GODFLESH
Merciless
1994 - Earache Records
DAVIDE PAPPALARDO
13/10/2018
Introduzione Recensione
Il 1994 è un anno molto importante e produttivo per i Godflesh, il duo inglese (Justin Broadrick e G.C. Green) padrino del metal di matrice industriale più monolitico e greve. Infatti non solo in quella data venne dato alle stampe "Selfless", disco che segnò il passaggio tra il primo periodo della band, più caustico e pesante, ed il secondo, all'insegna di aperture verso strutture più rock e lati più umani e vicini a certo post-rock e shoegaze, ma poco prima anche l'EP "Merciless - Senza Pietà", una sorta di addendum ed ulteriore rielaborazione del suono proposto nel precedente album "Pure", del 1992. Se in quest'ultimo disco, infatti, trovavamo un suono capace di filtrare in chiave più atmosferica ed oscura i classici elementi della band, ovvero chitarre ad accordatura bassa e drum machine ossessive e gelide, con "Merciless" (dove partecipa anche il chitarrista Robert Hampson, che però aveva già abbandonato il progetto all'uscita del disco) viene rivisitata quella che era la loro carriera finora, dando due nuove interpretazioni di pezzi appartenenti al passato recente, ed in un caso alla preistoria del progetto, e presentando nuove nuovi brani che sperimentano molto con ritmiche "aliene" e movimenti meccanici, in uno stile che Broadrick stesso battezzò come "biomechanical mix". Il risultato è un suono inedito per l'epoca, capace di evocare scenari da fantascienza oscura, tra commistioni di carne e metallo (elettronica asciutta e dissonante, e chitarre altrettanto stridenti e minimali), manipolazioni di elementi urbani derivati dal hip-hop, ed ambientazioni sonore ora rarefatte, ora caustiche. Un suono sempre più mutante, che trova le sue basi nei due artisti, cresciuti assorbendo contemporaneamente il rock classico, la musica industriale, il metal più aggressivo, e tutta una serie di suoni elettronici, nonché il post-punk ed il post-rock, ed utilizzando tali elementi nel loro songwriting senza remore di sorta. Un'avventura nata nel 1982 con i Fall Of Because, progetto creato da G.C Green insieme a Paul Neville, caratterizzato da tendenze noise e sperimentali in campo post-punk,nel quale sarebbe poco dopo entrato un giovanissimo Broadrick, già attivo con il moniker Final, usato per produzioni dark ambient. Passeranno gli anni, e Broadrick parteciperà come chitarrista, cantante, e songwriter al seminale album dei Napalm Death "Scum", ed entrerà a far parte della band post punk/industrial Head Of David. Questi impegni segneranno la fine dei Fall Of Because, ma non della collaborazione tra i due: ecco infatti che, dopo solo sei mesi, nascono i Godflesh, risultato finale di una gestazione durata anni, e piena realizzazione della visione musicale e tematica voluta dal duo, manifestazione dell'alienazione moderna e della civiltà post-industriale fatta musica. Nascerà così una delle carriere più particolari e robuste (sia nel senso del suono, sia della qualità della proposta) della storia della musica moderna, un progetto unico, anche imitato, ma mai eguagliato, capace negli anni di esplorare diverse strade, ma allo stesso tempo di mantenere una base, un'essenza, che è impossibile non riconoscere. L'insieme di movimenti pachidermici, ritmiche inumane, vocals ora ruggenti, ora sommesse, ed un grigiore esistenziale generale, sarà il marchio di fabbrica dei Nostri, che darà il via ad una concezione del metal distante da quella portata avanti fino ad allora da molti gruppi, capace di attirare anche il pubblico alternativo che fino ad allora snobbava il genere. L'EP qui recensito è un'ottima punto per capire il mondo dei Nostri, il loro suono, e la loro estetica minimale, distaccata, ed intransigente; la copertina è presa dal film sperimentale del 1943 Meshes of the Afternoon, della cinematografa americana/ucraina Maya Dere, un lavoro astratto ed onirico, ispirato dal surrealismo e dai problemi psicologici. Un legame perfetto con il suono dissonante, ma allo stesso tempo strutturato, la "follia con metodo" che caratterizza l'EP, e la carriera dei Nostri nella sua totalità.
Merciless
"Merciless - Senza Pietà" è la rielaborazione di un vecchio pezzo dei Fall Of Because, qui trasformato da un brano noise/post-rock con parti quasi black (si ascoltino le vocals piene di riverbero dell'originale, anche se probabilmente l'obbiettivo era più quello di evocare certo post-punk torturato), in uno juggernaut industrial metal più raffinato e pesante. Non c'è qui un vero e proprio testo, o meglio, le poche parole espongono in maniera astratta concetti di aggressione, mancanza di pietà, prevaricazione, ed incapacità di capire il prossimo. Uno spaccato che potrebbe legarsi alla violenza quotidiana, un quadro sonoro che evoca un mondo impersonale e freddo, marchio di fabbrica tematico dei Nostri. Un effetto dissonante in levare prende sempre più piede, poi sovrastato da un riff greve e roccioso, costellato da piatti cadenzati e dalla ritmica marciante. Un basso ancora più cavernoso completa il quadro, consegnandoci un affresco sonoro meccanico e stridente, perfetta colonna sonora per le vocals manipolate di Broadrick: non viene mostrata pietà, mentre veniamo sbattuti sul terreno e presi a calci, e noi stessi non sentiamo dolore, ormai privi di emozioni o sensazioni, totalmente distaccati da tutto, e dall'altra parte chi compie l'atto di violenza, è totalmente sordo verso ogni suono. Un movimento dalla matrice doom, ma mutata in qualcosa di più freddo e t6agliente, ci trascina con sé, presentando solo leggere variazioni grazie a modulazioni di andamento da parte delle chitarre. Un loop quindi ipnotico, dove elementi metal ed alternativi si legano in ondate sonore sottolineate a fase alterna da cimbali combattivi e colpi duri. Ecco che superato il secondo minuto, muri di chitarra caotici si levano insieme ad un cantato più sentito ed alto, creando una sequenza capace di darci un qualche tipo di risposta emotiva, pur mantenendo un'atmosfera algida e "crudele", o meglio indifferente e pressante nella sua monoliticità. Un perfetto esempio dell'evoluzione lenta, ma costante, del suono dei Godflesh, qui capace di offrire passi post-rock e ritornelli immersi in effetti in riverbero, raggiungendo un climax che, grazie al contrasto, da ancora più senso alle parole espresse dal Nostro. Si torna quindi alla marcia costante, in un suono dal drone violato da chitarre magistrali, dove il rumore diventa suono grazie all'effetto esaltante dei suoni squillanti; essi rallentano di seguito, seguiti da cimbali cadenzati e ritmiche sospese. Ritroviamo quindi il panzer granitico di inizio brano, ora però unito alle improvvise onde a trapano, in una costruzione minimale, ma dal grande impatto,fatta perdurare fino a collassare in una coda fatta di suoni dissonanti e fraseggi grevi,portata avanti fino alla sua naturale conclusione. Qui la band riesce a rielaborare il proprio passato ed i semi qui contenuti, convertendo il caos originario in un golem d'acciaio, ma non privo di tratti capaci di fare leva sulle nostre emozioni più istintive, ed anche ad una certa malinconia esistenziale. Ancora non siamo nella piena emanazione di questi elementi, ma qualcosa si sta muovendo, e delle prime "fessure" si mostrano nell'armatura dei Godflesh.
Blind
"Blind - Cieco" tratta della cecità intesa come chiusura mentale ed emotiva, con riferimenti velati all'ignoranza vista come forza dalle masse, che preda della loro paura si affidano a facili utopie. Un suono dissonante e cacofonico prende piede, trascinandoci con sé fino all'introduzione di cimbali cadenzati. Ecco quindi che si aggiungono riff pesanti e passi cadenzatati di drum machine, sottolineata nella sua meccanicità da suoni industriali di sottofondo; Broadrick interviene con le sue vocals rauche e filtrate, perfette per delineare le sue parole pregne di vuota disperazione. I suoi occhi sono ciechi, e non riesce più a sentire nulla, come se avesse una mente inesorabilmente morta. Le parole trovano corrispondenza nella freddezza della musica, in un gioco di sinestesia dove tematica e sonoro diventano imprescindibili, e dove quest'ultimo dice più delle poche parole. Ora un andamento più ritmato ci consegna una sorta di ritornello dal basso greve, che invoca sferza continue. Si giunge così ad una cesura industriale con riff secchi ed effetti di synth inquietanti, dedicati ad un momento dal gusto cinematico; il rapporto di lasciate e riprese si arricchisce con ritmiche picchiettanti e dissonanze quasi sinfoniche, le quali s'incastrano di seguito con il cantato malevolo. La paura viene vissuta come forza, ci fa sentire sicuri, mentre non sentiamo più nulla e siamo da soli, utilizzando la debolezza come forza. La musica diventa sempre più minacciosa, ma sempre dal passo pachidermico, anche quando ripropone il ritornello martellante, destinato a collimare in nuove parti abissali di basso e suoni stridenti. La struttura quadrata evoca perfettamente le atmosfere asfissianti e senza colore del testo, dandoci un cyborg sonoro che è rappresentazione dell'estetica e degli intenti artistici dei Nostri, fautori di un suono allora unico, ma che già stava influenzando diversi generi ed artisti dello spettro alternativo, dal post-rock, al crossover, al industrial metal. Una resa dell'alienazione post-moderna, di un mondo sempre più privo di umanità e rapporti; intanto il brano si stabilizza ora su ambientazioni severe, scosse da riff nervosi. Ritroviamo di seguito le dissonanze notturne ed un Broadrick sempre più inumano, sottolineato prima dalle sinfonie stridenti, poi anche dalle bordate di basso. I modi ormai familiari si ripresentano, con uno stile industriale tanto aggressivo, quanto ammaliante nella sua anti-melodia. Si prosegue dunque su questa linea, giungendo alla coda finale fatta di cimbali sospesi e suoni corrosivi dilatati nell'etere. Una fabbrica sonora che è figura di quel gusto "biomeccanico" che caratterizza i Godflesh del periodo, legati a pochi elementi usati però egregiamente in un songwriting ossessivo, dove l'unione di musica industriale e metal genera qualcosa che è ben più della somma delle due parti.
Unworthy
"Unworthy - Non Meritevole" tratta con pochissime parole del non sentirsi non degni degli altri, tenuti su un piedistallo, condizione che ci porta a mettere in discussione la nostra stessa identità. Un tema che può essere legato a vari contesti, al sociale, al politico, o alle relazioni sentimentali, come sempre con i Nostri più un accenno, una sensazione resa verbalmente, che un discorso compiuto. Un suono sferragliante introduce i pezzo, supportato da un basso greve, e da una batteria fredda e cadenzata; ecco che all'improvviso distorsioni industriali sconvolgono l'impianto sonoro, accompagnate poi dalle vocals di Broadrick. Ovunque vadano gli altri, noi vediamo oro, percependo che non siamo degni, e mettendo pure in dubbio la nostra identità. Pochissime parole, ripetute in un mantra caratterizzato da un'ossessione perfettamente riassunta nei moti sonori pachidermici e ritmati; i versi in riverbero si perdono tra i rumori graffianti e gli attacchi ad accordatura bassa. Un mondo caotico ed asfissiante, resa perfetta, ancora una volta, dei temi solo accennati dalle parole, viste quasi inutili e vano mezzo umano usato per esprimere qualcosa di troppo complesso, che solo l'atmosfera caustica della musica può davvero rappresentare. Un suono post-industriale che trova la sua forza nella trasmutazione degli stilemi metal in qualcosa di diverso, fagocitato, digerito, e reso in forma spezzata e nervosa. Non è difficile, ascoltando la traccia, capire l'influenza dei Nostri verso band quali i Meshuggah,che partiranno da certi suoni per creare le proprie claustrofobie basate su corridoi sonori. Al secondo minuto ed otto torniamo sui movimenti taglienti d'inizio brano, segnati da un fraseggio severo, sempre scolpito da ritmiche marziali e secche. L'andamento pesante ci riconduce ai suoni come di vapore che fuoriesce da tubi in una fabbrica, mentre il cantante ripete con energia la sua lezione. Colpi duri, distorsioni rocciose, ed effetti vari, si uniscono in un mantra che è simbolo di una mente devastata, destinato a collimare nuovamente nei passi striscianti e granatici. Questa volta però il posto viene poi lasciato a bordate squillanti, in un gioco ritmico incastrato di seguito con i soliti suoni industriali. Non c'è traccia di melodia o struttura convenzionale, con una ripetizione ossessiva delle variazioni da noi ormai familiari, in una fabbrica sonora che si ferma all'improvviso, come se fosse stata tolta la corrente. Qualcosa che oggi forse non ci suona più così sconvolgente, dopo anni di sperimentazioni, ma che all'epoca era inedito e nuovo, una dimensione sonora che andava oltre gli stilemi e le facile convenzioni.
Flowers
"Flowers - Fiori" è una rielaborazione remix del brano "Don't Bring Me Flowers" tratto dall'album "Pure", qui reso un mantra pulsante e quasi del tutto strumentale, rimanendo solo la ripetizione vocale della parola che da nome alla traccia. Un loop elettronico, come un bip ripetuto, introduce la costruzione sonora, andamento tanto sommesso quanto ossessivo e ripetuto, presto però violato da un riffing tagliente in levare. Una marcia sonora che si avvicina sempre di più a noi, contornata da suoni elettrici, sempre squillanti e pulsanti, pronta ad esplodere in una serie di dissonanze di chitarra. Ecco quindi un'orchestrazione greve, basata su giochi di botta e risposta con baritoni evocativi e distorti, in un atmosfera allo stesso tempo ipnotica e grigia. Il songwriting estremamente minimale prevede pochi elementi, ripetuti con una sorta di rassegnazione esistenziale, di ineluttabilità, che trova perfetta conferma nella ripetizione ciclica della musica. Così come l'originale, nelle sue poche parole, non dava spazio alla speranza o al perdono, così qui è la musica a trasmettere tale messaggio. Le chitarre creano una lenta locomotiva arrugginita, destinata a muoversi tra i binari sonori costituiti dagli effetti ipnotici, mentre le dissonanze ci consegnano paesaggi sonori desolati, come la visione da un finestrino durante il passaggio. Ecco che all'improvviso Broadrick interviene con versi stanchi e quasi lamentevoli, ripetendo la parola "flowers-fiori" come un tetro monito; in sottofondo la musica si mantiene stridente e gracchiante, con una matrice ostica ben calibrata tra suoni distesi e ripetizioni. Qualsiasi possibilità di esplosione, di climax, viene negata, mostrandoci uno dei punti cardine dei primi Godflesh, ovvero la mancanza di facili strutture musicali legate ad alternanze classiche tra ritornelli e passaggi che vogliono ammaliare: l'ossessione industriale penetra qualsiasi aspetto della musica, e questo avviene ancora di più in questa versione "scheletrica" volta a rendere tutto ai minimi termini. Come uno spettro il cantato si lamenta tra le atmosfere distanti date dai vari suoni ed effetti, mentre l'accordatura bassa non cessa il suo loop tra dissonanze e pulsioni, con un gusto quasi dub che tornerà in futuro in forma ancora più esplicita. Ed è solo nel finale che giochiamo per sottrazione, spogliando prima il fraseggio secco, poi le chitarre ossessive, ed infine gli effetti elettronici. Una chiusura quindi che non punta certo a lasciare estasiato l'ascoltatore, e che fa decisamente capire perché i Nostri non sono un gruppo facile da apprezzare o capire al primo tentativo, in primis in questa fase della loro carriera.
Conclusioni
Quattro tracce, due inediti e due remix, che fotografano perfettamente lo stato della band alle soglie dell'uscita di quell'album, ovvero "Selfless", che segnerà l'inizio di un nuovo corso dove elementi più umani prenderanno più piede con influenze shoegaze e post-rock più marcate, così come con synth più eterei e cosmici, pur mantenendo le asperità ed ossessività strutturale tipiche dei Nostri. Qui, per ora, sono queste ultime ad avere ancora il centro dell'attenzione, grazie a movimenti meccanici e dissonanze ipnotiche, riff pesanti e vocals da cyborg con un'anima. Il risultato è perfettamente in linea con quello che erano stati i Godflesh fino ad allora, soprattutto con il precedente "Pure" e le sue atmosfere grigie e sinistre contornate da momenti più melodici, ma che aggiunge alcuni piccoli tocchi che preparano per quanto verrà. Osservando la discografia del duo, notiamo che questa è una costante: ogni uscita, che sia un album, un EP, un singolo, è la variazione costante di un tema comune, di quel suono tipico dei Godflesh dove i dettami del metal, della musica industriale, dell'elettronica, e del rock alternativo vengono sovvertiti, fusi, destabilizzati, diventando qualcosa di impossibile e contraddittorio, ma che incredibilmente funziona e riesce a trasmettere contemporaneamente sensazioni opposte. Ecco quindi che malinconia e freddezza, disperazione umana e rigore meccanico, dissonanze, distorsioni, fantasmi di melodie, si uniscono in episodi sonori che, anche quando ostici, catturano e trascinano l'ascoltatore grazie ad una sorta di groove e "musicalità nell'anti-musica" che permeano il songwriting della band. Nei ricordi di Broadrick, questo è il periodo più onesto riguardo a quello che i Godflesh erano nati per ottenere, e probabilmente lo avevano detto; ma come una creazione che non vuole sparire ed essere distrutta, il progetto prenderà una vita propria, e per ironia della sorte il cyborg diventerà sempre più umano, ben più che solo l'applicazione di suoni inusuali ed ostici. Ma le emozioni ottenute non sono paradisiache, e in ogni caso la band rimane l'espressione di un malessere moderno che non riesce ad urlare la propria oppressione schiacciante, se non attraverso quella della musica pachidermica ed imponente. Nonostante il successo commerciale, inteso sui criteri delle altre band metal, non verrà mai raggiunto, la critica spesso apprezza enormemente gli intenti artistici del duo, cosa a conti fatti forse miracolosa data la natura del loro suono difficilmente inquadrabile. Il segreto, probabilmente, sta nel fatto c'è metodo nella follia, nulla è lasciato al caso, nemmeno i loop interminabili con lo stesso suono ripetuto ad oltranza, nemmeno i ritmi non regolari o la sgradevolezza vocale: un ascolto attento e conscio mostra sempre che tutto torna, che c'è un filo, una struttura, una via traversa che non è quella regolare a cui siamo abituati, ma che è lì. E' come se la mente di Green e Broadrick funzionasse su un piano diverso, alieno, ma in qualche modo familiare, come se parlassero all'inconscio dell'ascoltatore, come se risvegliassero cose a cui non vogliamo pensare. Il confine tra controllo e primordiale, tra macchina ed animale, si fa sottile, si sfalda, le cose si confondono. Una band metal per chi normalmente non ascolta metal, ma anche una band sperimentale per chi normalmente ascolta solo metal, i Godflesh sono apolidi e senza terra per definizione, e questa è la loro fortuna, che permetterà di dare conto solo al giudizio del duo, soprattutto di Broadrick; l'altra faccia della medaglia sta però nel fatto che proprio il cantante e musicista inglese si dimostrerà negli anni severo verso se stesso e la propria creatura, arrivando a livelli di ossessione e rimorso nei confronti di quanto fatto, sentendo ad ogni deviazione di tradire l'ideale iniziale. Insomma, la musica trasmette sempre di più qualcosa di reale, un'angoscia esistenziale e un'agitazione che appartengono veramente ai Nostri, e che alla lunga porterà al momentaneo scioglimento. I semi sono tutti già qui, anche se all'epoca naturalmente nulla poteva essere predetto o previsto; per il momento i Godflesh sono un duo abbastanza misterioso per molti, che mostra al mondo qualcosa di allora musicalmente inedito. Ed è con questa ottica che il nostro viaggio prosegue a ritroso, ritrovando uno dei momenti più industriali e glaciali della loro discografia, ovvero il già nominato "Pure".
2) Blind
3) Unworthy
4) Flowers