FUNERAL MIST

Maranatha

2009 - Norma Evangelium Diaboli

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
12/01/2021
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Il nostro viaggio nel mondo demoniaco, epico, oscuro e molto, molto personale dei Funeral Mist, progetto black metal dell'attuale cantante dei MardukMortuus, al secolo Daniel Hans Johan Rostén e qui conosciuto come Arioch, prosegue con l'analisi di quello che è probabilmente il disco più sperimentale e discusso della discografia della band. Parliamo di "Maranatha", album che viene pubblicato nel 2009 dall'ormai fidata etichetta Norma Evangelium Diaboli e che arriva sei anni dopo il successo del precedente "Salvation", disco che aveva fatto conoscere a molti la furia iconoclasta dei Nostri e la così detta corrente orthodox black metal votata alla continua glorificazione tematica del diavolo inteso come entità spirituale, un dio della morte, del male, e della distruzione al quale sacrificare tutto, anche la propria umanità e vita. Come molti gruppi della scena, i Funeral Mist dedicano poco spazio a interviste e annunci, il disco arriva quindi all'improvviso come un fulmine a ciel sereno per chi pensava che forse con la carriera nei Marduk di Arioch ormai il percorso qui intrapreso fosse stato messo da parte. Ma chi si aspettava un continuo dei suoni di "Salvation" votati a un assolto continuo fatto di turbini di chitarre taglienti come lame, lanciate a velocità folli sotto a vocals isteriche e rabbiose, si è trovato con più di una sorpresa. Non che in "Maranatha" la furia manchi, si tratta sempre di un disco black metal che segue lo stile distruttivo e maligno del progetto, ma la filosofia particolare approcciata da Rostén e da molti esponenti della corrente orthodox porta a scelte musicali non scontate, e a tratti coraggiose. Per tale corrente infatti ciò che da essenza e forma al black metal sono i testi, come detto preghiere oscure verso il diavolo e perversioni dei dogmi e precetti cristiani, e non un suono codificato e rigido. Ecco quindi che tanta intransigenza tematica si accompagna a un suono spesso sperimentale e che abbraccia aspetti di generi altri; un esempio lampante è di questo modus operandi è dato dalla carriera post 2004 dei Deathspell Omega, sempre più indirizzata verso elementi progressivi. I Funeral Mist non fanno eccezione, ed ecco che qui l'enigmatico musicista e grafico svedese ha modo di sbizzarrirsi nell'innestare parti ambient, industriali, post-rock/post-metal, preghiere campionate, manipolazioni in studio e uno stile teatrale, epico, dove la voce del Nostro diventa un elemento che viene distorto, piegato, declinato in base a esigenze narrative. Naturalmente questo non piace a tutti, e soprattutto all'inizio non pochi gridano al tradimento, confusi tanto dalla musica quanto dai testi pericolosamente vicini alle preghiere che vogliono macchiare di blasfemia, tanto a portare ad accuse di cattolicesimo nascosto" da parte di qualcuno. In realtà il disco si inserisce in un periodo che consolida la corrente orthodox secondo i canoni oggi dati per scontati, uno scenario di rinascita per lo stile black metal dove le carte vengono mischiate e viene aggiunta una gravitas filosofica che porta su un piano di discussione superiore le prime adolescenziali blasfemia dei pionieri dello stile scandinavo, e che si allontana dalle luci della scena commerciale che a fine anni '90 aveva reso il metallo oscuro materia di mero intrattenimento inoffensivo. Una missione demoniaca affrontata con armi adatte per i tempi moderni, si potrebbe dire. Ecco quindi che testi pregni di un nichilismo estremo, continue perversioni della fede, disprezzo argomentato verso il concetto stesso di vita, si fondono con suoni ammalianti, spesso dai tratti maestosi, elaborati, pregni di una bellezza raramente toccata nel genere. Ascoltatore vorace e insolitamente aperto, capace di passare dal black metal all'ambient, dal post-rock fino alla musica industriale, e addirittura a band folk/country di matrice cristiana, Arioch sposa perfettamente questo concetto. Se comunque anche i dischi precedenti presentavano alcune inflessioni sperimentali, qui la cosa diventa una caratteristica fondamentale dei brani e dell'album, ossature per improvvisi esplosioni tritacarne di chitarre e grida furiose; un album rivalutato da molti negli anni, e se non il capolavoro dei Nostri, di sicuro un punto alto tanto della carriera dei Funeral Mist, quanto della scena black metal tutta.

Sword of Faith

Sword of Faith (Spada della fede) si apre con un'atmosfera da film horror, condita da versi demoniaci, veri e propri ruggiti infernali, e campionamenti vocali pregni di tensione. Campane gotiche completano il quadro in un'introduzione raggelante, pronta dopo quasi un minuto a esplodere in un turbine frenetico fatto da chitarre distruttive, doppia cassa lanciata, e vocals isteriche di Arioch. Egli è intento nel declinare parole blasfeme che delineano visioni che mischiano il divino e il demoniaco, in una nera evocazione. Un orgoglio immacolato e senza difetti annuncia l'accusatore che ancora una volta attacca la discendenza del divino, in una colpa senza peccato che viene da tutte le direzioni. Una gloria infallibile, sovrana, glorifica il serpente angelico che ha riempito il mondo con tiranni e lo evoca affinché ci lavi nella sua perfezione senza vergogna. La musica sorregge le parole con toni veloci e caotici, in un percorso fatto di dissonanze e ritmiche impossibili, dove l'essenza black metal assume connotati violenti. Ecco però che fraseggi gelidi ed epici ci consegnano anche atmosfere magistrali, dimostrando che non è l'assalto insensato il fulcro di un songwriting capace di mantenere gli elementi cardine del genere, pur in una forma personale. Una cesura con suoni rumorosi e distorti ci prepara per un nuovo assalto frenetico, dominato ancora una volta dai toni declamatori del cantante, un vero e proprio oscuro predicatore. Preghiere violente, slami ruggenti, diventano la voce di un omaggio verso la nera divinità, e se il dubbio è una ferita aperta, la convinzione diventa il sale versato dentro di essa. I toni si fanno ancora più epici, tra voci seguite da cori e chitarre ancora più lanciate e dirette; la spada della fede si accompagna ad un armatura fatta di rettitudine e decorazioni di vendetta, la locusta e l'elmo della salvezza. Uno splendore nudo e un dolore divino creano un mondo dove ogni respiro è un grido che deve essere setacciato come il grano. Parole misteriose che sanno di significati metaforici e sacri, qui usati per glorificare il maligno, considerato vera e propria divinità da adorare con preghiere accorate. La musica prosegue con il suo trotto massacrante, presentando una bellissima sessione di batteria prima di naufragare in un gioco di chitarre rallentate e squillanti, che genere un'atmosfera solenne presto accompagnata da una doppia cassa decisa. Un momento black metal interrotto da suoni dal gusto quasi thrash, e poi coadiuvato da un'ennesima esplosione che ci consegna venti sonori strappa-carne e spaccaossa. Polmoni bruciati segnano una solenne benedizione, e promettiamo di far sanguinare montagne intere per la sacra missione che ci è stata data. L'intensità tematica si manifesta in un suono che non conosce tregua, declinato ora in attacchi ruggenti, ora in fraseggi epici, destinato poi a rallentare in bordate pesanti e dai climi da parata. La conclusione vede un ultimo assalto ronzante, dove la divinità era mette u 'ultimo slamo nella nostra bocca, e dove la fine è segnata d aun loop distorto e d aun ultimo verso di Arioch. 

White Stone

White Stone (Pietra bianca) parte con un suono distorto e sommesso, quasi un'onda sonora che si espande con le sue vibrazioni con un gusto molto particolare e da connotati post-rock. Ecco che una marcia dissonante, dai tratti rocciosi e sottolineata da versi da orco, si alterna con passaggi sospesi e sperimentali, dove le chitarre diventano bordate sul vuoto. Arioch si unisce a giri di chitarra nervosi e distruttivi, sorprendentemente moderni, ma sempre feroci, usando toni cavernosi e pieni di disprezzo per enunciare la sua lezione. Viene qui ripreso un concetto misterioso della dottrina cristiana, la pietra bianca sulla quale Dio avrebbe inciso un nuovo nome per i vittoriosi, secondo il versetto 2;17 della Rivelazione. Il significato non è preciso, forse si riferisce alle pietre usate all'epoca in Grecia per indicare che in tribunale l'accusato era innocente, o forse alla tessera bianca, fatta di legno od osso, usata dai romani per entrare nelle arene. Qui comunque diventa un metafora per sottolineare l'ipocrisia della religione cattolica e dell'idea di remissione dei peccati, del cancellare il peccato come se fosse qualcosa che può essere lavato via da un vestito. Una pietra bianca e un nuovo nome ci vengono dati, in pace con il Signore e liberi dalla colpa, con i debiti rimessi e lavati a nuovo in una rinascita. M ain realtà quella pietra è un grumo di carbone sulla fronte di una prostituta, simbolo del nostro rifiuto di vergognarci per ciò che abbiamo fatto. Cori sacri sottolineano il movimento lento e spezzato, mentre leggere accelerazioni sottolineano momenti importanti delle parole riportate. Qui non abbiamo traccia di black metal classico, i rimandi sono più verso le strutture irregolari di nomi come i Neurosis e Isis, mettendo in mostra il lato più sperimentale del disco. Il songwriting vede passaggi continui i dove si serpeggia con movimenti pachidermici, sottolineati da atmosfere evocative e vocals teatrali ridotte a sospiri rauchi e rantoli. La pietra bianca e un nuovo nome rimettono a nuovo anni di carestia e ci pulisco abbastanza da poter nominare il nome di Dio, e fantasticamente viene celebrato il felice vantaggio dato dal nostro inginocchiarci come servi innanzi a lui. Ma quel nome è uno spettro invisibile, la fronte da prostituta rimane in noi, come il rifiuto nell'accettare la vergogna, viene riportata la frase aramaica Mene, Mene, Tekel ripresa dal Libro di Daniele, che indica l'essere giudicati come indegni dalla divinità. Nella storia il re Belshazzar usa i calici sacri del tempio di Gerusalemme durante un banchetto, e una mano spunta dal nulla scrivendo la frase su un muro. Solo Daniele riuscirà a interpretarla tra i vari saggi chiamati a decifrarla, indicando come Dio dividerà il regno del re, regno che ha i giorni contati ed è considerato indegno. Un'interessante integrazione dei concetti cristiani che mostra l'astuta strategia di Arioch, e del movimento orthodox, ovvero lo studio e ripresa di concetti teologici, distorti e usati contro la fonte da cui provengono. Intanto il pezzo assume toni gloriosi, tra trame rock ricche di chitarre altisonanti e batteria controllata e cadenzata, e nuove parti sospese e rallentate. L'ultima esplosione presenta una voce ancora più rabbiosa, sottolineata sempre da cori sacri e loop spezzati di chitarra che funzionano come scosse elettriche. Vengono ripetute le parole già incontrate in un'eterna accusa destinata a consumarsi in un suono distorto di chitarra. Una traccia particolare, dal sapore teatrale e rituale, che incomincia far comprendere come non siamo davanti a un semplice album black metal tout court 

Jesus Saves!

Jesus Saves! (Gesù salva!) è una traccia dal titolo chiaramente sarcastico, che si lega perfettamente all'intento blasfemo e derisorio del testo. Una sorta d'inversione in chiave maligna della figura di Cristo come redentore, qui reso piuttosto simbolo dell'imminente caduta dell'uomo e dell'ipocrisia della religione cristiana. Un suono sgraziato di chitarra accenna l'esplosione di batteria e riff assassini che c'investe da subito, trascinandoci in un torrente nero. Percepiamo nel marasma caotico i ruggiti sprezzanti di Arioch, come sempre intento nelle sue declamazioni potenti e corrosive; che sia stato inciso nella pietra, o segnato nella neve con del piscio, poco importa, il giorno della rivincita arriverà, mentre una preghiera candida viene da una lingua sporca. Ci viene detto con enfasi quasi epica, dittatoriale, che qui non c'è vita, ma solo diversi modi per morire e giuramenti tarlati fatti di orgoglio vuoto. Pelle per pelle è la legge seguita, mentre il vino di Sodoma viene versato come veleno di draghi nei campi di Gomorra, il tutto nel nome di Dio. Immagini metaforiche che hanno il gusto della visione mistica distorta secondo fini malevoli, una nuova preghiera nera dove la blasfemia e la trasformazione di significati originali in qualcosa di molto diverso, sono all'ordine del giorno. Le chitarre e i colpi di batteria proseguono con climi lanciati e vorticanti, sottolineati da fraseggi gelidi siamo davanti al tipico stile black metal svedese, chiamato da alcuni con disprezzo norsecore per le sue velocità impossibili e continui assalti. Ma nulla è mai davvero standard nel mondo dei Nostri, ed ecco che all'improvviso ci fermiamo. Un clima sospeso vede fraseggi taglienti e vocals gorgoglianti, quasi disperate, e supplicanti, che ci mostrano visioni di apocalissi imminenti. Ma il tutto duro più brevemente di un sospiro, la furia iconoclasta si sfoga nuovamente in doppie casse e loop di chitarra ai confini del rumore bianco. Un migliaio di angeli esultano, mentre il narratore ci illustra come creerà sulle rocce innanzi a noi la sua chiesa mentre il sole della falsità splenderà con fiducia, nel nome di Dio, ma in realtà proveniente dagli abissi di Satana. Nuove immagini di deviazione del messaggio divino, ma anche chiari attacchi all'ipocrisia insita nel l'idea di bene e di essere nel giusto. Suoni black metal vecchia scuola si ripropongono in una cascata ritmica dove diventano un'arma sonica devastante, intervallati da un galoppo robusto e appassionante di matrice quasi thrash. Giochi ritmici creano rullanti che ne delineano il corso, finché arriviamo a una digressione improvvisa segnata da una distorsione. Andiamo a collimare con una parata fatta di bordate imperanti e pregne di epicità, una sorta di marcia trionfale che avanza pachidermica. Questa nuova sezione dai tempi controllati accoglie nuovi ruggiti di Arioch, emissario demoniaco che glorifica il così detto "wormwood", concetto non a caso incontrato nell'omonimo album dei Marduk quasi parallelo a questo disco nei suoni e nei tempi, ovvero una stella che simbolizza un grande potere e spesso associata con figure ecclesiastiche e politiche. Per il cantante probabilmente si tratta di un'emanazione del Maligno, e quasi a conferma egli ci parla di frutti nati da alberi amari e di bile che è intrinsecamente legata ad esso come un bacio di velluto o mille coltelli di sale conficcati nel suo sesso. Visioni quasi allucinate, perfette per la musica dai ritmi forsennati e disorientante, dai bravi tratti più cadenzati, ma sempre esplosivi. Nuovi riferimenti misteriosi, legati a concetti religiosi, si affacciano nelle parole di Arioch, che le descrive come fatti che avvengono ora davanti ai suoi occhi, tra spade sulle quali vengono incisi marchi e la madre della morte che deve essere nutrita sinistramente. Non c'è tega o speranza, le dissonanze proseguono lanciate e assassine, palco per la performance i9spirata del cantante, vicario della più nera blasfemia. Una colpa che era già antica quando il mondo era giovane si annida nella lingua sporca, e nonostante questo l'innocenza rimane il simbolo del redentore, che ora si lamenta per essere stato abbandonato dal suo signore, mentre ancora il sole della falsità splende dagli abissi di Stana nel nome di Dio. La lunga traccia prevede magistrali passaggi freddi ed evocativi, complemento della violenza generale; ma ecco che all'improvviso tutto si ferma, dando spazio ad un fraseggio elaborato e dal gusto moderno, che si ripete in vari passaggi. Ritroviamo il gusto sperimentale del disco, che prevede improvvise incursioni di elementi inaspettati in contesti anche solidamente black metal e diretti. Non ci sorprende comunque l'improvvisa esplosione che ci riporta alla furia dominante del brano, nuovo torrente sul quale Arioch può stendere le sue ultime declamazioni. Gesù salva ci viene detto, dobbiamo bere il suo sangue e uccidere nel suo nome mentre preghiamo insieme e ci prepariamo per il giorno premesso, divorando la sua carne e avvelenandoci. Una ferita perfetta provocata da una lama perfetta, il perfetto inganno in un giorno perfetto e in un mondo perfetto. È facile pensare all'estremismo religioso e alla violenza che porta, ma dobbiamo stare attenti a non pensare che qui si voglia dare una critica moralizzante: il tutto è visto come opera in nome del diavolo e sua glorificazione, entità che domina anche chi crede di opporsi a esso. I tempi medi si dilungano in colpi secchi e riff di chitarra appassionanti, andando a scemare in una digressione contornata dai soni vibranti di chitarra. Raggiungiamo così una sorta di drone ipnotico e dai suoni rituali, che si disperde nell'etere. Ora un suono progressivo ci spiazza con i suoi suoni che rimandano al mondo dei Pink Floyd e del rock anni '70, mettendo in mostra la visione unica di Arioch e il suo unire elementi diversi nella stessa composizione. Anche questo elemento passa, lasciandoci a suoni taglienti di matrice quasi industriale, che s'intervallano poi ancora con l'elemento delicato e onirico in un gioco di botta e risposta. Raggiungiamo così la conclusione di quella che è una lunga odissea sonora dalle molte anime, uno dei simboli di un disco per molti aspetti unico.

A New Light

A New Light (Una nuova luce) pare subito con un bel fraseggio dalle note ammalianti, ripetute in un loop che quasi ricorda gruppi come i Tool nella sua natura evocativa e ipnotica. Esso si espande, mutando poi in un trotto possente dai suoni graffianti e grevi. All'improvviso la tensione esplode con un suono stridente, quasi un fischio, seguito da una doppia cassa martellante e da chitarre impazzite in loop, che ci riportano sui territori di un black metal frenetico e distruttivo, sul quale Arioch trova posto per le sue declamazioni altrettanto concitate. Egli ci mostra scenari apocalittici dove la vendetta e il sangue plasmano l'universo rendendolo un luogo terribile, emanazione di una volontà distruttiva e celebrazione del male più assoluto. Immaginiamo onde immense fate di sangue nero e una tenebra pregna di future malvagità, mentre il grido della vendetta si erge in cielo , emesso dai discendenti di Abele. La violenza sonora ci trascina come una tempesta fata di lamette taglienti, e la voce del cantante assume connotati sempre più deviati e mostruosi, giungendo ad una sorta di ritornello incalzante sottolineato da riff maestosi. Una cesura improvvisa, segnata da un verso greve del Nostro, ci prepara per una nuova cavalcata martellante e possente: la sua gola è come migliaia di tombe aperte, migliaia di cataclismi, e ora egli è la perfetta immagine di Dio, o almeno di quello che sardonicamente intende come Dio. Una divinità che ci punisce esiliandoci dal suo Eden, in un mondo fatto di follia e senza senso. Il comparto sonoro da forma perfetta a queste immagini, tra grida, attacchi forsennati, e improvvisi fraseggi epici che ricordano il black metal anni '90. In un colpo di genio, andiamo a scemare in un suono greve e sospeso, fatto di corde grevi e colpi cadenzati di batteria, sul quale si manifestano cori sacri in un'atmosfera epica. Il nuovo corso viene sconvolto da grida rabbiose improvvise, come scosse elettriche che si manifestano a intermittenza. Nuove epicità hanno poi luogo, permettendo anche tristi melodie fredde; ma non dobbiamo pensare che la tempesta sia passata, ecco infatti nuovi vortici massacranti dove ritmica e chitarra diventano una cosa sola con i toni da orco del cantato. Un nuovo sole si erge, una morte dorata, e i figli della terra rossa dovranno affrontare i raggi del sole della perdizione, mentre i discendenti di Caino gridano la parola "ANCORA!" e la polvere di migliaia di morti viene ingoiata per trovare la parola che porterà morte al mondo. Ancora una volta metafore e immagini misteriosi dal tono profetico, in un'inversione maligna della natura dei testi sacri, un modus operandi ormai familiare e che è tipico tanto del disco, quanto della discografia dei Funeral Mist. Bordate imperanti ci sconvolgono, mentre il mare sonoro poi ci trascina con una furia devastante che non lascia in alcun modo scampo; nel gran finale, prima della morte improvvisa della traccia, veniamo investiti dalla furia sonora in un'emanazione di quelle immagini terribili e assolute che ci hanno accompagnato fino a qui. Un pezzo che mette mostra molti punti del disco, usando in modo sporadico, ma ben calcolato le parti "alternative", rafforzando la robusta natura violenta della parte principale.

Blessed Curse

Blessed Curse (Maledizione benedetta) è una lunga traccia che già dal titolo mette in mostra la natura del suono dei Nostri, l'unione di termini sacri ed elementi blasfemi, nella creazione di una nera spiritualità malvagia. Ecco quindi che il tutto prende piede con il discorso di un predicatore, pieno di veemenza e passione fanatica, elementi che ironicamente trovano punto comune con la fede oscura di Arioch, servitore di quel Maligno che per i cristiani è l'Avversario, ma che per lui è invece il suo dio è divinità assoluta. Il campionamento vocale prosegue con il suo discorso, mentre in sottofondo una marcia maestosa di chitarra si manifesta con un galoppo trascinante sottolineato dai colpi di batteria cadenzati. Inevitabilmente, il cantato prende parte a questo rituale, manifestandosi con i suoi soliti toni rauchi e lascivi: il narratore maledice i frutti dei nostri corpi e della terra, una maledizione che ci accompagnerà sempre, dalla nascita fino alla morte. Ci viene augurato di essere come ciechi durante il giorno, e di fallire in ogni nostra azione, di essere degli oppressi che non possono essere salvati in alcun modo. Una maledizione continua, che si stende suoi suoni evocativi, epici e maestosi, che creano un loop arricchito da suoni pieni di fredde malinconie dal gusto nordico. Il campionamento vocale torna tra i solchi sonori, creando una continuità dove le parole del predicatore contro i peccatori e quelle di Arioch contro l'umanità intera diventano contigue, eliminando (probabilmente volutamente) le differenze tra i due. Due cieche fedi che desiderano la furia del proprio dio su coloro che sono visti come nemici; e non sono forse tutti gli esseri umani peccatori? L'ambiguità del messaggio del Nostro raggiunge qui forse il suo apice, adottando direttamente le parole della frangia più fanatica del cristianesimo e riproponendole all'interno di una malevola maledizione contro il mondo. Lo sconosciuto che in noi, la parte distruttiva, ci viene augurato che prenda il sopravvento, mentre noi sprofondiamo in basso, diventando non più la testa, bensì la parte più bassa di noi stessi, dominati dalla nostra parte oscura che comanda. E il cielo sopra le nostre teste sarà di ottone, e il terreno di ferro, mentre il Signore renderà la pioggia polvere, la quale cadrà finché non saremo distrutti. La marcia sonora prosegue in un loop cadenzato che si apre a suoni stridenti di chitarra senza perdere il proprio passo controllato e ammaliante, una parata sonora che non ha tregua. Un movimento ipnotico che ci trascina a lungo in una suite condita da toni quasi orchestrali capaci di mettere in mostra la nera bellezza del suono dei Funeral Mist. Nuove maledizioni vengono esclamate dal cantante, con un tono gorgogliante e strisciate che sembra provenire dall'inferno stesso. Il Signore ci porterà una pestilenza che ci consumerà e ci eliminerà dalle nostre terre. Ci porterà febbre e ci farà consumare, portandoci bruciore, e anche la spada e le esplosioni e la muffa, tutte cose che ci perseguiteranno finché non moriremo, perché non abbiamo voluto ascoltare la parola di Dio. Parole che portano a compimento la fusione tra il messaggio cristiano più violento e quello di Arioch, nella glorificazione della violenza e del male, portando al sospetto che semplicemente lui è consapevole di cosa davvero adora, mentre l'altra parte non lo vuole ammettere. Ecco quindi che si ripresentano le parole del predicatore, sempre contornate dai riff ariosi e solenni, mentre anche le sue maledizioni trovano posto nella traccia con un'esaltazione familiare. Il mantra sonoro continua imperterrito portandoci verso il finale con i suoi suoni maestosi e altisonanti, non senza regalarci nuove melodie evocative.

Living Temples

Living Temples (Templi viventi) si apre con un sussulto di Arioch, seguito da una raffica di riff devastanti e doppia cassa lanciata, destinata a infrangersi contro pause improvvise e ariose, segute da nuovi attacchi in un loop massacrante pregno di spirito black. Dopo una seconda cesura dalle note rallentate e dai fraseggi evocativi, una nuova devastazione trova luogo, questa volta insieme ai ruggiti assassini del cantante. Naturalmente ci troviamo davanti a nuove evocazioni oscure e glorificazioni della divinità infernale, qui rappresentata dai suoi discepoli che figurano come templi viventi, emanazioni della sua parola e volere. Egli ci narra come regni cadranno davanti a lui mentre il sangue si raggela, e i popoli cantano adorandolo, portando il suo risplendere. La sua gloria scorre, penetrando la cecità e rendendoci templi viventi che preparano il suo trono e le canzoni a lui dedicate. La musica prosegue nei suoi tratti diretti e massacranti, andando a infrangersi contro cesure improvvise che durano pochi secondi, e che scandiscono il passo dell'assalto continuo e dei ruggiti maligni del cantato. Esaltazioni vocali si accompagnano a fraseggi evocativi e ricchi di melodie fredde dalla sana natura black metal, configurando una traccia tra le più aggressive di tutto il disco. Ritmica e chitarre si uniscono in un unico suono, mitigato dalle punte epiche dove Arioch ci mostra il suo gusto per epiche arie rafforzate da cori femminili che danno una sacralità oscura a quanto qui ascoltato. Piatti cadenzati segnano il nuovo movimento, mentre i cori fanno da protagonisti in ritornello perfettamente orchestrato. Le preghiere rivolte alui saranno senza fine, e dolori giornalieri ascenderanno, crescendo, sulle ali dell'omicidio, e portando un regno eterno. Ci affrettiamo nel portare la sua volontà nel mondo, con cuori incendiati, mentre la morte si riversa sulla cecità, rendendoci templi viventi del Signore. Riecco ora un mare dissonante scolpito dalla batteria militante, in un'ennesima corsa nera che devasta tutto lungo il suo cammino senza lasciarci scampo. Arriviamo a un suono ossessivo dai fraseggi meccanici, ripetuto a oltranza fino a una digressione che va a perdersi in oscuri e tenebrosi suoni stridenti e caotici dall'animo dark ambient, che proseguono fino alla conclusione del pezzo.

Anathema Maranatha

Anathema Maranatha ci accoglie con tratti stridenti che riprendono il finale della traccia precedente, aggiungendo un fraseggio in levare che esplode in un attacco fatto di doppia cassa lanciata e venti strappa-carne sotto forma di chitarre compulsive e grida esaltate da parte di Arioch, qui nero profeta di visioni apocalittiche dove un angelo porta giudizio e piaghe al mondo, bruciando anche i serafini. E' l'anatema della venuta del signore, un'inversione che annuncia la venuta del male e della devastazione, dell'inferno sulla Terra. Le vocals si fanno sempre più demoniache nelle loro enunciazioni immerse tra i riff laceranti e i colpi incensanti di batteria: un nuovo angelo è giunto, aprendo le sue ali e portando un grande stormo di malattie che raccolgono i nostri peccati, e tutti si arrenderanno al potere del cane (inversione in inglese della parola god in dog). Il peccato e i peccatori, la morte e i morenti, anche le acque, verranno giudicati, la carne, l'anima, i rami, il terreno, tutti incatenati alla grande prostituta (riferimento a Babilonia La Grande). Ritroviamo qui il metodo della ripresa di immagini bibliche, apocalittiche, usate per esaltare la venuta dell'infernale Signore adorato dai Funeral Mist, per il progetto vera divinità da glorificare e che spazzerà via l'umanità. Tali immagini non possono che accompagnarsi a un suono violento e senza respiro, dalle note black metal ben presenti e distorte in uno stile familiare dove la velocità della scuola svedese viene usata in dissonanze continue. Ecco che ora ci scontriamo con un fraseggio che fa da cesura, notturno e pieno di attesa inquietante nel suo rallentamento. Esso va a evolvere verso una marcia cadenzata e gloriosa, dove colpi duri segnano esplosioni che si alternano a riprese del movimento serpeggiante; il tutto è destinato a esplodere tra grida squillanti e chitarre taglienti di nera fattura. In nome di un amore più grande di quello conosciuto dai serafini, quest'ultimi bruceranno e le acque verranno giudicate in contenitori di terracotta. Il veleno della vipera porterà alla morte del redentore uccidendolo e facendolo cadere insieme a tutto il resto. L'inferno sorge da sottoterra e lo incontra, facendo sorgere i morti insieme a sé. L'inferno è nudo innanzi a lui e non c'è protezione dalla distruzione, e come detto il redentore cadrà insieme a tutto il resto. La musica prosegue nei suoi tratti possenti e caotici, investendoci con mura di chitarre e drumming inumano che ci trascinano via come un torrente in piena. In sottofondo percepiamo freddi fraseggi che completano il quadro insieme ai versi demoniaci del cantante, consumati in toni sempre più grotteschi nel finale, dove rimangono in solitario, narratori esaltati della caduta di ogni cosa.

Anti-Flesh Nimbus

Anti-Flesh Nimbus (Nube anti-carne) è l'ultimo tassello dell'album, un'esaltata evocazione finale che completa il cerchio anche tematicamente, celebrando il superamento di tutto ciò che è umano, in nome di un'ascesa spirituale votata al male, che porta l'uomo al diventare egli stesso una nera divinità. Una serie di colpi di batteria dai toni bassi avanzano in una marcia strisciate, diventando poi più sentiti e presenti, anticipazione di un'esplosione che avviene all'improvviso e fatta di chitarre taglienti ed epiche, dal passo lento e quasi doom. L'atmosfera è regale e ariosa, dai tratti questa voltà più aperti e alternativi, perfetta base per le vocals cavernose di Arioch.Egli dispiega la sua glorificazione, chiedendo al suo Signore di creare in lui il suo tempio, dandogli una luce che possa riempire il suo vuoto umano e dargli una visione divina. Egli parla tramite le sue ferite, e il suo sangue è una canzone di morte dove le parole divorano la carne. La musica rimane melodica e trattenuta, e all'improvviso ci sorprende con un campionamento di cori proveniente dalla canzone popolare "Ederlezi", tipico della minoranza Rom nei Balcani; scelta interessante, forse legata al fatto che il canto è una celebrazione festiva e identitaria, tema che può essere trasmutato nella celebrazione della rinascita sotto nuova forma dopo la distruzione di tutto ciò che è umana dentro di noi. Una melodia comunque grandiosa, che si sposa perfettamente con la musica da parata. Ecco quindi che torniamo ai toni sotterranei iniziai, che ci preparano per una nuova esplosione. I ruggiti del cantante tornano, ora ancora più esaltati e rapiti in una professione sottolineata dalle chitarre rocciose e quasi orchestrali. Egli ha ucciso il leone per diventare come lui, per diventare la fame primordiale, un'aureola che consuma la carne, e per ottenere la visione di un dio ha schiacciato i suoi occhi umani. Tutte metafore che simbolizzano l'accettare, conquistare e far proprio il lato oscuro in modo da ottenere una divinità infernale, un tema questo presente sin dagli albori nel mondo black metal, ma qui elaborato tramite una nera preghiera tipica del genere orthodox. Il cantante incalza con le sue parole in un'estasi dal fervore religioso: il suo cuore e pronto, e anche le sue vene, e ora possono ricevere il veleno del suo Signore e incanalare il suo splendore. Folle dal sovraccarico, egli apre il suo petto, e le parole che ne fuoriescono divoreranno la carne. Visioni apocalittiche che si concludono con l'immagine della terra che trema silenziosa, e poi rimane ferma in un'atmosfera di terribile attesa. Ritorna quindi il coro pieno di passione, che ora si ripete a oltranza con i suoi toni gloriosi; esso va a disperdersi in un suono di vento, rappresentazione delle rovine dopo la distruzione, accompagnato da fanfare dal gusto orchestrale, sottolineate da tamburi in una coda cinematografica che mette in gioco elementi esterni in un contesto musicale enro come la pece, una perfetta conclusione per l'album qui preso in esame.

Conclusioni

Maranatha è un'opera che ha caratterizzato il black metal del secondo decennio degli anni duemila in modo imprescindibile, e come tale ha avuto i suoi sostenitori e detrattori sin dai primi giorni della sua uscita. Ascoltata con le orecchie di oggi, dopo anni di elaborazioni varie del balck metal da tutto il mondo, le sue caratteristiche divisorie sono meno evidenti, ma pensando a quel epriodo in cui la scuola orthodox era per molti una novità, e ancora i discorsi di purismo nel genere erano vivi, non è difficile comprendere perché certi passaggi abbiano sollevato delle opposizioni. Dal punto di vista tematico, troviamo non un nichilismo superomistico ateo dove il diavolo è una metafora, bensì un sentimento religioso spirituale, per quanto votato al male e all'adorazione del Maligno e di tutto ciò che è morte e distruzione; questa è una ripresa del primo black metal scandinavo che non usava discorsi intellettuali, bensì un diretto satanismo derivato non certo da studi approfonditi. Qui la cosa assume aspetti più filosofici e gioca con l'uso di immagini sacre invertite, violate, usate contro i loro significati originari. Ma si tratta comunque di dare una veste accademica alla natura originale del black metal scandinavo: la celebrazione di tutto ciò che non è accettato e non è visto come positivo nel mondo moderno. Questo porta all'estrema conseguenza dove il suono, o meglio il suo aderire a dei canoni, passa in secondo piano, permettendo commistioni e sperimentazioni che provocano la rabbia di chi vuole che il black metal rimanga con dei canoni precisi. Un attento ascolto del disco, però svela tutta una serie di elementi della tradizione qui ben presenti, e un Arioch che conosce molto bene il genere e che sfrutta questa conoscenza per innestare generi altri in un terreno saldamente black. Le accuse di disco alternative travestito e di moda hipster appaiono fuori luogo e dettate più dal pregiudizio e dalla paura verso l'evoluzione e la diffusione presso il pubblico di un certo suono. L'album è un esempio di black metal svedese che varia la formula mantenendo i canoni fondamentali di questa variante, tra chitarre lanciate e doppie casse isteriche, ma che in base al suo discorso e tematica curva la linea con innesti che riescono a essere naturali e mai fuori luogo. Essenzialmente, Arioch porta avanti una sua personale visione intrisa di un approccio artistico che si nutre anche delle sue contraddizioni, contraddizioni che sono sempre state presenti in seno al genere. Da una parte abbiamo un'ideologia ferma che stabilisce che solo l'adorazione del demonio è il tema del black metal, dall'altra una visione musicale dove nessun suono è escluso dall'assere usato, a patto che venga fatto in nome del principio prima enunciato. E' quasi ironico che la rinascita del genere avvenga su basi molto simili ai suoi primi vagiti, ma allo stesso tempo molto diverse; se i primi gruppi della scena norvegese hanno in realtà presentato spesso visioni diverse, la scena orthodox è legata ideologicamente da un fine ultimo e senza compromessi tematici. La voce di Arioch si conferma come unica nel panorama, mutuata più da un certo death cavernoso che dal classico screaming black, ma resa qualcosa di teatrale e narrativo, capace di mutare in pochi secondi e di creare un nero predicatore che ruggisce dal profondo dell'inferno. E' probabilmente importante notare come, nonostante la fama, al contrario per esempio di progetti attigui come i Deathspell Omega, non si sia creata una schiera di cloni del progetto; questo ci da la cifra dell'unicità della proposta qui presentata, che vede una produzione sporadica negli anni e legata semplicemente all'impulso artistico di un musicista che diversamente potrebbe solo vivere del suo ruolo come frontman dei Marduk e della sua azienda grafica, ma che invece usa questo progetto per dare la sua visione del balck metal scevra di qualsiasi restrizione esterna.

1) Sword of Faith
2) White Stone
3) Jesus Saves!
4) A New Light
5) Blessed Curse
6) Living Temples
7) Anathema Maranatha
8) Anti-Flesh Nimbus
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