GODFLESH
In All Languages
2001 - Earache Records
DAVIDE PAPPALARDO
23/02/2019
Introduzione
Siamo nel 2001, un anno importantissimo per la storia dei Godflesh (G.C Green e Justin Broadrick), alfieri britannici dell'industrial metal propriamente detto, pionieri del genere e ispiratori anche di altre correnti tra cui il post-metal e l'alternative. Si concludeva infatti momentaneamente la carriera dei Nostri, segnata da quello che era allora il loro album finale, ovvero quel "Hymns" che proponeva un batterista fisico nella figura di Ted Parsons (ex Swans, Killing Joke e Prog) e un suono dai connotati più hard rock e tradizionali, ma sempre caratterizzato da un songwriting atipico e a tratti meccanico. Poco prima di tutto questo, viene pubblicata la raccolta qui recensita, il doppio "In All Languages - In Ogni LInguaggio", contenente ben 28 tracce, tra cui alcuni b-side rari e remix, e accompagnato concettualmente da un DVD separato, con i cinque video della band fino ad allora realizzati; si tratta di un sunto della carriera del gruppo fino a quel momento, con alcune delle tracce migliori mai pubblicate dalla band, una sorta di compendio che racconta tramite la musica qui contenuta la storia dei Godflesh, il loro sviluppo, evoluzione, esperimenti, e natura rimasta uguale alla radice, pur nelle loro diverse emanazioni. Ricapitoliamo con ordine: nati dalle ceneri della band post-punk/sperimentale Fall Of Because, i Nostri sconvolsero il mondo del metal alternativo con "Streetcleaner" del 1989, un disco dove la perfetta sintesi tra estetica e suono industrial e metal diede luce ad un ibrido, allora, inedito e violento, perfetta rappresentazione della realtà alienante della società post-industriale. Qualcosa di pachidermico, asfissiante, disumano, capace di portare alle estreme conseguenze la lezione del doom, del grind, dell'industrial, del post-punk più grigio e sperimentale, creando un suono difficilmente inquadrabile, ma che in poco tempo divenne simbolo della band, rispettata tanto dal pubblico metal più estremo, quanto da quello punk e alternativo. Il successivo EP "Slavestate" rimescola le carte in gioco ed aliena alcuni fan della prima ora, a causa dei suoi suoni più elettronici ed elementi techno, mostrando già una band che era pronta a seguire un proprio percorso, a volte in contrasto non solo con il pubblico, ma addirittura con le aspettative degli autori stessi della musica, in particolar modo di quel Broadrick sempre diviso tra coerenza e voglia di sperimentare. Il secondo album, "Pure", segue invece un discorso più industriale, incominciando a dare spazio al lato più malinconico e umano della band, elemento che incomincerà a prendere sempre più posto in future release tra le quali il disco "Selfless", dai connotati elettronici e shoegaze più marcati, e il controverso "Us And Them", che da una parte esplora ancora di più un certo suono rarefatto, dall'altra si abbandona ad influenze drum'n'bass sfrenate. "Songs Of Love And Hate" mette in gioco elementi più urbani e gli interessi del cantante verso le strutture hip-hop, disco accompagnato dal "gemello" "Love And Hate In Dub", album di remix dove viene elaborato il disco in chiave dub e sperimentale. Anni caratterizzati quindi da opere che reinterpretano il substrato iniziale industriale e meccanico secondo nuove emozioni e tendenze, andando ad allontanarsi da quell'ideale iniziale di intransigenza feroce e spietata. Curiosamente, coloro che più incominciano a farsi problemi, non sono tanto i fan (anche se non mancano i critici verso certi sviluppi), quanto i due musicisti stessi, in particolar modo Broadrick. Perennemente angosciato e indeciso, comincia ad avere profonde crisi esistenziali e attacchi di panico, decidendo con l'album finale "Hymns" di accettare le pressioni dell'etichetta, la quale voleva un suono più vendibile per la band. Totalmente perduto, il musicista sente di aver perso controllo delle sue idee, e di aver troppo disperso il suono dei Godflesh tramite le sperimentazioni seguite negli anni, mentre il suo compagno di viaggio soffre sempre di più la mancanza di riconoscimento nei confronti della band, vedendo molti imitatori e gruppi palesemente ispirati da loro avere un forte successo, mentre i Nostri, per quanto riconosciuti dal mondo della musica e citati, rimangono confinati in un universo underground e di nicchia, spesso suonando come spalle proprio per queste altre band. Divorati entrambi anche nel privato, tanto da soffrire grossi problemi di relazioni, non rimane che separarsi: dopo l'uscita dell'album, Green decide di dedicarsi agli studi, Broadrick tenterà di portare avanti la baracca da solo, ma grossi problemi economici e una salute sempre peggiore lo faranno desistere. Questa conclusione seguirà circa un anno dopo l'uscita di questa raccolta, la quale rimarrà per diversi anni come un monolito che rappresentava la storia di una delle band più sottovalutate della storia della musica (ironia della sorte: anche in questo caso Broadrick non sarà soddisfatto, precisamente del mastering da lui apportato); questo fino al ritorno della band nel 2014, inizio di un secondo percorso che elabora i primi passi della band in chiave più groove grazie a lavori quali l'EP "Decline & Fall" e il full length "A World Lit Only by Fire ". L'ultimo parto "Post-Self" vedrà invece una sorta di ripresa di quanto tentato con "Pure", ma con connotati ancora più industriali e una certa dose di elementi post-punk/sperimentali.
Avalance Master Song
"Avalance Master Song - Canzone Principale Della Valanga" è tratta dal'EP omonimo di della band, caratterizzato da un tetso legato al senso di disgusto e lontananza dal mondo, osservando le persone ed il loro essere morte dentro, circondate da menzogne. Un rullante in loop, accompagnato da picchiettii ripetuti, introduce la canzone, presto dominata da un basso greve e strisciante, contornato da piatti cadenzati e suoni di chitarra non meno baritonali e distorti. Fraseggi stridenti si aggiungono alla trama sonora, instaurando un passo dal groove decadente; Broadrick s'innesta tra gli strumenti con la sua voce altisonante e declamatoria, ma ancora umana nella sua aggressività. Egli deride il nostro essere orgogliosi della nostra povertà (probabilmente in senso più spirituale/morale che economico), constatando come nulla cambi mai, in un mondo dove divoriamo la nostra stessa pelle consumandoci, e dove le nostre anime non sono mai esistite. Una visione estremamente negativa resa chiara sin da subito, un forte contrasto con la realtà ed il mondo, con una società dove tutto ha perso la vera importanza, e dove non c'è più una ragione o un vero scopo. Intanto la musica serpeggia tra riff lenti e dilatati, supportati da effetti dissonanti e ritmiche pachidermiche, in un mantra ossessivo e senza tregua, incanalando una visione spietata che non offre catarsi. Seguiamo l'onda della musica, tra atmosfere acide che anticipano il post-metal più lisergico, ed andamenti doom; notiamo come lo stile dei Godflesh sia qui in stato embrionale dove riconosciamo ancora una maggiore aderenza a certi connotati metal "classici", ma allo stesso tempo anche certi aspetti (l'uso di dissonanze e distorsioni, i loop ipnotici, la mancanza di facili ritornelli o strutture immediate) che successivamente esploderanno prepotentemente nella musica dei Nostri. Chitarre stridule tagliano l'etere, mentre la drum machine prosegue con i suoi movimenti ciclici. Il cantante torna con le sue declamazioni spietate, questa volta maledicendo noi ed il nostro mondo, rovinato sempre dalle menzogne, aggiungendo con ironia come egli potrebbe sopportare a lungo il dolore, ma non il sapore amaro che rimane in bocca. Una visione sempre negativa dei rapporti umani e del prossimo, dove solo il più amaro sarcasmo rimane come arma di difesa, che però non può dare pace. La musica trasmette perfettamente il messaggio, creando un'atmosfera corrosiva ed asfissiante, dove giri dalle impennate minime, appena accennate, si uniscono a dissonanze quasi sinfoniche, le quali proseguono fino alla chiusura improvvisa, segnata da suoni distorti.
Like Rats
"Like Rats - Come Ratti" è un brano tratto dal capolavoro "Streetcleaner", nel suo testo esprime tutto il disgusto verso la società e le persone, viste come ratti che si diffondono senza controllo, in un'esistenza vuota, morte dentro. Un fraseggio greve e distorto si leva nell'etere, avanzando con la sua linea squillante, ed giungendo un fischio caotico; ecco che viene introdotto un trotto meccanico, coadiuvato da una drum machine in quattro quarti, delineata da riff severi e cimbali incalzanti. Broadrick si cimenta in grida disumane e filtrate, ripetendo con ossessione prima il titolo del brano, poi con toni da cyborg assassino la sua nera lezione: i ratti si riproducono, stilizzati, deformi, senza guardarsi indietro. Già da queste parole possiamo percepire un disgusto non di certo celato, supportato dalla musica monolitica, ma aggressiva, dove ogni suono di chitarra ed ogni elemento ritmico diventa un attacco ossessivo che non ci lascia tregua. Passiamo di seguito a montanti contornati da una sorta di groove combattivo, cesellati da rullanti marziali, e dal ritorno del cantato distopico; i ratti continui a riprodursi, mentre vanno verso l'oblio, in un mondo fatto di menzogne e deformità, esseri morti sin dalla loro nascita. Ancora una volta, non è difficile capire il messaggio della canzone, perfetto biglietto da visita per le atmosfere e per l'impianto tematico dell'album. Una visione ostile e caustica della società e dell'esistenza, un giudizio senza filtri e senza speranza verso il prossimo, in un mondo che viene visto come una discarica morale e reale, infestata da ratti-persone che vivono una vita senza consapevolezza ed identità, destinate a perpetuare all'infinito la loro genia, in un'esistenza vuota e priva di un vero significato. Allo stesso modo, la musica si mantiene aggressiva e pachidermica, in un impianto asfissiante che non lascia possibilità di esaltazione o sublimazione all'ascoltatore: come succederà sempre con la musica dei Nostri quest'ultima completa le parole, e in alcuni casi diventa ancora più espressiva dei testi stessi, a volte più accenni sconnessi e flussi di coscienza, piuttosto che narrazioni dal senso compiuto. Il mantra distorto prosegue con i suoi andamenti ipnotici, in una serie di loop dove riff ben congegnati e ad attacchi più concitati si alternano, consegnandoci un episodio basato su una ritmica minimale. Al secondo minuto un galoppo più concitato prende piede, portandoci con sé verso mari di fraseggi striduli e caotici,in un songwriting allora moderno e diverso dal metal tradizionale, giocato su suoni dissonanti e difficili. Ritroviamo di seguito gli ammanetti precedenti, tra suoni di basso greve e riff rocciosi sui quali si stagliano le vocals distorte di Broadrick, cantore senza pietà della società post-industriale. Inevitabili nuove esplosioni ritmate e corde squillanti, in una saturazione del suono che è una delle carte principali dei Godflesh, tanto quanto la drum machine quadrata e senza sosta, che prosegue fino alla chiusura improvvisa del brano, lasciata a suoni stridenti.
Streetcleaner
"Streetcleaner - Spazzino" viene dal disco omonimo, un episodio che con poche parole dipinge un quadro che richiama la copertina dell'album , tra visioni infernali, desideri di rivalsa, genocidio e potere usurpato. L'arte dei Godflesh nell'evocare i propri temi anche solo tramite la musica, con testi che non hanno un percorso preciso, viene qui messa a frutto grazie a suoni aggressivi e severi, sicuro marchio di fabbrica della band. Ecco che una trama oscura si unisce al campionamento di una dichiarazione raggelante del serial killer Henry Lee Lucas, dove l'assassino dichiara lucidamente di aver compiuto i suoi omicidi non per follia ("non ho sentito alcuna voce" precisa subito), bensì per una sua volontà, una ricerca di potere sulla vita. Un campionamento che mette in chiaro, se ce ne fosse bisogno, l'impianto tematico del disco, votato alla natura più feroce ed agghiacciante della natura umana, alle sue perversioni consapevoli nate da un'esistenza che non segue le leggi naturali, dove gli istinti vengono pervertiti in qualcosa di nevrotico, non trovando spazio in una vita inquadrata dove ognuno ha il suo ruolo prestabilito, legato allo sfruttamento. L'apocalisse morale, e non solo, qui rappresentata, prende poi piede con un riffing marziale, sottolineato da fraseggi severi e rullanti senza pie, una marcia militante dove dissonanze familiari rafforzano la tensione atmosferica, e dove improvvise accelerazioni ci consegnano impennate che traducono un rilascio di energia tramite la musica. Improvvise cesure vedono però rallentamenti pachidermici, in un gioco di alternanze dove rilasciate e riprese scolpiscono l'ammanetto dittatoriale della canzone. Arrivati quasi al terzo minuto, incontriamo finalmente il cantato di Broadrick, ma non dobbiamo aspettarci una rassicurazione umana: grazie all'uso di effetti, a cantare non è un essere umano, bensì un cyborg rabbioso, dai snellimenti inumani e dalla natura mostruosa e spietata. Le visioni fuggono, e ciò che consegue lo sentiamo come giusto, siamo all'inferno, e non ci rimane che prendere il potere, mentre noi tutti moriamo. L'associazione di queste parole alle immagini che abbiamo citato all'inizio, e al campionamento d'introduzione, amplifica il substrato inquietante che fa da base alla vera e propria resa in musica del collasso umano e sociale. Niente esplosioni violente, niente attacchi veloci: i Godflesh puntano alla lenta corrosione tramite suoni lenti e ripetuti, stridenti e forieri di un malessere che si esprime in un tedio spavaldo. Cavalcate ritmiche e chitarre squillanti sono la colonna sonora di fiamme infernali che si levano altre tra persone crocefisse, mentre i rallentamenti doom esemplificano la presa di coscienza di tutto questo, il momento di realizzazione che ci lascia ghiacciati dentro,. All'improvviso una serie di montanti più presenti, ma non meno lenti, creano una sequenza potente ed appassionante, perfetta evoluzione per la canzone. Essa prosegue con i suoi modi, incastrata tra le dissonanze orchestrali e al ritmica militare, portandoci con sé fino alla chiusura segnata da fraseggi taglienti e da un basso greve.
Slateman
"Slateman - L'uomo Lavagna" è un brano evocativo e dalle trame "rock", tratto dall' EP "Slavestate" e legato in modo vago e suggestivo a temi che possono essere legati al potere e ai retroscena che lo caratterizzano, o in chiave più personale ed esistenziale agli aspetti negativi dei rapporti umani, al sentirsi sopraffatti dal prossimo. Un fraseggio maestoso, dal gusto post-rock nebbioso e strisciante, si unisce a cimbali altrettanto serpeggianti, dandoci una sequenza ben congegnata. Suoni squillanti e riff dilatati si uniscono in un mantra appassionante, il cui effetto emotivo viene sottolineato da una svolta più robusta, ma non frenetica, della ritmica, e dall'aggiunta delle vocals ariose di Broadrick, piene di riverberi in un mare di effetti che chiama ancora una volta in causa certi motivi che, in contemporanea, stavano caratterizzanti generi alternativi emergenti come lo shoegaze. L'atmosfera eterea, rilassata quasi, cozza con le parole espresse: abbiamo il sangue di qualcuno sulle nostre mani, e non possiamo smetterla di ripeterlo, mentre intorno a noi si concretizzano immagini di un mondo fatto di macchine grige ed oceani che muoiono. La musica tiene un passo maestoso e monolitico, strutturato tramite suoni grevi, mentre in sottofondo linee malinconiche possono essere percepite, potenziando la caratura evocativa del brano. Ecco che effetti stridenti delineano il passo di riff rocciosi, in una struttura che chiama in causa un rock mutante dove lo stile dei Nostri filtra elementi tradizionali, reinterpretandoli in strutture non convenzionali dove il songwriting lineare lascia spazio a contrazioni minimali dal passo meccanico, ma allo stesso tempo ricco di suggestioni. Broadrick prosegue con il suo cantato saturo di effetti, quasi angelico, descrivendo come egli senta bisogno di aria, mentre la mano altrui è sul suo cuore, come continui a sopravvivere nonostante tutto. Suggestioni di rapporti umani che diventano asfissianti, o comunque fonte di peso, qualcosa a cui sopravvivere. Il mondo tematico dei Godflesh non presenta mai speranza o salvezza, nemmeno nei momenti più distesi ed evocativi, mantenendo tanto nella musica, quanto nei testi, un certo sottinteso ostico e nervoso, una sensazione di disagio che scorre sotto la pelle, e che mai può essere veramente cancellata. Synth sognanti tornano a sottolineare i riff distorti, mentre la drum machine e i cimbali spediti segnano il passo ritmico in una marcia sintetica tanto quadrata, quanto efficace. Al secondo minuto e venti una serie di bordate creano una cesura dal sapore più metal, coadiuvate da assoli stridenti e colpi di batteria pestati. Le linee squillanti si dilungano in sottofondo, mentre aperture più distese si alternano con la parata monolitica. Giochi di drum machine e chitarre dal sapore orchestrale si ripetono, portandoci ad un rallentamento sospeso dominato da chitarre dilatate e rullanti accennati. ritroviamo poi la ripresa dei modi iniziali, mentre il cantato ripete con enfasi le sue parole, potenziate ancora una volta da brevi synth, e da loop di chitarra distorti. Si collima ancora con le bordate severe e gli assoli dissonanti, in un'atmosfera dall' anti-melodia appagante. Ed è su queste note che giungiamo al finale, segnato dalla ripresa delle alternanze ritmiche, perpetrate fino ad un ultimo feedback che si dilunga fino all'oblio.
Slavestate
"Slavestate - Stato Degli Schiavi" viene dall' EP omonimo, e vede un testo che esprime con pochi e semplici versi l'idea di uno stato totalitario, del controllo politico che rende la massa schiava e la riempie di odio e dolore, compiendo un vero e proprio lavaggio del cervello. Una sequenza elettronica introduce il brano con i suoi freddi suoni marcianti, in un'atmosfera cyberpunk dove la drum machine si prodiga in rullanti, presto raggiunti da cacofonie di chitarra e bordate di basso assolutamente grevi e taglienti. Cesure ritmiche stabiliscono la natura pulsante e senza pietà della canzone, tra climi industriali e distorsioni dense di chitarra. Broadrick interviene con il suo familiare cantato inumano, perfetto per la musica che lo accompagna; egli ci ricorda come Gesù implorò, riprendendo la famosa frase biblica resa ancora più popolare nella cultura pop grazie al finale del film Hellraiser di Clive Barker, creando già un parallelo a tinte blasfeme tra l'idea religiosa del dolore e della sottomissione, e quella promulgata a livello politico. Mettendosi nei panni di chi è asservito, chiede di essere stretto forte, e di essere affogato (forse un riferimento al battesimo, primo simbolo di omologazione forzata). La musica prosegue ossessiva e senza tregua, con i suoi loop taglienti e colpi duri, dando perfetta corrispondenza musicale alla natura belligerante del testo. Una nuova cesura improntata sul suono della drum machine carica una tensione che si apre a nuove sfuriate dissonanti, sulle quali il cantato riprende con i suoi versi gridati: l'odio è qualcosa che ci è stato insegnato, e ora non sentiamo altro che dolore, e siamo più che contenti di poter scambiare la nostra mente, le nostre idee, pur di non sentirlo, illudendoci di diventare puri in eterno. Queste sono e basi dello Stato Degli Schiavi, una realtà dove la massa è sin dalla nascita bombardata da messaggi, espliciti o impliciti, di sottomissione alle regole imposte dall'alto, e anche da messaggi di odio che vogliono distrarre dalla sofferenza provocata proprio dal potere centrale; spesso gli schiavi accettano tutto questo, in cambio di una falsa promessa di purezza e di fuga dal dolore che non riescono a gestire. Ancora una volta il clima dittatoriale viene rievocato in musica da una cesura, la quale ci dona atmosfere inquisitorie e marziali dove suoni pesanti da fabbrica si uniscono a snare striscianti. Questa volta essa degenera in fraseggi squillanti, sui quali i colpi si fanno sempre più pesanti ed ipnotici, in una lunga sequenza. Ecco quindi che torniamo ai suoni cibernetici di inizio brano, pronti a riprendere il corso già incontrato. Broadrick ripete quindi la sua lezione aggressiva, mentre giri circolari di chitarra creano muri di suono distorto. Degeneriamo ancora in marce industriali sottolineate da dissonanze stridenti, in un mantra pachidermico che avanza pestando qualsiasi cosa. Un esempio del suono dell'opera, dove la natura monolitica dei Godflesh trova perfetta unione con le soluzioni elettroniche qui adottate, senza perdere la propria essenza o atmosfera claustrofobica e senza speranza.
Mothra
"Mothra" è uno dei singoli più famosi dell'album "Pure", introdotto da suoni industriali imperanti e pesanti, ma dal movimento cadenzato e trascinante. Essi sono destinati a proseguire, portandoci con loro verso il famoso riffing che compone la parte portante di chitarra, contornato da suoni di snare spediti e sessioni meccaniche. Inevitabile l'arrivo delle vocals di Broadrick, roboanti e in pieno riverbero, cariche di una carica inquisitoria, con la quale ci spiega come il nostro dolore non significhi nulla di speciale, e di come dobbiamo servire la sofferenza, per poterla conquistare (citando in alcune parti versi presi dalla canzone di Leonard Cohen "Avalanche", in un omaggio/sample lirico). Il dolore quindi non è un credito in questo mondo, semmai semplicemente un'ombra della ferita che egli porta, simbolo del nostro mondo privo di umanità e pietà, dove per sopravvivere dobbiamo reprimere le emozioni e diventare come esseri meccanici. E di corrispondenza, la musica rimane ossessiva e dai tratti industriali, tra atmosfere martellanti da fabbrica e chitarre ad accordatura bassa, sature di dissonanza: è in questi elementi che vediamo allo stesso tempo le somiglianze, e le differenze, tra la band inglese e i vari epigoni che si ispireranno ad essa. Se infatti il groove metal e il nu-metal useranno tali elementi per creare contrasti tra attacchi e lasciate abbastanza marcati, i Godflesh invece riescono ad instaurare un impianto quasi monotono, ma che con piccole variazioni conosce varie fasi e movimenti. Chitarre robuste e drum machine perentorie fanno di nuovo da sfondo per la voce risonante del cantante, pronto a reiterare la lezione che vuole impartirci: se vogliamo conquistare il dolore, dobbiamo imparare a servirlo bene, e ricordarci come non ci dia nessun credito, sempre ombra di una ferita, che è il mondo del cantante. Ancora una volta musica e mondo tematico si allacciano perfettamente, e tutto evoca un andamento marciante ed opprimente, che sembra voler ribadire la disillusione e distacco delle parole espresse, nonché la mancanza di pietà nei confronti dell'ascoltatore, troppo oltre per poter più provare empatia umana. Ritmi meccanici e suoni stridenti e sgraziati ci investono, e nonostante l'andamento sia pachidermico, la sua forza e palpabile. Bordate ritmate e striscianti alzano la posta in gioco, immerse in un mare di dissonanze quasi psichedeliche; sfociamo così in un ritorno ai motivi iniziali, tra intro da fabbrica e riprese del fraseggio portante, mentre Broadrick ripete da capo il testo, concitato come sempre. Ecco nuove sessioni graffianti ed implacabili paesaggi ritmici, così come nuove bordate dall'effetto appassionante, ripetute fino alla conclusione improvvisa della traccia, che subito collima in quella successiva.
Spite
"Spite - Disprezzo" è tratto dall' album "Pure", e ci accoglie in paesaggi sonori contornati da una drum machine secca ed ossessiva, controbilanciata da effetti industriali e strappi di chitarra accennati, pronti però ad esplodere in loop martorianti ed incisivi. Un suono spaccaossa, granitico, ma anche affascinante,in una sequenza che fa da sfondo alle vocals in riverbero di Broadrick; egli ci illustra un mondo fatto di disprezzo, odio, rapporti rovinati, dove non esistono sentimenti veri, ma solo rancore. Chiede di essere visto, sentito, ascoltato, ma in realtà viene solo corrotto, e non rimane che essere odiati, dimenticati, e non più visti, mentre facciamo sentire tutto il nostro disprezzo. La musica rimane massacrante, tra ritmi in quattro quarti e snare ipnotici, mentre le urla del cantante vengono sottolineate da esplosioni di fraseggi stridenti, arricchiti da passi pachidermici e sferraglianti, in un groove malevolo che ammalia e punisce allo stesso tempo. Il connubio tra suoni dall'andamento meccanico e furia umana è perfettamente bilanciato, dando forma all'essenza stessa dei Godflesh ed al loro mondo tematico e musicale. La tensione cresce, mentre prosegue la disamina del Nostro: ancora una volta chiede di essere visto, ascoltato, sentito, ma al massimo può ottenere di essere scopato e basta, e poi come di consueto odiato, dimenticato, non visto come essere umano, e rimane solo da liberare per l'ennesima volta il proprio disprezzo. La batteria industriale miete vittime in continuazione, mentre le chitarre seguono il loro corso ritmato, liberandosi poi in loop dal drone accentuato, dove i giochi di ritmica e chitarra s'intersecano perfettamente tra di loro. Si aggiungono così dissonanze dal gusto malinconico, fulgido esempio di quella ricerca dell'anti-melodia capace per contrasto di evocare emozioni piene di pathos esistenziale, dando una dimensione completa al suono dei Godflesh. Dopo un verso di Broadrick riprende la marcia cadenzata, ed addirittura prendono posto assoli squillanti, in un uso originale di motivi metal, tra i quali torna il cantato altisonante, urlando le parole già incontrate in precedenza, e declamando come il suo disprezzo deve essere sentito e succhiato dall'interlocutore; si presenta di seguito la coda finale, con nuovi passaggi più "atmosferici", destinati a regredire in una distorsione conclusiva che si perde nell'etere. Un brano che metto in chiaro sin da subito la natura del lavoro, presentando già una serie di punti forti ed un songwriting che, pur mantenendosi su molti aspetti minimale e giocato su pochi elementi, ci dona un universo sonoro dove vari piccoli aspetti compongono un'esperienza dove l'ostico diventa godibile, a patto naturalmente di apprezzare certe trame sonore.
Pure
"Pure - Puro" è un altro brano preso dal disco omonimo a questo, il quale si apre con ritmi jungle, in un suono più sincopato, presto aperto da riff distorti e colpi robusti di drum amchine. Una sequenza meccanica, sulla quale, come un megafono, si staglia la voce filtrata di Broadrick, pronto a parlarci, con pochissime parole, di una falsa purezza, un senso di elevazione che nasce dal negare la propria malattia interiore. I riferimenti al potere religioso sono questa volta più chiari, in una critica all'ipocrisia ed il senso di superiorità legate al fanatismo. Viene quindi negata la malattia, e ci si isola in modo da sentirsi puri; intanto la musica prosegue sulla sua linea concitata, tra colpi secchi di batteria e rullanti martellanti, riprendendo poi con movimenti più cadenzati e distribuiti, ma sempre dal segno duro ed ossessivo. Tornano le vocals dissonanti del cantante, che termina il suo discorso con una nota di sarcasmo, sottolineando come la parte critica sia pura stando da sola, e dichiarandosi molto impressionato da questa falsa purezza. Riesplode quindi l'andamento meccanico, tra una batteria ipnotica e chitarre sferraglianti, dai fraseggi dissonanti; si configura così un gioco di botta e risposta tra suoni rallentati e contratti, in una struttura atipica che gioca sull'atonalità, consegnandoci un'orchestrazione cacofonica, ma organizzata. Un corso strisciante, scolpito da cimbali e riff dilatati, ma stridenti, pronto ad esplodere nella solita marcia militante, loop che non lascia riposo all'ascoltatore. La voce graffiante, ma eterea, di Broadrick torna con maggiore rabbia, annunciando nuove digressioni martellanti, ed anche ulteriori parti sincopate dove regna l'estraniamento dovuto alla distorsione ed alla dissonanza, usate senza remore. Andiamo così ad infrangerci contro un feedback rumoroso, sul quale il Nostro urla i suoi versi, mentre fraseggi distorti ci guidano verso il brano successivo. Nonostante la non breve lunghezza della traccia, essa passa come un soffio, fatta di motivi lunghi e ripetuti ad oltranza varie volte, in un songwriting ossessionate ed ossessionato; ma non bisogna assolutamente pensare che questo possa essere il prodotto di pigrizia o mancanza di idee, anche perché diverse volte i Nostri hanno dimostrato di saper costruire brani ben più complicati. Semplicemente, qui siamo davanti ad una canzone che gioca più sull'atmosfera, data però non da sessioni ariose o facili melodie, bensì dall'uso della dissonanza. Così come le parole sono poche e ripetute, così anche i motivi musicali vengono reiterati in un ciclo meccanico che trasmuta in chiave metal la musica industriale più ipnotica e legata al drone. Una sovrapposizione di linguaggi che costituisce allo stesso tempo il fascino, e l'osticità dei Godflesh, difficili da comprendere se si affrontano da un'ottica legata la metal classico e al suo songwriting più lineare.
Xnoybis
"Xnoybis" è un estratto dal disco "Selfless", caratterizzato da pochi versi che parlano del peso delle emozioni e dei ricordi, che bruciano la nostra mente e ci fa sentire stanchi e carichi di un senso di disperazione, tale da farci cercare qualcosa di elevato per fuggire da tutto questo. Dopo alcuni secondi di silenzio un suono di chitarra squillante annuncia un trotto incalzante, fatto di riff martellanti bilanciati da suoni squillanti che ne delineano l'andamento. Broadrick interviene con ruggiti epici, enunciando le sue parole con sentito vigore, ma sempre filtrato da un'aria alienante, e scandendo il tutto seguendo il movimento musicale. Ha visto così tanto che i suoi occhi bruciano, e non può fare altro che alzare le braccia verso il cielo, sentendosi come nessun altro al mondo. La marcia ossessiva prosegue con i suoi modi, mentre la voce del cantante assume anche connotati ariosi, regalando una melodia vocale inedita per quelli che erano stati, fino ad allora, i Godflesh, marcando già i primi segnali di cambiamento. Ecco che el chitarre si lanciano in una cavalcata più decisa e libera, regalando anche allo strumento a corda espressioni più emotive, ma presto si ritornano all'andamento meccanico, sovrastato dai ruggiti di Broadrick, che ripete le poche parole che compongono il testo ad oltranza. Il passaggio da vocals ruggenti ad altre filtrate ed ariose svela il tema ben più delle parole in sé, semplici pretesti: un'unione di rabbia e desiderio di elevazione, tra meccanico ed umano, che è da sempre il fondo tematico dei Nostri, qui esplicitato ben oltre la freddezza disumana dei primi lavori. L'elemento umano inizia a dimenarsi tra le pareti d'acciaio della struttura minimale del brano, e la musica sembra alienarsi, consapevolmente o meno, proprio a questo. I trotti sferraglianti proseguono decisi, passando ancora una volta a corse più sentite e dalle melodie dissonanti, proseguendo di seguito con passaggi sospesi e dilatati, sui quali si organizzano giochi ritmici di rullanti cadenzati, tra i quali s'insinuano melodie liquide. Riecco gli attacchi spavaldi, in un'impostazione che ha un che di epico e declamatorio, anche questo elemento nuovo per i Nostri; il cantato si ripresenta con i suoi modi ammalianti, e le sue note ariose accompagnano un ennesimo montante di chitarra, destinato ancora a scontrarsi con suoni desolati e melodie minimali dall'effetto spettrale. La linea ritmica prosegue sui loop di chitarra, in una sequenza ipnotica che fa del minimalismo strutturale un'arma a proprio vantaggio. Ed è sulle note accennate che va a spegnersi il brano, ottimo biglietto da visita per il lavoro che mostra uno dei vari aspetti dell'album. S'infiltrano qui dosi di alternative anni novanta, nonché chitarre più ariose e vocals più umane, mentre rimane una certa tendenza astratta per i testi, non espressioni compiute, ma accenni e declamazioni che preferiscono dare immagini mentali, piuttosto che discorsi. Ma, come prima detto, quello che non dicono le parole, dicono i modi con i quali vengono dette: il "personaggio" tenuto da Broadrick nel primo disco, un essere disumano fatto di cemento ed odio, aveva già incominciato a perdere la propria armatura nei lavori successivi, ma è qui che il Nostro osa momenti apertamente rilassati, anche se accompagnati da contrasti più aggressivi e ruggenti. Nonostante quindi il peso delle parole, troviamo un maggior vigore ed un'energia inediti, ed in generale strutture che possono interessare anche chi trova troppo ostico il sound della band.
Crush My Soul
"Crush My Soul - Schiaccia La Mia Anima" viene sempre dall'album "Selfless", e tratta ancora una volta di temi legati alla religione ed al potere, collegando le due cose, e portando in campo anche il vuoto esistenziale che spinge le persone verso di essa. Un rumore caotico di matrice noise si insinua subito nelle nostre orecchie con il suo incedere pesante, presto aggiungendo passi grevi ad accordatura bassa; ecco che si va così a creare un riffing meccanico dove i colpi di chitarra dialogano in un botta e risposta con i suoni elettronici, delineando un cyborg sonoro sferragliante ed ipnotico. Brevissime digressioni squillanti delineano il passo del movimento pachidermico, mentre Broadrick si aggiunge con la sua voce declamante e ruggente: egli chiede di essere ingoiato per intero, e di fargli imparare, perché non abbiamo bisogno di lui, dobbiamo solo schiacciare la sua anima. Intanto la drum machine prende più velocità con i suoi rullanti, ed un fraseggio stridente e notturno sottolinea la composizione ad intermittenza, creando un gioco di risposte con i battiti senza pietà. Troviamo un episodio capace di convogliare nel suo suono martoriante ed ossessivo il messaggio del testo, qui esplicato con qualche parola in più, ma sempre minimale, come da tradizione per i Nostri. La rigidità dei dogmi diventa una rigidità ritmica che non conosce sosta o quiete: ed è su queste note che ritorna il cantato, gridato con una forza dettata dalla disperazione, dal bisogno di doversi liberare. Ci si chiede come si possa vedere la speranza, quando non vediamo mai la luce, poiché siamo vuoti dentro. Parole semplici, ma che denunciano la vana illusione offerta dalla religione, incapace di colmare davvero i vuoti che abbiamo dentro. Come per reiterare la cosa, la musica tira dritto decisa, aprendosi però a nuovi fraseggi severi e colpi veloci, in una struttura tanto lineare, quanto ammaliante. Notiamo però una leggera variazione, che ci conferma come il songwriting minimale adottato dai Nostri sia dovuto ad una scelta artistica ben ponderata, e non alla pigrizia; s'inseriscono brevissimi momenti dissonanti, che ci consegnano un ulteriore contrappunto, in un'orchestrazione stridente di ottima fattura. Un'atmosfera quindi estraniante, che configura un mondo duro e fatto di dominazione, come ricordato dalle parole di Broadrick, che riprende con le sue grida sentite. Ecco quindi i passi familiari con sessioni stridenti e colpi sintetici massacranti, in un gioco d'incastri che ormai conosciamo bene. Si prosegue su questa linea, facendoci trasportare fino ad una coda fatta di suoni baritonali e ruggenti, che collimano con una conclusione dove, come all'inizio, in effetti noise e colpi sincopati. Si conclude così il singolo dell'album, non a caso uno dei pezzi migliori in assoluto, capace di dare una forma con più "groove" al primo suono dei Godflesh, quello più industriale e belligerante, ma allo stesso tempo più freddo e monolitico.
Xnoybis
"Xnoybis" è un estratto dal disco "Selfless", caratterizzato da pochi versi che parlano del peso delle emozioni e dei ricordi, che bruciano la nostra mente e ci fa sentire stanchi e carichi di un senso di disperazione, tale da farci cercare qualcosa di elevato per fuggire da tutto questo. Dopo alcuni secondi di silenzio un suono di chitarra squillante annuncia un trotto incalzante, fatto di riff martellanti bilanciati da suoni squillanti che ne delineano l'andamento. Broadrick interviene con ruggiti epici, enunciando le sue parole con sentito vigore, ma sempre filtrato da un'aria alienante, e scandendo il tutto seguendo il movimento musicale. Ha visto così tanto che i suoi occhi bruciano, e non può fare altro che alzare le braccia verso il cielo, sentendosi come nessun altro al mondo. La marcia ossessiva prosegue con i suoi modi, mentre la voce del cantante assume anche connotati ariosi, regalando una melodia vocale inedita per quelli che erano stati, fino ad allora, i Godflesh, marcando già i primi segnali di cambiamento. Ecco che le chitarre si lanciano in una cavalcata più decisa e libera, regalando anche allo strumento a corda espressioni più emotive, ma presto si ritornano all'andamento meccanico, sovrastato dai ruggiti di Broadrick, che ripete le poche parole che compongono il testo ad oltranza. Il passaggio da vocals ruggenti ad altre filtrate ed ariose svela il tema ben più delle parole in sé, semplici pretesti: un'unione di rabbia e desiderio di elevazione, tra meccanico ed umano, che è da sempre il fondo tematico dei Nostri, qui esplicitato ben oltre la freddezza disumana dei primi lavori. L'elemento umano inizia a dimenarsi tra le pareti d'acciaio della struttura minimale del brano, e la musica sembra alienarsi, consapevolmente o meno, proprio a questo. I trotti sferraglianti proseguono decisi, passando ancora una volta a corse più sentite e dalle melodie dissonanti, proseguendo di seguito con passaggi sospesi e dilatati, sui quali si organizzano giochi ritmici di rullanti cadenzati, tra i quali s'insinuano melodie liquide. Riecco gli attacchi spavaldi, in un'impostazione che ha un che di epico e declamatorio, anche questo elemento nuovo per i Nostri; il cantato si ripresenta con i suoi modi ammalianti, e le sue note ariose accompagnano un ennesimo montante di chitarra, destinato ancora a scontrarsi con suoni desolati e melodie minimali dall'effetto spettrale. La linea ritmica prosegue sui loop di chitarra, in una sequenza ipnotica che fa del minimalismo strutturale un'arma a proprio vantaggio. Ed è sulle note accennate che va a spegnersi il brano, ottimo biglietto da visita per il lavoro che mostra uno dei vari aspetti dell'album. S'infiltrano qui dosi di alternative anni novanta, nonché chitarre più ariose e vocals più umane, mentre rimane una certa tendenza astratta per i testi, non espressioni compiute, ma accenni e declamazioni che preferiscono dare immagini mentali, piuttosto che discorsi. Ma, come prima detto, quello che non dicono le parole, dicono i modi con i quali vengono dette: il "personaggio" tenuto da Broadrick nel primo disco, un essere disumano fatto di cemento ed odio, aveva già incominciato a perdere la propria armatura nei lavori successivi, ma è qui che il Nostro osa momenti apertamente rilassati, anche se accompagnati da contrasti più aggressivi e ruggenti. Nonostante quindi il peso delle parole, troviamo un maggior vigore ed un'energia inediti, ed in generale strutture che possono interessare anche chi trova troppo ostico il sound della band.
Crush My Soul
"Crush My Soul - Schiaccia La Mia Anima" viene sempre dall'album "Selfless", e tratta ancora una volta di temi legati alla religione ed al potere, collegando le due cose, e portando in campo anche il vuoto esistenziale che spinge le persone verso di essa. Un rumore caotico di matrice noise si insinua subito nelle nostre orecchie con il suo incedere pesante, presto aggiungendo passi grevi ad accordatura bassa; ecco che si va così a creare un riffing meccanico dove i colpi di chitarra dialogano in un botta e risposta con i suoni elettronici, delineando un cyborg sonoro sferragliante ed ipnotico. Brevissime digressioni squillanti delineano il passo del movimento pachidermico, mentre Broadrick si aggiunge con la sua voce declamante e ruggente: egli chiede di essere ingoiato per intero, e di fargli imparare, perché non abbiamo bisogno di lui, dobbiamo solo schiacciare la sua anima. Intanto la drum machine prende più velocità con i suoi rullanti, ed un fraseggio stridente e notturno sottolinea la composizione ad intermittenza, creando un gioco di risposte con i battiti senza pietà. Troviamo un episodio capace di convogliare nel suo suono martoriante ed ossessivo il messaggio del testo, qui esplicato con qualche parola in più, ma sempre minimale, come da tradizione per i Nostri. La rigidità dei dogmi diventa una rigidità ritmica che non conosce sosta o quiete: ed è su queste note che ritorna il cantato, gridato con una forza dettata dalla disperazione, dal bisogno di doversi liberare. Ci si chiede come si possa vedere la speranza, quando non vediamo mai la luce, poiché siamo vuoti dentro. Parole semplici, ma che denunciano la vana illusione offerta dalla religione, incapace di colmare davvero i vuoti che abbiamo dentro. Come per reiterare la cosa, la musica tira dritto decisa, aprendosi però a nuovi fraseggi severi e colpi veloci, in una struttura tanto lineare, quanto ammaliante. Notiamo però una leggera variazione, che ci conferma come il songwriting minimale adottato dai Nostri sia dovuto ad una scelta artistica ben ponderata, e non alla pigrizia; s'inseriscono brevissimi momenti dissonanti, che ci consegnano un ulteriore contrappunto, in un'orchestrazione stridente di ottima fattura. Un'atmosfera quindi estraniante, che configura un mondo duro e fatto di dominazione, come ricordato dalle parole di Broadrick, che riprende con le sue grida sentite. Ecco quindi i passi familiari con sessioni stridenti e colpi sintetici massacranti, in un gioco d'incastri che ormai conosciamo bene. Si prosegue su questa linea, facendoci trasportare fino ad una coda fatta di suoni baritonali e ruggenti, che collimano con una conclusione dove, come all'inizio, in effetti noise e colpi sincopati. Si conclude così il singolo dell'album, non a caso uno dei pezzi migliori in assoluto, capace di dare una forma con più "groove" al primo suono dei Godflesh, quello più industriale e belligerante, ma allo stesso tempo più freddo e monolitico.
Anything Is Mine
"Anything Is Mine - Ogni Cosa E' Mia" è l'ultimo estratto da "Selfless", e si configura come una dichiarazione misantropa che con pochi versi esprime disgusto verso l'umanità, ed una sorta di universalismo sarcastico, dove alla luce di questo, ogni cosa è nostra. Un riffing roccioso ci accoglie, accompagnandosi a cimbali cadenzati: ecco che dopo alcuni colpi di piatto prende piede una marcia battagliera dalle bordate sferraglianti, una sorta di mantra sludge dove si gioca su elementi pesanti e discordanti, che qualche anno dopo faranno molto la fortuna di generi quali il crossover ed il nu-metal. L'atmosfera si fa sempre più concitata ed incalzante, anche grazie all'intervento di una ritmica serrata , e della voce tagliente di Broadrcik qui dedito a familiari ruggiti; egli declama che siamo tutti merda, e che moriremo tutti come tale, e non gli rimane quindi che provare, fortemente, a rimanere, e realizzare che ogni cosa è sua, alla luce di tutto questo. Niente paesaggi verbali, niente storie, niente introduzioni: ancora i Godflesh non dialogano e non raccontano, non danno retroscena, bensì impongono, sputano fuori un miasma esistenziale sempre pronto ad uscire fuori, una visione della realtà, per loro, così evidente da non richiedere alcun tipo di giustificazione, appoggio tematico. Broadrick è il perfetto cantore, come sempre, per questa fredda rabbia, questo disgusto distaccato, ma carico di una furia raggelante, grazie alle sue vocals capaci di convogliare tutto questo in ogni singola sillaba. La parata violenta non sembra volersi arrestare, e seguendo la stessa linea ossessiva, il cantato ripete ad oltranza le parole, quasi a voler scolpire nella testa dell'ascoltatore il proprio nero messaggio. Inutile dirlo, la musica per l'ennesima volta ci dice ancora più del testo, investendoci con la sua locomotiva. Notiamo però anche un certo groove che non viene inficiato dalla durezza dei suoni, ma anzi si trova ad essere potenziato dalle bordate e dalle accordature basse: la definizione di Broadrick per questo disco, ovvero quello di "momento rock", assume decisioniste senso, se naturalmente usata in un'analisi interna della discografia del duo britannico. Riecco quindi i giri circolari sempre più pestati, controbilanciati da arpeggi segnanti, e poi limitati da cesure ruggenti, dai fraseggi fumosi, presto ricoperti da sessioni meccaniche e gracchianti. Si ripete come in un eterno ritorno la parte iniziale del brano, la quale esplode di nuovo in corsi che vengono scolpiti da vere e proprie incudini sonore e bordate di chitarra squillanti. Il gioco d'incastri funziona bene, consegnandoci un'ultima parte destinata a convertirsi in una coda metal che consoci modulazioni sottili nelle dissonanze di chitarra, mostrando l'attenzione ai dettagli che fanno al differenza tra una struttura minimale, ed una dettata dalla mancanza di idee. Il fatto che questo sia il brano, tra quelli fino ad ora incontrati, più nichilista. Ci da un'ottima occasione di confronto con il passato: nei dischi precedenti sarebbe risultato tra i più pacati e controllati, fratello minore di ben altri colossi rumorosi e stordenti, carichi di furia cieca. L'elemento industriale sopravvive in qualche modo nell'ossatura della composizione, scheletrica e "grigia", ma è innegabile che la natura metal della band ha qui più spazio, pur non permettendoci assolutamente di parlare di un disco metal in senso tradizionale, nemmeno in chiave alternative.
Circle Of Shit
"Circle Of Shit - Circolo Della Merda" viene dal disco "Songs Of Love And Hate", e ci parla di un mondo indifferente e freddo, dove la propria identità è un problema, e dove bisogna rifiutare se stessi, conformandosi all'esterno. Ecco che una ritmica sincopata dal gusto hip hop si accompagna a suoni estranianti, facendo perdurare l'atmosfera acida e lisergica che permea tutto il disco; chitarre pachidermiche e dilatate si uniscono all'impianto sonoro, preparando la strada per i ruggiti caustici di Broadrick: dimentichiamo noi stessi senza rispettarci, ci rigettiamo. Suoni squillanti di natura elettronica sottintendono il tutto, e non è difficile pensare al fatto che l'influenza dei Godflesh nei confronti del crossover e del numetal sia qui palese, con una serie di groove acidi e suoni grevi che hanno fatto la fortuna dei due generi gemelli. Chitarre notturne e strutture ritmiche serrate completano il quadro, dandoci la cifra di un andamento lento, ma claustrofobico, un panzer che avanza ripetendo quando appena visto, comprese le parole amare del cantante, con un sapore ossessivo e senza fronzoli, un loop che ci da l'idea di una mente ormai invasa da un unico pensiero che si ripete ad oltranza. Largo quindi ancora ad effetti squillanti e sequenze di chitarra e basso grevi, scolpiti da colpi secchi di batteria, e sottolineati da drammi urbani: quest'ultimi prendono forza grazie ad effetti dub che li rendono ancora più dissonanti. Il passo da marcia corazzata continua, così come i ruggiti del Nostro e tutto l'armamentario sonoro. Ci sentiamo deboli, non siamo nulla, ci sentiamo posseduti, come se fossimo nulla,rimaniamo giù sentendoci deboli, facendo ridere chi ci opprime. Non riusciamo a vedere noi stessi, ma solo ciò che esiste all'esterno di noi: si continua con toni ancora più cacofonici e taglienti, raggiungendo binari alternative poi dilatati in suoni di chitarra in feedback, i quali mettono fine al nostro viaggio sonoro.
Frail
"Frail - Fragile" è un altro pezzo preso da "Songs Of Love And Hate", il quale tratta della fragilità, ma intesa in senso molto più amplio di quello che si può intendere, non una semplice debolezza emotiva, bensì anche qualcosa che con il tempo crea scudi e mura, come forma di difesa verso il mondo. Un suono di chitarre squillante in levare ci accoglie, poi sostituito da falcate di chitarra maestose e marziali, accompagnate da cimbali cadenzati, creando una melodia distorta ed epica, sulla quale prende piede un motivo di batteria dai rullanti dinamici. Broadrick interviene con un cantato umano, ma filtrato da effetti in riverbero, dicendoci che dobbiamo rendere conto solo a noi stessi, e a nessun altro, dietro ai nostri occhi e dentro la nostra testa. Fraseggi evocativi creano cesure dal gusto rock, mostrandoci un lato intimo dei Godflesh non del tutto inedito, ma che in futuro avrà ancora più spazio in ballad dal gusto post-rock/shoegaze che qui hanno un antecedente. Il passo si mantiene lento e fumoso, mentre di seguito riprende il motivo precedente tra loop circolari, colpi di batteria ripetitiva, e vocals sempre ariose: dobbiamo andare in profondità dentro di noi, ma non verso l'esterno, egli proverà, anche se forse invano. Riecco le evoluzioni emotive, dai bei passaggi rocciosi, mentre un motivo sognante si sospende poi su cimbali cadenzati e rullanti ritmici, prendendo velocità in un galoppo sentito e carico di atmosfera. Un'ennesima cesura ci riporta sui binari del ritornello iniziale, dove Broadrick ripete la sua triste lezione con una stanca leggiadria che in realtà esprime tutto tranne che allegria. Riecco quindi giri sognanti ed impennate malinconiche molto anni novanta, dalle linee alt-rock chiare e ripetute. Un fraseggio melodico apre una sessione ariose, poi commutata nel familiare galoppo con rullanti di batteria e chitarre diafane, ma distorte. Il cantato si da a vocalizzi eterei, narrandoci di come non ha mai osservato nella vergogna, e nemmeno invano, esortandoci a non cambiare mai, a rimanere sempre gli stessi. La musica quasi in corrispondenza alle parole raggiunge un climax emotivo in levare, dove i toni da evocazione si ripetono fino alla sessione finale con chitarre minimali e voce protagonista, poi sospesa nell'etere fino alla chiusura con feedback.
I, Me, Mine
"I, Me, Mine - Io, Me, Mio" è il primo brano estratto da "Us And Them", e tratta nel suo testo dell'egoismo umano e del dispotismo, in una chiave che può essere sia interpretata a livello personale, sia nel macro in chiave sociale e politica, esprimendo un mondo dove la personalità altrui viene annichilita in nome del proprio vantaggio e potere personale. Ecco un suono sommesso e rimbombante che sale d'intensità, intersecandosi con delle ritmiche elettroniche chiaramente drum 'n' bass, le quali emergono dal silenzio; si va ad instaurare così un gioco di drum machine e bassi grevi, generando una tensione sonora vivace e dal gusto futuristico. Broadrick viene introdotto da un cantato aggressivo, espressione del testo, filtrato tramite effetti vocali cavernosi: Lui, se stesso, ciò che è suo, ecco gli unici pensieri in testa, vengono seguiti i segni, portando a prendere ciò di cui abbiamo bisogno. Ci viene data forza, ma non bisogno osare ribellarsi a questo, perché gli altri per noi non esistono. Intanto l'impianto sonoro continua sulla sua direzione, privo dell'intervento di momenti metal; non si tratta di un tipico brano dei Godflesh dominato da chitarre grevi e movimenti lenti, caratterizzato invece investito da questa scarica tecnologica ad alta velocità. Lo strumento a corda non è però bandito, e non a caso arpeggi diafani fanno da cesura, ampliando l'atmosfera oscura del pezzo, ed offrendo una pausa dall'assalto ritmico, che però non cessa mai in sottofondo. Riecco quindi la sequenza di bordate futuristiche, che ci ricordano le sperimentazioni in tal senso di un altro gruppo industrial metal britannico, ovvero i Cubanate. Il testo prosegue con la sua lezione, gli altri stanno irti a schiena dritta, ma ci siamo solo noi, siamo noi il mondo degli altri, e non c'è altro oltre noi. Ancora una volta vocals e turbini elettronici diventano tutt'uno, sostituendo il ruolo dei riff di chitarra, mentre la batteria è un continuo movimento di drum machine derivato dai suoni più acidi ed urbani. Ordiniamo di essere ascoltati, perché abbiamo sempre ragione, mentre gli altri hanno sempre torto. Ritornano le pause dalle chitarre distanti ed oniriche, mentre gli andamenti drum'n'bass proseguono, infrangendosi poi contro una pausa dub dove suoni stridenti si librano sulle strutture urgenti e sincopate. Seguono giochi di ritmica e bassi ripetuti, in una sessione trascinante che poi si traduce in una riproposizione dei modi già intravisti durante la durata del brano. Riecco quindi le parole e le alternanze ormai familiari, senza un calo di tensione. Arriviamo in questo modo al quarto minuto e ventitré, dove le cose tornano a farsi sommesse come all'inizio, tra ritmi sotterranei e digressioni lisergiche, e non ci sorprende la ripresa degli effetti stridenti e disorientanti, pronti a portarci con loro nel finale, lasciato in mano ad un loop drammatico, ripetuto ad oltranza mentre si perde nell'etere.
The Internal
"The Internal - L'interno" è un altro estratto da "Us And Them", e tratta di sentimenti di desolazione, mancanza di pace, e nichilismo, una sensazione di gelo interiore dove l'innocenza è perduta in un modo in cui non rimane nulla di valore a cui attaccarsi. Un arpeggio solenne e delicato, pieno di arie evocative e malinconia, si fa strada con le sue note sottolineate da cimbali cadenzati, dandoci una sessione shoegaze che mette in chiaro la natura ben più intima e controllata del pezzo, "ballad" del disco che anticipa le evoluzioni future del suono di Broadrick, in particolare la sua esperienza con Jesu. Ora un riffing controllato si districa insieme alle vocals ariose e piene di eco del Nostro, perfetto completamento per la musica emozionale qui orchestrata da pochi elementi sapientemente usati. La nostra pace è a pezzi, ma non possiamo aspettarci altro dalla vita, dato che che in verità noi non siamo nulla, parole desolanti che contrastano con la falsa armonia espressa dalla musica, dandoci l'idea di una resa interiore dove non si ha più nemmeno la forza di essere arrabbiati. Intanto l'intensità della musica aumenta grazie a chitarre delineate da parti squillanti, passi ritmici delicati, e fraseggi sognanti, sui quali belle melodie vocali trovano completamente posto. Ecco che arriva un inverno interiore, nel quale l'innocenza dimentica tutto: un'immagine fredda e senza alcuna speranza, un paesaggio interiore grigio dove rimane solo il freddo di chi non ha più nessun desiderio o illusione. La marcia evocativa non conosce requie, portandoci con sé verso nuove melodie altisonanti, ripetute con un gusto che non può non fare effetto sull'ascoltatore, mentre Broadrick ripete ispirato i suoi versi. Troviamo una cesura ritmica dal passo felpato, completata da un riffing categorico, un crescendo epico che sfocia in un passaggio più greve, sottolineato da suoni pesanti come macigni e andamenti cadenzati, una processione che svela i sentimenti ben più oscuri convogliati in precedenza dalle parole. Il loop ottenuto prosegue ad oltranza, inesorabile nel suo movimento pachidermico, andando però a confluire in un ulteriore rallentamento fatto di arpeggi e colpi cadenzati, lasciando poi spazio a duna digressione più caotica. Ed è su queste note che si va a chiudere questo pezzo atipico per i Godflesh verso lidi ben diversi rispetto alle trame urbane a cui siamo spesso abituati.
Love Is A Dog From Hell
"Love Is A Dog From Hell - L'Amore E' Un Cane Dall'Inferno" è una rara b-side tratta dalla compilation "Pathological Compilation" del 1989, un brano che tratta in maniera negativa e sofferente del tema dell'amore, visto come illusione, schiavitù, e fonte di rovina e disperazione. Un suono distorto e dittatoriale, accompagnato da chitarre dissonanti, viene sottinteso da cimbali serpeggianti, in una marcia dai tratti ammalianti. Essa si ripete in modo ossessivo, instaurando un loop sul quale suoni stridenti di chitarra e ritmiche pachidermiche conducono l'ascoltatore in paesaggi grigi e fumosi. Le variazioni sono date qui dalle chitarre, dedite a riff rocciosi, ma capaci di convogliare nelle loro anti-melodie una sensazione di epicità malinconica. Al secondo minuto e mezzo il tutto si fa ancora più rarefatto, tra feedback assordanti e bordate ancora più distanti, mentre fraseggi drammatici s'inseriscono, presto contornati da una drum machine meccanica, classica per il modus operandi dei Nostri. Broadrick finalmente si manifesta con le sue vocals umane, ma piene di riverbero, delineando le sue invettive contro l'amore: esso l'ha ridotto come un derelitto, possessore di un cuore schiavo che è stato ucciso, e che ha fatto in modo che raggiungesse la cima della disperazione, rimanendo per sempre rovinato nella testa. Parole perfettamente accompagnate dalla musica stressante e dedita a suoni che graffiano, convogliando le sensazioni negative qui espresse; una serie di riff meccanici e stridenti genera un loop disorientante che non ci lascia scampo. L'amore è il maestro dell'inganno, un'anima corrotta, ripete con veemenza il Nostro, in un dramma tematico che trova nella musica sempre più aggressiva candidamente posto. Tornano i suoni dissonanti, sui quali Broadrick ripete con una sorta di pathos oscuro le sue parole, mentre gli strumenti vengono spremuti sempre di più: siamo sempre sulla cima della disperazione, anime corrotte, che riconoscono ora l'amore per quello che è, ovvero un cane che viene dall'inferno, pronto a trascinare qui le nostre anime. I cimbali si mantengono ripetuti e striscianti, in un tappeto ritmico sul quale continuano i vocalizzi concitati e i giochi stridenti di chitarra, toccando connotati quasi noise rock e progressivi, tra "suoni strappati" e lunghe code. Ecco ora una cesura più ariosa con groove di basso, grevi e ripetuti, sui quali il cantato si dilata, così come i rullanti di batteria e i loop ossessivi di chitarra. Raggiungiamo così una cacofonia finale, epitaffio della traccia, molto lunga, ma decisamente trascinante nella sua struttura ipnotica.
Crush My Soul (Ultramixedit)
"Crush My Soul (Ultramixedit) - Schiacciami L'Anima (Ultramixedit)" è un remix tratto dall'omonimo singolo del 1995, il quale vede una versione di "Crush My Soul", traccia di "Selfless". Il brano tratta di temi legati alla religione ed al potere, collegando le due cose, e portando in campo anche il vuoto esistenziale che spinge le persone verso di essa. Una ritmica sommersa di natura dub ci introduce al pezzo, portandosi verso un riffing meccanico e sottolineato da elementi quasi tribali, sul quale si delineano le vocals filtrate di Broadrick. Egli chiede di essere ingoiato per intero, e di fargli imparare ad obbedire, perché non abbiamo bisogno di lui, dobbiamo solo schiacciare la sua anima. Parte una bella sequenza fatta da montanti squillanti, una versione ancora più dilatata del riffing portante della versione principale della traccia. Qui la velocità della drum machine è minore, dando meno visibilità al gioco di botta e risposta con la chitarra. La rigidità dei dogmi viene in questo caso rappresentata più dall'ossessiva monotonia delle chitarre, pesantemente filtrate dai riverberi. Ritorna poi il cantato, dove ci si chiede come si possa vedere la speranza, quando non vediamo mai la luce, poiché siamo vuoti dentro. Parole semplici, ma che denunciano la vana illusione offerta dalla religione, incapace di colmare davvero i vuoti che abbiamo dentro. Come per reiterare la cosa, la musica tira dritto decisa, in una struttura lineare. Notiamo però una leggera variazione, che ci conferma come il songwriting minimale adottato dai Nostri sia dovuto ad una scelta artistica ben ponderata, e non alla pigrizia; s'inseriscono brevissimi momenti squillanti, che ci consegnano una marcia stridente e volutamente sgraziata. Un'atmosfera quindi estraniante, che configura un mondo duro e fatto di dominazione. Broadrick riprende con le sue grida sature di riverbero, ridotte a suoni persi nella nebbia, seguite da giochi squillanti di chitarra, ridotta ora ad uno strumento spremuto e totalmente dissonante, configurato in una serie di loop sottolineati dalla ritmica secca e dal sapore sempre quasi tribale. I suoni sono dilatati, ed incontrano inedite cesure dai suoni elettronici, che portano il brano su lidi ben diversi rispetto alla versione originale. S'intersecano i passi grevi e nuovi effetti stridenti, in una sequenza dal sapore futuristico ed ipnotico. L'amore di Broadrick per l'elettronica più acida ed estraniante trova pieno sfogo, dando senso al termine remix usato per questa riproposizione. Fraseggi ripetuti ad oltranza e giochi ritmici sincopati dominano ora la traccia, che si appresta a raggiungere una lunghezza di quasi un quarto d'ora. Troviamo asperità industriali, con colpi come d'acciaio, intervallata da drone ossessivi e dai campionamenti delle vocals del cantante; un certo gusto contratto s'impossessa della canzone, dandoci un movimento spezzato, quasi evocando una macchina mal-funzionante. Ed è su questa linea che si prosegue, introducendo nella metà finale ulteriori suoni elettronici e ritmiche sincopate, evocando territori da club lisergici ed ipnotici. Ed è così che si chiude la traccia, accompagnata da effetti siderali.
Flowers
"Flowers - Fiori" è una rielaborazione del brano "Don't Bring Me Flowers", presente nellì EP "Merciless". Il pezzo viene qui reso un mantra pulsante e quasi del tutto strumentale, rimanendo solo la ripetizione vocale della parola che da nome alla traccia. Un loop elettronico, come un bip ripetuto, introduce la costruzione sonora, andamento tanto sommesso, quanto ossessivo e ripetuto, presto però violato da un riffing tagliente in levare. Una marcia sonora che si avvicina sempre di più a noi, contornata da suoni elettrici, sempre squillanti e pulsanti, pronta ad esplodere in una serie di dissonanze di chitarra. Ecco quindi un'orchestrazione greve, basata su giochi di botta e risposta con baritoni evocativi e distorti, in un atmosfera allo stesso tempo ipnotica e grigia. Il songwriting estremamente minimale prevede pochi elementi, ripetuti con una sorta di rassegnazione esistenziale, di ineluttabilità, che trova perfetta conferma nella ripetizione ciclica della musica. Così come l'originale, nelle sue poche parole, non dava spazio alla speranza o al perdono, così qui è la musica a trasmettere tale messaggio. Le chitarre creano una lenta locomotiva arrugginita, destinata a muoversi tra i binari sonori costituiti dagli effetti ipnotici, mentre le dissonanze ci consegnano paesaggi sonori desolati, come la visione da un finestrino durante il passaggio. Ecco che all'improvviso Broadrick interviene con versi stanchi e quasi lamentevoli, ripetendo la parola "flowers-fiori" come un tetro monito; in sottofondo la musica si mantiene stridente e gracchiante, con una matrice ostica ben calibrata tra suoni distesi e ripetizioni. Qualsiasi possibilità di esplosione, di climax, viene negata, mostrandoci uno dei punti cardine dei primi Godflesh, ovvero la mancanza di facili strutture musicali legate ad alternanze classiche tra ritornelli e passaggi che vogliono ammaliare: l'ossessione industriale penetra qualsiasi aspetto della musica, e questo avviene ancora di più in questa versione "scheletrica" volta a rendere tutto ai minimi termini. Come uno spettro il cantato si lamenta tra le atmosfere distanti date dai vari suoni ed effetti, mentre l'accordatura bassa non cessa il suo loop tra dissonanze e pulsioni, con un gusto quasi dub che tornerà in futuro in forma ancora più esplicita. Ed è solo nel finale che giochiamo per sottrazione, spogliando prima il fraseggio secco, poi le chitarre ossessive, ed infine gli effetti elettronici. Una chiusura quindi che non punta certo a lasciare estasiato l'ascoltatore, e che fa decisamente capire perché i Nostri non sono un gruppo facile da apprezzare o comprendere al primo tentativo.
Tiny Tears (BBC Session)
"Tiny Tears (BBC Session) - Piccole Lacrime (BBC Session)" è il primo estratto dalla Peel Session del 1989, una versione in presa diretta della traccia bonus della versione in CD dell'album "Streetcleaner". La famosa parte della trasmissione radiofonica condotta dal compianto disc jokey e conduttore John Peel (R.I.P ottobre 2004) vedeva ospiti band prestigiose, alcune famose e altre meno, le quali suonavano in studio dei loro brani. Ecco quindi un brano che tratta tema del dolore, rappresentato in modo poetico da piccole lacrime che dovrebbero essere emesse dal mondo, in commemorazione del dispiacere. Una drum machine cadenzata introduce un ritmo meccanico, sottolineato da un basso fumoso. Ecco che il drumming prende energia, lanciandosi in una corsa a tutta velocità, insolita per i modi normalmente pachidermici dei Nostri. Dopo qualche secondo s'introducono le vocals ariose di Broadrick, piene di riverbero e dal gusto psichedelico e disteso: dal luogo in cui ci troviamo, sentiamo il dispiacere. Dell'universo. In sottofondo la musica prosegue senza pietà, caratterizzata da una ritmica spacca ossa e contornata da riff distorti dalla natura molto metal, in un'orchestrazione selvaggia che va a scontrarsi contro cesure dal basso greve e roccioso, sempre delineate da suoni stridenti improvvisi. Il songwriting è semplice, ma dal grande effetto, contornandoci di assalti continui ed atmosfere diafane, dove la voce spettrale del cantante contrasta con i suoni duri di batteria e chitarra. Ora egli ci parla di come il mondo dovrebbe quanto meno versare una piccola lacrima, la nostra piccola lacrima; notiamo qui un lato più umano dei Godflesh, estremamente malinconico e caratterizzato da una lucida disperazione che si traduce in una sorta di fredda calma, ma contornata da una furia musicale che esprime un tumulto esistenziale che non riesce a nascondersi. Il cantato vede anche una sorta di ritornello, mentre i riff mostrano montanti appassionanti, un galoppo continuo, dove ora non si può fare altro che ripetere con furia sempre più grande come il mondo dovrebbe piangere per il nostro dolore, rabbia che nasce dalla sua indifferenza continua difronte al nostro dolore. Di conseguenza, la musica va a creare una serie di contrasti tra colpi in quattro quarti e dissonanze, andando a collimare in un feedback che domina tutta la coda finale del brano.
Pulp (BBC Session)
"Pulp (BBC Session)" è il secondo estratto dalla "Peel Session", altra traccia qui presentata in presa diretta, ed originariamente presente nel disco "Streetcleaner". Si trattano qui i temi di distanza da tutto e tutti, basati sul sentirsi libero, ma anche senza più nulla. Bordate di basso grevi e piatti cadenzati ci danno il benvenuto, creando una sessione ossessiva, sula quale si organizzano poi drum machine marziali e riff a mitragliatrice. L'atmosfera bellica fa da sfondo per le vocals di Broadrick, declamanti e piene di riverberi, intente ad imporre la loro lezione aggressiva, destreggiandosi tra accordature basse e climi dittatoriali. Ci parla di come, quando è solo, si senta libero, potendo rifiutarsi di stare al gioco degli altri e alle regole imposte dalla società, mentre le sue braccia attendono, avvolgenti, con nulla rimasto più per lui. Il tedio monolitico espresso dalle parole, l'attesa eterna e solitaria, vengono perfettamente mutuate nell'ossessività della musica, acida nelle sue atmosfere sature e distorte, scolpite dai colpi duri di batteria e dai loop stridenti di chitarra, sottolineati da snare ipnotici. Sottili variazioni permettono ondate di movimento, ma la struttura si mantiene sempre strisciante e controllata, votata all'ipnotismo tramite un songwriting che ad orecchie non iniziate potrebbe sembrare semplice e fin troppo ripetitivo. In realtà i Nostri si dimostrano già grandi maestri nell'utilizzare un setting minimale al meglio, imbastendo trame sonore pulsanti e grevi; andiamo poi a scontrarci con montanti rocciosi, quasi thrash, i quali s'incastrano perfettamente con i rullanti militari. Seguono dissonanze evocative, in una sequenza squillante e densa, che rende tutta la follia del cantato, ora intento a grida e ripetizioni rabbiose. Musica e tema diventano tutt'uno, in una serie di attacchi che non conoscono tregua, freddi e calcolati, dall'andamento meccanico ed industriale. Difficile non pensare a quanto verrà in futuro, tra la ripresa di certi temi sonori da parte del nu-metal,allo stile altrettanto quadrato usato nel groove e nel post metal. La forza marziale va di nuovo a mischiarsi con dissonanze squillanti, in un'orchestrazione cacofonica che ci ammalia e che esprime tutto il dissidio interiore del cantante, feroce nella sua rabbia. La parte finale della canzone vede una serie di giochi tra tamburi e rullanti, che vanno a concludersi con un suono solitario.
Newspite
"Newspite - Nuovodisprezzo" tratta dalla compilation "Corporate Rock Wars" del 1994, non è altro che una versione alternativa del brano "Spite", proveniente da "Pure". Suoni meccanici ed industriali ci accolgono in un mantra distorto, sottintesi poi da piatti cadenzati. Ecco ora un suono dub dai bassi grevi, in un suono spaccaossa, granitico, ma anche affascinante,in una sequenza che fa da sfondo alle vocals in riverbero di Broadrick; egli ci illustra un mondo fatto di disprezzo, odio, rapporti rovinati, dove non esistono sentimenti veri, ma solo rancore. Chiede di essere visto, sentito, ascoltato, ma in realtà viene solo corrotto, e non rimane che essere odiati, dimenticati, e non più visti, mentre facciamo sentire tutto il nostro disprezzo. La musica rimane drammatica ed acida, mentre le urla del cantante vengono sottolineate da esplosioni di fraseggi stridenti, arricchiti da passi abissali, immersi in una distorsione rocciosa. La tensione cresce, mentre prosegue la disamina del Nostro, sorretto da ritmiche quasi hip-hop: ancora una volta chiede di essere visto, ascoltato, sentito, ma al massimo può ottenere di essere scopato e basta, e poi come di consueto odiato, dimenticato, non visto come essere umano, e rimane solo da liberare per l'ennesima volta il proprio disprezzo. Le chitarre seguono il loro corso stridente, liberandosi poi in loop dal drone accentuato. Riprende la marcia cadenzata, fatta di riff graffianti, tra i quali torna il cantato altisonante, urlando le parole già incontrate in precedenza, e declamando come il suo disprezzo deve essere sentito e succhiato dall'interlocutore; si presenta di seguito la coda finale qui destinata a regredire in una distorsione conclusiva che si perde nell'etere. Un brano che vede qui una versione più greve e distorta, votata al gusto per il dub e per le accordature basse, un tipo di rivisitazione che tornerà spesso nella carriera della band.
Empyreal 2
"Empyreal 2 - Empireo 2" tratta dalla compilation "Rareache" del 1995, è una versione alternativa del brano "Empyreal" presente in "Selfless", qui reso in chiave più sognante ed acustica. Il testo vede una sincera espressione di debolezza, una richiesta di aiuto che fa trasparire un'umanità che volente o nolente si mostra a volte nella musica dei Nostri, un grido dove tutta la nostra decadenza interiore e solitudine prende forma. Un suono onirico di synth si accompagna a cimbali cadenzati e rullanti, presto raggiunto da una bellissima chitarra dagli arpeggi delicati. Arriva la voce umana e delicata, di Broadrick, che distribuisce nell'etere le sue poche parole: non tutti sono fatti per poter portare il peso del mondo. Un concetto semplice, ma gravido di significati grazie ai sottintesi creati dalla musica, dove l'andamento trascinato e pesante è perfetta rappresentazione di un senso di enorme stanchezza esistenziale e sconfitta, raccontandoci di un vissuto non esplicitato, ma fatto di delusioni e dispiaceri continui. Un peso che un animo fragile non può sostenere, crollando oltre ogni abisso. Passaggi controllati e sempre dal gusto acustico fanno da ponte tra i vari punti, presentando un suono sempre fragile ed evocativo; ci ritroviamo quindi al mantra iniziale, sfondo per nuove esternazioni pacate del Nostro, leggiadre, ma dal significato tutto tranne che allegro. Egli ci chiede di sentire la sua decadenza e il modo in cui si sente solo, mettendo a nudo i risultati di quel peso di cui ha parlato poco prima. Un Broadrick che non si nasconde più dietro ad una maschera di cemento, e che mette in gioco, anche, il suo lato più intimo e personale, tanto nella musica, quanto nei testi, per quanto minimali e dalle pochissime parole. Passaggi acustici ed atmosfere rarefatte in sottofondo creano un'atmosfera sognante e malinconica, sulla quale la flebile voce del cantante si perde come nelle nebbie del ricordo. Come in un ripetere all'infinito la propria vita, egli ci ripete le stesse identiche parole, con lo stesso senso di spossatezza e rassegnazione. Una reinterpretazione toccante e semplice, che riduce all'osso il suono dei Godflesh, accentuando la natura già fragile e delicata del brano originale, anticipando in parte quanto poi fatto in futuro dal progetto Jesu.
Blind
"Blind - Cieco", tratto dall' EP "Merciless", è un brano il cui riguarda la cecità intesa come chiusura mentale ed emotiva, con riferimenti velati all'ignoranza vista come forza dalle masse, che preda della loro paura si affidano a facili utopie. Un suono dissonante e cacofonico prende piede, trascinandoci con sé fino all'introduzione di cimbali cadenzati. Ecco quindi che si aggiungono riff pesanti e passi cadenzatati di drum machine, sottolineata nella sua meccanicità da suoni industriali di sottofondo; Broadrick interviene con le sue vocals rauche e filtrate, perfette per delineare le sue parole pregne di vuota disperazione. I suoi occhi sono ciechi, e non riesce più a sentire nulla, come se avesse una mente inesorabilmente morta. Le parole trovano corrispondenza nella freddezza della musica, in un gioco di sinestesia dove tematica e sonoro diventano imprescindibili, e dove quest'ultimo dice più delle poche parole. Ora un andamento più ritmato ci consegna una sorta di ritornello dal basso greve, che invoca sferza continue. Si giunge così ad una cesura industriale con riff secchi ed effetti di synth inquietanti, dedicati ad un momento dal gusto cinematico; il rapporto di lasciate e riprese si arricchisce con ritmiche picchiettanti e dissonanze quasi sinfoniche, le quali s'incastrano di seguito con il cantato malevolo. La paura viene vissuta come forza, ci fa sentire sicuri, mentre non sentiamo più nulla e siamo da soli, utilizzando la debolezza come forza. La musica diventa sempre più minacciosa, ma sempre dal passo pachidermico, anche quando ripropone il ritornello martellante, destinato a collimare in nuove parti abissali di basso e suoni stridenti. La struttura quadrata evoca perfettamente le atmosfere asfissianti e senza colore del testo, dandoci un cyborg sonoro che è rappresentazione dell'estetica e degli intenti artistici dei Nostri, fautori di un suono allora unico, ma che già stava influenzando diversi generi ed artisti dello spettro alternativo, dal post-rock, al crossover, al industrial metal. Una resa dell'alienazione post-moderna, di un mondo sempre più privo di umanità e rapporti; intanto il brano si stabilizza ora su ambientazioni severe, scosse da riff nervosi. Ritroviamo di seguito le dissonanze notturne ed un Broadrick sempre più inumano, sottolineato prima dalle sinfonie stridenti, poi anche dalle bordate di basso. I modi ormai familiari si ripresentano, con uno stile industriale tanto aggressivo, quanto ammaliante nella sua anti-melodia. Si prosegue dunque su questa linea, giungendo alla coda finale fatta di cimbali sospesi e suoni corrosivi dilatati nell'etere. Una fabbrica sonora che è figura di quel gusto "biomeccanico" che caratterizza i Godflesh del periodo, legati a pochi elementi usati però egregiamente in un songwriting ossessivo, dove l'unione di musica industriale e metal genera qualcosa che è ben più della somma delle due parti.
Slavestate (Radio Slave)
"Slavestate (Radio Slave) - Schiavo Dello Stato (Radio Slave)" è un remix tratto dall'omonimo EP, una reinterpretazione in chiave sincopata e veloce del brano, giocata su ritmi spezzati e loop ossessivi dal gusto ritmico, tra influenze jungle, breakbeat e techno. Il brano subito esplode con i suoi suoni da fabbrica, prendendo il motivo elettronico dell'originale, dilatandolo in un loop ossessivo sul quale prende piede una ritmica ancora più meccanica rispetto alle pulsazioni usate nella prima emanazione della canzone. Suoni squillanti s'intersecano con loop vocali di Broadrick, intento a ripetere all'infinito la parola "Jesus", mentre la linea di basso serpeggia in sottofondo, facendo da collante per gli altri elementi usati. L'andamento ipnotico ed ossessivo rielabora in chiave più elettronica i temi sonori e lirici del pezzo, trasmettendo in questa occasione l'atmosfera di uno stato totalitario dove tutto è controllato, tramite il movimento continuo di drum machine e suoni reiterati. Superato il primo minuto, le bordate ritmiche si fanno ancora più possenti, mentre possiamo percepire una sorta di "funk robotico", sottinteso da malie oscure che mantengono la natura distopica del suono dei Nostri. E' interessante notare come, pur rientrando pienamente nell'elettronica da ballo dell'epoca, la canzone anticipi alcune tendenze recenti (ad onor del evro, frutto di un certo revival) nel mondo della techno più oscura, grazie all'uso di elementi pesanti e distorti ad uso e consumo di un dancefloor lontano da ogni solarità, e all'insegna dello sperimentalismo messo a disposizione per il movimento. Ecco che raggiungiamo suoni vibranti in una sequenza trascinante presto raggiunta anche dai suoni squillanti, i quali rimangono poi sospesi: largo quindi a rullanti di drum machine e giri di basso grevi, nonché al ritorno dei fraseggi notturni. Pochi elementi, ma usati in maniera efficace, capaci di non annoiare l'ascoltatore, nonostante la loro ripetizione continua, grazie ad un ponderato schema di alternanze. Dopo il terzo minuto si passa a climi ancora più ruggenti ed industriali, con campionamenti da macchinario, sottintesi da cimbali spediti e giochi ritmici, coadiuvati dai ruggiti di Broadrick. Si svela qui il gusto più ipnotico del musicista inglese, amante di generi quali il dub, l'hip-hop e la techno più spezzata e caustica, lontano dai connotati grind e doom mostrati agli albori della carriera della band.
Gift From Heaven Breakbeat
"Gift From Heaven Breakbeat - Dono Dal Cielo Breakbeat" è un remix tratto da "Love and Hate in Dub", l'album di accompagnamento a "Songs Of Love And Hate" contenente, appunto, reinterpretazioni in chiave dub e breakbeats di brani presenti sul disco del 1996. Ecco quindi una serie di ritmi spezzati e sincopati, dati da snare ossessivi e drum machine in loop sui quali si organizzano climi urbani e riff grevi e distorti. Un'atmosfera acida e nervosa caratterizza il tutto, mentre le vocals feroci di Broadrick si riducono in una ripetizione ossessiva di parole. Linee minacciose di synth fanno da collante per la marcia ossessiva del brano, dove le variazioni vengono lasciate alla ritmica; ecco all'improvviso un attacco fatto di chitarra ad accordatura bassa, fumosa e graffiante, contornata da alcuni squilli astrali che aggiungono elementi quasi onirici. Ma è la struttura secca e schematica a farla da padrona, arricchita da una batteria dai ritmi spezzati e da suoni ultra-distorti e grevi; non manca però una sorta di groove macilento, facendo suonare il tutto come un motore rotto che non parte. Il gusto per la scuola industriale trova qui una diversa applicazione, ma coerente con le radici ostiche della band, e anche con il suo piglio per la frammentazione, filtrazione, e revisione di elementi metal, qui ridotti a scaglie corrosive gettate in una centrifuga dove tutto vede una produzione votata al riverbero e al suono congestionato. La faccia più sperimentale dei Godflesh, allo stesso tempi motivo della natura unica della band, anche del motivo per il quale il mainstream, pur affascinato, non è mai riuscito a comprendere ed accettare la visione cannibale e mutante del duo, e soprattutto di un Broadrick refrattario ai confini e alle etichette di genere. Un passaggio anche filologicamente importante, che vede l'esplorazione di territori nuovi, senza però perdere di vista quella natura disturbante e greve tipica dei Nostri.
Xynobis (Clubdubedit)
"Xynobis (Clubdubedit)" è un remix tratto dall'omonimo singolo del 1994, una revisione in chiave puramente dub del pezzo. Un suono secco e ultra-distorto ci introduce ad un riffing in loop e dal passo felpato, pieno di riverberi, e segnato da una ritmica cadenzata e cadenzata. Broadrick si presenta con vocals altrettanto trattate ed ariose, delineando un testo che parla del peso delle emozioni e dei ricordi, che bruciano la nostra mente e ci fa sentire stanchi e carichi di un senso di disperazione, tale da farci cercare qualcosa di elevato per fuggire da tutto questo. Egli Ha visto così tanto che i suoi occhi bruciano, e non può fare altro che alzare le braccia verso il cielo, sentendosi come nessun altro al mondo. Il passo lento e sospeso prosegue, monotono e molto sintetico nella sua natura minimale basata su una batteria ripetuta ad oltranza, e suoni saturi di effetti. Viene ripetuto il testo, molto breve ed astratto, mentre si palesano poi nuovamente chitarre distorte e taglienti, coadiuvati di seguito da suoni squillanti; la rabbia dell'originale viene qui sostituita da un'atmosfera satura, quasi lisergica, e anche nei momenti in cui la voce del cantante si fa più graffiante, il tutto rimane immerso in uno strano tepore, come un filtro che ci fa vivere il tutto in lontananza. Ritroviamo quindi i passi monolitici e dilatati, sui quali si staglia il cantato di Broadrick, così come le ormai familiari parti di basso grevi e sferraglianti. Mondi acidi vengono evocati dal movimento strisciante e controllato, mentre suoni meccanici si ripetono in un mantra pronto a perdersi nella nebbia sonora, lasciando sempre più posto a strani suoni, prima di raggiungere l'oblio. Un remix che a dispetto del nome, ha ben poco di ballabile, risoluzione in chiave lisergica della versione originale del pezzo, dove vengono tagliati tutti gli attacchi feroci e le esplosioni, sottraendo volutamente energia dal pezzo, per ironia della sorte uno dei più energici e vivaci del disco da cui è tratto.
Witchhunt (Tyrant RMX)
"Witchhunt (Tyrant RMX) - Caccia Alle Streghe (Tyrant RMX)" è il primo remix inedito tratto dal disco mai pubblicato "Us and Them in Dub", il quale doveva essere un remix album del già molto elettronico "Us And Them". Ecco dei suoni pieni di riverbero, quasi assordanti, in una ritmica lontana e caotica dai tratti oscuri. Essa si accompagna a suoni altrettanto inquietanti, sorretti poi da passi sincopati ed alienazioni urbane. La lezione del hip-hop viene mutata in qualcosa di mutante ed acido, unita ad elementi dub e campionamenti frammentati di chitarra. Il pezzo tratta della persecuzione contro il diverso, chi non si adatta alle regole prestabilite, o sempliciste non è compatibile con una visione del mondo preimpostata e dalla quale non si può deviare. Il cantato feroce di Broadrick prende piede declamando come non ci sia alcuna scelta, c'è solo una via, e se non lo si accetta, l'unica soluzione è la guerra. Intanto si prosegue su suoni aggressivi, quasi una marcia di guerra dai suoni grevi e dalle accordature basse, che perfettamente rappresenta i toni testuali. Dissonanze ed una drum machine che sprofonda nei riverberi completano il quadro. Fare il giusto o lo sbagliato poco cambia o importa, distruggiamo quello che vogliamo, e soprattutto ciò che non comprendiamo, ed è inutile che gli altri scappino spaventati, bruceranno comunque. Graffianti riff stridenti e colpi ossessivi ci fanno da guida tra le asperità sonore, non risparmiando poi movimenti meccanici dal gusto industriale, contornati da loop vocali del cantante ed un basso che è quasi più un disturbo sonoro, che uno strumento. Una cesura più controllata offre suoni ipnotici e cimbali cadenzati, raccogliendo energia per la ripresa del passo spezzato che fa da perno alla traccia. Si ripropongono le alternanze iniziali, in un quadro sempre bellico, intervallato da cesure non meno secche ed aliene. Saturazioni dub e ritmiche sincopate ripresentano corridoi meccanici e giochi fatti di loop di basso e cimbali che seguono la loro linea, questo fino ad un improvviso abbassamento di trono: una dissolvenza di pochi secondi mette fine alla traccia., lasciandoci soli nel silenzio. Un remix che rende la canzone ancora più disorientante giocando sull'elemento dub fatto di riverberi, e su andamenti contratti.
Us & Them (Defensive RMX)
"Us & Them (Defensive RMX) - Noi & Loro (Defensive RMX)" è il secondo remix tratto da "Us and Them in Dub", in origine una traccia che tratta temi sul rapporto umano tra gli individui in un'ottica negativa dove la volontà di imporre la propria visione ha il sopravvento su tutto; non è difficile vedere anche un riferimento al fanatismo religioso e alla guerra, soluzione violenta purtroppo spesso adottata nello scontro tra culture e fedi diverse. Ecco quindi un riffing roccioso e marziale, il quale si dilunga per alcuni secondi, raggiungendo l'inizio di un passo greve, pieno di riverbero, e colpi secchi di batteria. Elementi notturni diventano qui ancora più stridenti, rendendo il tutto ancora più asfissiante e brutale. La voce di Broadrick si staglia sui riff robusti di matrice metal, piena di eco. Egli ci narra di come, semplicemente, ci siamo solo noi e gli altri, non c'è un'altra via, noi o loro. I toni si mantengono roboanti, tra ritmiche decise e loop di chitarra, sottolineate da un basso greve; le seguenti pulsioni elettroniche si fanno ancora più caotiche e brutali grazie al riverbero, e la stessa cosa vale per le vocals distorte del cantante, ora ancora più mostruose. Un clima altisonante e dalla ritmica ipnotica, dove la drum machine si muove tra fraseggi squillanti ed ossessivi. Bisogna arrendersi, oppure distruggere tutto, arrendersi, o fare in modo che il resto si adagi, ci dice il cantato, è una questione di noi o loro, devono capirlo ed arrendersi a noi. Ritornano i movimenti dai riff marziali, ancora uniti a ritmiche sincopate, mentre di seguito ritroviamo le distorsioni elettroniche che attraversano tunnel che ci conducono ad una cesura particolare. Abbiamo qui infatti un'elettronica lisergica e ritmata, in un momento da club che si dilunga fino alla ripresa dei suoni oscuri di chitarra, intervallati da movimenti sincopati. Si ripresenta quindi la voce piena di riverbero di Broadrick, così come le evoluzioni precedentemente incontrate, in un'orgia sonora che ci riconduce ai suoni squillanti dal carattere sintetico, uniti a colpi secchi di drum machine e fraseggi dissonanti. Ed è su queste note che raggiungiamo il termine della traccia, un remix che va ad amplificare gli elementi elettronici con un gusto ipnotico e disorientante.
Conclusioni
Una raccolta monolitica, adatta alla natura imponente e pachidermica del suono e della carriera dei Nostri, la quale offre una buona panoramica del loro suono ed evoluzione, presentando alcune delle loro tracce migliori, ed arricchendo il tutto con interessanti remix, rarità e versioni alternative. Partiamo quindi dal suono più aggressivo e industriale dei primi lavori, tra l'ancora acerbo EP omonimo, il capolavoro di debutto "Streetcleaner", le sperimentazioni elettronico/techno di "Slavestate" e i climi malinconici e sperimentali di "Pure", passando poi ai tratti più rock e languidi di "Selfless", agli elementi più shoegaze, ma anche agli attacchi drum'n'bass di "Us And Them", e al mondo urbano ed hip-hop di "Songs Of Love And Hate". Trova anche spazio il lato più nascosto e sperimentale del duo, fra remix tratti da singoli e anche inediti, sessioni in radio, e b-side presenti in varie compilation. Viene così data possibilità anche ai fan di vecchia data di trovare elementi d'interesse verso al raccolta, che diventa più di un semplice punto di contatto con chi ancora non conosceva i Nostri. Con il senno di poi si è trattato del vero, ultimo, grande lascito della prima fase della carriera della band, poiché l'album conclusivo, "Hymns", pur rimanendo un lavoro dignitoso, non raggiungeva la grandiosità del passato, e snaturava in parte la natura dei Nostri, cercando un suono più rock e tradizionale. Un sunto di una carriera che, rivista ora, sembra come un campo di battaglia, sia con l'esterno che con la stessa band, un continuo rimescolamento delle carte, ma anche la reiterazione di una tradizione, di una visione della musica metal unica e legata ad un songwriting che mette da parte i facili schemi ed il formato canzone, in favore di qualcosa di "sbagliato" e meccanico, una riproposizione musicale del dramma odierno della vita nella società post-industriale. Una battaglia per rimanere a galla in un mondo musicale dove i Nostri fungevano da ispirazione per generi e band, ma non avevano lo stesso riscontro in termini economici, spesso troppo ostici e intransigenti per trovare un vero spazio di rilievo nel mercato musicale, bisognoso di almeno qualche facile melodia e aggancio. Se c'è una cosa che questa raccolta dimostra, è che i Godflesh rimangono alieni anche nei momenti più melodici, ricercando l'effetto tramite saturazioni di suono e corde ribassate, piuttosto che tramite facili ritornelli. Tutto questo verrà poi ripreso dal mondo nu-metal, forse in tempi più propizi; è probabile che il duo abbia sofferto del fatto di aver anticipato troppo presto certe tendenze, trovandosi a spianare il terreno per altri una volta che certi suoni erano stati opportunamente digeriti e rielaborati. Se ascoltiamo con attenzione, capiamo subito da dove vengono le parti pulite accostate al growl dei Fear Factory, le claustrofobie quadrate del groove metal e del djent, i toni grevi e pesanti del post-metal, le atmosfere rarefatte e sature dello shoegaze. È tutto già qui, ma con un quid che rimane unico, la sensazione che si vada oltre ad uno stile ed una tecnica, un qualcosa di innato che non può essere riprodotto a tavolino. È insito in Broadrick essere contemporaneamente freddo ed umano, meccanico e vitale, una contraddizione che viene completata perfettamente dal compagno di avventura Green, e che rende terribilmente vera la musica dei Nostri e quel cyborg sonoro che è simbolo di quanto da loro presentato negli anni. Lontani da ogni posa o finzione, i due musicisti hanno sempre mantenuto un'immagine scarna e diretta, facendo parlare la loro musica senza costumi di scena o grafiche fantascientifiche. Se il loro suono è a tratti futuristico, il mondo di cui parlano è quello del presente, sia esteriore che interiore, più inquietante di qualsiasi distopia fantascientifica. Una natura per forza di cose delicata e sempre pronta ad implodere, come succederà effettivamente con la fine dell'esperienza dei Godflesh e i problemi che ne seguiranno. Ma la rinascita, la sopravvivenza costante, è un'altra delle risorse sempre presentate dalla band. Una rinascita che prima vedrà un Broadrick che esplora e accetta il suo lato umano e fragile con il progetto Jesu, e poi, più avanti negli anni, la ripresa di quei suoni e di quella band che lo stavano portando alla nevrosi più completa. Una band mutata, più matura, ma alla radice ancora una volta fedele a quella fusione tra modi industriali e metal, semplicemente una nuova variazione del tema che sposta l'ago della bilancia, senza però sconvolgere le fondamenta. "In All Languages" ci insegna che i diversi capitoli fanno parte di una narrazione che prosegue nel tempo, come una serie di libri legati ad una saga che evolve nel tempo. Questo sono i Godflesh, pionieri, ma anche esploratori, e questa è una parte della loro storia, essenziale per capire chi sono e come si è svolta la parte più lunga del loro viaggio, quella prima fase che ha presentato un'influenza imprescindibile per il metal moderno e alternativo.
2) Avalance Master Song
3) Like Rats
4) Streetcleaner
5) Slateman
6) Slavestate
7) Mothra
8) Spite
9) Pure
10) Xnoybis
11) Crush My Soul
12) Xnoybis
13) Crush My Soul
14) Anything Is Mine
15) Circle Of Shit
16) Frail
17) I, Me, Mine
18) The Internal
19) Love Is A Dog From Hell
20) Crush My Soul (Ultramixedit)
21) Flowers
22) Tiny Tears (BBC Session)
23) Pulp (BBC Session)
24) Newspite
25) Empyreal 2
26) Blind
27) Slavestate (Radio Slave)
28) Gift From Heaven Breakbeat
29) Xynobis (Clubdubedit)
30) Witchhunt (Tyrant RMX)
31) Us & Them (Defensive RMX)