GIORGIO ROVATI
It's Time
2014 - Self Released

LORENZO MORTAI
02/12/2015











Introduzione Recensione
Si sa, ai chitarristi, specialmente quelli che decidono di prendere la strada del solista, piace fondere ed improvvisare; perché un artista solista è come un pittore che da sferzate di morbido colore alla sua tela, fino al compimento totale dell'opera e la sua completezza, quando finalmente stacca gli occhi da quei fili intrecciati e la guarda da una distanza consona. Un chitarrista in particolar modo, data la sua abilità nel pizzicare le corde, si sente spesso in dovere di collimare fra loro stili diversi o apparentemente strani fra loro, dando vita ad una vera e propria Babele di suoni, senza ritegno e senza freno, ma donando parti di musica strumentale al mondo. Nell'arco degli anni di virtuosi della chitarra ne abbiamo avuti svariati, e di diversi tipi; si può infatti passare dalle pompose liriche impregnate di anni '80 che escono ed uscivano dalle corde di Malmsteen o Tony McAlpine, arrivando alla Fusion sincopata e quasi industriale di Jeff Beck, considerato all'unanimità (ed a titolo corretto) uno dei migliori chitarristi di sempre, con un livello di concezione ed ingegneria delle note talmente alieno, da risultare geniale. Tutto ciò fino ad arrivare ai duellists moderni come Satriani o Steve Vai, due asce da guerra a sei corde che si spostano, l'un l'altro, sul filo del Rock, ma anche venature Jazz e Prog accompagnano le loro note, specialmente in Steve Vai; Joe Satriani invece, specialmente negli ultimi anni (e la recensione del suo ultimo lavoro Shockwave Supernova ce lo dimostra senza dubbio), il nostro canuto ed occhialuto axeman si è spostato su suoni spaziali, quasi universali, dando fondo ad una realtà parallela e sparandoci direttamente nello spazio più profondo. Insomma, se siete amanti degli uomini solitari illuminati da un occhio di bue che riflette il manico della loro Gibson, troverete pane per i vostri denti, ed una ramificazione sempre più capillare di questa parte di musicisti (comprese accezioni più melodiche e morbide come il nostro Gabriele Bellini ed il suo Acoustic Spaces, un viaggio intrinseco sulle note di una dolce chitarra acustica, fra universo e terra), più si scava, più si trova. Ed è proprio scavando quel poco che serve per non essere degli ascoltatori passivi, che ci imbattiamo nel personaggio che colorerà la nostra recensione, un giovane promettente che proviene da una delle città universitarie per eccellenza, fra Spritz e la mastodontica Prato della Valle, parliamo ovviamente di Padova. Questo losco e giovane figuro risponde al nome di Giorgio Rovati, professione chitarrista. Il nostro uomo padovano sviluppa fin da ragazzo una fervida immaginazione ed una atavica passione per la musica, imbracciando lo strumento ligneo a sei corde fin dai primi vagiti; anni di pratica, composizione e sperimentazione lo portano a suonare costantemente, ed a rinverdire il proprio sound con i nuovi ascolti che accompagnano la sua esistenza, ogni volta un tassello diverso come in un immenso mosaico da completare. Dopo aver pubblicato alcuni singoli e guitar lessions fin dal lontano 2008, nel 2013 arriva la sua consacrazione definitiva come artista solista, quando riesce a mettere insieme il suo primo full lenght, dal titolo di Rocking the Pop. E un album molto particolare, e già dal titolo si dovrebbe riuscire a capire il perché; si tratta sostanzialmente di una enorme raccolta di pezzi presi dalle più famose popstar del momento e del passato ( si passa da Christina Aguilera ad Avril Lavigne, fino ad arrivare all'icona della trasgressione per eccellenza di questi ultimi tempi, Lady Gaga), il tutto arrangiato da Giorgio in chiave maledettamente Rock, per riuscire a far capire che dalla musica si può estrarre veramente qualsiasi cosa. Tuttavia, nonostante il successo del primo album, il nostro padovano ha in mente qualcosa di ancor più ambizioso, ed anche nettamente più in linea con la sua carriera solista, produrre un album che sia suo al 100%. Si, il precedente aveva il suo sound ed il suo tocco, ma adesso era arrivato il momento di presentarsi ufficialmente con un prodotto riconoscibile e personale sotto ogni punto di vista; per cui, si entra in sala prove, si compone fino allo stremo e si cerca di dare forma e corpo a questa macchina musicale. Dopo settimane, mesi di sperimentazione, si arriva ad un sound che, come in un enorme pendolo fonde fra loro Rock, il più classico dei Jazz, ma anche venature di Prog Metal e Fusion, il tutto rimescolato, scaldato e servito per gli ascoltatori dal nostro Giorgio. Otto tracce composte (anche se sarebbe più corretto dire sette, visto che l'ultima è una cover, ma lo vedremo in fase di analisi), mancavano solo due cose, copertina e titolo per questa creatura pregna di rimescolanze musicali. Per l'artwork si pensa a qualcosa che rimandi all'arte, un concentrato di fantasia e morbidi pensieri messi assieme dalla mente di chi guarda; si disegna infatti un enorme orologio con le lancette quasi immobili nel tempo, incastonato in una ramificazione di edera rigogliosa e smeraldina, che si interseca sul quadrante del segnatempo stesso, dando un senso di continuità ed eternità, come se il tempo si fosse letteralmente fermato. Un eburneo giglio ci segnala lo scoppio della vita, niente si ferma mai del tutto, il mondo è in continua trasformazione, ed un triangolo si apre al di sotto dell'orologio, rivelando un lussureggiante mondo vegetale, con una cascata d'acqua che va a bagnare il nome dell'artista ed il titolo dell'album posto al di sotto, in una calligrafia professionale e setosa, come il resto dell'artwork. Copertina profetica, titolo altrettanto; Giorgio aveva deciso che era il momento, tutto era pronto per dare il benvenuto al mondo intero, e farsi conoscere nella sua forma più personale, ed è per questo che i nostri otto slot di alchimia musicale portano il nome di It's Time. Dunque, traete le vostre conclusioni da questa prima parte, mentre ci apprestiamo a risvegliare questa magica creatura formata da pentagrammi e chiavi di violino, apriamo la porta di Babilonia ed entriamo dentro questa composizione.

Trust Yourself
Un elettrico intro di chitarra, aggressivo ma non troppo, da il la per la prima traccia, Trust Yourself (Fidati di Te Stesso); all'intro così elettrificato segue anche l'ingresso della batteria, che accompagna questo inizio di canzone, compreso anche di basso che in sottofondo detta il tempo assieme alle pelli (suonate rispettivamente da Alberto Rigoni e Riccardo Merlini). La chitarra di Giorgio si inalbera, dando vita ad un primo assolo dal sapore settantiano, avvolgente e dannatamente elettrico nella sua resa, con in sottofondo il ritmo (registrato in un altro momento) che da un senso di completezza al brano, come se ciò che abbiamo sentito in apertura di pezzo non ci avesse abbandonato del tutto. Si sentono influenze classiche nel modo di suonare che ha questo artista, riesce bene a collimare fra sé ritmi acidi di Rock con alcune piccole partiture di Fusion, anche se in questo primo brano la nera signora in falce e corna alzate la fa da padrone. Finito il primo assolo, così energico, segue a ruota una progressione sulle corde decisamente più mielosa, morbida nella sua resa finale, ed assai più aliena, con un saliscendi sul manico della chitarra che rende il tutto ancor più altisonante ed etereo durante l'ascolto. In sottofondo batteria e basso non si lanciano mai troppo in soli degni di nota, ma si limitano a fare ciò che è più importante, dettare il passo da seguire alle corde di Giorgio, come su un'antica nave da guerra il martello ed il tamburo segnavano l'andante della navigazione. Altra variazione in cui troviamo il main theme sentito in apertura, e si passa come in un loop infinito, allo pseudo assolo di matrice Rock, quasi Heavy Metal, che abbiamo sentito dopo l'apertura, prima di variare ancora e lasciare spazio ad un altro allungamento sulle corde della chitarra, stavolta di matrice più Fusion, con tempi dispari e partiture sincopate che fungono quasi da ritornello anche senza l'assenza della voce (provate a fare questo; mentre ascoltate questa parte del brano, provate a ripetervi il titolo ritmandolo con ciò che sentite, vi accorgerete che questo momento pare davvero un ritornello, anche senza che ci sia nessuno di fronte al microfono). C'è tempo ancora prima di finire in maniera definitiva il brano, ed ecco che il buon Rovati ci rigetta nella mischia con un altro fil rouge che ci trasporta verso l'ultima parte del brano, sostanzialmente si tratta di un ritmo sempre Rock, ma incentrato non tanto sull'aggressività delle note suonate, quanto piuttosto su ciò che viene definito "ritmo andante", l'incedere del brano da nuova energia alle note suonate, tenendoci incollati alle cuffie in attesa della prossima variazione. Variazione che arriva quasi in chiusura di brano, dopo che Giorgio ha steso un tappeto rosso al suo strumento nei precedenti due minuti di brano, in cui col sottofondo che ormai ci siamo abituati a sentire, ha ricamato con le sue corde una costante pioggia di note, e le influenze del canuto Satriani qui si sentono abbastanza bene, sono suoni che, chi è fan di questo artista, è abituato a sentire, specialmente i saliscendi sul manico della chitarra. La variazione dicevamo arriva in chiusura, quando Giovanni stoppa ciò che sta facendo per sferrare un ultimo assolo al pubblico, anch'esso di matrice Satrianiana, vellutato ed intenso al tempo stesso, prima che tutto taccia definitivamente e la chitarra, assieme al basso ed alla batteria, se ne vada in dissolvenza. Se si sente il brano con attenzione, effettivamente si ha la sensazione di qualcuno che ti stia incoraggiando, come probabilmente è accaduto anche al nostro chitarrista in un momento di difficoltà; avere fiducia in sé stessi può cambiarti la vita, offrirti possibilità al limite della tua comprensione, basta avere la volontà di fare ciò che si vuole, ed esso è lì, a portata di mano. Non è necessario fare sforzi sovrumani per entrare nel cerchio della vita, basta avere la voglia di affondare le mani fosse anche nel fango, pur di riuscire, e soprattutto fidarsi del proprio istinto, la nostra mente ci conosce meglio di noi stessi, e ci da sempre i consigli da seguire più corretti. Certo, alle volte anche lei sbaglia, ma la fiducia nelle nostre capacità non deve mai venire a mancare, altrimenti il castello su cui è costruita la nostra intera esistenza, si affloscia come neve al sole, ed a noi non rimarranno altro che mani sporche, bagnate dalla neve sciolta dal caldo, e nulla più, soltanto il rimorso di ciò che non abbiamo fatto.

Hopes and Fears
Di avviso decisamente più aggressivo e diabolico invece è l'intro del secondo slot, occupato da Hopes and Fears (Speranze e Paure); la chitarra di Rovati diventa cattiva fino nel midollo in questa prima sezione, rappresentando forse le paure di cui parla il titolo. Per i primi secondi ci sentiamo attaccati, poi, un dolce e cadenzato ritmo di chitarra elettrica, nettamente meno rigido del primo, ci fa vedere un po' di luce in mezzo a tutto il buio visto fin ora (e forse questo è la speranza presente sempre nel titolo del brano). E' il pezzo più lungo di tutto l'album, con quasi sette minuti di esecuzione di pura sperimentazione sul filo del Rock; la parte "speranzosa" del pezzo inanella combo come se non ci fosse un domani, i ritmi sono morbidi, ma serrati, ed in sottofondo sentiamo invece quel dualismo aggressivo che ci ha aperto le porte di questo brano, a fare da contrappeso. La chitarra ad un certo punto si innalza ancor di più, improvvisando un assolo di matrice forse un po' più Prog in alcuni punti, sperimentale e fantasmagorica, come se il chitarrista fosse salito su un piedistallo, e pretendesse che tutti noi puntassimo gli occhi solo su di lui. E' un assolo davvero degno di nota, e una progressione che va avanti per quasi un intero minuto, con una continua folla di note che si raduna nelle nostre orecchie per essere ascoltata, finché non arriva l'ennesima variazione che ci ributta nell'arena. Variazione che è affidata ad un colpo ai piatti della batteria, all'unisono dei quali la chitarra cambia sound, passando dalle velate note sentite in questa parte, ad un ritmo che ci ricorda i nefasti momenti iniziali, più dinamici e cattivi, con un abbassamento di qualche semitono per dare più corpo al sound stesso. Il ritmo "da paura" si interseca con i due strumenti di accompagnamento, fino a rimanere in sottofondo mentre la seconda stringa di chitarra registrata non si barcamena fra il sopra ed il sotto delle note, dandoci un senso di "nausea" positiva, come se stessimo solcando i flutti burrascosi del mare. Abbiamo anche il momento pseudo Jazz ad un certo punto, e ce lo segnala ancora una volta la batteria, stavolta con una poderosa rullata; mentre in sottofondo la chitarra rimane aggressiva, ma comincia a sincoparsi piano piano, sopra abbiamo delle piccole pizzicate alle corde, che man mano che procediamo diventano sempre più frequenti, fino a sfociare in un altro assolo tornando alle matrici firmate Satriani, possenti e dinamiche, anche se qualche sprazzo di Fusion continua a permanere, specialmente in ciò che sentiamo di sottofondo al ricamo superiore. Il solo continua, e diventa quasi improvvisato ad un certo punto, come se stessimo osservando una fantomatica Jam Session di artistic che si divertono a suonare assieme; dopo il momento Fusion è giunta l'ora di tornare al tema "speranza" che ha contraddistinto la prima parte del brano, ed infatti Giorgio ce ne da un altro assaggio, tutto diventa come di stelle in questa parte, con un tapping che accompagna l'ultima variazione prima del finale definitivo del pezzo. Variazione che arriva dopo quasi un altro minuto, in cui Rovati, come i rampicanti che intersecano il suo artwork, si diverte ad inerpicarsi sulla collina franosa del suo strumento, dandoci un altro assaggio delle sue potenzialità. Assaggio che però viene stravolto dall'ultima variazione presente nel brano; Giorgio infatti, prima di lasciarci andare completamente la mando ed abbandonarci al nostro destino, ci da un'ultima botta energetica chiudendo il cerchio col tema sentito in apertura di brano, quasi a voler sottolineare che forse le paure non vincono sempre, ma sono sempre furentemente presenti dentro e fuori di noi. Ascoltando questo brano si ha proprio la sensazione del dualismo e dello sdoppiamento che circonda il titolo; da una parte abbiamo le speranze, tutti quei desideri positivi che circondano la nostra vita e la rendono più piena, più completa ed esaustiva. Sono quei momenti in cui diciamo "ce la posso fare" in cui ci sentiamo come se potessimo prendere a calci il mondo, il re e tutti i suoi seguaci, senza ritegno, senza problemi. Tutto ciò però viene funestato dalla paura, anzi, dalle paure, quei demoni famelici che albergano dentro i nostri umani animi, e che stringono il nostro cuore fra le loro grinfie, facendoci alle volte desistere da quel che vogliamo fare. La soluzione? Non ve ne è una definitiva, bisogna armarsi e lottare per combattere contro le proprie paure, non è sicura la vittoria, ma ciò che rimane certo è che almeno ci abbiamo provato. Dunque un pezzo che può essere diviso in due parti, andando a colpire luce ed ombra, ed il nostro Rovati ci da un assaggio di entrambi, perché la vita è ricolma tanto di momenti splendenti, quanto di baratri profondi in cui cadere e non rialzarsi più tanto facilmente, a meno che qualcuno non tenda la mano.

The Garden Of Love
Abbiamo invece un candido intro melodico, quasi spaziale ed acustico nella sua resa, per The Garden Of Love (Il Giardino dell'Amore); qui le ispirazioni classiche del genere solista, da Satriani che ormai abbiamo citato svariate volte, allo stesso Vai, ma anche accezioni meno Rock del genere come può essere un Malmsteen stesso, così come un Beck o un Clapton, si sentono assai bene, specialmente nei ricami ingarbugliati che accompagnano l'ingresso del brano ed il suo successivo crescere sempre più. E' un brano in cui forse il pappiè di suoni messo in atto da Rovati si sente molto bene, particolarmente perché le sonorità di base non sono "sovrastate" (e non che sia un male, anzi) dall'acida colata di Rock. Abbiamo delle piccole venature di Jazz in sottofondo, ma più che di Jazz classico, parliamo delle sue accezioni più moderne come l'Acid o il Jazz Metal, in cui si cerca di dare forma e corpo a padre e "figlio" putativo, in un turbine infinito. Abbiamo poi grosse partiture di Rock melodico stavolta, le basi, quella contaminazione quasi Folk tanto cara agli artisti settantiani che hanno scritto la storia di questo genere; ed in ultimo, ma non per importanza, abbiamo anche la follia conservativa del Progressive (Metal, in questo caso), che va ad intersecarsi in tutti questi altri generi, dando una botta di adrenalina ad ogni brano in cui è presente. Dopo il main theme sentito in apertura, Giorgio , con un sapore che ricorda molto gli anni '80, in cui scale pentatoniche e saliscendi morbidi ogni tanto si palesavano, ci propone una variazione dolce e sommessa, quasi accennata (il tema di fondo non cambia poi di moltissimo), ed invece che darci una frustata di note come ha fatto nei brani precedenti, si limita a carezzarci la pelle con la sua sei corde, dando vita ad un balletto fra noi e lui in piena estasi d'ascolto. Forse non è il brano più eclettico o interessante di tutto il pattern che circonda questo disco, ma questo giardino rigoglioso in cui Rovati ci ha fatto entrare, cattura comunque l'attenzione col suo carico di sommessa gioia, ed è un momento in cui riprendere fiato dopo le due botte prese, e dare un po' libero sfogo alla fantasia, viaggiando fra quegli arbusti. Il brano continua così, con Giorgio che ricama sulla sua chitarra in maniera sempre attenta e rigogliosa, dando vita ad un andante che ci cattura l'immaginazione, mentre sul finale abbiamo un eclissarsi degli intrecci musicali, per dare spazio ad una dissolvenza che arriva piano piano, supportata da delicati pizzichi alla chitarra e dai piatti della batteria, che vengono suonati anch'essi con leggiadra cura, quasi a non voler rompere un equilibrio che si è creato ascoltando il pezzo. Il giardino di cui si parla nel titolo probabilmente è ciò che si vede nel triangolo aperto della copertina; quella cascata così rigogliosa, tutto quel verde, ci fanno pensare ad un fantomatico Eden, in cui tutto è ancora possibile. Immaginiamo di entrare in questo paradiso terrestre, circondato dalle foglie di edera che ormai hanno mangiato e dominato tutti gli edifici di cemento che erano presenti in un glorioso tempo che fu; camminiamo per strade fatte di erba e fiori, muschio ad ogni lato che vediamo, la natura ha vinto, è riuscita a conquistarsi il suo tanto agognato spazio, buttando per sempre fuori quella voglia smodata dell'uomo di seppellire tutto sotto una colata di cemento e pietra. E' un giardino, è una canzone, con cui rimettersi in pace con sé stessi, la si prende e si ascolta così, come viene, mandando a briglia sciolta la propria testa e lasciandola libera di muoversi come meglio crede, rimbalzando da una parte all'altra della storia e del globo immaginando paesaggi sconfinati, senza limiti e senza frontiere, tutto è libero.

Recensione
Dopo questa leggera sessione quasi acustica, è il momento di ripiombare nel Rock duro, e lo facciamo guardando l'orologio, e settando le 12:00, che è anche il titolo del brano; inizio al vetriolo per questo quarto slot di It's Time, con la chitarra di Giorgio che mangia note come un famelico distruttore di mondi, mentre in sottofondo, ma neanche tanto "sotto", la batteria di Riccardo Merlini da poderosi colpi alle sue pelli, con rullate ed improvvisazioni atte soltanto a far salire ancor di più l'hype e mettere la chitarra sulla scena in primo piano, compensando ovviamente anche l'assenza della voce. Uno dei brani più energici di tutto il disco, il pezzo continua a darcele di santa ragione; dopo l'intro infatti, i ritmi veloci che avevamo sentito in prima battuta, prima si fermano un attimo per diventare sincopati, poi una brusca accelerata da vita al tutto, condito da un tappeto di tastiere che altisona il suono e lo rende più corposo, ricordandoci i fasti Prog, ma anche in questo caso Psych, con ritmi elettronici ed ipnotici che fanno da contralto all'aggressiva chitarra che troviamo in questo frangente. Nei suoi quasi quattro minuti di durata, questo 12 ci rimane in testa come un momento di grande energia, in cui la pazzia e la follia sembrano essere il leitmotiv che guida le mani di Giorgio; si passa infatti dai consueti ritmi Rock canonici, con poderose plettrate allo strumento, alla prima metà del pezzo, in cui oscilliamo fra quelle parti di tastiera all'unisono con la sei corde, che ci ributtano nell'incubo dello psichedelico e del progressivo, ma anche momenti di Fusion elettrica, nei quali veniamo sballottati a destra e sinistra. E' un brano atipico, decostruito e ritmico sotto ogni aspetto, la parola d'ordine è stupire, ed infatti ogni nuovo assaggio che ci viene dato, pare essere talmente strano, da risultare ficcante in diversi punti; continua questo strano ascolto nel vortice delle note, veniamo risucchiati da questo ritmo che man mano che si procede diventa sempre più cubico, sempre più claustrofobico, finché non aneliamo un po' d'aria per respirare. Non è certo un brano semplice, né tantomeno per tutti (farà storcere il naso a molti, per la sua struttura così altamente dinamica), tuttavia, se non ci si sofferma ai primi vagiti, ma si ha la forza di arrivare in fondo, si carpisce un vago senso di genialità in quel che Giorgio ha messo in piedi qui. E' forse il brano più Fusion (nel vero senso della parola) di tutto l'album; al suo interno troviamo elementi che forse assieme non dovrebbero starci, ma che creano una atmosfera e generano un sentimento di rivalsa che ci costringe quasi ad ascoltarlo per intero, cercando ci capire che cosa accadrà ora. Sulla parte finale il brano continua ad aumentare di potenza e verve, fino a deflagrare nell'ultimo minuto in uno strano tornado di tastiere synth, chitarra elettrica, chitarra melodica in sottofondo e la possente batteria (alzata dal basso) a fare da ponte di equilibrio; finiamo l'ascolto stanchi, ma soddisfatti di avercela fatta, come guerrieri a fine di una enorme carica da battaglia. Cosa simboleggerà l'orario del brano? Probabilmente è stato scelto a caso, ma potrebbe riferirsi al momento di cui si parla nel titolo, quello per cui "è ora" di muoversi o fare qualcosa; siamo amebe in preda alle emozioni mediatiche finte ed effimere trasmesse da uomini in doppiopetto e cravatta, che non vogliono far altro che soggiogare la nostra mente con vane promesse di gloria nulla, che si trasformano in polvere appena le tocchi. Abbiamo iniziato il disco cercando di capire che cosa sia aver fiducia in sé stessi, abbiamo continuato dimenandoci fra speranze e paure, e siamo entrati nel nostro spazio personale, quel giardino pieno di vita in cui nessuno può mettere piede; questo album è un percorso, di rivalsa, di vendetta verso coloro che ti hanno sempre detto "non ce la farai mai!", quei vacui sguardi di uomini senza occhi né bocca, ma che proferiscono parole come fiumi in piena. Tuttavia, ora è arrivato il momento di alzarsi ed iniziare ad affondare colpi nella stessa esistenza; indossiamo la nostra armatura e scendiamo nella mischia, è tempo di combattere, è tempo di settare l'orologio del nostro essere sull'ora in cui dare vita alla carica, solo così potremmo definirci uomini. Giorgio qui ha voluto, ed è in sintonia con la musica, simulare anche le lancette e gli ingranaggi di un orologio che si muove; ogni piccola variazione, anche quelle più grandi e strane che abbiamo sentito, sembrano paragonabili alle molle ed ai cerchi dentati di un orologio. Lo sentiamo ticchettare, ogni lancetta che si muove produce all'interno un rumore diverso, esattamente come accade durante l'ascolto della canzone.

Peaceful Place
Si prosegue in ordine aprendo un'altra porta della percezione, che stavolta ci viene spalancata da un altro intro quasi acustico, molto southern nella sua resa, si sentono influenze di gruppi texani o degli stati sudisti della cara vecchia America, col loro carico polveroso; con questo andante così d'atmosfera viene introdotta Peaceful Place (Il Posto Tranquillo); l'intro in realtà è collegato attraverso un bridge anche al tema portante di questo brano, che mantiene sempre intatta la sua linea da musica desertica, con assoli e riff che prendono ispirazione tanto dal southern rock sia anni '70 che moderno, quanto ovviamente dal caro vecchio Blues, la creatura che ha dato origine al tutto, e che non va mai abbandonata. L'andamento del brano si mantiene su linee morbide e sinuose, come se stessimo accarezzando una meravigliosa donna, che ci guarda con occhio felino, pronta a far si che la facciamo nostra. La batteria da melliflui colpi spazzolati ai piatti ed ai tom, producendo un ritmo di sottofondo sincopato e di perfetto accompagnamento al tema prodotto da Giorgio. Si trova anche spazio per un assolo nella seconda parte del brano, che stavolta si sposta un po' più su ritmi anni '80, Rock principalmente, affondando le radici nelle basi di quell'AOR/Radio Friendly music che nella decade della lucentezza trovò terreno fertile. Qui vanno via anche per un momento le influenze di mr Satriani, per lasciare spazio a tutta quella folta schiera di bluesmans elettrici che dagli anni '70 e per tutti gli '80 hanno infiammato i cuori degli spettatori, dando loro una ragione per ascoltarli. Dopo il solo, che definire melanconico forse è riduttivo, si abbassano leggermente i toni, e si torna ad un tema sudista in piena chiave pseudo acustica, per quanto le plettrate elettriche continuino ad essere presenti. Uno dei due brani più corti di tutto l'LP, questa peaceful place rimane un sedativo da iniettarsi direttamente in vena per tutto l'ascolto, rilassa la mente come era accaduto durante il viaggio all'interno del giardino, ma stavolta, invece che trovare piante rigogliose e fogliame, ci si staglia davanti una pianura dell'Arizona, noi, vestiti di spolverino, bandana e cappello, la luce della luna ed il nostro cavallo sotto, che galoppa all'unisono col nostro cuore, dando il ritmo alla marcia nell'oscurità. Il brano, come se ne era arrivato tre minuti fa, se ne va con la stessa carica di nostalgia musicale, dissolvendosi come le illusioni ottiche nel deserto, credevamo di aver trovato l'acqua, ed invece non c'era niente. Immaginate un luogo aspro, impervio e pieno di pietre, ma in cui vi sentite a casa; immaginate una landa desolata in cui a nessun uomo sano di mente verrebbe la briga di mettere piede, ma che per voi rappresenta l'esatta metà di voi stessi, siete la completezza plasmata dalla materia stessa. E vi muovete in questo sparuto luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, con passo felpato, sicuri che non incontrerete nessuno, ma quello è il vostro luogo di pace, e niente potrà portarvelo via. Tuttavia, potete anche immaginarvi ascoltando queste note, di aprire le vostre porte percettive alla profondità più recondita della vostra mente, dando libero sfogo, esattamente come qualche brano fa, alla fantasia, volando letteralmente sul globo ed osservando la vita scorrere dall'alto nel silenzio dello spazio, con questa colonna sonora teatrale a farvi da accompagnamento dentro la vostra testa, vi sentirete leggeri mentre la ascolterete, fidatevi.

Bulldozer
Dopo aver viaggiato nel deserto polveroso, ci voleva un'altra botta di adrenalina, ed il nostro alchimista Giorgio non poteva che scegliere titolo più appropriato per lo slot successivo, occupato da Bulldozer (Bulldozer); i primi trenta secondi sono occupati da un massiccio ritmo di chitarra, a cui la batteria fa da eco, alzandola ancor di più. Tutto ciò finché, dopo un colpo dato dalle pelli al proprio rullante ed ai piatti, non viene prodotto un ritmo leggermente più sincopato e dinamico, con un ulteriore abbassamento dei toni che sfocia quasi nello Stoner in alcuni punti, e nel Rock duro di matrice moderna negli altri. Mentre la batteria continua a dare il tempo, arriviamo alla prima variazione del brano, che sostanzialmente consiste in un primo solo di Giorgio, di matrice Hard Rock, aggressivo ma non troppo, ed in linea col titolo del brano stesso; tapping e continui saliscendi sono la chiave di volta per questo assolo del padovano, che tira fuori nuovamente le sue influenze dettate da Satriani e compagnia cantante, prima di stoppare in maniera abbastanza brusca il solo e tornare al tema che abbiamo sentito in apertura, col suo carico di violenza e rocciosità, ci trapana direttamente le orecchie. Ciò che stupisce nel sentir suonare mr Rovati, è la sua capacità di comporre ritmi che siano duri si, ma mai eccessivamente aggressivi nella loro resa finale; una canzone come questa, con un titolo così, ci si aspetta quantomeno una dinamica che sfoci quasi nell'Heavy classico, se non anche più veloce. Tuttavia, Giorgio riesce a renderla cattiva suonando solo del buon Rock, di matrice inglese ed americana (le basi del Rock italiano qui vengono accantonate, le abbiamo udite in disparte in alcuni brani precedenti, ma il sound generale di Rovati è marchiato USA fino nell'anima), il che rende tutto questo accattivante ed interessante al tempo stesso. Non è il solito disco di Rock strumentale, come abbiamo potuto evincere specialmente dai primi battiti, è sperimentazione ad alti livelli, ci si infila di tutto, e tutto è in equilibrio. Procedendo in ordine, a circa due minuti e mezzo di ascolto, abbiamo un'altra variazione davvero interessante; dopo aver inanellato un'altra combo elettrica con la chitarra, Giorgio rallenta il ritmo ed inizia una specie di duello di botta e risposta con la batteria, stoppando e riprendendo il ritmo al volo in un enorme turbine di musica. La batteria trova anche spazio per un micro assolo verso il finale, ma come dicevamo, è un duello; sembra quasi che Giorgio suoni, e la batteria elabori e ripeta, come per sfidarla, ma difficile dire chi l'avrà vinta alla fine, siamo troppo occupati ad ascoltare. Ad un certo punto il duello sembra fermarsi, e chitarra ed ascia a sei corde ricominciano a suonare insieme; la batteria pesta duro di sottofondo, mentre la chitarra si scatena, ricama ed intreccia note come una sarta professionista, andando a sbattere dall'Hard Rock anni '80 a qualche piccolo sprazzo di Fusion che qui si è un po' perso, a vantaggio di un sound più duro, più Rock. Quando sembra che la follia collettiva che ha preso Giorgio e la sua band sia finita, e che siamo giunti alla fine del brano, abbiamo una sorpresa; i ritmi si abbassano infatti, diventano più sommessi per un secondo, quasi silenzio, e poi invece si torna al tema iniziale, per chiudere il cerchio ed arrivare al vero finale del pezzo. C'è tempo, prima di lasciarci andare, per un'ultima scudisciata anni '80 alla sua chitarra elettrica, che ormai sembra parte integrante di lui, e con questo ritmo che sembra preso direttamente dall'Hair più lucente, chiudiamo il portellone del panzer. Nome omen per il brano ovviamente, la canzone è dura e devastante, pur rimanendo semplice ed accattivante, da farsi entrare subito in testa; ci immaginiamo a bordo di questo bulldozer, fieri e contenti di poter distruggere ciò che abbiamo intorno, soprattutto fieri che nessuno possa fermarci. Tuttavia, posso cogliere anche una metafora con il titolo del disco; bulldozer inteso come voglia di non farsi veramente fermare da nessuno per inseguire un sogno, sia esso musica, arte o qualsiasi altra cosa, dobbiamo crederci, e se necessario, per schiacciare chi cerca di fermarci, diventare anche dei panzer adamantini e senza freno, niente e nessuno deve mettersi sulla nostra strada, se decidiamo di intraprenderla.

Seven
Settimo slot di questo album, e non poteva che intitolarsi Seven (Sette); ci viene introdotto da un brusco tempo di chitarra veloce e pachidermica, con un sottofondo di batteria che rende il tutto ancor più mastodontico; tutto questo però, come la quiete dopo la tempesta, ci viene interrotto dall'ingresso della tastiera, portandoci da un classico pezzo di Rock da strada, ad una jam session di Jazz/Fusion con controtempi e rullate morbide sulle pelli. Cinque minuti e mezzo per questa sessione di pura sperimentazione ed estro, forse, assieme a 12, il brano più eclettico di tutto il disco. Abbiamo questo andante così morbido e "ghost" nella sua resa finale, ma a tutto questo vanno aggiunte, al contrario di come abbiamo sentito in apertura, delle brusche stoppate in cui il Rock torna a farsi sentire, come se ci stessimo spostando fra cielo e terra, o forse più fra inferno e paradiso. E' un brano anch'esso di difficile ascolto, molti forse non si lasceranno conquistare da tutti questi cambi di tempo, ma se si supera l'impatto iniziale, troverete questa traccia assai interessante, o comunque con alcuni spunti degni di nota. La variazione appena sentita ci trasporta nel nucleo stesso della canzone, che invece di essere occupato da un ritmo Jazz, stavolta è affidato alla musica dura e cruda del Rock, con note sparate e riff estrapolati dalle ottantiane memorie di questo genere, sempre nel segno di personaggi come Satriani o Vai, ma anche qualche piccolo sprazzo di Fusion che continua a permanere in sottofondo, pronto ad uscire al primo accenno di ecletticità. Un ritmo quasi infernale che esplode sul finale, man mano cresce sempre di più, e mentre lo ascoltiamo viene da chiedersi se dopo il tutto culminerà in un altro roboante assolo di chitarra, oppure se ci sarà una sorpresa. La risposta è la seconda; ed infatti, alla vetta più alta del ritmo che viene prodotto, il brano decresce bruscamente come dopo una caduta, e torniamo al Jazz con il rientro in scena della tastiera, e la chitarra che inizia a farsi quasi industriale, sincopata e piena di tempi stoppati, poi si riaccelera e poi si decelera di nuovo, come su un immaginario ottovolante, percorriamo strade tortuose, ed affanniamo a stare dietro a tutti i cambiamenti operati. A poco più di tre minuti addirittura, giusto perché la tastiera in sé non era abbastanza, essa si trasforma in un ritmo non di questo universo, sintetizzato ed elettronico, per donare energia ed ancor più stranezza al brano intero, che sta diventando un vero calderone bollente sul fuoco, con noi che cerchiamo di capire tutti gli ingredienti. Mancano ancora due minuti alla fine del brano, ed il nostro Giorgio ne approfitta per mettere in piedi prima un duello fra lui e la tastiera aliena; essa infatti improvvisa un ritmo che si protrae con la batteria in sottofondo, e poi Rovati risponde con la sua sei corde, dando vita ad un ritmo frizzante e fresco, che non si dimentica facilmente. Finito il clangore delle spade musicali, Giorgio torna ad una costruzione di ottantiane memorie per trasportaci al finale, in dissolvenza, salvo poi malmenarci per l'ultima volta con una sincopata finale fra stop e plettrate elettriche, facendoci finire il pezzo nuovamente esausti. Sette riferito al numero della canzone, oppure ai sette peccati capitali? Difficile dirlo con certezza, ma quelle dinamiche così diverse fra loro, quasi come se oscillassimo fra inferno e paradiso, fra diavoli e santi, quasi ci fa pensare a questo; ad una canzone che parla dei sette mali che funestano l'uomo, e che se perpetrati, lo porteranno a bruciare per l'eternità fra le fiamme limpide e continue del tartaro abissale. L'uomo è portato a peccare, fin dalla notte dei tempi, non smetterà mai, neanche l'ombra della redenzione riesce a far si che egli non pecchi, discostandosi dal bene ed abbracciando molto spesso il male; dunque potrebbe essere una canzone dedicata a questo, come potrebbe essere tutt'altro, ma si sa, il bello dei dischi strumentali, è che la libertà è il vessillo che innalziamo, ognuno durante l'ascolto ci mette le sensazioni che vuole. E' una democrazia ferrea, un enorme baratro in cui cadere e cercare di capire che cosa sentiamo durante un pezzo, sia essa una stupidaggine o il pensiero più profondo della nostra vita.

When We Stand Togheter
Chiude il cerchio una cover in chiave strumentale di uno dei gruppi simbolo principalmente degli anni '90, i Nickleback. Giorgio in particolare ha scelto When We Stand Togheter (Dobbiamo Restare Uniti), contenuta in Here and Now, disco della band capitanata da Chad Kroeger e datato 2011. La canzone base del gruppo canadese, come molte altre della loro carriera, fa un ampio uso della voce, puntando sull'estensione e sul tono che ha reso celebre Chad fin dagli esordi della band nel 1995. Essendo Giorgio un chitarrista solista e strumentale, questo vantaggio, nonostante avesse magari la possibilità di farla cantare a qualcuno, ha preferisco escluderlo dalla sua lista. Ed ecco infatti che ci troviamo fra le mani una versione strumentale della canzone prodotta dai canadesi, che più che coverizzare, vuole omaggiare. Forte infatti di ciò che Rovati aveva fatto nell'album del 2013, invece di stravolgere completamente la canzone dall'inizio alla fine, preferisce prendere alcuni frangenti ben specifici, e lì spingere con tutta la forza, dando vita ad un brano quasi del tutto nuovo. Sono presenti quelle scale e quei riff che ormai siamo abituati a sentire, arrivati in finale di album, dagli esordi di questo It's Time, ma al contempo abbiamo anche un andante continuo e dolce, che ci trasporta per i soli tre minuti di durata (la canzone più corta di tutto l'album). Certamente per chi ama la band, sarà un'ottima occasione per saggiare ciò che un chitarrista di questo calibro sa fare improvvisando su un brano, e senza neanche l'ausilio della voce; per chi invece, come chi vi scrive, i Nickleback non sono mai stati niente di particolarmente interessante (per quanto ne riconosca la caratura storica, specialmente nel mondo anni '90), questo brano risulta assai accattivante, e la mancata presenza della voce lo fa diventare come una enorme sessione di lezione chitarristica, senza freni e senza limiti imposti, solo noi, lui e lo strumento. I ritmi Post Grunge e Metal moderno a cui la band dell'acero ci ha abituato in tutti questi anni, vengono spazzati via dalla furia distruttiva del Rock, ma anche di alcune sessioni di Prog e Fusion qui e là, che rendono l'intero ascolto ancor più interessante e celebrale dal punto di vista analitico. Si cerca di capire dove Giorgio ha operato davvero a livello di cambiamento, e dove invece ha lasciato le cose come stavano, forse per rispetto, o forse perché parti in linea col suo pensiero. L'intero brano si conclude con una abnorme scala messa in piedi dal chitarrista padovano, che ti traghetta alla dissolvenza finale, in cui i suoni, invece che venire stoppati, man mano diventano sempre più tenui, finché non arrivano a saturare ed il disco è completamente finito. Il testo originale della canzone parla fondamentalmente del non arrendersi mai, se si ha una persona accanto con cui condividere gioie e dolori della vita, tutto può sembrare facile da fare, basta volerlo ed avere la forza di farlo. La canzone ci spiega anche come rimanere saldamente uniti fra sé sia la chiave per avere la felicità che tanti agognano come l'acqua nel deserto; da soli si è forti è vero, ma in due si ha la volontà di superare tutti gli ostacoli, perché non agiamo per egoismo, ma per il bene dell'altro anche, di chi ci sta accanto e tende a noi sempre la sua mano, per non lasciarla più. Ovviamente, senza l'ausilio della voce, immaginare tutto questo nella cover fatta da Giorgio risulta essere un po' più difficile, ma se chiudiamo gli occhi e pensiamo intensamente, riusciamo a sentire le parole cantate dall'anima anche senza ascoltare qualcuno davanti al microfono, ci vengono spontanee. E di nuovo ci ritroviamo a viaggiare con la fantasia, fra paesi inesplorati e volontà umane, al fine di capire la vera essenza di ciò che facciamo su questa terra, o in questo caso, l'importanza di rimanere fedelmente legati a qualcuno, in ogni luogo ed in ogni circostanza, anche sotto una enorme scarica di bombe, noi dobbiamo essere lì per lei e lei per noi, in un equilibrio perfetto. E' un brano che cerca di accontentare tutti, dai fan storici della band, ai virgulti della chitarra, togliendo la voce si ha un democratico sottofondo da ascoltare in tutte le occasioni, mettendoci al suo interno ogni cosa che ci pare, anche un significato completamente avulso da quello che i Nickleback gli avevano dato in fase di produzione.

Conclusioni
Che dire, un discreto disco questo It's Time, da spararsi tutto d'un fiato fino alla fine, ricominciando da capo ad ogni nuovo ascolto, magari vedendo rifrazioni che prima ci erano sfuggite. Giorgio Rovati, come un orologiaio provetto, ha messo in piedi una macchina che sostanzialmente funziona, ed in cui tutti possono trovare qualcosa di familiare. Sia esso per il calderone enorme che troverete solcando i cieli di questo album, ma anche per la sperimentazione di base che mr Rovati ha operato in quasi tutti i brani composti per questo disco, sta di fatto comunque che è un lavoro in cui immergere le mani e cercare quel qualcosa che ci attrae come una calamita, noi a lui e lui a noi. Se amate i virtuosi, gli alchemici della sei corde, il disco fa per voi, ma consiglio anche un ascolto abbastanza attento di ciò che è presente all'interno di questo lavoro; se lo si ascolta in maniera distratta infatti, non ci si rende conto di tutti i pezzetti che lo compongono, e lo releghiamo subito al "solito disco strumentale di chitarra", con roba sentita più e più volte nel corso di questi anni. Se si ha la pazienza invece di star lì a capire che cosa davvero compone questo disco, allora sarà qualcosa che, forse non arriveremo mai ai livelli di "non ne posso fare a meno", ma sicuramente non lo bolleremo subito come classico. E' un disco per palati fini ed esigenti senza dubbio, ma la presenza della cover finale, ed almeno tre brani al suo interno, lo fanno diventare appetibile anche per una parte meno esperta di ascoltatori (ed oltretutto non è neanche un disco per soli chitarristi, chi vi sta scrivendo non ha mai toccato una corda in vita sua, eppure è riuscita ad apprezzarlo), dunque un album che va a rimpinguare quella fascia di dischi eclettici, ma non troppo, che in questi ultimi anni iniziava a scarseggiare. Dunque, se siete abbastanza folli da varcare il confine del giardino segreto messo in atto da Giorgio, allora entrate in quella triangolare porta attraverso il quadrante dell'orologio, troverete un mondo rigoglioso, in cui le cascate mischiano l'acqua alle note, per dare vita ad una colonna sonora melliflua e che ti avvolge come una calda coperta. Se inoltre siete fan della Fusion o del Jazz, troverete qui pane per i vostri denti; quelle improvvisate di synth e tastiera, quei ritmi sommessi e dinamici, faranno la gioia di chi mastica la musica più pazza del mondo da mattina a sera, ma anche ovviamente chi si fagocita quantità indescrivibili di buon Rock fatto come si deve, crudo e diretto. Non potrà mancare nella collezione di molti di voi, ne sono sicuro, provare per credere; varcate questo confine e non tornerete più indietro, potete starne certi, e se le premesse del 2014 sono queste, non oso pensare cosa il buon Giorgio abbia in serbo per noi affamati ascoltatori col suo prossimo lavoro, ma sono altrettanto certo che saremo tutti in trepidante attesa per ascoltarlo.

2) Hopes and Fears
3) The Garden Of Love
4)
5) Peaceful Place
6) Bulldozer
7) Seven
8) When We Stand Togheter

