GODFLESH
A World Lit Only by Fire
2014 - Avalanche Recordings
DAVIDE PAPPALARDO
02/02/2018
Introduzione Recensione
Prosegue la nostra disamina sui Godflesh, band inglese cardine del così detto industrial metal, caratterizzata da un suono monolitico ed oppressivo, capace come pochi di coniugare i suoni e i temi della musica industriale propriamente detta con quelli del metal più opprimente ed estremo, tra doom, grind, drum machine ipnotiche e vocal inumane piene di disagio e distacco. Caratteristiche queste che negli anni hanno dato vita a diversi album ed EP dove la loro formula evolveva di volta in volta assumendo nuovi elementi, ma rimanendo coerente a se stessa sia nei temi, sia nella base del songwriting; ecco allora che Justin K Broadrick e G.C. Green, accompagnati negli anni da diversi musicisti, ci hanno offerto opere come il grezzo e violento "Streetcleaner", il più mediato, ma sempre oscuro e greve, "Pure", i momenti "cibernetici" di "Slavestate" e "Selfless", i movimenti urbani di "Songs Of Love And Hate", le sperimentazioni elettroniche di "Us And Them", e l'uso di una struttura più umana con tanto di batteria fisica in "Hymns", album del 2001 che mette all'epoca fine all'esperienza dei Godflesh, permettendo a Broadrick di concentrarsi su altri mondi musicali tramite i suoi diversi progetti (Jesu, JK Flesh, Final, Techno Animal, giusto per nominarne qualcuno). Passano quindi gli anni, durante i quali il pubblico ormai dà per scontata la dipartita della band, relegata nella memoria e nella considerazione dei fan, i quali seguono con interesse le evoluzioni delle nuove avventure del Nostro senza pensare minimamente alla possibilità del ritorno della band sulle scene. Ecco però che nel 2009 succede qualcosa: all'improvviso viene comunicata la presenza dei Godflesh al Hellfest Summer Open Air del 2010 in Francia, ance se non si parla ancora del ritorno di materiale in studio. Seguono concerti presso il Supersonic Festival nella natia Birmingham, e in Olanda con la riproposizione dell'intero disco "Streetcleaner" presso il Roadburn Festival; a fine 2010 Broadrick finalmente rivela che il duo sta lavorando a del nuovo materiale, anche se lentamente e senza aver nulla di definito. Inutile dire che l'attesa è alle stelle, anche alla luce delle dichiarazioni di ritrovata ispirazione da parte del Nostro verso certi tipi di suoni, e alla volontà espressa di non affrettare le cose, in modo da creare un disco genuino e non un'operazione di marketing fatta solo per sfruttare il nome e la popolarità del progetto. Nel 2013 la loro prima traccia rilasciata in dodici anni, una cover di "F.O.D" della band death/thrash canadese Slaughter, viene pubblicata come parte della serie di flexi disc della rivista Decibel, mentre poi il duo torna al Roadburn Festival in Olanda accompagnati dal chitarrista Robert Hampson, fondatore della band rock inglese Loop, riproponendo questa volta dal vivo il disco "Pure". Eccoci quindi arrivati a giugno 2014, quando viene annunciato l'EP "Decline & Fall", contenente quattro tracce inedite escluse dall'imminente album, le quali già mostrano quanto aspettarsi: un ritorno alle basi, tra drum machine monotona e minimale, chitarre grevi ad accordatura bassa, ed atmosfere pesanti ed alienanti, mettendo in chiaro la volontà di tornare al suono dei primissimi lavori della band. Segue quindi, ad ottobre, finalmente il disco qui recensito, ovvero l'album a dieci tracce "A World Lit Only by Fire - Un Mondo Acceso Solo Dal Fuoco", pubblicato così come l'EP precedente per l'etichetta di Broadrick Avalanche Recordings, nata nel 1999. Un'opera che segue il filo del discorso lanciato poco prima, anche se non si tratta esattamente di una fotocopia dei primi lavori della band: se è vero che lo spirito delle cose è quello, tra strumentazione minimale e songwriting basato su movimenti lenti, viene qui a mancare buona parte della violenza urbana ed acida di "Streetcleaner", o dell'atmosfera acustica di "Pure", usando maggiormente delle melodie in chiave minore ed elementi che potremmo definire più malinconici e distesi. Il risultato è quindi una sorta di punto di ripartenza che rielabora il passato sotto la luce dell'età e delle esperienze dei nostri, consegnandoci un disco che non è all'altezza dei colossi della loro discografia, ma che risulta superiore rispetto ad "Hymns", riconfermando l'identità e le radici dei Nostri, ritrovando quel suono meccanico, ma allo stesso tempo pieno di una nichilistica e nera emotività, elemento che si era un po' perso nel tempo tra le varie sperimentazioni. La critica è comunque quasi unanime nel decretarlo come un ritorno tra i più convincenti di sempre, e anche i fan reagiscono molto positivamente, superando le possibili paure legate alla ripresa di percorso da parte dei Godflesh, consacrando un nuovo inizio che porterà in futuro frutti ancora più avvincenti. La versione giapponese comprende un disco bonus contenente tre remix qui da noi analizzati, legati al dub, e quindi all'uso di riverberi e di una maggiore concentrazione su basso e batteria.
New Dark Ages
New Dark Ages - Nuove Ere Oscure apre le danze con un feedback in levare, presto raggiunto da piatti serpeggianti, i quali preparano la tensione pronta ad esplodere: ecco quindi i montanti di chitarra, pachidermica come un panzer che avanza devastando tutto sul suo percorso, scosso da un basso altrettanto greve. Una serie di riff circolari generano un loop ipnotico, il quale viene devastato presto dalle grida di Broadrick, rese ancora più drammatiche da suoni squillanti di chitarra; egli ci parla di un'età oscura dove dobbiamo pregare Dio di non trovarci ("Pray to god / that we're not here. Don't look back / we'll dissolve. We all / suffer. No decree / eternity - Prega dio/di non essere qui. Non guardarti indietro/ ci dissolveremo. Noi tutti/soffriamo. Nessun decreto/ l'eternità" declama il Nostro), mostrando in termini astratti ed interpretabili, una realtà amara dove non abbiamo controllo di nulla, e dove la nostra esistenza è sempre in pericolo. Di conseguenza, la musica si mantiene altamente potente e massacrante, alternando bordate taglienti e distorte, con fraseggi pesanti che evocano ancora una volta marce marziali. Un songwriting minimale e diretto, ma capace di coinvolgere: i riff come strappi s'infiltrano nella struttura, designando quadri sonori dai toni grigi ed oscuri. Esplode nuovamente il cantato, sempre supportato da una strumentazione in modalità da guerra; un "ritornello" che ha poco di melodico, gridato con livore. Un nuovo ponte ci porta verso una bella sequenza cacofonica, capace di creare una sorta di "anti-melodia" grazie ai giochi di voce e chitarra, dagli arpeggi distorti. Quest'ultima ci dona poi dei momenti doom dove l'elemento meccanico si lega ad un'anima malinconica; proseguiamo quindi sul loop di chitarre, delineate da alcune parti squillanti, aggiungendo poi anche una drum machine caustica e presente, sottolineata dagli snare, la quale va a condurci verso la conclusione improvvisa del brano.
Deadend
Deadend - Strada Senza Uscita parte con un bel riffing ruggente costruito su giri circolari sottolineati da una batteria cadenzata e da un basso marziale; il suo andamento serrato viene presto raggiunto dai versi perentori di Broadrick, il quale ci narra di un mondo desolato che è specchio di un'anima ormai morta, una corrispondenza tra io e realtà esterna che prevede sia un'interpretazione intima, sia una a livello sociale. Una decadenza che tocca sia l'interno che l'esterno. "There's no love here / ruled by hate and fear. You are poisoned / a ghost of what you were. Dead end / city - Non c'è amore qui/dominati dall'odio e dal terrore. Sei avvelenato/ un fantasma di ciò che eri. Una vicolo cieco/una città morta" recita quindi il Nostro, mentre la strumentazione si apre a festeggiamenti secchi e stridenti, lanciandosi poi in attacchi dalle bordate decise, tanto quanto i versi gridati del cantante. Uno slogan militare che gioca sulla pesantezza strumentale e sull'atmosfera grigia generata dalla parte sonora; riprendono i toni più strascicati, mentre si parla di una terra desolata e inutile, e senza senso si sventola una bandiera che brucerà, è solo uno straccio, la fede è solo morte, ed è proprio così. Intervengono ora giochi squillanti e chitarre severe, sconvolte ancora una volta da grida potenti e concitate. Giungono quindi giri a motosega, uniti a cimbali cadenzati e rullanti dall'ossatura robusta, senza tregua: ancora una volta è proprio la ritmica il fulcro del brano, sul quale poi si adagiano gli strati sonori minimali e stridenti. Seguono i modi che conosciamo, gestiti in sequenze pulsanti ed ossessive, pronte a scaturire in nuovi montanti tellurici e ritornelli massacranti, fatti per non lasciare la presa sull'ascoltatore. Al terzo minuto e quaranta una nuova marcia s'instaura su un fraseggio trascinante, dandoci ancora una volta un momento ben calibrato: esso va poi a cadere in un ticchettio ritmico unito ad una serie di arpeggi rocciosi. Si prepara così un'apocalittica processione doom, che schiaccia tutto sotto il suo peso, fino ad una lunga dissolvenza in feedback che sprofonda nell'oblio sonoro.
Shut Me Down
Shut Me Down - Spegnimi prende piede con toni dark ambient, tra suoni da pressa e baritoni oscuri ed evocativi, uniti a sample in loop in sottofondo; ecco all'improvviso un riffing corrosivo unito ad una drum machine possente e senza sosta, sul quale ritroviamo al voce ruggente di Broadrick: egli ci parla di uno stato di prossima esplosione, di una mancanza di controllo che porta al desiderio di morte, pur di fuggire da tale circostanza. "Veins full / break down. Escape / hold on. It will / never. End now / die now. Don't take / any thing. - Vene piene/si rompono. Fuggi/rimani. Non finirà mai/finirà ora/muori ora, Non prendere/nulla" recita il Nostro, mentre impassibile la strumentazione prosegue nella sua sequenza martellante ed assassina, giocata su giri circolari ripetuti con ossessione e su una ritmica spaccaossa dal sapore industriale. Seguono una serie di fraseggi uniti a cimbali cadenzati, senza però che il resto del repertorio venga messo da parte; intanto si riapre la sequenza di poco prima, ora ancora più serrata ed intransigente, mentre il cantato ci parla di come non dobbiamo prendere nulla che sarà noi, non devono prenderci l'anima, tutto finisce, in parole astratte che creano ancora una volta un senso di disperazione ormai congelata in uno stato eterno e, per contrasto, impassibile. Ritroviamo quindi nuovi giochi di chitarra, in una marcia senza respiro, presto delineata però da arpeggi notturni, seguiti da parti più squillanti. Si ripropongono i modi già conosciuti, in una struttura asfissiante e ripetitiva, capace di sfociare in montanti dalla ritmica incalzante, grazie a piatti cadenzati e colpi di martello sull'incudine costanti. Nuovi arpeggi, nuovi galoppi, ci conducono verso un finale dove è la drum machine a farla da padrona, in un crescendo pieno di adrenalina che tutto ad un tratto si ferma, portandoci all'oblio.
Life Giver Life Taker
Life Giver Life Taker - Dà La Vita, Toglie La Vita si presenta con un ronzio sordo sul quale parte un riffing martellante accompagnato da una ritmica come sempre intransigente, ma dal groove trascinante e, in qualche modo, piacevole; ecco che voci filtrate (molto vicine a quelle dei Killing Joke) ci parlano di visioni di morte, di una terra futura priva di vita sulla quale cala per l'ultima volta il sole. "The dying sun / is all ours. It will reclaim / our fallen earth. Dont see me / as anything but. Life giver / life taker. - Il sole morente/è tutto nostro. Reclamerà/ la nostra terra decaduta. Non guardarmi/come nient'altro che/colui che da la vita/colui che la toglie." declama quindi Broadrick, mentre, nel frattempo, la drum machine spaccaossa prosegue nel suo percorso, non curante di noi. Al minuto e due un fraseggio di buona fattura si prospetta con i suoi giri circolari sottintesi da rullanti striscianti, infondendo elementi alternative nella struttura metallica. Non dobbiamo però pensare ad un ammorbidimento della canzone: ecco infatti una cavalcata con basso graffiante e dissonanze ripetute, sulla quale il cantato ci parla di come tale potere non è nominato, ma nascosto, velato, e di come solo in pochi eletti possono provvedere, possono "dare qualcosa". Una narrazione misteriosa e dai significati interpretabili, come d'uso per i Nostri, ma capace di adattarsi perfettamente all'atmosfera data dalla musica proposta. Seguono intanto nuove alternanze tra parti più dirette e cesure disorientanti, creando un gioco tanto semplice quanto efficace, capace di tenere la nostra attenzione viva e vigile. Rieccoci con suoni drammatici e drum machine marziale, la quale ci conduce verso un nuovo "ritornello" all'insegna dei suoni rocciosi ed ossessivi, così come delle vocals eteree e spettrali; vengono ripetuti i concetti precedenti, reiterando le visioni mortifere completate da rallentamenti doom pieni di grigia malia. Al terzo minuto e cinquanta riprende il trotto maestoso, substrato per chitarre apocalittiche e severe; ma all'improvviso un suono squillante annuncia piatti cadenzati ed arpeggi rocciosi, generando una nuova sequenza che avanza monolitica, portandoci con sé in una chiusura dalla batteria ben presente e dagli strumenti a corda decisamente grevi, concedendo negli ultimi secondi dei veri e propri colpi di martello.
Obeyed
Obeyed - Obbedito ci accoglie con un suono in levare, un ticchettio meccanico unito ad un fraseggio greve condito da distorsioni; ecco, subito dopo, bordate mastodontiche sottolineate da piatti dilatati, in una processione imponente e dal gusto doom; Broadrick interviene con i suoi baritoni gridati e ruggenti, declamando visioni di cieca obbedienza e di oppressione, di perdita d'identità, se non quella di un ingranaggio usato e poi scartato, sempre solo. Il permesso è esclusivo, ma anche inclusivo, ci viene detto, ma esso è negato, insieme alle regole. Parole che ancora una volta tendono a scolpire immagini e suggerire in astratto, piuttosto che darci narrazioni di eventi o discorsi razionali. Di conseguenza anche la musica si mantiene schiacciante e lenta, ricca di pulsioni e colpi improvvisi; ecco quindi che il brano vira su di un bel riffing con montanti sottolineati da versi misteriosi, quasi sacrali, donandoci una grande sequenza, presto però introdotta dal ritorno delle bordate iniziali e degli arpeggi squillanti e senza compromessi. Il cantato riprende con la sua lezione nichilista, ricordandoci che "For which / you're excluded. Listen / you're alone. You're a cog / in their machine. You won't / make a difference. You will never / make a difference - Per cui/sei escluso. Ascolta/sei solo. Sei un ingranaggio/nella loro macchina. Non farai/nessuna differenza. Non farai mai/nessuna differenza", ovvero riportandoci alla nera realtà in cui esistiamo, soli e sfruttati, destinati a cambiare nulla ed essere nulla. Prosegue la marcia rocciosa ed arricchita da dissonanze graffianti, scolpite da rullanti poi librati in una ripresa del riffing incalzante, ora unito anche a giri circolari destinati questa volta ad aprirsi in un momento più vivo e metal, fatto di una cavalcata dal groove strisciante, ma ben presente. Troviamo pure "antimelodie" trascinanti, le quali però decadono nelle dissonanze iniziali riprendendo il discorso ormai familiare, aperto anche a versi urlati. Al quarto minuto e mezzo abbiamo l'ennesimo crescendo ritmato, con ancora una volta cori ariosi e drumming pulsante; riecco quindi i bei riff di poco prima, ora collimanti in un pestone che si trascina fino alla chiusura, segnata da un'ultima bordata.
Curse Us All
Curse Us All - Maledicici Tutti parte con un fraseggio tagliente contornato da piatti cadenzati, ma subito degenera in una marcia dal riffing marziale, ripetuta ad oltranza in una galoppo dal gusto thrash, dittatoriale e completato dal growl di Broadrick, il quale ci narra di disprezzo e giudizio verso il mondo circostante, ma anche verso se stessi, un'imprecazione lanciata con forza e sgomento, saturi della realtà e da ciò che ci circonda: senza un'anima si può dominare il mondo, si possono maledire tutti, e ci chiediamo come si possa cadere. Il trotto massacrante si apre di seguito a bordate ritmate, reiterando l'atmosfera generalmente concitata in una sequenza ritmata e che non lascia la presa, sottolineata anche da inflessioni dissonanti, salvo poi darsi nuovamente a movimenti ossessivi; "You're an empty shell / built from brick. A living hell / spewing shit - Sei un guscio vuoto/ creato da un mattone. Un inferno vivente/che sputa merda" declama ora il Nostro con toni poco umani, mentre nuove bordate drammatiche seguono, sorrette da un basso greve e sferragliante, esprimendo tutto il suo disappunto e la visione nera nei confronti della realtà. Troviamo quindi una cesura serpeggiante fatta di arpeggi secchi e drumming incisivo, scossa ad alternanze da riprese della cavalcata principale. Broadrick ruggisce di nuovo il suo mantra aggressivo, e non ci sorprende la ripresa delle bordate monolitiche, per un pezzo decisamente metal che mostra il lato più "umano" della band, senza però perdere le qualità meccaniche insite nel loro suono, anche grazie ai loop reiterati e alla riproposizione ciclica di movimenti e sezioni riconoscibili. La coda finale vede doppia cassa dai rullanti controllati, e nuove lasciate e riprese, in un terremoto sonoro che ci conduce verso l'improvvisa conclusione, sottolineata da uno strappo sonoro.
Carrion
Carrion - Piaga si palesa con un bel fraseggio corrosivo dal gusto rock, dotato di un groove coinvolgente e ben strutturato, presto sconvolto da bombardamenti mastodontici di drum machine e chitarra distorta; Broadrick interviene presto con versi distorti, con una cantilena piena di disprezzo verso l'umanità e la società, vista come una piaga dove vige la regola del cane mangia cane nell'egoismo più totale. Per lui siamo avvoltoi che prendono la carne dalle ossa, saccheggiamo, prendiamo quello di cui necessitiamo, senza riguardo. In tutto questo, il ritmo creatosi prosegue, scosso da attacchi distorti in una sequenza cadenzata che mantiene lo stile minimale e secco dei Nostri, ma con una linea più "leggera" rispetto ai loro momenti più pesanti; si alternano snare serpeggianti e pulsioni da terremoto, portando avanti il tutto fino al galoppo fatto di riff circolari distorti. Possiamo "essere e siamo, ma la nostra sete di sangue non è desiderata, il nostro istinto è il mondo intero", parole che ancora una volta sanno più di flusso di coscienza, piuttosto che di ragionamento articolato. Una malia dissonante doom fa da cesura, reiterando la struttura ipnotica del brano, e addirittura abbiamo anche un ponte alternative rock che riprende il groove portante, riportandolo ai connotati iniziali. "Your vision / is clear now - . La tua visione/ora è chiara", ci dice il cantante, ma non si tratta di qualcosa di positivo: è chiaro come funzionano le cose, la realtà dei fatti che non può essere cambiata. Si ripetono i momenti già incontrati, tra parti più rallentate e riprese minime di velocità, mai comunque lanciate, coadiuvate da assonanze oscure, pronte al terzo minuto e quaranta a degenerare in caotici momenti noise fatti di chitarre dissonanti e colpi secchi, creando un momento progressivo che va dilungandosi in un gioco ossessivo dall'energia trattenuta. Si prosegue su questi toni, arrivando così ad un feedback finale, sul quale si staglia la ritmica, creando così una sequenza finale sempre più ridotta all'osso, pronta a lasciare solo il feedback di chitarra nella conclusione.
Imperator
Imperator - Imperatore si apre con una chitarra ronzante, scolpita da cimbali ossessivi e presto sovrastata da bordate severe e decise, in un crescendo strisciante ma ben vivo. La trama metal prosegue con la sua marcia robusta, aggiungendo poi raffiche thrash alternate alla ripresa delle contrazioni iniziali; Broadrick interviene con vocals filtrate e questa volta eteree, quasi spettrali e come perse nella nebbia, con le quali delinea immagini di perdizione e sconfitta, contrastando con il nome del brano. Abbiamo fallito nel raggiunge qualcosa di alto, non c'è sole, non c'è amore, una dimensione fredda e greve, tanto quanto il suono promulgato dalla drum machine pestata e dai montanti rocciosi ed assassini. L'alternanza è tra corse dai galoppi concitati e grevi passaggi doom, dotati di un sound corrosivo e freddo; "We climbed / to the sky. We crumbled / no light - Siamo saliti/fino al cielo. Siamo cadut i/ non c'è luce" reitera il Nostro, dandoci ancora l'idea di caduta e perdita primordiale, tra il mito di Icaro e la caduta di Lucifero dai cieli, una tragedia sia universale, sia personale, in una società che ha fallito tutti i propositi da essa sbandierati. Intanto la marcia si fa sempre più massacrante, portandoci verso una cesura fatta di fraseggi squillanti e malinconici, capace di regalare una dimensione evocativa ed umana alla stanchezza esistenziale espressa; essa s'interrompe all'improvviso, ridando spazio ai movimenti precedenti, mentre il cantante ripete negli stessi modi la sua lezione nichilista. Riecco quindi anche i crescendo combattivi, che tirano fuori movimenti metal tellurici e momenti dall'elettronica corrosiva, dandoci una cavalcata finale conclusa da un effetto improvviso prolungato.
Towers of Emptiness
Towers of Emptiness - Torri Del Vuoto viene introdotta da un basso greve unito ad arie dark ambient, presto sostituite da un riffing macilento e dissonante, in una linea disorientante completata da piatti ossessivi; ecco che il tutto si fa ancora più concitato, dandoci lo strato sonoro sul quale Broadrick interviene con i suoi toni ben poco umani. Egli ci racconta di un mondo privo di sogni e volontà, dove non si può vincere contro l'ottusità: qui tutti i desideri vengono concessi, ma semplicemente perché ormai non si desidera nulla. Il groove musicale intanto prosegue, tra alternanze di parti più trattenute e rilasciate, e ritmi votati al loop. Il passo è ancora una volta monolitico, quello di una marcia da fabbrica; dei cimbali pulsanti si aggiungono, mentre il cantante reitera le sue visioni. "Don't reason / don't reason with ignorance. There's only brick walls / and towers of emptiness - Non ragionare/non ragionare con l'ignoranza. Ci sono solo muri di mattoni/ e torri del vuoto" declama, invitandoci a non sprecare tempo contro qualcosa che non può essere cambiato, o sconfitto. Intanto le chitarre si danno anche a bordate marziali, in una sessione metal drammatica e corrosiva, fermata da un suono squillante: riprende quindi il percorso iniziale, con in sottofondo effetti lontani ed evocativi. Nuove innalzate di tono, nuove vocals mortifere, così come nuovi attacchi al fulmicotone ci accompagnano insieme a suoni distorti, ma all'improvviso solo quest'ultimi rimangono sulla scena, mentre Broadrick assume toni ben più ariosi nella sua voce, ripetendo il titolo del brano su un anti-melodia. Si apre così un finale lento e strisciate dall'anima doom, dove ila ritmica serpeggiante e le chitarre dilatate delineano avvincenti paesaggi sonori onirici ricchi di pathos e malinconia, sottolineati nella conclusione da synth evocativi e cosmici, mentre il cantato si perde nel limbo, e rimane solo una digressione prolungata.
Forgive Our Fathers
Forgive Our Fathers - Perdona I Nostri Padri parte con oscuri suoni da catacomba, preparando una tensione potenziata da arpeggi rocciosi ed accennati; ecco che salgono anche feedeback noise, esplodendo poi in un muro distorto e dissonante, dove Broadrick ruggisce con veemenza animale furiosa e drammatica, attaccando ogni dogma e credenza, e facendo i conti con il passato e le sue colpe. Un tema che può essere visto sia in chiave personale, sia in senso più ampio e universale, in riferimento ai mali della società occidentale, ad una storia di invasioni e guerre. Disperdiamo tutti i pensieri, li eliminiamo, raggiungendo un vuoto mentale che riflette quello spirituale; la musica prosegue meccanica e pestata, dandoci un senso di oppressione: ma ecco vocals più ariose, unite a montanti colossali e tensioni drammatiche, scolpite da un drumming secco e come sempre ossessivo. "Just believe / in nothing. Because you are / just nothing - Credi solo/in nulla. Perché tu sei/solo nulla" ci viene detto, palesando il vuoto di fede e di essenza, e con algido scherno si descrive come chiediamo che i nostri padri vengano perdonati, perché non saranno mai in cielo, il loro regno è giunto, e non ci libereranno mai dal male, ogni promessa di redenzione è falsa, perché non la meritiamo. Intanto i toni si mantengono sognanti, ma sorretti da chitarre e basso grevi, in un panzer che avanza senza sosta alcuna, un treno pesante che ci conduce verso un falso feedback finale: ecco infatti una serie di montanti sottolineati da un riffing tagliente, nuova coda che evolve conoscendo anche freddi fraseggi arricchiti di malinconia. Giochi ritmici e sonori ci trascinano con loro, in un loop ossessivo dal gusto progressivo, che vede l'alternanza tra le arie più controllate, e le marce. Ritorna il cantato, che ripete il titolo del brano ad oltranza, rimanendo poi in solitario in un'eco continua che va a disperdersi nell'etere con un loop che questa volta mette davvero fine all'episodio qui ascoltato.
"Shut Me Down (Version)"
Shut Me Down (Version) presenta una riproposizione decisamente elettronica del brano, tra strati elettronici e loop dove il tutto viene ricondotto a batteria, effetti squillanti, e riff secchi e minimali, mentre le vocals di Broadrick rimangono aggressive, ma in qualche modo più umane. Trame sincopate e suoni dissonanti vanno a posizionarsi quindi su un songwriting basilare, dove vengono portati alla luce tutti gli elementi ritmici del pezzo, regalandoci anche cesure urbane vicine ad un sapore hip-hop, ma sempre dalla tensione alta. Riff ossessivi e movimenti squillanti saturano il suono, mantenendo la linea seguita sin dagli inizi, in quello che possiamo considerare praticamente un remix; riecco quindi pause dominate dalla drum machine pestata e dallo scratching reiterato. Il risultato è una sequenza ipnotica, destinata ad accompagnarsi a linee di basso in momenti di raccoglimento dove si sperimenta anche con gli effetti sulla voce del cantante. Ritroviamo i loop iniziali, dissonanti ed alienanti, così come i piatti cadenzati e le pulsioni potenti e concentrate, questo fino alla conclusione improvvisa.
New Dark Ages (Dub)
New Dark Ages (Dub) offre come da titolo una riproposizione dove dominano i suoni di basso e la batteria, arricchite da suoni cosmici e riverberi che creano un'atmosfera eterea e spettrale. Sequenze ritmiche seguono una strada fatta di movimenti meccanici, destinata a conduci verso grida piene di echi, un rumore roboante che ci investe, salvo poi scomparire per ridare spazio alla strumentazione, che conosce anche effetti "sotterranei", così come scariche ad accordatura bassa che ricordano scosse elettriche improvvise, e che mantengono l'elemento caotico qui ben presente. Ecco la riproposizione delle vocals dai filtri in riverbero, così come dei riff grevi e disorientanti, in un'atmosfera lisergica dove tutto è immerso in strati sonori; seguono sequenze minimali con basso e drum machine dilatata, accompagnate poi da chitarre caotiche e piatti cadenzati, in un gioco sonoro dove la melodia del brano iniziale diventa ben più scheletrica ed asservita a manipolazioni sonore portate avanti anche in strali cosmici e nuove marce meccaniche. Il gran linfe vede una coda rarefatta di pochi secondi, conclusione "ambient" per una riproposizione sperimentale dal grande effetto.
Imperator (Version Dub)
Imperator (Version Dub) si apre con un riffing distorto unito a strati di synth e passi serpeggianti, raggiunto da un drumming quasi tribale, e di seguito da arpeggi notturni ed ossessivi. Troviamo poi un bel montante dal suono dissonante, condito da giri rocciosi e loop reiterati. Ancora una volta le vocals vengono riempite di filtri, mentre in sottofondo la strumentazione minimale prosegue nella sua marcia, aprendosi a sessioni squillanti, mentre la ritmica si mantiene strisciate; distorsioni spinte dominano l'etere, rendendo il tutto ancora più disorientante ed evocativo, tenendo in sottofondo le melodie, e in primo piano batteria e strumenti a corda. Sequenze meccaniche ci portano con loro, ossessionandoci, mentre di seguito prende posto la sola batteria con voce, regalandoci un momento quasi rituale, sormontato da un'atmosfera malvagia promulgata anche durante la ripresa dell'andamento più diretto. Feedback astrali continuano in sottofondo, prendendo poi il controllo nel in un falso finale, aperto invece a nuovi momenti ritmici che generano un mantra pluviale dove spettri sonori e parti concise si uniscono in un'atmosfera suadente, ma sinistra. Un fraseggio spettrale, sovrapposto a feedback stridenti, prosegue, ma ecco che all'improvviso un drone elettronico copre il tutto, ridando spazio alla ritmica e agli effetti in sottofondo. Una lunga marcia quindi, che ci porta verso una serie di pulsioni destinate a muoversi tra suoni stridenti, consegnandoci una conclusione firmata da un effetto finale.
Conclusione
Un disco quindi che ha il merito di aver riportato i Godflesh sulla carreggiata, riprendendo la loro carriera là dove era stata lasciata, ma riscoprendo le loro radici più autentiche: un songwriting minimale ed ossessivo, l'uso della drum machine e di chitarre ad accordatura bassa in un contesto meccanico ed alienante, tutti elementi che da sempre hanno creato il perfetto accompagnamento musicale per il loro nichilismo minimale e spesso gridato con ferocia, più uno sfogo che un discorso concreto e compiuto. Quello che manca è quell'oscurità legata ad un'atmosfera tesa ed oppressiva, una rabbia gelida che qui lascia più il posto ad un suono monolitico basato sulla ripetizione e sull'uso delle distorsioni; l'effetto è qualcosa che richiama il passato, ma non riesce del tutto a catturarne lo spirito, soprattutto quella propensione verso l'innovazione che li ha sempre contraddistinti durante la carriera. La sensazione è quella di una sorta di scheletro, basato su chitarre ad otto stringhe e ritmi abbastanza lineari, uno scheletro che necessita di nuova carne. Probabilmente, se visto come un banco di prova, un rimettere i piedi nell'acqua dopo molto tempo, il tutto acquista molto più significato: "A World Lit Only By Fire" è un nuovo inizio, e come tale richiede una tabula rasa ed un nuovo schema. Detto questo, non dobbiamo assolutamente pensare ad un'apologia per un album brutto, o anche solo mediocre: se ascoltato con attenzione, il disco offre diversi momenti avvincenti, strutturati in una sorta di continuum dove i vari pezzi, più che realtà a sé stanti, sono variazioni di un tema comune che prosegue per tutta la durata dell'opera, offrendo un quadro desolato e grigio. Le melodie non sono assenti, ma vengono usate con parsimonia, puntando a creare effetti a sorpresa e ritroviamo alcuni elementi mutuati dall'esperienza con il progetto Jesu, offrendo squarci di malinconica umanità in precedenza non così scontati nella musica dei Nostri. Come detto, in ogni caso l'accoglienza verso il disco è decisamente positiva, e sembra che il mondo del metal più sperimentale e pesante necessiti dei suoi campioni inglesi. Broadrick sembra aver trovato nuova ispirazione, pur continuando ad esplorare anche altri mondi, e anzi incominciando ad avere sempre più successo nel mondo elettronico grazie a JK Flesh, realtà sempre più lanciata verso una prospettiva techno. L'ossatura è pronta, lo spirito, la divinità: ora è il tempo della carne, la quale verrà alcuni anni dopo con la seconda parte della loro nuova epopea, ovvero quel "Post Self" che cambierà veramente le carte in tavola, entrando nell'olimpo della loro dessiografia grazie all'uso massiccio di elementi industriali e post-punk allo stesso tempo vicini alla radice del gruppo, ma anche nuovi nella loro freschezza e mancanza di riserve nel loro utilizzo, Ma adesso tutto questo è ancora lontano, per ora i Nostri si godono il frutto del loro lavoro senza perdere il gusto per l'avventura: nel 2016 creano, in collaborazione con i conterranei Khost, una sorta di remix album che è più una rivisitazione del suono della band doom/industrial, ovvero "Needles Into The Ground", uscito per la Cold Spring, un lavoro decisamente caotico e dall'animo noise, e nello stesso anno esce la collaborazione tra Jesu e la band folk rock americana Sun Kill Moon, la quale darà vita ad una serie di concerti, e nel 2017 i due gruppi pubblicheranno un secondo episodio collaborativo chiamato "30 Seconds to the Decline of Planet Earth". Il già menzionato progetto JK Flesh prende le distanze dalle iniziali influenze post metal con l'album puramente elettronico "Rise Above", seguito poi da un gran numero di EP sempre più addentrati nel mondo techno; un fermento creativo verso diverse direzioni, testimoniato anche da interviste in cui Broadrick palesa un interesse ora diretto anche verso realtà musicali prima da lui snobbate, come il black metal (anche se di stampo sperimentale), in un raro caso di apertura mentale maggiore con l'avanzare dell'età. Questa sua natura sempre curiosa e capace di fagocitare i più diversi input, è ciò che ha sempre fatto la fortuna dei Godflesh, ed è grazie ad essa che presto il nuovo scheletro creato con "A World Lit Only By Fire" vestirà degli abiti avvincenti e capaci di dire qualcosa di nuovo. Alla luce di tutto questo, quindi, il disco qui recensito si conferma come un passo necessario, e comunque godibile anche nella sua natura di album, ma che acquista ancora maggiore importanza se visto in chiave filologica nella rinascita della band inglese. Una rinascita che segue quindi ad una precedente "morte", morte che risale al 2001, anno di uscita di quello che era il loro epitaffio, ovvero quel "Hymn" che in un certo senso è l'altro lato dello specchio rispetto a quanto detto su quanto ora recensito; qui infatti l'uso di una batteria umana e di suoni meno meccanici offriva un album più umano, ma non meno oscuro e privo di speranza, una visione diversa, ma allo stesso tempo uguale dei temi portanti della band. E sarà proprio esso l'oggetto della nostre prossime analisi, ma non prima di una parentesi sull'EP "Decline & Fall", araldo di "A World Lit Only By Fire" e prima scintilla della nuova vita dei Godflesh.
2) Deadend
3) Shut Me Down
4) Life Giver Life Taker
5) Obeyed
6) Curse Us All
7) Carrion
8) Imperator
9) Towers of Emptiness
10) Forgive Our Fathers
11) "Shut Me Down (Version)"
12) New Dark Ages (Dub)
13) Imperator (Version Dub)
14) Conclusione