GODFLESH

Hymns

2001 - Music For Nations/Koch Records

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
18/03/2018
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

Riparte la nostra disamina sulla discografia dei Godflesh, paladini britannici dell'industrial metal più greve, nichilista e marciante. Ci siamo lasciati con l'inizio della seconda fase della loro carriera, ovvero con l'Ep "Decline & Fall" del 2014, e ci ritroviamo con il finale della prima parte di quest'ultima, ovvero con quel "Hymns - Inni" che rappresentò un punto di rottura sotto molti aspetti. Dopo infatti due album che sperimentavano con climi urbani ("Songs Of Love And Hate" e il relativo album di remix "Love And Hate In Dub") e inflessioni elettroniche di drum 'n' bass ("Us And Them"), ora i Nostri ricercano un approccio totalmente diverso rispetto a quanto fatto fin'ora, basato su un formato canzone più tradizionale e incentrato sull'uso di un batterista umano (elemento questo però già presente nel prima menzionato "Songs Of Love And Hate"), ovvero Ted Parsons dei Killing Joke e Swans, e di influenze heavy metal più marcate. Manca l'utilizzo della drum machine e l'elettronica è ridotta al minimo, e per la prima volta vediamo l'apporto di uno studio esterno personale. Il risultato è una sorta di risposta all'ondata nu-metal di quegli anni, un suono minimale dai connotati quasi hard rock, basato su chitarra, basso e batteria; parte di questi cambiamenti è dovuta a pressioni da parte dell'etichetta, accolte da un Broadrick confuso e decisamente indeciso sulla direzione da intraprendere, il quale inizia ad avere grosse riserve sulla sua musica, mischiate con problemi personali e fragilità umane che da sempre contrastano con le sue espressioni musicali fredde e nichiliste, in realtà ombra di un animo sensibile che si trova in uno stato turbabile. Gli esperimenti degli ultimi anni sono ora da lui considerati un errore, sentendo di aver pero di vista la vera essenza dei Godflesh, e forse il Nostro non riesce ad ammettere a se stesso di aver esaurito per il momento la carica portante per questa band, ormai indirizzato verso altri mondi musicali. Dall'altra parte anche Green non vive bene la permanenza nel gruppo, e proprio "Hymns" e il tour seguente saranno al goccia che farà traboccare il vaso per lui, ormai insoddisfatto per la direzione presa dal progetto e dal fatto che, nonostante i Godflesh siano dei veterani, si ritrovino ora ad aprire per band come i Fear Factory, ispirate proprio dal loro suono. A malincuore deciderà di lasciare tutto per proseguire i suoi studi e salvare la sua relazione, mentre Broadrick cercherà di portare avanti la baracca, ma vittima del panico finirà per cadere in depressione, perdendo la sua compagnia, accumulando enormi debiti, e ricevendo addirittura minacce di morte. Una situazione nera, insomma, che segue un disco che in realtà avrà anche recensioni positive da parte di una fetta di stampa, anche se non mancheranno i pareri negativi di chi lo vede come un tradimento del loro suono. Per alcuni, infatti, l'uso di un formato canzone più tradizionale sarà positivo, consentendo l'avvicinamento anche di chi in passato era stato lontano dalla band a causa della sua natura greve, abrasiva e industriale; inoltre sono qui contenuti alcuni degli episodi più onirici e commoventi della loro discografia, gemme disseminate in un album di sicuro non fallimentare, ma che risulta suonare come un epitaffio annunciato. Domina infatti un'atmosfera piena di malinconia, raramente convertita nella stessa furia del passato, e i temi passano da una sorta di epicità che suona molto contraddittoria e sarcastica, ad un senso di sconfitta e impotenza di fronte alla realtà. Dissonanze e ritmi lenti rimangono presenti, inserite però in un contesto analogico; è inoltre interessante osservare come la batteria umana mantenga una struttura rigida, ma diversa rispetto alla drum machine grazie a quegli "errori" e fisicità che per ovvie ragioni non appartengono allo strumento. Considerando questo, capiamo come la natura di "Hymns" non sia così semplice da definire su due piedi: dire che si tratti di una svolta totale dl sound dei Godflesh sarebbe insensato, in quanto rimane una certa ossatura ed essenza tipica della band, ma allo stesso tempo è impossibile dire che si tratta semplicemente di un altro loro album, senza notare le differenze sia compositive, sia stilistiche e di espressione. Un lavoro particolare, che visto in sé risulta anche godibile, ma che inserito nella discografia dei nostri, e visto da un punto di vista "filologico", non può non essere percepito come un punto di arrivo: la fine di un percorso. La macchina infatti si è fatta man mano più umana, la furia è scemata, lasciando un pathos vicino alla tristezza e alla malinconia. I tempi sono maturi per un'evoluzione che nascerà dal dolore e dalla perdita, vero soprattutto per il progetto post-rock/shoegaze Jesu?, dove Broadrick potrà concedersi espressioni diverse, così come nell'elettronica sperimentale e dub di JK Flesh, la quale offrirà forme di musica sperimentale meno personalizzate e più astratte.

Defeated

"Defeated - Sconfitto" è una traccia che sin dal titolo rende chiaro il suo tema portante, ovvero la sconfitta nell'esistenza, sconfitta che riguarda ogni aspetto, sia ciò che non si ha, sia ciò che si ha ottenuto. Ecco che un feedback di chitarra in levare prende sempre più posto nell'etere, un suono in levare che esprime una tensione che sale, e che è pronta a liberarsi. Un riffing roccioso accompagnato da piatti cadenzati e sparsi per delinearne l'ammanetto epico prendono posizione, creando un movimento serpeggiante contornato da alcuni giri circolari pieni di pathos; parti stridenti e arie trascinanti si uniscono, portandoci poi ad una struttura più robusta, fatta di loop grevi e batteria ben più sentita e pestata. Una trama metal ora ci conduce con sé, mentre le vocals inquisitorie di Broadrick si uniscono all'andamento sincopato della strumentazione, dandoci una marcia ritmata: tutto ciò che costruiamo, distruggiamo, tutto ciò che amiamo feriamo, tutto ciò che odiamo lo vorremmo amare, tutto ciò che siamo, è ciò che in realtà non siamo. Una serie di contrasti tematici che esprimono dissidio, sofferenza per la propria condizione esistenziale e per la differenza tra l'interiore e l'esteriore. Dal punto di vista del songwriting notiamo subito delle caratteristiche meno rigide e più groove rispetto ai Godflesh classici, anche se vengono mantenute dissonanze e toni grevi ed oscuri; ecco ora una serie di bei passaggi di chitarra dal gusto hard rock che con le loro impennate ci danno una cesura che mantiene tutta la vitalità insita nel brano. Riprende di seguito la marcia sferragliante, così come il cantato caustico: viene chiesto come ci si senta ad essere liberi, a vedere in maniera chiara, e con sarcasmo si rimarca come ora siamo gli altri e siamo completi, liberi dalla sconfitta. Una falsa vittoria quindi, ottenuta dall'uniformarsi, nel rinunciare a sé stessi; la musica segue intanto con fraseggi taglienti e colpi potenti, ma contenuti, aprendosi a sequenze più lanciate e dominate da ritmiche frenetiche, am anche d improvvise dilatazioni quasi doom, collimanti in chitarre ariose ed epiche, segnate da piatti strascicanti. Una bella anti-melodia malinconica supportata da arpeggi squillanti fa da nuova cesura, portandoci con sé in una sequenza raffinata che mostra un gruppo più intimo, Ed èc osì che si chiude l'episodio, tra arpeggi delicati e feedback in sottofondo, i quali poi lasciano spazio solo ai primi in un silenzio che esprime più di mille parole.

Deaf, Dumb & Blind

"Deaf, Dumb & Blind - Sordo, Muto E Cieco" parla del chiudersi in se stessi, fuggendo dal dolore e dalla realtà, e anche dalle emozioni umane come amore e odio, nascondendosi da tutto. Un tema di chiusura e di fuga che trova perfettamente posto nel disco, dominato da tali elementi. Un motivo dissonante e spezzato introduce il pezzo, contornato da una ritmica sincopata: esso esplode in un riffing contratto, sul quale di seguito esploderanno i ruggiti di un Broadrick furioso: oltre il suo inferno e paradiso, aldilà di tutto l'odio e l'amore, si trova una realtà assoluta di isolamento da tutto e tutti. Il suono combattivo rispecchia quindi uno stato d'animo portato alla lotta, espresso anche tramite loop dalle linee squillanti e dalla batteria decisa. Imponiamo ciò che è percepito come reale, e distruggiamo ciò che sentiamo, è tutto dentro di noi, è qui che ci nascondiamo; le ritmiche quasi tribali e el chitarre taglienti sono ancora la volta la perfetta rappresentazione di tutto ciò, e l'aggiunta dopo la cesura dissonante del secondo minuto di toni drammatici non è casuale, reiterando e potenziato la percezione di una sensazione legata ad una tensione costante che cresce. Viene comunque mantenuto un groove trascinante e dal sapore post rock, delineato da pause dissonanti e suoni squillanti, e spesso lanciato in cavalcate urbane; Broadrick ripropone con energia il suo messaggio come sefosse uno slogan, e i riff rocciosi e massicci non si tirano certo indietro nell'esprimere tutta la loro potenza, mentre nuove cesure e drammi sonori ripropongono le evoluzioni già incontrate in precedenza. Un clima che sembra pronto ad eruttare in qualcosa di terribile, in un'esplosione assassina: ma ecco che invece, all'improvviso, tutto cessa, fermando semplicemente il corso del brano. Un climax quindi interrotto, propriamente un anti-climax, che si lega con abilità al tema trattato: non c'è qui nessuna catarsi emotiva, l'isolamento crea solo una rabbia che rimugina in se stessa, senza possibilità di soluzione.

Paralyzed

"Paralyzed - Paralizzato" tratta del sentirsi schiacciato, e appunto paralizzato, dagli eventi e dalla vita, e di come sin dalla nascita siamo schiavi condannati ad essere tali fino alla morte. Un'espressione di una prigionia e mancanza di fuga nel quotidiano, di disperazione che porta al dissociarsi da tutto, anche dal proprio animo e da ciò che sentiamo. Suoni contratti salgono portandoci poi verso un bel riffing dissonante, intarsiato su un'aria che riesce nonostante ai suoi elementi caotici ad essere soave e trascinante,ancora una volta mostrando quell'elemento rock che da al disco una natura più groove. Un ossessione sonora che si apre anche ad impennate più decise, che caricano l'atmosfera di energia possente e combattiva; ecco Broadrick con le sue grida rabbiose, il quale ci narra di come sin dalla nascita siamo schiavi, non riuscendo a credere in noi stessi, e allo stesso tempo a vedere oltre noi stessi. L'aria si satura di giri roboanti e linee squillanti, in una serie di contrapposizioni che danno la cifra di un dissidio sonoro che è specchio della furia tematica, del non poter resistere davanti a questa sensazione continua: perché dovremmo lottare, ci chiediamo, invece di girare le spalle a tutto? Nulla può farci male, se non è reale, e sin dalla nascita fino alla morte, le cose rimangono le stesse, nulla cambia davvero. Versi sempre gridati con veleno, e musica combattiva e piena di tensione e dissonanza, per una marcia che però viene anche cesellata da cesure melodiche che danno una malinconia che vive sotto alla furia dominante. Giri trascinanti seguono il corso, così come ritmiche decise e strutturate, ossatura del movimento continuo e denso, una saturazione musicale voluta che fonde la causticità tipica del gruppo con momenti più rock. Le vocals riprendono con i loro versi feroci, mentre Broadrick ci ripete come sia sempre stato uno schiavo, e di come sarà sempre lo stesso, cercando di fuggire dalla realtà per non essere più ferito. Si degenera in un gioco di dissonanze e bordate grevi, conducendoci verso una coda finale scolpita da piatti e colpi secchi, proseguita fino all'interruzione improvvisa del trotto, la quale mette la parola fine al nostro viaggio concitato.

Anthem

"Anthem - Inno" è una sorta di inno tra la liberazione espressiva e il sarcasmo, dove si celebra il ritrovare se stessi in un punto di rottura, in un annullarsi ed assimilarsi totalmente all'altro, ovvero l'opposto di ciò che teoricamente si sta dicendo. Un bel fraseggio acustico apre il tutto con arie delicate e ripetute, evolvendo però poi in un riff potente ed emotivo, una sorta di mantra annunciato capace di dare pathos alla struttura, non a caso presto completata dalla voce filtrata e quasi angelica di Broadrick, qui umano e vulnerabile. Egli ha trovato la sua anima, proprio quando ogni sentimento è stato schiacciato da questo mondo, e già sappiamo che troverà la sua purezza in tutto ciò che è dentro di lui, nel suo mondo personale. L'apparato sonoro si mantiene controllato in una specie di ballad (per i canoni dei Nostri) che abbraccia pienamente l'elemento rock, aggiungendo anche tastiere magistrali capaci di completare perfettamente l'elemento emotivo che si vuole raggiungere; torna anche la voce ariosa, la quale esprime ora come l'altra persona ci fa sentire quello che sente, e di come ora diventeremo lei eparchia sa cos'è vero, e vedremo quello che vede lei. Ma ecco subito la contraddizione: ci viene detto che non sarà mai noi, perché ora abbiamo trovato la nostra anima, contrastando con il tema di immersione di se stessi nell'altro poco prima espresso. Forse una considerazione improvvisa, uno stacco dal torpore, o una presa di coscienza. Intanto la batteria serpeggiante prosegue insieme ai giri di chitarra in un loop continuo, pronta ancora una volta a dare spazio ad arie evocative e piene di malinconia esistenziale, segnate dai synth sapientemente usati; ma ecco che superato il terzo minuto, all'improvviso, un riff greve e dissonante fa da cesura, seguito da un galoppo ritmato di drumming cadenzato e chitarre sincopate dal groove trascinante. Collimiamo nella ripresa del motivo iniziale, ripetendo gli ultimi versi in modo sempre arioso e sognante. Nuove melodie piene di pathos ripropongono l'anima del pezzo, una sorprendente evocazione di sentimenti che va a concludersi con un feedback rumoroso e squillante, lasciandoci colpiti da questo veloce passaggio che mostra is emi di un suono che evolverà in altra sede con il progetto jesu.

Voidhead

"Voidhead -Testavuota" è una traccia che con poche parole, più sensazioni ed associazioni che discorsi ragionati, si esprime un senso di vuoto totale, generato dall'esistenza e dai contrasti che porta. Un fraseggio rumoroso si apre a bordate marcianti e piatti strisciatati, in una sequenza convincente che si ripropone con i suoi climi post rock anche davanti all'arrivo della voce piena di echi di Broadrick, comunque umana, per quanto in qualche modo combattiva. Egli si muove tra la ritmica serpeggiante e i loop di chitarra ossessivi, esprimendo parole come negazione, mancanza di funzioni, di amore, significato, in una filastrocca nichilista dove la mancanza di paura, il sistema, la sofferenza, e l'esistenza sono concetti associati tra di loro in maniera libera, ma non certo casuale. Groove decisi e dal sapore hard rock fanno da raccoglimento energetico, pronti a convogliare un'altra sequenza ritmata: il significato, la distorsione, la mancanza di forma, i sentimenti diventano una cosa unica, così come, ancora una volta, la mancanza di paura, il sistema, la sofferenza, e l'esistenza. Il songwriting sobrio, ma deciso, prosegue con le sue falcate, dandoci un episodio che trova sapore nel contrasto tra l'apatia tematica e l'energia mantenuta nella strumentazione. Ecco che all'improvviso una cesura contratta accompagna la domanda disperata di Broadrick: perché è così vuoto? I riff di chitarra esprimono la rabbia sempre più espressa nella ripetizione vocale, ora urlata con furia, ma la ritmica si mantiene serpeggiante. Si mantiene il tema sonoro qui generato, ripreso da fraseggi ricchi di un bel movimento caratterizzato da suoni di derivazione rock ben più controllati ed "ascoltabili" rispetto ala tradizione della band. Una sequenza che si ripete in un loop destinato a potarci con se fino alla conclusione della traccia, segnata da un feedback in solitario. Un episodio che conferma una voglia di confrontarsi con suoni più tradizionali, probabilmente dovuta molto alle ingerenze esterne che contribuiscono al disco.; non una brutta traccia, ma priva sia del mordente classico, sia della nuova forma che troviamo invece in altri episodi dell'album.

Tyrant

"Tyrant - Tiranno" tratta di qualcosa o qualcuno che domina le nostre vite, dettando il bello e cattivo tempo, guidando la nostra esistenza. Un dittatore letterale? La depressione? Significati sia politici, sia esistenziali, possono essere applicati, e sta all'ascoltatore interpretare il brano secondo il proprio sentire. Ecco quindi una serie di suoni dissonanti e squillanti, strutturati in un mantra meccanico che prosegue imperterrito, unito poi ad una batteria umana ritmata e belligerante, e ad arpeggi grevi di chitarra, abrasivi come da tradizione per la band, ma caratterizzati da una certa tendenza caustica e lisergica dal gusto crossover. Broadrick interviene con la sua voce dittatoriale ed imponente, declamando il testo come se fosse ad un comizio in cui si rivolge ad una folla; diamo omaggio alla caduta, e alla pioggia nera, invertiamo ciò che è sano, e serviamo al fede altrui. La marcia militante prosegue con forza, convogliata nei loop di chitarra, mentre di seguito esplode una cavalcata metal dalle strutture sincopate, una sorta di risposta al suono nu-metal che proprio in quegli anni aveva raggiunto la saturazione, e l'omologazione totale come prodotto commerciale di massa. Naturalmente, i Godflesh sono stati tra i gruppi che hanno ispirato i capi saldi del genere, Korn in primis, quindi l'uso di strutture contratte e chitarre ad accordatura bassa non è qualcosa di inedito; vi è pero una certa energia urbana e tratti groove che non possono non essere visti come figli del loro tempo. E mentre la nera pioggia cade, la musica non accenna a diventare meno monolitica, proseguendo con la perfetta rappresentazione del tema portato avanti. Siamo completi, ma non possiamo trovare il dolore, ed è per questo che invertiamo ciò che è sano, e serviamo la fede altrui; segue una nuova esplosione dominata da loop disorientanti e batteria pestata, ennesima espressione di furia. Questa volta però essa si scontra con una cesura drammatica fatta di fraseggi spezzati e ripetuti, strutturati poi in un loop unito a piatti serpeggianti e colpi secchi di batteria. Si genera così una bella sequenza che acquista una sorta di anti-melodia stridenti, infranta però da un'altra pausa, fatta di suoni squillanti. Riecco quindi la processione rocciosa, dove il cantato ripete i versi ormai familiari, reiterando la sua oscura lezione mentre le chitarre procedono a passo d'oca. La terza esplosione devasta l'etere con i suoi attacchi ritmici e chitarre taglienti, confermando una traccia diretta e aggressiva, conclusa con un breve feedback squillante.

White Flag

"White Flag - Bandiera Bianca" vede il ritorno del tema della sconfitta, espressa esplicitamente tramite l'immagine della bandiera bianca, del gettare la spugna. Nonostante si provi a fare diversamente, c'è qualcosa dentro di noi che ci porta sempre verso l'inevitabile conclusione. Un fraseggio distorto prende posto nell'etere, intervallato da arpeggi altrettanto rumoroso, una marcia presto completata da rullanti di batteria cadenzati e piatti dilatati, un ipnotica sequenza dal gusto meccanico. Broadrick dispiega le sue vocals ariose con effetti di eco, grazie alle quali ci narra di come abbia provato diverse volte ad elevarsi, cadendo però ogni volta sul duro terreno. La musica si mantiene lenta e serpeggiante, un accompagnamento strisciante; ma ecco che all'improvviso, dopo l'ultima nota vocale dilatata, prende piede un bel montante rock dal gusto acido e quasi psichedelico, coronato da arpeggi dissonanti e squillanti. Il nuovo movimento ha vita breve, andando a scontrarsi con la marcia iniziale, sempre monolitica ed ossessiva: ora il cantato descrive come imploriamo il Signore, dicendo che lui sa come proviamo, ma anche che vede esattamente quello che siamo, guardandoci dentro. Un misto di colpa ed impotenza davanti agli eventi, davanti al ripetere sempre gli stessi sbagli, al continuare a cadere inevitabilmente. E quasi a volere esprimere questa monotonia, questo loop esistenziale, che nella musica trova una rabbia che da modo dis sfociare, ritroviamo le evoluzioni precedenti, con un andamento pronto ad aprirsi a nuovi giri ruggenti e parti stridenti, mantenendo l'atmosfera lisergica e disorientante. Una batteria umana, ma pestata, fa da ossatura alle chitarre dissonanti, mentre ecco una digressione che fa da cesura con un feedback protratto, una sorta di disturbo che collima in un inedita sessione oscura dal gusto doom, fatta di suoni severi e ripetuti. Si aggiunge quindi una batteria cadenzata, dandoci una sessione dal gusto metal decisamente ben strutturata. Impennate di chitarra delineano il movimento, regalando classe ad uno dei momenti migliori di tutto il disco; evoluzioni ritmiche e giochi di chitarra ci regalano dei Godflesh decisamente più eclettici rispetto alla norma, segnalando una variazione che però non tradisce la loro natura minimale. Largo quindi a nuove raffiche in solitario e tensioni n sottofondo, per un finale che ha il gusto della jam session, piuttosto che della chiusura caustica.

For Life

"For Life - Per La Vita" parla del sentirsi inutili nella vita, non voluti e dei perdenti, ma anche del farne "un vanto", prendendo coscienza della propria posizione ed identità di outsider, capace di provare empatia per la sofferenza altrui, destinati (o condannati) a farlo per la vita intera. Un arpeggio sobrio e deciso apre le danze, seguito da un fraseggio squillante, segnato da striature di chitarra ed intarsiato da ritmi picchettanti. Ecco un Broadrick dal cantato quasi gutturale, rauco ed abrasivo, il quale descrive come si sente non voluto, mentre vede e crede, in modo tale da non essere altro. Un suono sferragliante sottintende il tutto, aperto da nuovi passaggi taglienti ed abrasivi. Forse il Nostro è un perdente, ma c'è dentro per la vita: impennate rocciose e giri secchi sottolineano queste ultime parole con veemenza dando supporto musicale al senso di rivalsa ampliamene espresso. Torniamo di seguito al movimento iniziale, sempre contornato da una batteria secca e da suoni disorientanti, nonché da vocals rauche; il traditore, il credente, non può finire ciò che ha iniziato, prova a sentire il dolore di chi soffre di più, il narratore sente il dolore di ogni cosa, è ciò che è, e ancora una volta ci ricorda come c'è dentro per la vita. Lente marce dissonanti e fraseggi stridenti scolpiscono l'etere, così come cavalcate più concitate, ma sempre controllate, giocate su una lenta pesantezza protratta in modo ossessivo. Un suono ancora una volta lisergico fa da cesura, dilatandosi fino all'intromissione di piatti cadenzati e giochi di chitarra che prendono poi corpo grazie ad un drumming più vivace e a motivi ripetuti. Andiamo a scontrarci contro una ripresa del movimento iniziale, ora dedito ad una lunga parte strumentale , interrotta dalla ripresa del cantato, il quale ripete i concetti già espressi, eruttando nuovamente con la strumentazione in esplosioni devastanti, marcianti e rocciose. Un episodio quindi che convoglia la natura dissonante ed abrasiva dei Nostri nello stile del disco più "acustico" perfettamente, facendo largo uso di suoni "anti-melodici", ma organizzati in sequenze riconoscibili che catturano l'ascoltatore. Non ci sorprende quindi il finale lasciato ad un breve feedback di chitarra, capace in pochi secondi di portare al silenzio la lunga sequenza che caratterizza l'episodio nella sua natura quasi post-rock.

Animals

"Animals - Animali" sembra trattare di una sorta di descrizione della perdita d'identità ed aspetti umani, ridotti ad animali, che cadono senza speranza alcuna e privi di desideri e bisogni. Un quadro ancora una volta non certo positivo, espressione di un senso di sconfitta ed alienazione ben marcati e presenti. Un riffing dissonante ed ossessivo apre la traccia senza molti fronzoli, ripetuto nei suoi loop e colpito dal drumming asciutto, coadiuvato da un basso greve in sottofondo e dilatato da festeggiare squillanti. Broadrick interviene con i suoi ruggiti, accostando la fede alla caduta, e parlando di come senza un'identità cadiamo, privi di speranza e di bisogni, ridotti ad animali. La musica si mantiene decisa e giostrata su ritmi lenti, ma pesanti, mentre le chitarre abrasive si aprono in groove devastanti che ricordano un gusto crossover altisonante; l'energia ottenuta si ripercuote anche sulle vocals, ora ancora più furiose ed inquisitorie, le quali ci ricordano come siamo ridondanti nel profondo, mentre muti cadiamo, ancora privi di speranza e bisogni, animali. Ancora una volta raggiungiamo un climax sublimato però non da un attacco, bensì da fraseggi notturni e squillanti, contornati da una batteria strisciante, dandoci un bel effetto quasi progressivo. Riprende la solita marcia serpeggiante, tra motivi di chitarra fumosi, basso greve e colpi secchi dal gusto ritmico, quasi tribale. Tornano anche le vocals ruggenti del cantante, le quali ripetono sempre con veemenza i concetti precedenti, mantenendo vigore e rabbia mai trattenuta. Ritroviamo le esplosioni abrasive, con riff dalle bordate sferraglianti e dai fraseggi dilatati, così come gli arpeggi notturni carichi di bella malinconia, ma anche dissonanti e senza compromessi. Una struttura minimale che viene supportata da piatti cadenzati e drumming pestato, ripetuto in un'ultima coda cessata da un suono greve ad accordatura bassa, segnale del finale del brano. Non qualcosa di inedito all'interno del contesto dell'album, anzi un momento molto vicino ad altri qui presenti, ma comunque di discreta fattura e capace di portare nel suono dei Nostri elementi urbani tipici del periodo.

Vampires

"Vampires - Vampiri" ha un messaggio misantropo e negativo verso il prossimo, percepito come un vampiro che vuole manipolarci e succhiare le nostre energie, qualcosa di nemico che vuole sfruttarci e renderci asserviti. Un fraseggio in levare, come una sirena, ci trasporta verso una sequenza ritmata, dal gusto sincopato e deciso, ossatura di un movimento contornato da batterie come colpi secchi. Broadrick erutta le sue parole velenose, mentre riff distorti riempiono l'etere; ci accusa di essere dei fottuti falsi, che prosciugano il suo sangue, che parlano senza che lui necessiti di una risposta, e che se lo spingono abbastanza, possono ottenere che lui sia quello che vogliamo. Il substrato musicale si mantiene robusto, mentre le ultime farsi vengono pronunciate con fare arioso, sospese su arpeggi fumosi e dilatati; dopo un'ennesima sessione tagliente, tornano gli andamenti striscianti di poco prima, insieme alle vocals rabbiose del Nostro: lui è nostra possessione, lo scolpiamo, lo modelliamo, ed ancora una volta ci ricorda che può essere quello che vogliamo, se lo spingiamo abbastanza. Nuovi passi dilatati, nuove parti ariose, così come nuovi suoni più pestati, ma dagli arpeggi epici e dal drumming cadenzato, i quali innalzano l'adrenalina, prima di riportarci ai soliti motivi musicali. Riecco quindi le evoluzioni che già conosciamo, in un loop che prende i connotati del mantra, indirizzato alla ripetizione della musica e dei concetti ad oltranza. Broadrick ripropone quindi i suoi urli su chitarre abrasive e giri stridenti, così come i cori eterei che fanno da introduzione a digressioni solenni con feedback di qualche secondo. Segue una nuova cavalcata epica, con chitarre magistrali e batteria asciutta, destinata a trascinarci con sé fino ad una chiusura sottolineata da giochi di chitarra e costruzioni sospese, dal gusto evocativo e spettrale. Una lunga coda psichedelica, che ancora una vota mete in gioco gli elementi insolitamente rock che compaiono in questo album, e i modi acidi che spesso lo caratterizzano. Un debito verso la scuola anni settanta non così strano, dato che da sempre il cantante si è dichiarato ispirato dai Black Sabbath e dalle loro atmosfere occulte e lisergiche.

Antihuman

"Antihuman - Antiumano" è l'espressione massima della misantropia e disgusto verso il genere umano raggiunto da Broadrick, un insieme di parole e concetti che vertono in un attacco al concetto stesso di umano, al dolore provocato dal vivere, alla nostra mancanza di anima. Un suono di chitarra in loop viene sovrastato da effetti elettronici, elemento scarseggiante in questo album, ma non certo alieno al gruppo; ecco che pulsioni dal gusto hip hop si fanno strada insieme a chitarre squillanti e striature sonore, consegnandoci un'atmosfera acida e ruggente, ma allo stesso tempo ritmata ed urbana. Broadrick si manifesta con versi distorti, privo di umanità, quasi demoniaco. Egli esprime disgusto e ripudio, parlando di schiavi con occhi morti, mentre la colonna sonora si apre a fraseggi squillanti e suoni minacciosi, ma trascinanti; quando soffriamo stiamo giù, con occhi morti, che guardano alla nostra sofferenza. Nuovi suoni abrasivi e disorientanti si librano con una marcia lenta e massacrante, conservando toni crossover e post-rock molto ben presenti all'interno dell'episodio. Sono le nostre anime a stare giù, senza vista ed anima, e il nostro implorare, non serve assolutamente a nulla. Le parole vengono ripetute con toni ancora una volta disumani, seguite da scosse elettriche e loop dissonanti; seguono fraseggi grevi e drumming secco, così come sequenze di chitarre stridenti; l'elemento vocale si fa sempre più distorto ed irriconoscibile, riducendosi ad un suono basso, sottolineato dalle atmosfere acide del brano. Ora giri stridenti ed un basso greve rimangono protagonisti, cedendo poi il passo ad effetti di drum machine e giochi ritmici, sottolineati nel finale da un ultimo suono gorgogliante, il quale mete fine al brano. Un ritorno dell'elemento più sintetico, secondo però dei modi non uguali al passato, sempre contornati da una struttura più classicamnete rock, pur nei limiti di ciò che sono e rappresentano i Godflesh.

Regal

"Regal - Regale" ha un testo composto da poche parole, ma che curiosamente cozzano (volutamente) contro il titolo: infatti si parla di rimanere giù. Di non potersi rialzare, di non riuscire ad emergere perché ci si perde nel sentire il tutto. O forse non è così: forse ciò che davanti a cui ci inchiniamo è regale, una regalità fatta di autorità e sopraffazione. Diverse interpretazioni per un ennesimo episodio dove comunque viene trasmessa un'idea di sottomissione alla realtà, ma anche di consapevolezza davanti al fatto di non poter essere altro, se non se stessi. Un feedback stridente di alcuni secondi viene seguito da un appassionante motivo di chitarra che tiene fede al nome del brano, pieno di pathos e melodia solenne, coadiuvato poi da un drumming dilatato e da suoni grevi di basso. La coda prosegue con evoluzioni ancora più coinvolgenti, dandoci un passo ritmato sul quale intervengono le vocals ariose e con echi di Broadrick: egli cade, non riesce a rimanere in piedi, rimane giù, non si rialza, umanizza ogni cosa, e per questo ogni cosa diventa lui. Intanto i suoni dal gusto alt-rock proseguono, consegnandoci sempre una sensazione soave, configurando un episodio che ha quasi i toni della ballad, fino ad ora rilassato. I giri di chitarra si moltiplicano, strato sonoro perfetto per i modi "reali" qui raggiunti, calibrati poi su nuove melodie accattivanti ed umane, un aspetto inedito dei Nostri, ma presente in questo album in molti modi. Il cantato ripete le parole precedenti come in un mantra, e si ripropongono le evoluzioni già incontrate, tra toni soavi e cavalcate intrise di emozione. Un crescendo destinato a ripetersi tra fraseggi di ottima fattura ed una batteria cadenzata. Ecco poi una coda appassionante, fatta di montanti più decisi, ma sempre controllati, una sessione hard rock combattiva, che segna al chiusura della traccia. Poche parole quindi, hanno delineato un quadro dove la propria fragilità, si rispecchia nella musica umana e condizionata dal sentimento, uno dei momenti che esaltano le novità di questo disco, dove il suono solitamente disumano e un tempo robotico dei Nostri, svela una debolezza esistenziale che possiamo benissimo ricollegare ai dubbi e difficoltà vissute dal Nostro durante questo periodo.

Jesu

"Jesu" sembra chiudere il ciclo tematico del disco con una soluzione filosofica molto vicina a Leopardi: alla fine dei giochi, è la natura a mettere la parola fine ai nostri tedi e dolori, spazzandoci via senza neanche accorgersene, perché ai fini del cosmo siamo nulla, solo polvere che dura meno di un secondo. Inoltre, la carica nichilista fa anche da "piazza pulita" da cui ricominciare con un nuovo mondo musicale e tema, un mondo non a caso legato al gruppo che porterà il titolo di questo pezzo come nome. Un fraseggio meccanico e greve viene sorretto da colpi pesanti e feedback dissonanti, crescendo d'intensità in una marcia severa; ecco un riffing serpeggiante che ne riprende il motivo, convogliando una tensione ben espressa dalle vocals belligeranti e feroci di Broadrick: la natura ci calpesterà, ci divorerà, e nel mentre invochiamo la figura di Jesu a ripetizione. Un mantra che suona come una sorta di evocazione o cerimonia, poi interrotta da nuovi passi taglienti e colpi di batteria industriali. Il movimento si mantiene strisciante, sorretto da effetti in sottofondo e da una ritmica marziale che esprime egregiamente i toni caustici del testo. La natura non è interessata a noi, nemmeno ci vede, e continuiamo, invano, con la nostra evocazione. Nuove cesure imperanti vedono colpi su incudine ed asperità chirurgiche, mentre di seguito chitarre come cornamuse, aspre e squillanti, generano feedback in crescendo, notturni, fusi con la marcia dominante del brano. Otteniamo una lunga sequenza, calibrata anche da pause dalle bordate di batteria sempre pesanti e senza compromessi. Un'atmosfera alienante ed acida, a cui si aggiungono piatti cadenzati, consegnandoci un andamento ossessivo: il cantato ne approfitta per ripeterci che siamo fottuti, abbiamo perso, un concetto ancora una volta di inevitabile sconfitta, ripetuto ad oltranza. La mania s'impossessa della musica, ora diretta verso una cacofonia magistrale che non fa altro che aumentare i toni minacciosi. Essi degenerano in un noise quasi cosmico, sul quale perdurano i versi di Broadrick; rimane così solo una digressione in feedback, sorretta da elementi diafani in sottofondo. Si esaurisce così la traccia principale, ma non è ancora finita: dopo circa un minuto di silenzio, parte infatti un arpeggio melodico e delicato, il quale annuncia la traccia segreta accodata a quella principale. Qui la ritmica è altrettanto dolce e controllata, così come i fraseggi e la voce umana e piena di passione del cantante. Questa volta troviamo parole di rammarico e malinconia, che esprimono la dipendenza da qualcuno o qualcosa, e quello che accade quando questo elemento viene a mancare. Se potessimo vedere senza la sua vista, non saremmo vivi, ma in ogni caos non lo siamo. I toni si mantengono rilassati e mai concitati, regalandoci dei Godflesh inediti, totalmente acustici, slavo l'uso del Moog di Diarmuid Daltone (collaboratore in futuro di Jesu e del progetto Greymachine) dai tratti progressivi. Una melodia squillante, convogliata nelle chitarre, domina l'etere, mentre il movimento si ferma, sospeso da piatti e note dilatate, mentre Broadrick ci parla del voler essere vivi, del voler poterlo essere in qualche modo, con una nota di doloroso rammarico. I suoni soavi si prolungano, portandoci così verso un riffing appassionante, sempre sommesso ed immerso in una malia esistenziale ben palpabile. Il crescendo prende energia, dandoci un bellissimo motivo dal gusto sludge/doom, uno dei punti più alti di tutta l'opera: ecco cori eterei da parte del cantante, compimento di un'enfasi sognante. Ecco poi nuovi giri concitati, seguiti dalla ripresa del bel cantato e dei passi evocativi di chitarra; essi proseguono fino al finale, dedicato a suoni grevi in digressione, arpeggi in solitario segnati da un ultimo feedback in levare.

If I Could Only Be What You Want

La traccia bonus "If I Could Only Be What You Want - Se Solo Potessi Essere Quello Che Vuoi" riprende le parole della traccia segreta contenuta in "Jesu" pe ril proprio titolo, andando ad esemplificare il tema della dipendenza da un'altra persona, del fondersi fino a perdere se stessi, e della disperazione che consegue quando la si perde, quando non si può essere quello che essa voleva che noi fossimo. Un tema malinconico che completa in realtà la visione negativa espressa in toto nell'album, legata anche all'analisi dei rapporti umani e dell'effetto che hanno su di noi. Una batteria con effetti in levare si unisce a feedback squillanti, creando una coda che raggiunge poi pulsazioni ritmiche e fraseggi scheletrici, creando un mantra ossessivo. Si crea così una tensione sonora che gioca con le nostre attese, sempre sull'orlo di esplodere, ma non liberata in un climax: Broadrick interviene con vocals altrettanto serpeggianti, sospirate quasi sottovoce, ripetendo ad oltranza il titolo stesso della canzone, raccogliendo sempre più enfasi. Una struttura quasi hip hop domina la traccia, mentre perdurano i climi tesi e minacciosi, che riportano ai Godflesh più classici grazie alle chitarre dilatate e notturne. Se solo potessimo vedere senza lo sguardo altrui, non saremo vivi, ma in realtà non lo siamo comunque, trovandoci in un gioco senza scampo e via d'uscita, così come non vi è uscita dal loop musicale qui perpetrato, strisciante e tagliente, pur nell'essere controllato. Arpeggi grevi di chitarra e fraseggi dissonanti, ridotti a feedback, completano il quadro, offrendoci una sessione che potremmo definire vicina al dub con la sua saturazione sonora ed atmosfere acide e disorientanti. Al terzo minuto e mezzo al batteria acquista piatti ancora più sentiti, mentre in sottofondo loop lisergici di chitarra penetrano le nostre orecchie; la rabbia monta senza esplodere, andando a manifestare una frustrazione che continua, immortalata poi da dissonanze ostiche e suoni in feedback, donandoci una coda finale dal sapore post rock .

Conclusioni

Un disco che segna un capolinea per i Godflesh, contornato da un'aria più malinconica e stanca del solito, non a caso dominato tematicamente dal senso di sconfitta e dalla disillusione, nonché da un malcelato disprezzo e stanchezza verso il prossimo e i meccanismi umani, sia esterni, sia interni. Il suono si mantiene dissonante e minimale, ma ora concorrono elementi rock, post o tradizionale, e groove capaci di creare qualcosa di più umano rispetto alla tipica impersonalità dei dischi classici della band, rappresentazione di una disumanizzazione costante. Quest'ultima non è scomparsa dai temi dei Nostri, semplicemente viene ora affrontato il modo in cui essa va ad incidere sulla vita, guardando le cose dal punto di vista più intimo e personale; riflesso probabilmente anche delle vicissitudini esistenziali di Broadrick, pronte da li a poco ad esplodere in modo nefasto e distruttivo. Il risultato è un lavoro che rimane ancorato alla natura abrasiva e monolitica del progetto, ma allo stesso tempo getta i semi di un percorso che verrà a breve. Le incertezze esistenziali e musicali, la voglia di uscire dal loop distruttivo, tramite la ricerca disperata di un "altro" collocato aldilà di tutto, convoglierà nel progetto Jesu, e contemporaneamente nell'allontanamento dalla città verso quella campagna dove la natura regna sovrana (non a caso citata proprio nella traccia omonima), da distanza e distacco dalle miserie che nascono e si consumano tra il cemento. Per quanto concerne il suo valore intrinseco, troviamo una serie di tracce che seguono con delle varianti lo schema degli elementi più aperti appoggiati su uno scheletro ritmico essenziale, ma qui umano, andando ad offrire alcune variazioni e punte di pathos dove è proprio la melodia ad offrire l'elemento più nuovo e convincente, come nella "ballad" "Anthem" o nella traccia nascosta conclusiva contenuta in "Jesu", con la sua emotività esplosiva. Un album che è la conclusione di un ciclo, e che porta inevitabili conseguenze: nello stesso mese dell'uscita, l'ottobre 2001, Green lascia il gruppo, non convinto dalla direzione presa e in generale dal progetto, intenzionato a riprendere in mano la sua vita e i suoi studi, mentre i tentativi successivi di Broadrick di mantenere salda la situazione e portare avanti da solo il nome dei Godflesh, porteranno solo gravi problemi economici e attacchi di depressione e panico, capaci di distruggere la sua vita e far terminare la storia decennale con la sua compagna. Il disco tutto sommato non funziona male, e riceve anche critiche abbastanza positive, anche da chi in passato aveva trovato il suono dei Nostri troppo ostico, grazie agli elementi rock e alle strutture più tradizionali, anche se non mancheranno i puristi che storceranno il naso davanti alla mancanza della drum machine e alle composizioni meno rigide; ma questo poco importa ai due membri del gruppo, da sempre convinti nel produrre qualcosa che sentano come proprio e genuino, cosa che adesso non è successa. Broadrick è da anni non convinto da dischi come "Songs Of Love And Hate" e "Us And Them" dove cercava di trovare nuovi elementi, salvo poi subito provare senso di colpa perché si era allontanato dallo spirito del gruppo, a suo dire, e Green seguiva passivamente il tutto senza riuscire ad offrire un'altra voce. I Godflesh diventano sempre più un'ostinazione, piuttosto che qualcosa che ha un'urgenza legata ad un bisogno espressivo sentito, e un po' come succede nelle relazioni sentimentali trascinate, quand'è solo uno dei due protagonisti a prendere le decisioni, che le cose poi crollano senza via di scampo, riportando entrambi, volenti o nolenti, alla dura realtà. Naturalmente, l'idea di vivere senza fare musica è qualcosa di totalmente alieno ed impossibile per Broadrick, da sempre legato ad essa, suo mezzo di espressione imprescindibile dalla sua esistenza, e sarà proprio essa a salvarlo: i dolori e sofferenze di questi anni porteranno alla creazione del progetto shoegaze/post-rock Jesu, nuovo volto principale della sua musica, dove affronterà temi non del tutto alieni ai Godflesh, ma con una prospettiva sonora e tematica leggermente diversa. Dovranno passare diversi anni, prima che Broadrick si ritrovi con una distanza e lucidità tale da sentire nuovamente il bisogno di creare nuova musica con Green, proponendogli nel 2009 - dopo un lungo periodo in cui non si erano molto sentiti - di riprendere il percorso, scoprendo che anche l'altro era intenzionato ora a ricominciare con una nuova visione della band, nata dal superamento di una crisi esistenziale forse propedeutica e necessaria. Il risultato sarà un nuovo corso che mostrerà dei Godflesh contemporaneamente più legati alle radici, ma non privi degli sviluppi degli ultimi anni, una sintesi in qualche modo matura rappresentata da "Decline & Fall", "A World Lit Only By Fire", e soprattutto dallo sperimentatale "Post Self", lettera d'amore dei nostri verso i suoni industriali e post-punk degli anni settanta e inizio ottanta. Ma ora il nostro viaggio, come sempre, prosegue a ritroso, e ci porta a quel "Us And Them" che sarà una delle uscite più controverse e polarizzanti della carriera dei Nostri, anche in prospettiva dei membri stessi, e ancora prima al EP "Messiah", dalle caratteristiche più vicine al suono classico della band. Un disco con elementi elettronici jungle e breakbeat derivati da progetti paralleli come Techno Animal, Curse of the Golden Vampire o Ice, così come trame hip hop già presenti nell'antecedente "Songs Of Love And Hate".

1) Defeated
2) Deaf, Dumb & Blind
3) Paralyzed
4) Anthem
5) Voidhead
6) Tyrant
7) White Flag
8) For Life
9) Animals
10) Vampires
11) Antihuman
12) Regal
13) Jesu
14) If I Could Only Be What You Want
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