FUNERAL MIST
Hekatomb
2018 - Norma Evangelium Diaboli

DAVIDE PAPPALARDO
25/07/2020











Introduzione Recensione
Incomincia oggi il nostro viaggio del mondo infernale dei Funeral Mist, progetto black metal svedese che diventerà presto la creatura semi-solista di Arioch, al secolo Daniel Hans Johan Rostén, in futuro vocalist dei Marduk con il nome Mortuus. Una strada fatta di dischi che abbracceranno tematicamente la corrente orthodox, creando brani che sono preghiere ed evocazioni costanti del Maligno inteso come entità spirituale, e stilisticamente uno stile mutante e sperimentale che porterà alla creazione di uno dei rappresentanti più feroci e particolari del metallo oscuro. Ma andiamo con ordine: la band nasce nel 1993 per volontà di Typhos, Velion, Vintras. Nachash, mentre Arioch entrerà solo nell'anno successivo come bassista. Con questa formazione viene registrato il primo demo "Darkness", in pratica unica sua emanazione. Poco dopo infatti tuti tranne Arioch lasciano il gruppo, e il Nostro registrerà insieme al batterista Necromorbus a.k.a Tore Gunnar Stjerna (in futuro nei Watain e Ofermod) il secondo demo "Havoc", che segnerà la svolta da un black metal debitore verso glli Emperor dei primissimi tempi ad uno stile decisamente più veloce e violento in linea con la variante svedese del genere, ma non privo di alcuni esperimenti e di una certa radice vecchia scuola. Stabilite le basi, ecco che nel 1998 esce il primo lavoro sotto etichetta della band, ovvero l'EP "Devilry" pubblicato per la Shadow Records e ripubblicato nel 2005 dalla Norma Evangelium Diaboli con l'aggiunta in appendice delle tracce proveniente da "Havoc". Passeranno diversi anni prima che la nebbia funerea si manifesti di nuovo nel 2003, questa volta con il primo full length, quel "Salvation" che prenderà d'assalto gli ascoltatori con la sua furia distruttiva fatta di blast beats e chitarre fredde e taglienti, perfezionando quella commistione di stilemi provenienti da vari aspetti del black metal vecchia scuola, tra le atmosfere oscure norvegesi e gli attacchi senza sosta di stampo svedese che porteranno alla denominazione, spesso denigratoria, di norsecore. Un lavoro che farà conoscere tanto la band quanto la corrente orthodox black metal, ovvero la frangia secondo la quale l'elemento primario nella musica black metal è non lo stile, bensì la devozione lirica al diavolo. Tanta rigidità fanatica dal punto di vista tematico, si accompagna spesso per contrasto a un suono sperimentale che porterà alle dissonanze dei Deathspell Omega e alle varie fusioni con dark ambient, industrial, jazz perpetrate sia da quest'ultimi, sia da altri nomi. Nel mentre Arioch viene adocchiato dai Marduk, alla ricerca di nuova linfa vitale e di un nuovo vocalist, e come detto in precedenza diventerà con i nome Mortuus la nuova cavernosa voce della band svedese, portando nel tempo la sua influenza anche nel suono e a una terza era per il gruppo che per alcuni sarà la migliore. Passano così altri sei anni di silenzio, quando nel 2009 "Maranatha" sorprende il mondo in più di un senso; chi si aspettava nuovamente la centrifuga malevola del disco precedente, si trova ora davanti ad un disco che non teme di usare elementi post-rock, intermezzi ambient, campionamenti di canti sacri in barba alle convenzioni del genere e al purismo. Come prevedibile l'opera incontrerà il parere negativo di qualcuno, ma nel complesso segnerà un ennesimo successo, stabilendo l'identità unica del progetto diventato pienamente la creatura di Arioch, musicista influenzato da vari stili di musica e capace di sintetizzarli in un suono marcatamente black metal, ma allo stesso tempo caratteristico e unico. Ma ecco che invece di capitalizzare questo risultato, il Nostro si dedicherà per quasi dieci anni solo ai Marduk, e non pochi penseranno che il progetto Funeral Mist abbia terminato la sua corsa. Ma ancora una volta all'improvviso, senza fanfare o grandi annunci con preview, nel 2018 la creatura del musicista e grafico svedese si manifesta con "Hekatomb", quella che per alcuni è la creazione più completa della storia della band. Ripartendo da quanto fatto con l'album precedente, il suono ora si fa più bilanciato e diretto, mantenendo le parti più atmosferiche, ma rendendole più funzionali all'economia del disco, e presentando un numero di cavalcate oscure che pareggia i conti in uno schema ben strutturato. Un disco che riesce incredibilmente a suonare come un album dei Funeral Mist senza ripetere quanto già detto e presentando l'integrazione tra il lato più sperimentale del suo corso e le radici vecchia scuola che hanno caratterizzato gli albori del progetto. La produzione potenzia l'esperienza d'ascolto come spesso accade con i dischi del Nostro, ora unico autore di testi e musica, tra effetti vocali che ricreano versi demoniaci, cori, campionamenti, linee evocative, presentando un suono decisamente moderno, ma mai di plastica o inoffensivo.

In Nomine Domini
"In Nomine Domini" inizia il nostro oscuro viaggio con tratti rumorosi e dal gusto dark ambient che si accompagnano a un campionamento vocale declamatorio, annuncio di una nera e perversa preghiera che viene presto raggiunto e sormontato da versi bestiali e demoniaci. La tensione sale fino a scontrarsi con un basso greve delineato da tratti dissonanti; il brano mette già qui in gioco gli elementi più alternativi e particolari del suono del progetto, stabilendo subito l'identità sonora dell'opera. Il passo felpato si arricchisce di piatti sospesi e suoni evocativi in background, fino all'esplosione improvvisa di un riff sfrenato in loop, unito a una doppia cassa devastante. Un'energia tipicamente black metal si concede a scale vibranti, che dopo una breve cesura accolgono la voce da orco di Arioch. Il Nostro delinea con versi gutturali il tema della traccia, tipico tanto della sua produzione, quanto dell'ala orthodox della scena black metal. Siamo davanti a una preghiera trasformata in una celebrazione del diavolo e della morte, considerati un'unica cosa. Il suo vero significato si mostra pian piano con il procedere delle parole, mentre la musica si mantiene caotica e distruttiva, arricchita da una sorta di estasi religiosa in chiave maligna. Nel nome del Signore egli giunge contro di noi, sorretto dai venti della nostra caduta e araldo di un inferno rinato dove le braci sono vive. Siamo invitati a partecipare al giudizio finale, dove ci dissolveremo, e a ringraziare i nostri aguzzini perché hanno saccheggiato Dio e reso loro la sua vendetta. Ritroviamo come detto temi familiari per chi frequenta il genere: immagini apocalittiche e di morte vengono illustrate con fervore, e l'usurpazione del messaggio religioso in origine cristiano viene riconosciuta e reclamata con perversa soddisfazione. Gli attacchi di chitarra e batteria proseguono come mitragliate durante una battaglia, mentre le vocals del demoniaco cantante conoscono anche grida stridenti potenziati da effetti in riverbero. Ecco che colpi cadenzati creano bordate pulsanti, che sottolineano i toni sempre più isterici di Arioch, mentre una digressione di chitarra accompagna il dilungarsi di un suo ultimo verso. Andiamo scemando nella ritmica strisciante Iniziale, ancora una volta con suoni di basso stridenti che s'intromettono tra le oscurità evocative. Si ripresenta l'esplosione di batteria e il muro di chitarre, così come i versi da non-morto del cantato. Nel nome del Signore egli giunge con la dolce ironia della croce, promettendoci che non avremo pace, ma solo una caduta senza riposo o appiglio. Ancora una volta siamo invitati a dare celebrazione della nostra stessa caduta, e di quella del nostro libero arbitrio, ringraziando gli aguzzini che hanno reso la voracità della morte la loro dimora. La derisione del libero arbitrio è una latro topos tipico del genere, che mantiene la coordinate stabilite ormai più di due decenni or sono nel mondo tematico dei Funeral Mist. Il tripudio caotico conosce le stesse evoluzioni precedenti, ma questa volta la digressione ci porta subito a un riffing roccioso e marziale che prosegue serrato tra campionamenti vocali e suoni severi e ammalianti. Rullanti cadenzati completano il quadro, mentre passaggi squillanti di ottima fattura regalano momenti tecnici prima della ripresa dei turbini sonori spaccaossa. La terza emanazione non è meno feroce delle precedenti: in nome del Signore Arioch si presenta contro di noi, e ora ci impone di accettare le fiamme che ci purificheranno nelle braci del suo salmo, simbolo della fede in cui devolveremo. L'ultima parte vede un continuo attacco di doppia batteria e chitarre fredde come l'acciaio, teatro per i versi deliranti del cantato, in una corsa verso l'oblio suggellata da un'ultima ripetizione del basso stridente ormai familiare.

Naught But Death
"Naught But Death" (Nient'altro che morte) ci accoglie con un suono potente e roboante di chitarra, presto coperto da cori evocativi campionati e da una ritmica marciante e vivace che avanza con fare potente tra i suoni di chitarra distorta in loop. La coda prosegue a lungo, portandoci verso una breve cesura che introduce di seguito la voce tagliente di Arioch. Egli si abbandona a un altra nera preghiera, questa volta evocando il furore del proprio dio non solo sul mondo, ma anche su se stesso. Il male supremo che prevede anche l'odio e l'annientamento diretto verso la propria persona è un elemento praticamente presente da sempre nella musica black metal scandinava, qui reso sotto forma sacrale. Il fiume della depravazione scorre spesso come il peccato più vile, mentre dolcemente un canto fa aprire i cancelli che rilasciano il fuoco sacro. Viene richiesto di non avere pietà su di noi, perché vogliamo solo la morte, non giustizia. La musica si mantiene controllata e dai tratti molto vecchia scuola, tra tempi medi dalle riminiscenze thrash e suoni di batteria cadenzati. All'improvviso i tratti si fanno più altisonanti, creando un'atmosfera epica e satura: essa accompagna immagini di un cielo che giace spezzato, mentre la rete di anime risulta strappata, ed ecco che riempiamo i nostri cuori vuoti con le tracce rimaste di prostituzione e sporco. I suoni tornano alle caratteristiche precedenti, con una parata trionfante fatta di riff distorti e passi maestosi, scenario per i versi demoniaci di Arioch, mentre leggere accelerazioni sottolineano passaggi chiave della sua declamazione. Non cerchiamo giustizia, processo, occasioni, vogliamo solo la morte, e chiediamo al nostro nero Signore di non avere pietà di noi. All'improvviso tornano i canti iniziali, segnati sempre dal galoppo controllato ed evocativo, in una riproposizione dei movimenti introduttivi al brano. Un'accelerazione finale ci porta da una brevissima cesura che ci consegna la ripresa della struttura principale fatta di chitarre gelide e batteria ossessiva. Il cantato invita i peccatori a considerare ciò che ora giungerà, e come tutto ciò che hanno creato, anche il simbolo di Dio, verrà distrutto insieme a loro. Parole di disprezzo e scherno che ancora una volta riprendono un modus operandi tipico per i Funeral Mist, uno sbattere in faccia l'inevitabile conclusione fatto con sadico piacere che non lascia scampo. Riecco i toni più alti dalle mura sonore esaltanti, dove per l'ennesima volta si evoca non la giustizia, bensì la morte nella sua essenza più totale e assoluta, mentre la perdizione prende forma e sorge. I suoni severi vanno a scontrarsi con una serie di distorsioni fumose, sulle quali Arioch si dà a grida stridenti mentre con l'evoluzione del corso belle melodie fredde e malinconiche s'incastrano nell'etere. La luna sanguina e il cielo è cenere, la distruzione segue la sua strada mentre ci ergiamo nel momento, benedetti, ma ancora non degni del linguaggio del vuoto e dell'abisso, mentre incantesimi di potere fluttuano sotto di noi, e sopra di noi mondi di luce che sono il catarro della Santa Madre.La musica prosegue con le sue orchestrazioni evocative e sommesse, mentre nuove terribili visioni si presentano. Giaciamo sbudellati sulla croce, purificati, ma non ancora degni del mantra dei morti, il coro della decadenza, e davanti a noi si trovano eoni neri, dietro di noi stralci di vita presi dalla pelle del primo e ultimo uomo. Visioni apocalittiche che ci conducono alla conclusione della traccia, dominata dalle scale di chitarra solenni, che si perdono nell'oblio con una digressione.

Shedding Skin
"Shedding Skin" parte con un suono in levare, rumoroso e distorto, pronto a infrangersi contro un improvviso torrente di batteria e chitarre impazzite, una corsa fulminea che distrugge ogni cosa sul suo percorso. Doppia cassa e piatti si muovono tra dissonanze che delineano il corso del movimento. Ecco che rallentiamo su un passo pulsante, caratterizzato da colpi ripetuti, sul quale Arioch si manifesta con una voce sgolata dallo stile death, mortifera e non lontana dalla lezione sepolcrale degli Asphyx. Egli è pronto a declamare nuove blasfeme evocazioni e preghiere, come sempre araldo del suo demoniaco Signore. Si presenta come un redentore, come una sardonica fonte di speranza, un messia che deve essere adorato. Suoni malinconici e dissonanti, di matrice alternative, segnano intanto l'atmosfera mettendo ancora una volta in mostra lo stile camaleontico del progetto e dell'artista svedese. Una bella sessione strumentale ci traghetta verso la ripresa dei vortici black metal, confermando il mood belligerante e schizzato della traccia. Ancora una volta la doppia cassa e i loop di chitarra ci bombardano senza tregua, mentre toni da orco proseguono con la nera lezione del cantato. Senza peccato e pieno di paradiso, il Signore fruga furiosamente nei nostri cuori e menti, cambiando pelle in un atto sacrale. Parole misteriose che sembrano scimmiottare consapevolmente concetti sacri in una versione distorta e maligna, elogio del diavolo. I toni si fanno ancora più furiosi e dalle dissonanze marcate, mentre Arioch spavaldo si apre in trionfanti urla: il figlio di Dio viene invitato a esiliarsi da solo, a portarsi giù nel mondo distrutto. Il narratore ha giurato di avvelenare i cieli portando con sé canzoni dalla città del sangue, mentre gli angeli si inginocchiano e la tenebra scende, cambiando pelle sul trono della luce. Il galoppo prosegue senza tregua, mentre attraversiamo malinconie oscure che sottolineano passaggi narrativi, in visioni che ripetono i versi precedenti, prendendo in giro la figura del messia e della redenzione. La musica si scontra con cesure dagli assoli stridenti, presto seguite da nuove corse martellanti, in un ritmo sincopato e dai continui balzi, che ricrea l'esaltazione del testo. Ancora una volta suoni black ed elementi moderni s'incastrano in una soluzione unica, dandoci lo stile del progetto che conosciamo ormai bene. Giungiamo dunque a un ponte fatto di suoni squillanti, dilungato in un loop ossessivo che va poi ad aggiungere una batteria in levare. Riesplode la violenza sonora, in un muro di suoni che ci investe mentre viene ripetuta la sequenza del testo, portata fino a nuovi rallentamenti caratterizzati da chitarre quasi evocative e batteria senza sosta. Il gran finale mette in mostra tutto il pathos che la traccia più raggiungere, non senza però ripresentare le malevole dissonanze.

Cockatrice
"Cockatrice" inizia con un suono stridente, destinato a evolvere in un disturbo assordante e volutamente sgradevole, dal sapore tecnico e sperimentale. Esso si accompagna a una corsa forsennata fatta di rullanti distruttivi e blast ossessivi, in una orchestrazione caotica. Antimelodie gelide delineano il corso, mentre un breve stop ci prepara per la ripresa ancora più furiosa della marea nera come la notte. Arioch si manifesta con la sua voce da demone, intenzionato a darci ancora una volta una versione demoniaca, sarcastica, distorta di concetti sacri della religione cattolica. I parassiti preferiti di Dio si trovano in una continua ricerca di un ospite, ed ecco che s'incontrano nel cielo bruciante dell'estremo nord, portando un solo fatto di carne e sangue. Suoni black metal freddi e vorticanti ci investono mentre fraseggi malinconici sono udibili in sottofondo, in uno stile decisamente legato alla scuola svedese del genere, ma in qualche modo unico grazie ad accorgimenti che innestano soluzioni atipiche. Viene introdotta ora la figura protagonista del pezzo, una bestia mitologica medievale appartenente al bestiario fantastico, ovvero la cockatrice. Da alcuni confusa con il basilisco, essa in realtà ha alcune caratteristiche uniche, come la testa di un gallo sul corpo di un drago, e la capacità di uccidere con il solo sguardo. Nella versione inglese della bibbia viene usata per tradurre il basilisco, e possiamo quindi intendere che anche qui si segua questa linea. La discendenza della cockatrice qui menzionata, progenie della dannazione, fa intendere un legame demoniaco, dandoci l'idea in generale di un dragone, essere associato da tradizione con il demonio. Le assordanti dissonanze penetrano nelle nostre orecchie e carni in un suono ostico e volutamente torturante, mentre la doppia cassa prosegue con i suoi toni da guerra, brevemente interrotta solo da cesure che raccolgono l'energia prima di assalti dalle chitarre fredde, ma anche ammalianti. Ora osserviamo gli schiavi di una stella vampiro, e le sponde gemelle di un fiume demoniaco che allaga tutto con decadimento e resti umani, il tutto mentre il tempio di Mammon (il dio denaro, spesso associato con il diavolo) rimane sovrastante su tutto. Visioni apocalittiche supportate da un suono altrettanto oscuro e violento, per una delle tracce più feroci del disco; torrenti sonori ci investono tra piatti e loop segaossa, ma ecco che con un colpo da maestro Arioch piazza delle tastiere tristi che aggiungono un tocco malinconico ben dosato. Ora il movimento si fa cadenzato e controllato, tra piatti pulsanti e rullanti che delineano il movimento da parata, dove i versi sgolati del cantante sono protagonisti. Una tela ondeggia dalla fede della vipera, una corda fatta con l'orgoglio di un ratto, mentre i signori della grande bugia sono cavalieri di una mera illusione. Una nuova cesura presenta un fraseggio melodico, destinato però a essere violato dai soni stridenti Iniziali in un'ennesima cavalcata distruttiva. Ritroviamo i loop familiari, tra doppie casse, blast, dissonanze taglienti come lame di rasoio, e naturalmente vocals che fatichiamo a credere che provengano da un essere umano. Secondo leggi antiche abbiamo perso il nostro diritto alla vita, portando su di noi la dannazione, ma non pensavamo che l'Inferno fosse come lo vediamo ora, fatto di fiamme di carne e sangue. Siamo il risultato della tribù del tradimento grida il Nostro, mentre nuove follie sonore si propagano senza sosta. Siamo intorpiditi dalla rete velenosa del volere di Sirio (stella che in varie religione ha significati cosmici e legati al divino), intrappolati nelle grinfie di una mano nascosta, e mentre il vero sangue del nord è ghiacciato, la torre di fiamme dovrà cadere. Si ripresentano le tastiere malinconiche, questa volta dilungate assieme a chitarre altrettanto evocative, creando una bella sessione piena di emotività, che va a scemare in una dissolvenza che si abbandona a suoni divento tra le rovine. Abbiamo quindi solo il suono triste in solitario, in un falso finale che prosegue fino a esplodere in una corsa emotiva che raccoglie tutti i suoni fino a ora incontrati. La vera conclusione vede in trotto controllato dove Arioch sbraita versi già sentiti, in un sermone che si consuma in una batteria sospesa su un suono statico, lasciata poi in solitario fino alla fine.

Metamorphosis
"Metamorphosis" ci accoglie con una batteria cadenzata, dai cimbali ossessivi e dai toni sospesi su un suono in levare che si fa sempre più presente. Ecco una chitarra rocciosa e lenta, unita a versi grevi che si manifestano a intervalli. Si crea una sorta di marcia epica e sacrale, ripetuta nei suoi modi striscianti e pieni di pathos. Arioch si mostra con toni cavernosi, mentre la batteria ci dona rullanti sincopati dalla struttura non lineare, pronto a presentare nuove nere evocazioni e preghiere, seguendo il suo solito modus operandi dove concetti sacri diventano qualcosa di maligno e pregno di sentore di morte e distruzione. Osserviamo degli emissari che giungono con la manna scesa dal cielo, mentre antichi portali sono pronti, e siamo invitati a sorgere insieme a loro sopra le molte acque, creando un nuovo mondo con loro. La musica si mantiene strisciante e piena di chitarre dai toni evocativi, questa volta senza esplosioni o corse improvvise. Essi portano la voce del reame nascosto, dove esplosioni senza suono fanno strada, e ora siamo invitati a sentire il ruggito silenzioso della metamorfosi. Quest'ultima è un concetto basilare per la religione cattolica, spesso usato per il passaggio di Cristo dalla natura divina a quella mortale, e nelle parole successive questo legame si fa ancora più evidente. Intanto riff ruggenti orchestrano belle malinconie, mentre canti sacri Intervengono aumentando l'atmosfera sacrale del brano. Come se fossero caduti dai cieli, gli emissari si sono appropriati della carne degli dei, e adesso ci viene chiesto di soccombere allo spirito e al vuoto, e alla tenebra dove evolveremo. I suoni epici delineano l'esaltazione della voce di Arioch, sempre più predicante e piena di enfasi. Ma le chitarre invece non esplodono, mantenendo il ruolo di substrato sonoro sul quale si poggiano gli altri elementi. Una dimensione senza nome si presenta davanti a noi, invitati a inchinarci davanti alo spirito di un elixir benedetto. Il passo lento prosegue con la sua parata ipnotica, in un loop che rincontra i versi del cantato. Una conoscenza senza lingua scende dal cielo, e dobbiamo accettare il terrore denso in cui evolveremo. I piatti cadenzati si uniscono a maestosi riff di chitarra dal gusto quasi progressivo, mostrando la capacità dei Nostri di accedere a suoni non normalmente associati con la materia black metal. Il tutto rimane placido e sospeso, pronto a convergere in un'ultima marcia dove canti sacri e versi isterici del cantante si uniscono, muovendosi sulle chitarre distorte e sul passo cadenzato della batteria. Un climax sommesso che prosegue fino alla chiusura segnata da un ultimo fraseggio di chitarra. Un episodio che sembra voler offrire un' apparente calma dopo le tempeste precedenti, ma che nasconde in sé una natura comunque malevola, solo meno esplicita e rilegata ai significati misteriosi delle parole. Come detto, Arioch sa come coniugare momenti più tradizionali a sperimentazioni, senza perdere il filo del discorso ne sul piano tematico, ne su quello sonoro.

Within The Without
"Within The Without" è una traccia dalla durata più breve rispetto a molte altre del disco, una sorta di scheggia impazzita fatta di suoni molto norsecore, tra chitarre tritacarne e doppia cassa sfrenata. Essa però non è priva di alcuni rallentamenti epocali, che segnano alcuni passaggi narrativi della canzone. Essa tratta di visioni infernali legate alla morte e rinascita del proprio io in chiave demoniaca, attraverso torture che portano al superamento di concetti mortali e al raggiungimento del divino. Concetti spesso apparsi nei dischi precedenti dei Funeral Mist, e che quindi proseguono con coerenza la presentazione del messaggio di Arioch, vero e proprio predicatore di una nera e oscura religione. Veniamo subito investiti da un muro di chitarre e batteria, senza nemmeno darci il tempo di capire cosa succede, Arioch s'incastra tra le dissonanze e blast con ie sue grida feroci e veloci, diventando anche lui parte di una vortice delineato da brevissime bordate. Nelle fiamme dorate, il nostro vecchio io brucia, e mondi tremano mentre la coppa tenuta dal narratore stra borda e i deserti diventano pieni di spirito. Ci viene ordinato di tornare nella luce della rinascita. Non c'è respiro ulteriore, come uno sciame assassino la musica ci avvolge strappando le nostre carni, in una violenza sonora diretta e fredda nella sua mancanza di tregua. Dopo sei ore di caduta eterna attraverso i loop del vuoto in una fornace spirituale, giungiamo alla crudele ruota della morte dell'ego senza sosta. Ci arrendiamo al vuoto, per non rimanere intrappolati per sempre, dentro alla mancanza; i suoni frenano, dandoci una marcia dai colpi battaglieri e dai montanti di chitarra decisi e pieni di pathos. Piatti duri segnano il corso, mentre all'improvviso campane a morto e versi cavernosi creano una cesura gotica. Osserviamo noi stessi dalle mura a sinistra, con candele che sono fontane d'oro, mentre la stanza blu vibra di potere senza passato o futuro: siamo solo nell'adesso. La musica esplode con la corsa tritacarne, tra dissonanze e batteria assassina, trascinandoci ancora una volta. Una metamorfosi improvvisa si palesa, e onde di divinità latente vengono rilasciate, mentre i resti del vecchio io rimangono distrutti, segni fatti schegge dell'unione con Dio a cui rinunciamo. Un ennesimo stop ci prepara a tempi caotici, in una frenesia che trasmette sul piano sonoro quella ossessiva del fervore religioso del cantato. Il nord e il sud si scontrano con un tuono, e l'ovest e l'est si fondono con il sopra e il sotto, il tempo stesso perde di senso, e ora adoriamo un nuovo sacramento. Come venti cosmici, le dissonanze pervadono l'etere, e Arioch torna con la sua voce infernale insieme alla cesura gotica con campane: ora ci descrive come la maggior parte della faccia manchi, e come nessuna superficie sia mai stata asciutta (dal sangue), mani gelide raggiungono la sua anima mentre c'è solo il presente. Il finale vede un'ultima corsa delineata da alcune brevi malinconie fredde, ma dominata dalla violenza. Ci arrendiamo al vuoto, e per non rimanere intrappolati nel esilio sorgiamo dentro all'assenza. Lo spirito del nuovo sacramento ha creato in noi la sua tomba.

Hosanna
"Hosanna" parte con un accordo di chitarra, sviluppando poi un suono solenne e maestoso dalle arie fredde ed evocative. Un mantra che si arricchisce di un disturbo in levare, pronto a esplodere in una serie di riff dissonanti accompagnati da una doppia cassa devastante. Trame gloriose e malinconiche s'intrecciano tra di loro fino a uno stop ritmato che introduce i versi declamanti di un Arioch più umano del solito. Egli presenta nuove visioni da fine del mondo, tra morti che risorgono e attacchi espliciti alla religione cattolica, considerata falsa e truffaldina, piena di promesse vane, e contrastata con un'armata blasfema che porta morte e distruzione glorificando quello che per il Nostro è l'unico vero dio, ovvero la morte. Ecco quindi che mentre la sua canzone viene intonata un'ultima volta, i morti risorgono dalle tombe, concetto ripetuto sui rullanti di batteria e sulle bordate di chitarra. Si sprigiona un vortice di chitarre lanciato a velocità folli, e di conseguenza anche il cantato si fa più isterico e maligno: sotto i cieli si ergono le preghiere verso un falso paradiso, una falsa salvezza viene proclamata per il piacere di un falso dio, e sarcasticamente viene benedetta la falsa canzone che nasconde una farsa, una messa in scena, che preannuncia l'arrivo di un'armata di anticristi che si presentano nei giusti modi per ingannare. La musica si mantiene su tempi senza controllo, creando una sfuriata black metal dove dissonanze e colpi duri e veloci di batteria la fanno da padrona. Si ergono nuove declamazioni ispirate da parte di un Arioch che mette in mostra tutte le sue capacità teatrali, creando un vero e proprio sermone demoniaco. Mentre la torcia della vita brucia, anche la carne e chi la contiene brucerà, così come il cantico della nascita e la promessa del Signore, e tutto annegherà nella guerra che porterà disperazione, il tutto mentre i morti risorgono mantenendo la parola del loro padrone. Nuove malinconie sonore creano atmosfere melodiche non dissimili dallo stile dei MGLA, anzi non poche parti riportano anche al cantato della band polacca, dimostrando un'influenza moderna che si allinea alla capacità di Rostén d'integrare molti elementi in un contesto furioso e robusto, consegnandoci variazioni narrative di grande effetto. Andiamo a scontrarci così con la ripresa dei suoni evocativi iniziali, che evolvono naturalmente verso un'ennesima esplosione di chitarre e vortici tritacarne assassini. L'ascoltatore e bombardato dalla potenza ritmica, mentre le chitarre creano paesaggi sonori gelidi e ammalianti. La cieca distruzione che alberga dentro tutti noi ha ora modo di espandersi, e mentre l'acqua benedetta viene versata sui giovani, un veleno viene messo sotto le loro lingue (chiaro riferimento al sacramento e all'ostia) menta gioiamo per le ceneri e adoriamo le polveri in un osanna che è un canto rubato e dedicato ad una falsa divinità. Dopo un leggero rallentamento, si sprigiona una nuova cavalcata che evoca tempesta, e Arioch si dà a uno screaming stridente e malevolo, abbandonandosi a un fervore che non può essere contrastato. Mentre l'ultimo comandamento cade, anche la carne cede con i suoi proprietari, e le benedizioni vengono maledette. I salmi vengono ruggiti un'ultima volta insieme ai segnali della nostra disfatta. Visioni di morte che si accompagnano a suoni che vanno a collimare contro un'ultima cesura melodica dai toni tristi e dalla batteria incalzante, una parata che si perde poi in giri ipnotici che sottolineano le grida del cantante. Il vero finale vede una disperata corsa solenne che prosegue fino a raggiungere un ruggito finale che poi lascia spazio a un feedback di chitarra in dissolvenza.

Pallor Mortis
"Pallor Mortis" è il gran finale dell'album, una parata monolitica e lunga, pronta però a esplodere in corse familiari, una sorta di sunto della lezione del disco. Ecco quindi che una serie di percussioni annunciano un suono di chitarra solenne e strisciante, contornato da suoni di sirene in sottofondo, appena udibili come segnali di una battaglia lontana e diffusa. Una serie di piatti annunciano l'introduzione di un cantato maligno e aspro, sottolineato da colpi ritmati di batteria dall'incedere marziale. Arioch presenta la perversione finale dei concetti e dei riti della religione cattolica, rendendoli elementi per glorificare tutto ciò che è nemico della vita e segno di morte. Lingue fumanti e labbra di grano baciano la croce della benedetta perversione, mentre cavalchiamo le bugie oneste dell'agnello e della colomba, glorificando il pallore della morte e la lama che taglia la lingua dei preti. I suoni si mantengono pesanti, mentre la batteria si da a piccole variazioni che conferiscono un gusto tecnico alla traccia pur senza eccedere e mantenendo la linea portante. Il cantato assume toni da orco, mentre viene presentato un gospel salato, un salmo acido, dove le preghiere vengono immerse nel veleno del nome di Dio e il fuoco e il vento sostituiscono la nostra canzone così come la luce e la tenebra sostituiscono le nostre carni e la morte diviene il nostro sangue. Versi aspri e dilungati si approcciano nell'etere, mentre bei suoni melodici di chitarra creano un trotto malinconico scolpito da piatti pulsanti. La coda prosegue con i suoi movimenti fino a un'accelerazione in doppia cassa, sempre dalle chitarre maestose e piene di triste essenza; essa continua lanciata in un'inondazione sottolineata dal ritorno dei suoni di sirena iniziali, ricreando le evoluzioni già incontrate. Ecco quindi che ci fermiamo per una cesura che reintroduce la voce demoniaca e aspra del cantante. Le lingue fumanti leccano il sangue della salvezza maledetta, e siamo con una colpa senza peccato mentre quattro soli ci vedono bruciare. La fiamma che brucia la bocca del peccatore viene benedetta insieme al raffreddamento dei cadaveri dopo la morte. Ora i tempi si alternano con corse lanciate, stabilendo movimenti familiari ricchi di dissonanze di chitarra e colpi ripetuti di batteria, in una seconda fase più vivace e furiosa. I nostri giardini vengono annegati con il vino contaminato di Cristo, e la nebbia e le ombre sostituiscono i raggi del sole, portando muffa e decadimento mentre la Morte diventa il nostro unico dio. I vortici sonori ci trascinano con loro tra suoni taglienti e freddi, in un'energia nera totalmente liberata. All'improvviso però rallentiamo in una sospensione dove voci campionate di bambini si abbandonano in versi isterici, consegnando un'atmosfera inquietante alle nostre orecchie. Battiti pulsanti e loop si ripetono in sottofondo, fino a una nuova corsa malinconica tempestata dai blast distruttivi, trascinata fino alla chiusura dove ritroviamo le percussioni sospese in un ciclo che collega fine e inizio.

Conclusioni
Un album che si configura come, probabilmente, quello più riuscito nella carriera del progetto. Qui i vari elementi che ne hanno caratterizzato il corso, ovvero i legami con il black metal scandinavo "classico", quelli con lo stile svedese più violento e veloce, e quelli alternativi e sperimentali, vengono dosati in una soluzione che riesce a bilanciarli. Se nei dischi precedenti avevamo attacchi continui ("Salvation") oppure largo spazio a pezzi più atmosferici e atipici ("Maranatha"), ora le varie anime vengono equilibrate, anche all'interno dello stesso pezzo. Arioch dimostra una capacità compositiva forse unica nel genere, implementando tempi diversi e applicando nel modo e momento giusto elementi ricavati dalla modernità senza che suonino fuori luogo o forzati. Ecco quindi che i loop di chitarra freddi convivono con doppie casse assassine, così come con melodie malinconiche ed evocative, e in alcuni momenti con tastiere, campionamenti, sample vocali. Come indicato in corso di recensione, l Nostro non è chiuso a guscio ed è lampante che abbia percepito il suoni di nomi come i già citati Deathspell Omega o MGLA, e naturalmente dei Marduk di cui fa parte (si notino i toni da guerra della finale "Pallor Mortis" che richiamano quelli degli ultimi due album della band svedese), così come alcuni tratti presi dal post metal, dal folk, dalla musica ambient. Ma non percepiamo mai un'imitazione, un vuoto copiare per il gusto di farlo e/o risultare nel momento e nella scena. In realtà il suono dei Funeral Mist rimane una capsula temporale a sé, dove un motivo di fondo che non cambia negli anni assume di volta in volta nuove iterazioni. Come detto, l'abilità della mente dietro al progetto riesce a mantenere la coerenza che arricchisce il suono qui presentato. Personalità trascinante e imponente tanto su disco quanto dal vivo, Rostén ha qui pieno controllo e può portare alle estreme conseguenze alcune intuizioni che percepiamo nei suoi contributi ai Marduk. La sua fervente teatralità si appoggia a vocals capaci di mutare in pochi secondi, creando sermoni isterici che non ammettono opposizione o replica, presentati come fatti e realtà che s'impongono mentre dobbiamo solo prenderne atto impotenti. La sua nera fede è totale, assoluta, ossessiva, ogni tracia è un salmo oscuro, una corruzione in chiave demoniaca dei concetti della religione cattolica. La derisione sarcastica verso di essa si unisce alla celebrazione della morte e della distruzione, all'annichilimento del concetto stesso d'io, umanità, vita. Si tratta dell'estremizzazione dei concetti presentati già agli albori della scena norvegese: la malvagità estrema, l'odio verso tutto, anche se stessi, la celebrazione di ogni cosa porti violenza, morte, sofferenza senza riguardo alcuno per i limiti sociali. Il concetto di bene viene deriso e ritenuto ipocrita, un ingannarsi davanti alla vera natura dell'uomo, portata alla distruzione di ogni cosa, un'entropia legata agli atomi stessi dell'esistenza. Una visione tipica della corrente orthodox nella quale i Funeral Mist sono capostipiti ed esempio per molti, familiare a chi segue le band allineate da questa non-corrente dove più che poche similitudini musicali (spesso l'uso tecnico di dissonanze ricavato dai DsO), è l'ossessione tematica a fare da collante, così come la presenza dell'etichetta Norma Evangelium Diaboli, considerata casa base per gli esponenti principali di questa musica. In un mondo dove ormai il black metal è un genere estremo codificato e inserito in contesti anche legati a multinazionali musicali, forse questo è un baluardo che cerca di mantenere quella natura ostica e antisociale insita nei primi passi del genere. Certo, l'ascoltatore più smaliziato potrebbe obiettare che anche qui ci sono discorsi di vendite e immagine (o meglio non-immagine, giocando su poche informazioni e uscite fatte senza molte fanfare o annunci), ma è innegabile che vengano evitati molti percorsi altrimenti necessari nei circuiti commerciali, quali i concetti (ora come ora necessari in ogni genere per sperare in un qualsiasi riscontro economico reale) e le interviste periodiche. Tornando comunque più nel dettaglio dei Nostri, essi operano in una loro dimensione e tempo, con uscite distribuite nel corso di molti anni e legate da un nucleo basato sulla voce, le chitarre, la batteria, e poi come detto mutato con maggiori o minori variazioni di volta in volta. "Hekatomb" è la realizzazione di questa visione, forse l'ultima, e probabilmente uno dei migliori dischi black metal moderni e non solo, grazie alla forza della sua musica e della sua visione. Possiamo parlare senza problemi di arte intesa come manifestazione sul piano terreno di un quid che va oltre, sia esso la fede nera che avvolge l'opera, o la farneticazione dovuta all'esaltazione, come potrebbero interpretarla i più scettici. Il risultato non cambia, in un suono che riesce allo stesso tempo a essere black metal (alla fin fine, esso stesso una contraddizione affascinante che continua violare le sue stesse regole pur rimanendo se stesso, diventando così la branca più sperimentale, ma anche più riconoscibile, del metal estremo) e a implementare suoni altri senza remora. Parlare di capolavoro non è fuori luogo, vedremo se saremo omaggiati di altri, o se si tratta di un gran finale per i Funeral Mist solo con il tempo.

2) Naught But Death
3) Shedding Skin
4) Cockatrice
5) Metamorphosis
6) Within The Without
7) Hosanna
8) Pallor Mortis


