GODFLESH

Decline & Fall

2014 - Avalanche Recordings

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
18/02/2018
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Rieccoci con il nostro viaggio nella discografia dei Godflesh, la band britannica figlia di Justin K. Broadrick e G.C. Green, capostipite dell'industrial metal propriamente detto e fautrice di diversi lavori che hanno sia influenzato e diretto questo genere, sia arricchito il mondo del metal estremo di matrice alternativa donando una visione diramatasi negli anni in modi diversi. È arrivato il momento di analizzare "Decline & Fall - Declino & Caduta", ovvero l' EP che li ha riportati sulle scene nel 2014, dopo ben più di dieci anni di silenzio; il progetto era infatti stato messo da parte nel 2001, in favore dei vari nomi solisti di Broadrick e delle sue collaborazioni in mondi musicali diversi, ma attigui a quello dei Godflesh. Ecco quindi che dopo l'uscita del più organico "Hymns", un disco decisamente più vicino al metal tradizionale, il Nostro ha modo di sviluppare lo shoegaze/post rock di Jesu, le derive noise di Final, le incursioni dub/industriali di JK Flesh e l'elettronica mutante ed urbana di Techno Animal, rimanendo quindi un nome presente sulla scena musicale. Passano gli anni, e ormai è dato per assodato il fatto che il gruppo appartenga al passato, dato il sempre forte interesse di Broadrick verso le sue nuove avventure. Molti però dimenticano la natura mai soddisfatta e mutevole del musicista di Birmingham, incapace di contenere il suo estro e la sua creatività in un solo genere; inoltre sembra che con l'età egli abbia rivalutato anche cose che in gioventù ripudiava, dimostrando una mente pronta al cambiamento e ricavando da questo nuovi input ed idee. C'è anche un altro retroscena da analizzare, per capire esattamente la situazione esistenziale di entrambe le menti dietro al gruppo: lo scioglimento non era stato tra i più pacifici, e ha coinciso con un periodo della vita di Broadrick molto negativo, che richiedeva un rinnovamento su più livelli. Green aveva lasciato il progetto insoddisfatto dalla piega presa con l'ultimo album, risultato di pressioni esterne e dell'uso di un produttore, e anche dal fatto di dover aprire i concerti di band come Fear Factory e Strapping Young Lad che, per ironia della sorte, sono da sempre stati debitori del loro sound, e nonostante i tentativi di Broadrick di mantenere il tutto in vita, presto cade vittima di una crisi nervosa che porta attacchi di panico, cancellazione di tour, e grossi problemi finanziari coadiuvati da minacce fisiche da parte dell'autista ingaggiato per il tour stesso. Se aggiungiamo la fine della relazione sentimentale durata tredici anni con la sua compagna, non è difficile immaginare un uomo distrutto, letteralmente paralizzato nel letto di casa per mesi, capace di reagire in un unico modo: ricominciare da capo con un progetto che porta come nome l'ultima traccia di "Hymns", ovvero Jesu, espressione di un dolore e tristezza umani che erano l'opposto della rabbia disumanizzata dei Godflesh. Ora però sono passati diversi anni, per fortuna le cose sono migliorate e la posizione esistenziale di entrambe le persone coinvolte è ben diversa; è possibile riguardare al tutto con maggiore distacco, e non associare più il passato a quel momento di rottura dovuto al culmine di una serie di circostanze che covavano da tempo. Nel novembre 2009 viene annunciato il ritorno della band, anche se al momento solo per una performance live presso l'edizione del 2010 del Hellfest Summer Open Air, ma evidentemente la cosa funziona, dato che seguono una serie di altre date, e nelle interviste si inizia a parlare della possibilità di nuovo materiale. La primissima testimonianza pratica di questo si avrà nel 2013 con la cover di "F.O.D" della band death/thrash canadese Slaughter, pubblicata come parte della serie di flexi disc della rivista Decibel, e nel frattempo proseguono i concerti dove vengono riproposti spesso per intero i primi lavori del progetto. Broadrick è ora pienamente consapevole del fatto che la rottura avvenuta era stata necessaria, e ora è pronto a tornare a quelle radici che si erano perse negli ultimi lavori prima dello scioglimento; una nuova carica, una nuova energia, una nuova visione preparano una rinascita che è un nuovo inizio a tutti gli effetti. I due risultati saranno l'EP qui recensito, e il successivo album "A World Lit Only By Fire", nati dalle stesse sessioni in studio e caratterizzati dall'uso della chitarra ad otto corde (inedito per la band, ma mutuato da Jesu), dal ritorno della drum machine come elemento ritmico e del basso come base portante, nonché da un songwriting più minimale ed industriale, accompagnato da un incedere lento dalle riminiscenze doom e sludge, aperto ad asperità grind. Un ritorno dunque alle origini e allo spirito di classici come "Streetcleaner" o "Pure", ma in un'ottica adattata all'età dei Nostri e alla loro voglia di sperimentare: si delinea all'ascolto la presenza di un maggior groove e di elementi che possiamo definire, con le dovute precauzioni, alternative metal/rock. In mani meno abili, o meno convinte, la cosa si sarebbe risolta in una versione commerciale del passato, e invece qui viene mantenuta la ferocia inumana e l'ossessione meccanica, semplicemente arricchendo le possibilità da associare a questi elementi tramite anti-melodie capaci di coinvolgere l'ascoltatore. Il risultato è un distillato che risulta addirittura superiore all'album stesso, forse grazie alla concentrazione di idee in un minor numero di tracce e all'impatto dopo anni di silenzio. La versione giapponese contiene due tracce bonus, ovvero due remix in chiave dub di "Playing With Fire" e "Ringer", cosa che poi diventerà tradizione con i lavori successivi; andremo quindi ad analizzare anche queste riproposizioni più sperimentali e dalla matrice elettronica.

Ringer

La prima traccia del disco ci catapulta senza molti fronzoli nel mondo classico dei Godflesh, fatto di suoni e temi asfissianti, cupi, spesso senza speranza. Ecco quindi "Ringer - Impostore", un pezzo che tratta del controllo di pensiero, dell'essere imprigionati nelle convenzioni sociali, caratterizzato da una musica monolitica e possente, fatta di riff striscianti e rocciosi, uniti ad una ritmica glaciale e vocals filtrate ed eteree, ma anche aggressive, e da un testo che descrive coloro che dominano le nostre esistenze, gli ordini che ci danno tramite le consuetudini e le regole. Un suono disturbante iniziale viene presto interrotto da una marcia granitica, dove chitarre taglienti, bordate colossali e colpi duri si uniscono in una cosa unica. Prendiamo leggermente più velocità, mentre Broadrick descrive come ci hanno detto di guardarli, di essere come loro, che porteremo delle catene pensando nel mondo corretto, proprio come fanno loro; è chiaro il messaggio di sottomissione, che contrasta con l'avanzare deciso della musica, la quale sembra voler enfatizzare una rabbia che sale sotto pelle, pronta ad esplodere in maniera incontrollabile. Ed ecco quindi montanti pestati e bassi grevi, che poi vanno ad adagiarsi di nuovo sulla linea iniziale, non meno comunque tesa e piena di malevolenza; le nostre anime vengono manipolate, le contorcono e le modificano, ed in questo modo creano dei vuoti simboli, immagini di cui noi saremo schiavi. Non è difficile intravedere la descrizione del mondo consumistico occidentale, dominato da marche, concetti falsi ed uniformità di pensiero, uno stato di costante controllo che mina la psiche di chi è indomito di natura, e riesce a vedere oltre l'apparenza , ma si ritrova spesso senza possibilità di fuga da un sistema che è radicato in ogni aspetto dell'esistenza umana. Sprofondiamo nei giri circolari, martellati da una drum machine che diventa un tuono e da chitarre che violano l'etere, un cingolato coadiuvato da piatti cadenzati e da una sessione ritmica che va crescendo: ecco però che dopo un suono caotico riprende la marcia asfissiante, pronta ad evolvere secondo i modi già intravisti, collimando in un trotto possente. Si prosegue su un loop devastante di batteria e riff dissonanti, che si fa più pestato verso la conclusione; ora un fraseggio distorto ci guida in un finale coronato da un bel motivo in dissolvenza. Un inizio che mette le cose in chiaro, mostrando dei Godflesh che sembrano aver ritrovato la rabbia nichilistica di un tempo, come espresso dal testo dichiaratamente di opposizione e dalla musica martellante ed ossessiva, rielaborandola però secondo modi ed elementi che pescano anche da elementi eterei e post rock mutuati dall'esperienza con Jesu, i quali non snaturano però l'impianto creatosi, bensì vanno a rendere ancora più decisi gli assalti sonori.

Dogbite

"Dogbite - Morso Di Cane" ci accoglie con un suono di chitarra distorto e corrosivo, dalla matrice rock, ma ampiamente filtrata dall'estetica rumorosa e grigia dei Nostri; da accordo, anche il mondo tematico del brano non è certo legato ad una visione ottimistica o positiva dell'esistenza. Viene anzi espresso un senso di oppressione da parte di un mondo pieno solo di feccia, che ci porta ad essere come cani messi alle strette, delineando ancora una volta l'immagine di una realtà ostile all'individuo e al suo pensiero, la quale va ad avere effetti negativi proprio su quest'ultimo, costretto a reagire con rabbia e ferocia se vuole mantenere una sua identità. Suoni striduli lasciano presto il passo ad un motivo dissonante che non può non riportare alla mente il primissimo periodo della band, instaurando quell'atmosfera acida e disorientante tipica di album come "Streetcleaner" o "Pure"; il tutto unito ad un basso greve e ad una ritmica strisciante, elementi che enfatizzano ancora di più quando appena descritto. La struttura sincopata si dà quindi a giri ruggenti, sui quali Broadrick declama con aggressività il suo messaggio, andando a descrivere come, girandoci in ogni direzione - che sia a sinistra o a destra, lasciando forse trapelare una certa disillusione politica - vediamo solo lo schifo, mentre non c'è nessun luogo in cui possiamo nasconderci, in cui possiamo avere riparo contro tutto questo. La musica si mantiene nervosa, giocata su contraccolpi di chitarra e batteria, ricreando quindi lo stato mentale di chi si trova nella situazione descritta, sull'orlo del crollo nervoso; un treno sonoro che va a lanciarsi verso la ripresa del fraseggio iniziale, alieno e freddo. Ritroviamo quindi i riff fumosi e la voce altisonante del cantante, dedito ora alla rappresentazione della reazione adottata: siamo come cani pronti a mordere, circondati da tutti i lati da mura, messi alle strette. Un dramma narrativo che trova completamento in quello sonoro, promulgato da incalzanti ritmi che aumentano sempre più l'energia, una potenza che esplode in una serie di colpi da incudine, potenti e liberatori, alienando un loop violento. Ma ecco che al secondo minuto e venti torna il fraseggio, facendo da cesura, dilungandosi poi su un basso gracchiante ed una drum machine corrosiva. Broadrick ripete con ossessione i versi iniziali, come in un cerchio che non ha mai fine, e anche la musica prosegue indefessa ripresentandoci il crescendo drammatico, ancora una volta eruttante in un delirio ritmico che spacca le ossa dell'ascoltatore, conducendolo alla conclusione segnata da un brevissimo feedback. Un'unione di passato e presente che risulta furiosa e senza compromessi, con rimandi al suono classico dei Godflesh che rendono lampante la volontà di riprendere da li il discorso, aggiornandolo al vissuto attuale di un Broadrick che sembra non essere mai del tutto in pace con la realtà, trovando valvola di sfogo proprio nella musica.

Playing With Fire

"Playing With Fire - Giocando Con Il Fuoco" è una traccia che ci parla ancora una volta di un senso di segregazione e rabbia repressa, di una visione della società come una prigione senza via di scampo, qualcosa di opprimente dove vengono imposti valori e sentimenti vuoti, fatti d'ipocrisia e falsità. Il tema del vivere esistenze controllate, come prigioni, ancora una volta è caro ai Godflesh, da sempre messaggeri di un disagio continuo. Un suono greve e pesante apre le danze, condito da un ritmo lento e da effetti industriali; ecco ora un inaspettato riff di chitarra dal sapore quasi rock, sul quale la ritmica si fa più incalzante. Broadrick interviene con le sue vocals ariose, mentre in sottofondo si aprono dissonanze disorientanti di chitarra. C'è una fonte, una luce nata dal fuoco, dall'acqua, da ogni elemento, una logica circolare fatta di fini infinite, con significati vuoti ed esseri dallo sguardo spento: così viene descritto lo status esistenziale in un sistema fatto per tenere soggiogati e morti dentro. L'atmosfera creata dalla musica si mantiene, coerentemente a quanto espresso, granitica, dandosi poi ad una serie di bordate esaltanti che sottolineano le parole del cantante, il quale ci dice che c'è solo dolore e nessun risultato in tutto questo, dandoci ancora una volta un senso di totale mancanza di speranza. Riprendono le dissonanze, così come i movimenti dal passo marziale: creano celle dove farci risiedere, per farci covare desideri dentro di esse, desideri che diventano un altro modo per tenerci imprigionati. Abbiamo solo significati imposti, sentimenti imposti. Siamo intrappolati da catene invisibili, ma con un dolore ben visibile. Riecco di seguito le esplosioni distorte dalla carica metal, uno dei momenti più esaltanti del disco, qui poi mutuate in una sequenza dai colpi duri e dai loop taglienti, alternata con i montanti precedenti, ora uniti a suoni industriali. Nuove chitarre dilatate ed acide riaprono le dissonanze, e per l'ennesima volta troviamo un groove violento ed irresistibile dal gusto crossover, così come gli andamenti marziali. Si prosegue a lungo su questo loop che invoca la rigidità delle regole: all'improvviso però un fraseggio greve con piatti cadenzati fa da cesura, dando poi luogo ad un momento doom solenne e strisciante. Si conclude poi con una digressione uno degli episodi più vivi del disco, il quale coniuga gli elementi monolitici dei nostri con elementi post-rock che toccano apici vicini ad un suono più "classico", inedito per i Nostri.

Decline & Fall

"Decline & Fall - Declinio & Caduta" è l'ultima traccia della versione standard del EP, un brano che con poche parole descrive il bisogno di agire, pur sapendo che non porterà a nulla, distruggendo una realtà dove ormai tutto è morto; una sorta di epitaffio che conclude il tema portante di tutto il mini album, ovvero l'opposizione disperata ad un mondo che può solo affossare ed uccidere dentro. Un fraseggio distorto ci conduce verso tempeste di chitarre, bassi grevi, cimbali cadenzati; ecco ora i versi ruggenti di Broadrick, accompagnati da una drum machine spedita e da riff dissonanti. Egli descrive la caduta già preparata a priori, fatta di fuochi morti, di tutto ciò che è intorno a noi, chiedendoci di agire senza pensare, distruggendo ogni cosa. Il dramma tematico ci porta ad un dramma sonoro, di seguito arricchito da suoni squillanti e sincopati, nonché da grevi marce funeree intervallate da montanti monolitici. Si riparte quindi con la sequenza precedente, mentre il cantato prosegue con le sue declamazioni: la voce ci intima di nuovo ad agire, ora. Non c'è tempo, i percorsi arrivano ad un bivio e ora finiscono, è come l'apocalisse, possiamo solo distruggere, mentre non ci sono più fuochi, fumi, pensieri. Riesplodono i movimenti contratti e ruggenti, pronti ora ad aprirsi ad un galoppo severo arricchito da chitarre disorientanti, supportati da una bella anti-melodia fredda e dissonante; esso s'interrompe con una cascata di chitarra che instaura la marcia ormai familiare. Riecco le evoluzioni ossessive della traccia, con momenti sincopati e percorsi più "emotivi", ma mai del tutto sereni, così come ritmiche sintetiche incalzanti , sulle quali troviamo effetti rumorosi: ed è così che arriviamo ad un lungo feedback distorto, firma conclusiva che mette fine alla canzone.

Playing With Fire (Dub)

"Playing With Fire (Dub)" è un remix che, anche in questa occasione, segue le regole del genere usato, ovvero la musica dub: rilevanza nel mixaggio di basso e batteria pesantemente modificati con echi e riverberi, concentrazione sull'ossatura del pezzo. Ecco allora una chitarra filtrata sotto la quale percepiamo distorsioni industriali, qui ancora più incisiva e meccanica, così come la drum machine, mentre le vocals diventano eteree e spettrali, relegate allo sfondo sonoro. Il movimento ritmico domina il tutto, e dopo il verso ruggente di Broadrick sono il basso e la batteria a creare una sorta di anti-ritornello, un fantasma di quanto succede nella versione originale del brano. Tutto si mantiene oltre modo alienante, mantenendo un'impostazione acida e confusa; si ritorna alle sequenze minimali, così come alle implosioni sommesse che prendono il posto delle esplosioni sonore che caratterizzano il pezzo. Una chitarra macilente domina poi l'etere insieme alla ritmica ossessiva, pronta poi a suoni cavernosi dai loop abrasivi. Batteria e voce tornano al centro dell'attenzione, conducendoci in paesaggi inquietanti e fumosi: inevitabile l'ennesima implosione nebbiosa, così come nuovi montanti pieni di riverbero. Un esperimento sonoro che sicuramente interesserà i cultori dei suoni più distorti ed ossessivi, destinato nella conclusione ad abbandonarsi a suoni gracchianti e riff di chitarra distorti e rocciosi, mutuati nel finale in fraseggi spettrali; per molti altri sarà un'aggiunta un po' fine a se stessa, ed effettivamente poco aggiunge alla qualità del lavoro, ma allo stesso tempo non la inficia, confermandosi come un bonus che va vissuto ed interpretato come tale.

Ringer (Dub)

"Ringer (Dub)" è la seconda riproposizione in chiave dub, aperta da un disturbo in levare, una specie di roboante rumore di vento, sconvolto poi da montanti imperanti e distorsioni di chitarra; una marcia granitica che avanza pachidermica, scolpita da un incedere senza tregua. Le vocals di Broadrick diventano sgraziate, perse in echi e dilatate, privare della loro funzione normale e rese strumenti al pari di batteria, basso e chitarra: quest'ultima esplode in un riffing ruggente, sorretto da una drum machine pestata. Ritorniamo quindi su andamenti persi in riverberi e movimenti da carrarmato, pachidermici e pronti a lasciare spazio all'improvviso a giri circolari abrasivi, potenziati da colpi sempre pestati. Un suono di piatto segna il passaggio al basso greve unito ad echi vocali, concedendoci una pausa prima della ripresa dei percorsi ritmici, alternati con gli stop in modo tale da ricreare un'atmosfera nervosa e pesante, ma allo stesso tempo dilatata ed eterea. Raggiungiamo così un' anti- melodia di sottofondo fredda ed incalzante, supporto della strumentazione roboante, ormai familiare. E' tempo quindi per una marcia possente, unita a piatti pestati e loop corrosivi, fermata da effetti vari e dai cori in riverbero del Nostro; asperità di chitarra e movimenti quasi tribali completano il quadro, trascinandoci in una digressione prolungata, completamento dell'ossessione sonora. Il finale vede ancora esplosioni di piatti, zittite poi da una chitarra ribassata sulla quale torna la lenta marcia greve. Un esaltante parata sonora, fatta di distorsioni e suoni rocciosi, che implode in parentesi dai muri noise e dalle batterie ipnotiche: la firma finale è data da una digressione in solitario, persa poi nell'etere.

Conclusioni

Un mini album che con quattro tracce riporta sulla bocca di tutti i Godflesh, riaprendo la loro carriera con una nuova vita che, come nelle migliori tradizioni, riparte dai semi di quella precedente, adattandosi però ad un mondo nuovo e aggiungendo nuovi stimoli. Dimenticate infatti le incursioni acustiche, e anche quelle con derive drum 'n' bass o hip hop degli ultimi anni della loro prima fase, ora sono groove ipnotici ed elementi che potremmo definire post-rock a riempire l'ossatura meccanica e greve dei brani. Il risultato è qualcosa allo stesso tempo di violento, catchy e malinconico, ovvero una summa di emozioni ed elementi che restituiscono una dimensione tridimensionale al gruppo, tanto al suono, quanto all'atmosfera creatasi; la disumanizzazione simbolo della band viene mantenuta, ma allo stesso tempo è insita una chiave umana che, di contrasto, rende ancor più efficacemente il dissidio interiore e la lotta contro una vita sempre più alienante. Drum machine, riff rocciosi, passaggi grevi e corrosivi sono il leitmotiv di strutture pienamente industriali, che sanno di un mondo grigio e urbano, disturbato da onde di emotività aggressiva, perfettamente delineata da anti-melodie, fraseggi, momenti incalzanti. Tutti i segreti di un disco che non solo mette da parte qualsiasi dubbio sulla bontà dell'opera, ma anche sull'opportunità e le ragioni dietro al ritorno in campo dei Godflesh: lungi da una qualsiasi operazione commerciale, decisamente non necessaria data comunque la natura underground del progetto, e il riscontro a volte superiore avuto da Broadrick con altri progetti, il tutto trasuda un bisogno esistenziale legato al tornare ad esprimersi secondo certi canoni e dettami, ma con un filtro più maturo e corroborato da anni di esperienza, sia musicale, sia di vita. La produzione rimane lo-fi, lontana da qualsiasi abbellimento o dalla così detta "guerra del suono", ma allo stesso tempo non risulta datata, riuscendo a rendere sempre presente la ritmica e i riff taglienti di chitarra, ancora una volta dimostrando tanto la forte identità del progetto, quanto la professionalità portata avanti. Il pubblico riconosce tutto questo, così come la critica, accogliendo sia questo EP, sia il successivo full length con un generale entusiasmo, correlato a recensioni esultanti e ad una nuova generazione che riscopre uno dei mostri sacri del crossover tra musica industriale e metal, pronto ad affrontare il nuovo millennio senza timori di sorta. Una proposta che non è ostica, ma alllo stesso tempo nemmeno commerciale, capace di mantenere sperimentalismo e godibilità d'ascolto, qualcosa che in pochissimi riescono a raggiungere pienamente, ma che i Godflesh applicano con una naturalezza disarmante; parte del merito va di sicuro alla natura "cannibale" e curiosa di Broadrick e Green, sin da tempi insospettabili prototipi dell'ascoltatore moderno che non si preclude l'ascolto di generi diversi, portandoli su uno stesso piano d'interesse. Le influenze musicali date dal doom, il rock, il post punk, il metal estremo, la musica industriale propriamente detta, il noise, si legano in qualcosa che viene in automatico filtrato da una visione personale che le trasmuta in qualcosa che va ben oltre la semplice somma delle parti o il gioco d'incastri. L'ascoltatore attento che conosce la band, troverà qualche rimando ai vari esperimenti del passato, tra l'elettronica fredda e pulsante, alcune connotazioni urbane di matrice hip-hop, passaggi di chitarra più legati al formato canzone, ma mai si può parlare di auto-plagio o pilota automatico, in quanto cambiano sempre i modi e il contesto. Materiale che risulta addirittura superiore al pur buono successivo album, forse grazie alla presenza di un minor numero di tracce, cosa che permette una minore ripetizione di certe soluzioni, e una maggiore concentrazione sui singoli episodi. I remix presenti nella versione giapponese non sono esattamente imprescindibili, ma allo stesso tempo non possono essere definiti inutili, legandosi agli interessi di Broadrick in campo elettronico e dub e stabilendo per l'ennesima volta il multiverso musicale in cui esiste ed opera la sua musica. Un incipit insomma più che positivo, dal quale poi avremo un buon lavoro, che ancora carbura quanto qui raggiunto, e successivamente quel "Post-Self" capace di consegnare un vero e proprio capolavoro che si inserisce tra i migliori episodi della loro discografia. Ma ecco che il nostro viaggio a ritroso ci porta da un inizio verso una fine: ovvero verso quel 2001 che aveva portato all'ultimo album della loro prima fase, quel "Hymns" che mise fine al loro percorso musicale rinunciando a molti dei suoi elementi cardine, una crisalide musicale verso altre avventure che impegneranno Broadrick negli anni.

1) Ringer
2) Dogbite
3) Playing With Fire
4) Decline & Fall
5) Playing With Fire (Dub)
6) Ringer (Dub)
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