, consciamente o meno, incominciava a combattere con se stesso, diviso tra la sua idea di ciò che la band doveva essere, e la sua voglia di esprimersi in altri modi, non solo con le sue varie avventure sotto i più disparati monicker. Non è un caso che nei lavori precedenti compaiano suoni che si discostano in alcuni frangenti, pur in una struttura familiare e fedele alla natura del progetto, dalle trame metal dalla natura doom e pachidermica a favore ora di elementi hip hop, ora alternative o post rock, ora elettronici e sincopati. Insomma, un calderone che porterà allo scioglimento della band per circa dieci anni, e alle avventure sonore che porteranno Broadrick a comparire come nome di punta di svariati tipi di elettronica, nonché del post rock sperimentale dal sapore shoegaze. E se guardiamo all'album uscito poco prima del duemila, ovvero il controverso "Us And Them", questo spirito e contraddizione diventano quantomeno palesi e ben presenti: si tratta del lavoro ripudiato per diverso tempo da Broadrick stesso, pesantemente contaminato dalla drum 'n' bass e dalle strutture hip hop della frangia più elettronica del genere, un lavoro dove le chitarre non scompaiono, ma spesso non sono protagoniste, rimanendo assenti in alcuni episodi anche per molta parte dei brani. Sulla carta un passo falso, cosa che sembra confermata dal giudizio severo del cantante britannico, sempre insicuro e mai soddisfatto veramente: niente di più falso. In realtà il disco è un ottimo esempio di come, incredibilmente, i Godflesh non perdano mai gli elementi principali che caratterizzano la loro natura, anche quando sperimentano con il proprio suono. L'alienazione urbana è ancora evidente, così come le trame pesanti, le vocals inumane, i passaggi grevi; semplicemente, gli "spazi vuoti" vengono qui riempiti da un'elettronica battagliera e da un'urgenza che sa di minaccia e tensione perenne. Un'opera insomma che paga il prezzo di essere figlia di un artista terribilmente esigente, ma che se vista per quello che è, ci rivela un'ennesima, avvincente evoluzione per quella che non a caso è considerata spesso la band estrema più coraggiosa, ma allo stesso tempo più riconoscibile e dal suono definito. Ecco quindi che il nostro viaggio a ritroso si concentrerà proprio su questo disco, apolide in una discografia dove in realtà nessun album suonerà mai veramente uguale ad un altro.

1) Messiah
2) Wilderness of Mirrors
3) Sungod
4) Scapegoat
5) Messiah (Dub
6) Wilderness of Mirrors (Dub)
7) Sungod (Dub)
8) Scapegoat (Dub)
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