FUNERAL MIST

Deiform

2021 - Norma Evangelium Diaboli

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
04/01/2022
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Come un fulmine a ciel sereno, a tre anni di distanza dal precedente "Hekatomb" (un lasso di tempo irrisorio per gli standard del progetto, caratterizzato da una discografia dove tra un disco e l'altro sono passati diversi anni) tornano i Funeral Mist con "Deiform", pubblicato naturalmente per la fida Norma Evangelium Diaboli. Quarto album e quinta uscita se consideriamo anche l'EP del 1998 "Devilry" della creatura di Daniel Rosten, produttore, musicista e grafico conosciuto come Mortuus nel ruolo di cantante dei Marduk e come Arioch quando parliamo della band qui recensita. Accompagnato dal batterista Lars Broddesson, ex-membro dello storico progetto svedese prima citato dove milita tutt'ora il Nostro e responsabile del compart ritmico anche nei due precedenti album dei Funeral Mist, Rosten ci consegna un'opera che allo stesso tempo continua in perfetta coerenza il discorso artistico intrapreso sin dagli albori del gruppo, ma anche offre una nuova produzione e uno stile che potremmo definire più mediato e riflessivo, caratterizzato da una certa atmosfera evocativa e da un gusto melodico che sembra riprendere le arie più malinconiche del black metal scandinavo della seconda ondata innestandole sullo stile particolare e unico della sua creatura orthodox black metal. In un certo senso viene ripreso lo spirito di "Maranatha" nello sperimentare con nuove soluzioni, ma il tutto avviene in un'atmosfera meno feroce e severa; certo, questo non significa che non troviamo i tipici assalti in doppia cassa con cacofonie di chitarra, un marchio di fabbrica per il progetto. Ma la struttura più lunga (parliamo di sette brani per quasi un'ora di durata totale) permette a ogni episodio di respirare e offrire passaggi mediati dove melodie, cori, campionamenti contribuiscono a soluzioni affascinanti che trasportano l'ascoltatore. Si nota inoltre una produzione particolare dove la batteria assume un suono più secche e a tratti "artificiale", soprattutto a livello di cimbali, e le chitarre risultano essere meno in prominenza; si tratta probabilmente dell'aspetto più divisorio del disco e quello che più va a influenzare il giudizio su di esso, in quanto crea un suono che a volte sembra inadatto per lo stile dei Nostri, soprattutto durante gli ascolti in cuffia. Il cantato si fa anche meno teatrale e a volte in linea con quanto sentito da parte di Rosten nell'ultimo disco dei Marduk "Viktoria", quindi meno gorgogliante e cavernoso, affidato anche a uno shrieking più tradizionale e legato allo stile norvegese, pur non rinunciando del tutto a tratti più stravaganti. Il risultato complessivo è qualcosa quindi che non possiamo definire standard, ma che allo stesso tempo suona come meno "esaltato" e più diretto nella sua essenza, una sorta di versione più contenuta, possiamo anche azzardare il termine matura, dei Funeral Mist. Conviene quindi fare un riepilogo della storia finora per comprendere le differenze e continuità nel progetto: la band nasce nel 1993 per volontà di Typhos, Velion, Vintras. Nachash, mentre Arioch entrerà solo nell'anno successivo come bassista, e con questa formazione viene registrato il primo demo "Darkness". Poco dopo però tutti tranne Arioch lasciano il gruppo, e sarà lui a registrere insieme al batterista Necromorbus il secondo demo "Havoc", che segnerà la svolta verso uno stile più veloce e violento in linea con la variante svedese del genere, ma non privo di alcuni esperimenti e di una certa anima old-school. Nel 1998 esce il primo lavoro sotto etichetta della band, ovvero l'EP "Devilry" pubblicato per la Shadow Records e ripubblicato nel 2005 dalla Norma Evangelium Diaboli con l'aggiunta in appendice delle tracce proveniente da "Havoc". Solo dopo alcuni anni nel 2003 esce il primo album vero e proprio, ovvero "Salvation", disco che prende d'assalto gli ascoltatori con la sua furia distruttiva fatta di blast beats e chitarre fredde e taglienti, perfezionando quella commistione di stilemi provenienti da vari aspetti del black metal vecchia scuola, tra le atmosfere oscure norvegesi e gli attacchi senza sosta di stampo svedese che porteranno alla denominazione, spesso denigratoria, di norsecore. Un lavoro che farà conoscere tanto la band quanto la corrente orthodox black metal, ovvero la frangia secondo la quale l'elemento primario nella musica black metal è non lo stile, bensì la devozione lirica al diavolo. Tanta rigidità fanatica dal punto di vista tematico, si accompagna spesso per contrasto a un suono sperimentale che porterà alle dissonanze dei Deathspell Omega e alle varie fusioni con dark ambient, industrial, jazz perpetrate sia da quest'ultimi, sia da altri nomi. Nel 2009 "Maranatha" sorprende il mondo in più di un senso; chi si aspettava nuovamente la centrifuga malevola del disco precedente, si trova ora davanti ad un disco che non teme di usare elementi post-rock, intermezzi ambient, campionamenti di canti sacri in barba alle convenzioni del genere e al purismo. Passano quindi svariati anni durante i quali l'artista rimane impegnato nella sua attività con i Marduk, e molti incominciano a pensare che l'esperienza dei Funeral Mist sia giunta al termine; ma ecco che dal nulla viene annunciato nel 2018 l'album "Hekatomb", per molti versi una sintesi di quanto fatto fino ad allora e l'album più completo della band. Sorprende quindi la pubblicazione così repentina di questo nuovo album, ennesimo aspetto contro tendenza rispetto alla storia del progetto, entità mutante e mutevole pur nella sua fermezza negli elementi salienti che compongono la sua identità.

Twilight of the Flesh

"Twilight of the Flesh" apre le porte del tempio con un suono distorto in loop accompagnato da canti gregoriani e tuoni in lontananza, stabilendo un'atmosfera sacrale non certo inedita per la band, potenziata poi da una marcia di batteria sottolineata da canti accorati e passaggi cadenzati in cui intervengono malinconie fredde e giri di basso. Ecco che rintocchi di campana dal gusto gotico annunciano la voce rauca di Arioch, che si manifesta con visioni di decadenza e corruzione intrinseche alla sua nera spiritualità, in occasione di questo disco ancora più focalizzata sulla celebrazione della mortalità come realtà suprema. Le vene della divinità si nutrono di fumo proveniente dal fuoco più basso, e grandi uccelli segnano mappe sulla sua pelle mentre la sua ferita si apre come un fiore, pronta a ricevere il veleno. I canti gregoriani e il drumming controllato si manifestano nuovamente, generando una cesura narrativa che si consuma in un breve silenzio prima di un'esplosione di doppia cassa e dissonanze molto familiari per lo stile del Nostro. La musica accompagna così con forza l'evolvere dello scenario tematico: i cieli sono scettro e corona degli dei, ma noi siamo non benedetti, il sangue del sole, ma condannati a portare l'alba nel crepuscolo della carne. Il fanatismo intransigente alimenta chitarre e batterie in una furia onirica che spazza via tutto, scolpita dai colpi ritmici e dai vortici di chitarra. Il desiderio e la pigrizia si mischiano all'avarizia, mentre gioiamo della nostra stessa sconfitta con un orgoglio inedito nel percorso dell'invidia, ma quello di cui abbiamo bisogno è di un po' di furia. La musica si mantiene concitata in uno degli episodi più in linea con il passato della band e con l'estetica sonora veloce e caotica dello stile svedese, definito da qualcuno con il termine spesso dispregiativo norsecore; l'ascoltatore viene investito da una strumentazione che come un fiume in piena spazza via tutto. Ci viene chiesto se ci piegheremo tra coloro che stanno già piegati, se venderemo i nostri vestiti per comprare una spada (chiaro riferimento all'esortazione di Gesù a dedicarsi alla missione apostolica contenuto nei versetti Luca 9,3; 10,4-8), e noi ci chiediamo per quanto tempo dovremo rimanere qui, non benedetti nel crepuscolo della carne. Le fredde antimelodie black metal sconvolgono l'etere con una veemenza orchestrale che raggiunge punte epiche, in un'atmosfera nichilista, ma trionfante. Ci si chiede come possiamo innalzare altari fondati sul nostro stesso sangue, tra i templi di un dio straniero (una tematica questa da sempre presente in certo black metal, ovvero l'attacco contro il cristianesimo come qualcosa di alieno alla cultura europea legata a radici pagane), e come può essere sentito il nostro ruggito nella sua casa, essendo il ruggito di un topo. Come possiamo rimanere in piedi con una fede fatta per strisciare, un credo destinato al fallimento, condannati a inginocchiarci in eterno davanti ai posseduti. Forse è solo un test. Nel mentre la musica va a consumarsi tornando ai toni cadenzati iniziali, fornendo un'ultima marcia rituale dove viene ripresa l'immagine della divinità violata: i suoi occhi sono parole fatte di una luce non espressa, un latte nero cola dal suo mento mentre viene spogliata e trascinata all'aperto in modo che tutti possano vedere la vittoria del veleno. I canti gregoriani accentuano la spiritualità nera che crea una coda sacrale che avanza fino alla chiusura segnata da distorsioni che si disperdono nell'etere. Notiamo qui una certa natura più diretta anche nei testi, dove la classica inversione dei concetti cristiani si fa meno enigmatica e il messaggio finale si realizza chiaramente nella sua avversione al cristianesimo come qualcosa di alieno e debole che ha corrotto la civiltà occidentale con le sue false promesse di redenzione e la sua esaltazione della debolezza e della remissività, configurando suoni e testi in una chiave inconfondibilmente black metal.

Apokalyptikon

"Apokalyptikon" mette da subito in gioco una costruzione inusuale che ci porta sui territori più sperimentali del progetto dove soluzioni post-metal vengono applicate alla materia del metallo nero creando qualcosa allo stesso tempo nuovo, ma familiare. Ecco quindi una serie di bordate squillanti di chitarra e di snare serpeggianti creano un suono nervoso che evoca scosse improvvise; ecco che all'improvviso esso si fa decisamente più concitato e vorticante, mentre Arioch s'introduce con un tono declamatorio perfetto per la sua nera lezione dove adotta uno stile metaforico in linea con le inversioni del messaggio cristiano che da sempre caratterizzano il progetto. Egli richiede l'attenzione dei cieli, e anche della terra, dichiarandosi dotato della visione di un dio, della forza di una montagna e della volontà di un'inondazione. Le lune temono la sua ombra e i soli invidiano il suo splendore, si tratta del grande cambiamento, della gran trasformazione delle sfere, la prima luce dell'ultimo giorno. Le doppie casse martellanti e le sferzate di chitarra danno perfetto supporto sonoro alle parole, invocando una folle esaltazione incorniciata da alcuni fraseggi dal tipico gusto black metal, freddi e distorti, in un dinamismo movimentato. I cieli lo osservano mentre prende fuoco, e la terra vede le fiamme della sua gola, segno del suo dominio sulle braci antiche, le ghiandole fatte di roccia liquida, e gli abissi del mondo; egli è il velo bruciante della fine dei tempi, la torcia sfavillante dell'ultima alba, la prima fiamma dell'ultima pira, l'inizio dell'età del fuoco. L'assalto si mantiene costante e serrato, cesellato da alcune cesure ritmiche dove i suoni contratti e squillanti creano raccolte d'energia pronte a esplodere in nuovi torrenti sonori dalla batteria spaccaossa. Il Nostro parlerà davanti ai cieli, e gli uomini sentiranno la sferzata di una frusta, poiché gli è stata concessa la visione di un grande trono, una seduta fatta di roccia e di potenza tirannica pallida fatta di un centinaio d'inverni e di migliaia di grandi funerali. Egli è la corona della distruzione, il dio dorato della vita e della morte, la prima ferita dell'ultima ora. Raggiungiamo un climax dove belle malinconie si uniscono a cascate di colpi incessanti, alternate alla ripresa dei suoni dissonanti e sghembi. Ancora una volta i cieli e la terra ascolteranno le sue parole, il balbettio del suo tuono e il ruggito del suo dubbio, poiché è stato colpito dalla verga della chiarezza e colpito dall'ascia arrugginita di Ocram. Gli inni vanno svanendo mentre cade e sanguina maledendo il fatto che era solo un sogno. La corona si scioglie mentre si inginocchia, e viene ripetuto il fatto che tutto era solo un sogno illusorio. Queste parole coincidono con una cesura sospesa destinata a chiudere all'improvviso la traccia, lasciandoci con un senso di sorpresa. Se infatti buona parte del tetso riconduce alla convinta esaltazione tipica dei Funeral Mist, il tutto viene invertito nel finale, segnando l'inutilità della vanagloria e la consapevolezza della caducità dell'esistenza che passa come un sogno. Si mostra quindi la natura meditativa nella considerazione del rapporto tra la vita, sfuggente e fatta di vanità destinate a passare, e la morte, realtà immanente e totalizzante.

In Here

"In Here" ci accoglie con colpi di martello su metallo campionati, lasciando poi posto a un robusto riffing distorto, unito alla solita doppia cassa distruttiva che scolpisce l'etere con i suoi colpi, in un corso delineato da alcune contrazioni. Questa volta Arioch si manifesta con strilli striduli e sgolati, mostrando tenenze più classiche rispetto al suo solito tenore cavernose e imponente. Egli ci parla di come qui la clessidra non ha ore e le ombre hanno perso la loro lunghezza, di come i vecchi incantesimi sono privi di potere e la mano del credito ha perso la sua forza. Lievi inflessioni vocali offrono ora un registro più vicino alle tipiche declamazioni del Nostro, mentre il suono si mantiene freddo e lanciato. Ci viene chiesto se siamo animali da soma o lupi senza paura, ma in ogni caso la cosa cambia poco, dato che siamo tutti come agnelli qui. Nessun inno è degno di essere recitato, le volte dei cieli sono state riallineate, e tutti gli insegnamenti della terra possono essere contenuti in una mano, e tutti i dogmi del mondo in una perla. Giungono sessioni più cadenzate, ma non meno esaltanti e potenti, cesure che poi vedono la ripresa delle corse veloci e senza freni; qui le mappe non hanno significato e i simboli hanno perso il loro peso, l'aria stessa sanguina, e siamo venuti per vedere la realtà stessa crollare. Dobbiamo ora insegnare all'io come morire, esplodendo in un genocidio implodente. Nessun credo merita di essere rispettato, e l'antica stella polare è stata sostituita. Il registro cambia all'improvviso, improntandosi su ariosità malinconiche di chitarra e contrazioni ritmiche dilatate, lasciando poi il passo a una fredda corsa black metal. Accettiamo la fusione tra l'io e il nulla, perché affinché qualcosa possa rinascere, qualcos'altro deve morire. Un messaggio nichilistico sottolineato dalle malinconie sonore portate avanti dalle melodie di chitarra, sempre più elaborate, e mantenute anche in assoli appassionati e distorti che si stagliano nell'etere durante una pausa controllata. Largo quindi a nuovi vortici serrati in una cavalcata continua che trascina con sé l'ascoltatore, dove viene ricreata la sequenza iniziale della traccia. Qui tutti gli uccelli odorano il decadimento della vita, e la morte ha un gusto diverso, tutte le paure continuano a evolvere finché il mondo riassumerà la sua vera forma. Si crea una coda marciante dove le chitarre altisonanti e i rullanti generano una maestosa sequenza che ci conduce verso a conclusione: presto una moltitudine di demoni si muoveranno liberamente tra noi, ma ci viene detto che non saranno quello che ci era stato promesso. Qui non ci sono fantasmi da cercare, l'immagine di Dio è stata sfigurata, e tutte le prediche della terra possono essere contenute in una mano, tutti i dogmi del mondo in una perla. Tutti gli insegnamenti del mondo vengono espressi con una parola e tutte le dottrine possono essere contenute in un'urna. La parte conclusiva vede il passaggio in una parata militante, dove le parole di Arioch vengono gridate tra colpi ti tamburo e chitarre che vanno a consumarsi lasciando solo la ritmica, la voce, cori esclamanti, e arie dark ambient apocalittiche: ora l'anima viene trascinata via, e non rimane altro che la manna.

Children of the Urn

"Children of the Urn" parte con un canto campionato in svedese, un coro di bambini sottolineato da tamburi funerei. All'improvviso parte anche un suono di chitarra glorioso e distorto, creando una marcia epica e piena di fredda melodia; si giunge così a una cesura sulla quale s'introduce la voce gridata e stridente di Arioch, demone intento nel celebrare ancora una volta la mortalità e la sua sopraffazione della vita. I bambini dell'urna sono cenere dimenticata, e viene intonata una canzone senza vita con un coro altrettanto morto, mentre spettri non vendicati iniziano a tornare come presagi di una rabbia divina. La velocità accelera in una centrifuga di doppia cassa e dissonanze, segnando il passaggio verso la tipica esaltazione enfatica del progetto, e anche le vocals si aprono a momenti declamatori altisonanti. Si muovono figure fatte di furia divina, e il narratore si dichiara come una falena della fame demoniaca, una sete senza tempo per un vino avvelenato, e la tomba si nutre, divorante, inalando sprazzi di vita mentre monumenti di pietra e rame vengono alzati sulla sua colonna vertebrale. Ci viene chiesto di alzarci e cantare con gioia per il suo arrivo. Il torrente black metal si apre a suoni malinconici in un'atmosfera cupa e solenne, mettendo in mostra la natura evocativa e melodica del disco senza mettere da parte la ferocia; parti più cadenzate e sospese accolgono nuovi shriek del cantante, dalla voce maligna e indemoniata. Riecco la ripresa del bel coro campionato, riportandoci sulle coordinate iniziali della traccia dai modi marcianti e imponenti. Si ripresentano anche le accelerazioni, riportandoci sui climi caotici di chiara fattura svedese, sui quali anche la voce di Arioch diventa una scheggia impazzita che si sposta su registri ora più esaltati e da comizio, ora dediti a toni striduli di chiara matrice black. Con buone notizie di ira pia e gospel di orte imminente, un grumo di carne viene benedetto da ematomi e viene evoluto dal fuoco. Il narratore si dichiara l'ombra, il grande bue che siede sui nostri petti, mentre l'ultimo rito cresce d'intensità e l'inondazione non si fermerà mai. Inni di cenere non lasciano niente da bruciare, sono slami morti da tempo che provengono da un fuoco spento da tanto, e la efde oltre la morte si realizza nei bambini dell'urna. E' nei riti di assoluzione senza cuore e dall'alchemica invertita che gli angeli della prostituzione diventeranno demoni casti, poiché il narratore è l'inverno, la neve che acceca, e si dichiara un albero morto, ma solo ciò che non è mai nato può essere davvero considerato libero. Ogni occhi sanguinerà e poi si chiuderà. La musica ritrova percorsi già intrapresa, ritornando sui passi più melodici e mediati, aprendosi poi a falcate ritmiche distruttive dal sapore glorioso e vecchia scuola, sui quali si stagliano riff freddi e melodici e le vocals con riverberi del cantante. Dobbiamo suonare un campanello nelle tenebre, ergendoci e dando il benvenuto a un alba al contrario, celebriamo e cantiamo con gratitudine per i ciechi mentre vengono aperte le mandibole. Le bolle sanguinano, infestate, dopotutto non è per nulla che Giobbe ha paura di Dio, e ci chiediamo se la luce rivelerà che in questo regno non siamo altro che un pensiero. Dobbiamo raccoglierci tra noi, perché sta giungendo, con una nuova luce che viene da un vecchio linguaggio. I suoni epici e accorati vanno a consumarsi in un fraseggio squillante, prima di lanciarsi in un'ultima corsa piena di pathos dove la doppia cassa si fa pestata con qualità quasi punk, scontrandosi con una digressione che si perde nell'etere.

Hooks of Hunger

"Hooks of Hunger" inizia con campionamenti manipolati dal gusto spettrale, introducendo poi un riffing in levare che sale d'intensità fino all'esplosione caotica di doppia cassa e chitarre distorte e dissonanti, base per le grida altisonanti di Arioch; egli introduce un testo dai toni minacciosi e metaforici, parlando della natura della dannazione e del rapporto con la figura demoniaca come un contrappasso per le nostre illusioni e ipocrisie. Coloro che hanno occhi per vedere, lo vedranno, e coloro che hanno orecchie lo udiranno, il gospel del grande sanguinamento che arriverà, la rabbia del non nato e la furia dei morti, poiché abbiamo venduto le loro obbligazioni per degli stralci di falsa illuminazione. Li abbiamo venduti per il piacere, e abbiamo venduto il loro sangue per dei vuoti suoni di plauso, abbiamo venduto l'antica essenza sacra per dei sbuffi di oro senza peso, perché senza peso è la moneta di Satana nel suo calore morto. Il suono si mantiene diretto e massacrante per una traccia tra le più brevi e concise del disco, che riprende i modi di lavori come "Salvation", pur in chiave meno folle e demente, offrendo qualche breve cesura prima di riprendere con la sua cavalcata vorticante dal gusto saldamente black metal. Ci viene chiesto se riconosceremmo il Diavolo se l'Inferno fosse un luogo di conforto, un luogo di soddisfazione, se lo riconosceremmo in delle fiamme prive del rischio della battaglia,e se fosse un letto per il placido riposo. Sapremmo chi incolpare se l'Inferno fosse una palla di carne tenuta insieme da uncini di carne? Le domande vengono poste con la stessa veemenza compulsiva della musica in un fiume in piena che travolge l'ascoltatore con tendenze quasi orchestrali nelle loro dissonanze furiose. Intervengono anche fredde melodie in sottofondo, che creano sprazzi più evocativi prima della ripresa delle cacofonie ossessive dal gusto orthodox. Coloro che hanno occhi vedranno, e coloro che hanno sangue, sanguineranno, perché abbiamo venduto venduto le nostre vene per dei spogli canti di celebrazione, e tutto ciò che abbiamo dovrà essere ripagato di nuovo. Arioch assume toni ancora più demoniaci, segnando un'intensità tematica e sonora sempre più crescente e serrata: le nostre cicatrici dovranno essere di nuovo contate, le nostre verità dovranno ergersi e prepararsi alla guerra, tutti i sorrisi saranno misurati e soppesati con la scala dei dolori. Ci viene chiesto se riconosceremmo il Diavolo se l'inferno fosse una cassaforte di atti latenti, se sapremmo chi lodare se l'Inferno fosse una ghirlanda di lussuria strappata dalla grazia con gli uncini della fame. Andiamo a incontrare sessioni ritmate prima dell'esplosione di un'ultima cavalcata da tregenda, tripudio di dissonanze e colpi duri di batteria lanciati tra solenni venti neri, destinata a lasciare il passo a un riff delineato da rullanti mentre si disperde nel nulla chiudendo un episodio veloce e diretto.

Deiform

"Deiform" viene introdotta da effetti oscuri dal gusto cinematico, tra suoni spettrali e passi cadenzati, a cui si aggiungono poi piatti sospesi e bordate improvvise in un passo strisciante che cresce con l'aggiunta di elementi ritmici. Arrivano quindi chitarre notturne e grida rauche da parte di Arioch, in passo controllato e in qualche modo malinconico e pieno di cupa essenza. Il testo sembra esplorare il concetto del peccato originale e della ricerca della conoscenza proibita da parte dell'uomo, evento che nella Bibbia ha portato la morte nelle vite dell'umanità. Nelle mani ancora mortali del narratore, i semi della forma divina sono chiavi terrene per porte celesti, delle accette divine per delle mura senza cancelli, lampade della creazione non più nascoste, gloriose luci del proibito. Toni sonori dissonanti ma lenti proseguono fino a raggiungere climax melodici fatti di noti strazianti e squillanti, configurando una sorta di "ballad nichilista". Dio sapeva che quando è stato mangiato il frutto proibito, gli occhi dei progenitori si sarebbero aperti e sarebbero stati come gli dei ci viene detto, riprendendo non a caso le parole del serpente tentatore, associato nella cristianità con la figura del Diavolo. Doppie case sottolineano i passaggi gridati con potenza dal cantante in uno stile declamatorio che viene sottolineato e cesellato dalle melodie che tornano con forza dominando la traccia. Giungiamo a una cesura sospesa che riprende i toni iniziali, riportandoci poi alle sequenze precedenti in una ripetizione quasi ossessiva che rende il ritornello la parte centrale della traccia. La lentezza è quasi doom, mostrando un lato diverso dei Funeral Mist dove al posto delle costanti accelerazioni si da spazio ad atmosfere dalla nera melodia e dai passi soppesati, consegnandoci uno degli episodi più caratteristici dell'essenza ed estetica dell'album. Sulla lingua per ora inoffensiva si troveranno i segreti dell'universo, abissi non celebrati che formano e riformano, una luce non celebrata che presidia l'occhio della tempesta. Quella luce sostituirà i nostri polmoni e i nostri salmi saranno come soli. Con il peccato originale, Dio sapeva che saremmo diventati come dei, e che avremmo conosciuto il bene e il male ci viene ricordato in una breve riproposizione del ritornello. Ora invece prende piede una base dal fraseggio melodico sul quale il cantato ripete parole sacre in latino in un curioso tono grottesco a metà tra il canto tibetano e un rito tribale, creando un mantra estraniante che si ripete tra suoni quasi post-rock, piatti cadenzati e belle malinconie di chitarra. Si ripresenta il climax ormai familiare, sempre straziante e pieno di pathos, mentre le grida di Arioch riprendono il ritornello portante in un'alternanza che nel finale si consuma con colpi di tamburo e cimbali sospesi che si concludono con un distante effetto manipolato e suoni di vento.

Into Ashes

"Into Ashes" è il brano che chiude il disco, e inizia riprendendo il suo di vento della traccia precedente e portandola avanti insieme a fraseggi delicati fino all'esplosione di doppia cassa e riff distorti che ci riporta su sane coordinate black metal che investono l'ascoltatore prima di essere delineate da cesure distorte che ne alternano l'attacco martellante. Arioch si aggiunge con un cantato umano ed esaltato, foriero ancora una volta di nere spiritualità dove la distruzione viene celebrata in nome della rinascita dalle ceneri, portando a compimento anche tematico il disco nel suo messaggio legato alla morte e alla religione. Grumi senza forma di templi ridotti a pire, corone deformi delle nazioni buttate nel fuoco, stordite e storpiate dalla canzone avvelenata delle masse, con lacrime di gioia vedremo tutto questo cadere nell'abisso. Una nuova canzone sorgerà dallo sporco, che risveglierà i fuochi della rinascita. Gli altari degli dei ridotti a ratti crolleranno, lasciando echi spogli di quando il guidare è diventato fare il pastore, vedremo con occhi luminosi la progenie deforme di una popolazione condannate alla follia, sprofondare nelle tenebre. Ma sorgerà una nuova canzone, dal fango che riporterà la potenza del sangue. Gli attacchi di doppia cassa e i riff distorti proseguono nella loro nera sinfonia offrendo un suono che non sfigurerebbe in qualsiasi disco di black metal svedese anni '90, stabilendo le chiari radici con il genere e usando i suoi elementi in tutta la loro gloriosa potenza. Dissonanze e tratti inumani di ritmica creano un'atmosfera esaltata sulla quale Arioch staglia le sue grida. Ci sono delle pietre dalla falsa luminosità che ci faranno sprofondare ancora di più nel sonno, per paura che queste spirali di vergogna possano trasformarsi in fame, pietre con un falso peso per stridere contro i nostri denti fino a ridurli in sottile polvere, in caso che gli anelli d'odio possano diventare all'improvviso sete di sangue. La furia musicale ci trascina con se come un nero fiume in piena ripresentando modi e parole già incontrate, mentre il cantato incontra toni più rauchi nei suoi ritornelli severi. Il tripudio sonoro crea una sequenza orchestrale dove la confusione regna in una caccia selvaggia che da forma sonora alle immagini di distruzione nichilista del testo. Non c'è respiro o scampo, fraseggi trionfali si aggiungono alla base al rumore bianco, il drumming è una macchina spaccaossa che non consoce quiete e che sopraffa ogni cosa; non ci resta che seguire il corso ammutoliti fino all'improvvisa cesura verso il finale, dove chitarre sospese e grida altisonanti si consumano in versi grevi e looping ripetuti in un'ossessione che si chiude in corso d'opera con un suono secco di campana. Regna ora solo il silenzio che segue la distruzione, chiudendo senza fronzoli la traccia e l'album.

Conclusioni

Deiform" è un'opera che s'inserisce nel canone dei Funeral Mist e, allo stesso tempo, offre qualcosa di leggermente diverso rispetto al passato, in un nuovo capitolo dove gli elementi più melodici ed evocativi di certo black metal vecchia scuola vengono inseriti nello stile unico e caotico della band. In realtà è sempre difficile dire cosa esattamente cambia e cosa rimane uguale con l'opera di Arioch, molti dei modi e soluzioni che incontriamo sono comparse in qualche modo nei dischi precedenti, ma sottili accorgimenti a livello di tecnica e di produzione cambiano le carte in tavola quel poco che basta per non ripetersi del tutto, senza però nemmeno diventare altro. E' questa certamente la grande forza dei Funeral Mist, la coerenza estetica, tematica, sonora che dai tempi di "Devilry" pervade il progetto, guidato dalla visione chiara di Rosten e dalle sue capacità sia come musicista, sia come produttore. Proprio però riguardo alla produzione, ci sono alcune scelte non del tutto riuscite che penalizzano in alcune parti la batteria rendendola troppo secca e meccanica, soprattutto a livello di suono dei cimbali che risultano più adatti a un disco elettronico che a un disco black metal evocativo come questo, e in altri frangenti il suono di chitarra risulta in secondo piano e meno presente nel mix rispetto al passato. Di sicuro non scelte casuali o dovute a errori, dato che come detto il Nostro ha sempre dimostrato di saper usare la produzione e i mezzi di studio per ottenere qualcosa di curato fino all'ultimo dettaglio; è probabile che la volontà di creare qualcosa di più legato al mood e alle melodie abbia dettato tali scelte. Detto questo, il disco offre comunque un'impeccabile struttura compositiva dove uno stile all'apparenza più minimale nasconde gli stessi livelli di multistrati del passato, solo gestiti e organizzati in maniera diversa. Il disco presenta nel suo uso di campionamenti, cori, alcune strutture "esterne" similitudini con gli esperimenti del passato in dischi come "Maranatha", ma con uno spirito diverso che potrebbe essere spiegato con la visione di un leone invecchiato che ci guarda con occhi feroci, ma più stanchi e contemplativi, che ci ricordano che non ha più l'irruenza del passato, ma potrebbe farci a pezzi ancora adesso. Allo stesso modo tra melodie e atmosfere si muovono sferzate che per quanto temperate dalle scelte di produzione, continuano a offrire uno degli stili più caotici e violenti del black metal moderno. Anche i testi si affidano meno a facili blasfemie, pur non perdendo la loro carica dissacrante verso la cristianità e i concetti umanitari, affiora qui spesso una contemplazione sulla vanità dell'esistenza e sulla morte livellatrice che è la realtà finale dell'esistenza. Forse il tutto è in linea con un Rosten non più alla fine dei suoi vent'anni come in "Salvation" o nei suoi trenta come nel disco prima citato, ma a metà dei suoi quaranta e con una maturità espressa in alcune interviste recenti dove si è espresso con occhi più critici rispetto all'esaltazione di molte sue dichiarazioni del passato. Non però un cambio di rotta, tutti gli elementi del pensiero di Arioch, da sempre personaggio fermamente convinto nella sua visione elitaria e nichilista, sono mantenuti, e questo si riflette anche nell'essenza della sua musica. Non quindi l'episodio più riuscito nella discografia della band, ma di sicuro uno dei momenti migliori in campo black metal nel 2021 e una grande sorpresa che ha concluso l'anno con un'opera che richiede vari ascolti per essere del tutto assimilata e per percepire vari accorgimenti che sfuggono all'ascolto disattento.

1) Twilight of the Flesh
2) Apokalyptikon
3) In Here
4) Children of the Urn
5) Hooks of Hunger
6) Deiform
7) Into Ashes
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