EXODUS
The Atrocity Exhibition: Exhibit A
2007 - Nuclear Blast Records
DAVIDE CILLO
18/12/2017
Introduzione Recensione
Se dovessimo pensare a quelle band rappresentative di un intero genere e con un sound perfettamente identificabile in esso, potremmo cominciare così: "Pink Floyd Progressive Rock, Sex Pistols Punk Rock, Exodus Thrash Metal." Questi ultimi, come avrete probabilmente intuito, sono i protagonisti della recensione di oggi. I californiani Exodus si formano nel 1980 nella città di San Francisco, il loro primo record è una demo del 1982 intitolata appunto "1982 Demo." Un errore comune commesso dagli amanti del genere è quello di pensare che il leader della band, il grande chitarrista e compositore Gary Holt, fosse presente sin dalla nascita della band all'interno della line-up. La prima formazione a dire il vero comprendeva Tim Agnello e il futuro solista dei Metallica Kirk Hammett alle due chitarre, il bassista Geoff Andrews e il batterista Tom Hunting. E' dopo poco che entrò Gary Holt, prendendo il posto di Agnello ed essendo quindi presente sin dalla prima demo registrata dalla band. La cosa davvero interessante è che la band, non avendo alle origini un cantante, vide il batterista Tom Hunting cimentarsi dietro al microfono. Del resto, quando si inizia a suonare tutti cercano di capire a cosa si vogliono dedicare. Ad ogni modo, in breve tempo il grande vocalist Paul Baloff (R.I.P.) si aggregò: la sua voce feroce e aggressiva, oltre che carismatica, era perfetta per il sound della band e ben presto il cantante divenne per la sua attitudine e il suo approccio sul palco un punto di riferimento. Così, dopo qualche demo, si arrivò al primo album della band, un album destinato a rimanere nella storia: parliamo ovviamente di "Bonded By Blood" dell'85, lavoro in cui Rick Hunolt prese il posto di Hammett destinato ai Metallica, mentre McKillop aveva già da due anni preso il posto di Andrews al basso. Ad ogni modo, con il loro stile graffiante e divertente sullo stage, con le loro liriche basate su metal, violenza e testi goliardici, talvolta ispirati da film di Serie B, ma soprattutto con le ritmiche chitarristiche devastanti, gli Exodus diventarono lavoro dopo lavoro un punto di riferimento per il Thrash Metal e in generale per la cosiddetta "Bay Area", ovvero la zona costiera californiana che proprio in quanto a Thrash ha visto nascere decine di band: Megadeth, Metallica, Slayer, Testament e Forbidden, solo per elencarne altre cinque, ma ne potremmo elencare all'infinito e sarebbero tutte quante estremamente valide e meritevoli di approfondimento. La storia ci racconta che in seguito allo straordinario "Bonded By Blood" il cantante Baloff lasciò spazio all'altrettanto straordinario Steve Souza, qui stiamo parlando del gotha dei cantanti metal signori. Ad ogni modo, i successivi "Pleasures of the Flesh" (1987), "Fabulous Disaster" (1989) e "Impact is Imminent" (1990) furono strepitosi, e gli Exodus divennero una delle cosiddette "underground band" più amate. Molti reclamavano, e reclamano tutt'ora, un posto nei Big 4 del Thrash per loro. Io sono favorevole, apriamo una petizione. Proseguendo con la storia, e considerando che nel frattempo c'era stato qualche cambio di formazione con Gary Holt che era rimasto comunque sempre al timone della band, il successivo album "Force of Habit" del '92 in seguito a cui gli Exodus si sciolsero, in un momento in cui il Thrash Metal trovava difficoltà ad essere compreso a causa dell'avvento di più orecchiabili generi come poteva essere per l'ondata Grunge. Simbolicamente, gli Exodus smettono di suonare ed entrano purtroppo nella spirale della droga proprio nel periodo in cui lo stesso Thrash Metal andava scomparendo, con le band più rappresentative del genere che non di rado adottavano un sound più orecchiabile o talvolta più estremo (o entrambe le cose in successione, come poteva essere per il percorso artistico dei Testament negli anni '90). Vi abbiamo parlato del magnifico ritorno discografico degli Exodus con lo strabiliante album "Tempo of the Damned" del 2003, come vi abbiamo del resto parlato del successivo "Shovel Headed Kill Machine" del 2005, in un momento dove non erano mancati cambi di formazione anche importanti, primo fra tutti l'ingresso del vocalist Rob Dukes al posto di Souza. Su Gary Holt non chiedetevelo neanche: sempre è rimasto e sempre rimarrà alla guida della band. Oggi con tanta curiosità andiamo ad analizzare "The Atrocity Exhibition: Exhibit A", album degli Exodus del 2007. Oltre Gary e Rob abbiamo Lee Altus, straordinario chitarrista precedentemente agli Heathen, Jack Gibson al basso che era già entrato in "Tempo of the Damned" e Tom Hunting alla batteria, che era stato sostituito da Bostaph in "Shovel Headed Kill Machine". Casa discografica è sempre la Nuclear Blast Records, il cui sodalizio con la band era partito nel 2004. Andiamo ad immergerci nell'ascolto, siamo molto incuriositi da questo lavoro!
Call to Arms
L'album si apre con una breve introduzione strumentale di un minuto circa intitolata "Call to Arms", brano in cui le percussioni scandiscono ritmicamente una marcia militare. La chitarra in clean ben presto subentra per brevissimi istanti sul ritmo batteristico, colorando così il "groove" e introducendo un violento e distorto attacco di chitarra: è il momento di un grande classico delle intro, cioè una potentissima serie di power chord ruggenti, power chord che intendono annunciarci l'arrivo di un massacro. Non manca tuttavia una semplice melodia di chitarra solista, una melodia piuttosto rapida e incalzante che accresce ulteriormente l'aspettativa dell'ascoltatore: gli Exodus ci urlano che la distruzione è imminente. Ottima comunque la produzione in questa nostra breve prima sensazione d'ascolto, la traccia è resa bene e riesce perfettamente nel suo intento.
Riot Act
Si scende sul campo di battaglia con "Riot Act" (Atto di rivolta), traccia letteralmente incollata all'introduzione, cosa piacevole. Il riff è di quelli di tempo medio, e la marcia militaresca prosegue dal punto di vista ritmico anche in questo frangente: Tom Hunting infatti decide di supportare il riff con secchi e ripetuti colpi di rullante e con una traccia batteristica devastante. Non ci convince tuttavia il proseguimento del riff, una serie di slide alquanto "scontati" e prevedibili, elementi che davvero non danno quel qualcosa in più a ciò che ci si aspettava. La voce di Rob Dukes è qui ancora più "moderna" rispetto alle precedenti uscite, gli scream non si allineano bene con la storia Old School della band, ma non siamo qui per giudicare questo bensì il valore della musica. Le riflessioni, come sempre, saranno lasciate alla parte conclusiva della recensione. La serie di slide si ripete a più frangenti, introducendo un violento duetto in assolo di chitarra, duetto che dal punto di vista del sound sembra a tratti un po' troppo artificioso, specie nella prima metà. Dal punto di vista compositivo è tuttavia godibile e piacevole, ben ispirato, sebbene meno convincente sia, ancora una volta, il riff post-assolo, che altro non è che il ripresentarsi di quei power chord e slide. Il brano è breve e molto quadrato, di tre minuti circa, e terminato questo frangente ritroviamo Rob Dukes con i suoi feroci scream a chiudere, in maniera secca, il brano. Ottimo ad ogni modo l'apporto della batteria di Tom Hunting, potente e martellante in ogni singolo frangente. Le liriche incitano l'ascoltatore a rivoltarsi contro il governo, suggerendogli di compiere atti di distruzione anche a danno dei monumenti. Ciò che si desidera più di ogni altra cosa al mondo è un ritorno all'anarchia, un colpo di stato, colpo di stato che avverrebbe sfidando qualunque cosa che viene considerata come imposta dall'altro, inclusa la religione. Il potere della rivoluzione, secondo quanto sostiene la band in questa traccia, avviene tramite la distruzione, e un ritorno al paganesimo e ad una tecnologia primitiva vengono in questo brano visti di buon grado. Non è certo la prima volta che nella musica si pone a confronto la vita delle scimmie o degli uomini primitivi con quella attuale degli uomini, sostenendo che in questo momento si hanno meno soddisfazioni e più difficoltà. Tale linea di pensiero è appunto evidente anche nel corso di questo brano. Poche parole, è tempo per noi di dedicarci alla terza traccia, che presenterà caratteristiche differenti.
Funeral Hymn
Il terzo brano si intitola "Funeral Hymn" (Inno funebre), ed è un più completo episodio di 8 minuti di ascolto dove la band cerca di porre in primo piano le sue doti strumentali. Nel brano la band sembra rappresentare un'iraconda entità divina, entità che se messa nelle condizioni giuste (o sbagliate, dipende dai punti di vista!) sarebbe pronta a scatenare la sua furia sul mondo. Nella traccia gli Exodus ci raccontano a più riprese di "un giorno decisivo", "un giorno della resa dei conti", un po' come il giorno del giudizio presente nell'Apocalisse. La band tuttavia lascia ampio spazio all'interpretazione durante questo brano, ciò che però è certo è che questa misteriosa e iraconda entità affida le sue sentenze ad uno spietato mietitore, che si aggira per la Terra falciando la vita dei più sfortunati. Una divinità mortuaria, tenebrosa e spietata, in grado di soffiare via il respiro della vita a coloro che ritiene malvagi e non in grado di vivere la loro vita secondo le aspettative. Torniamo però alla canzone, perché questo è un brano costruito e che parte con una lunga introduzione incisiva e musicale. Ruggente ancora una volta la batteria di Tom Hunting, con i suoi ritmi prima riflessivi, poi violenti e forsennati. Ciò avviene dopo l'introduzione distorta, potente e mai veloce, dove il vocalist Rob Dukes è lontano dal suo microfono. E' quando il vocalist sta per iniziare a cantare infatti che il brano accelera bruscamente, scagliando le sue urla su un riff molto classico e piuttosto semplice. Rispetto a quelle che potevano essere le prime sensazioni, siamo dinanzi ad un brano estremamente old school, che però riesce a convincere solo in parte con i suoi riff che danno ancora una volta un po' troppo di già sentito. La maggiore qualità di questo brano e in generale di questo album sembra consistere almeno per il momento sulla base ritmica, puntuale e aggressiva, e al lavoro di Jack Gibson e Tom Hunting non si può davvero rimproverare nulla. Ancora una volta la traccia si incentra molto su power chord e slide di chitarra, e la voce di Rob si fa in alcuni frangenti gutturale e profonda. Bellissime, finalmente, le melodie e le combinazioni in assolo fra i due chitarristi a metà brano. La band alterna con successo velocità e riflessione con efficacia, cimentandosi in lunghi assoli principalmente in pentatonica e facendo scatenare la nostra testa. Peccato davvero che l'intero brano non sia all'altezza di questo frangente a metà strada. Chiudendosi con il ritorno alla strofa di Rob, questo terzo resta comunque un episodio convincente e piacevole.
Children of a Worthless God
La quarta è un'altra traccia molto costruita, e si intitola "Children of a Worthless God" (Figli di un Dio indegno). Non aspettatevi dunque nulla di particolarmente originale dal punto di vista lirico. Il brano, come avrete già probabilmente intuito, parla di Dio, un Dio descritto dalla band come malvagio e pieno d'odio. Questa divinità è per gli Exodus una divinità manipolatrice, che adesca i bambini e piega i più deboli. Dio non è altro che un demagogo, un fanatico tiranno ed un falso profeta ribollente di menzogne. La sua specialità è lo stupro di menti innocenti, la propagazione della violenza, e la diffusione di bugie attraverso in cui pochi riescono a vedere. Coloro che ci riescono, provano paura e timore. La band, nella seconda parte della canzone, attacca la religione islamica, svelando l'ideologia del brano, e definendo questa come violenta e criminosa, e coloro che non seguono ciecamente Dio vengono ingiustamente uccisi come cani. "Siete tutti figli di un Dio indegno", questo il mantra del brano che non può che innalzarsi durante l'atto conclusivo. Tornando però adesso alla parte strumentale di questa traccia, questa inizia con un riff introduttivo spettacolare e carismatico che ricorda quelli di "Tempo of the Damned". L'introduzione si fa ben presto malinconica e grigia, facendo comprendere da subito all'ascoltatore quanto le tematiche affrontate vengano ritenute serie e degne di attenzione. Ben presto tutto lascia spazio allo sferzante riff di chitarra e all'urlata voce di Rob. La ritmica principale si basa su una serie di scariche di alternate picking, mentre la parte vocale si alterna fra feroci scream e parti più musicali e rauche. Le ritmiche, come del resto le basi ritmiche, sono valide, la produzione in alcuni frangenti sembra sempre un po' troppo artificiosa, ma i duetti di assolo restano magnetici e carismatici. Ancora una volta nei duetti di chitarra la band alterna parti rapide ad altre più riflessive, e ancora una volta questa è una soluzione vincente. Non mancano i punti in comune con la precedente terza traccia "Funeral Hymn", anch'essa quadrata e compatta ma ricca di virtuosismi e spunti nella parte centrale. Dovendo tirare su un bilancio, questo è il brano con il ritornello più memorabile e probabilmente il più riuscito fra quelli da noi ascoltati fino a questo momento, e la stessa alternanza fra scream feroci e urlati e il più melodico ritornello è positiva.
As It Was, as It Soon Shall Be
Eccoci al quinto "As It Was, As It Soon Shall Be" (Com'era, presto sarà). Questo è un brano più secco e meno costruito dei precedenti, sebbene mantenga comunque una durata consistente nei suoi 5 minuti di ascolto. In questo brano gli Exodus fanno una riflessione sul passato, mettendone in primo piano le negatività. Deserti, esplosioni atomiche, guerre e distruzione avrebbero dovuto insegnarci qualcosa, invece l'umanità è ancora schiava della sua violenza e stupidità. "E' necessario trarre insegnamento del passato per capire come vivere il presente", questa la frase della band, che invita a comprendere che, qualora continuassimo così, andremmo probabilmente incontro ad una 3° Guerra Mondiale. La band si sofferma anche sulla guerra per il petrolio, sul valore del denaro anteposto a quello della vita, sull'importanza dell'ambiente. Nella parte conclusiva gli Exodus dicono un secco "no" alle armi nucleari, invitando allo smantellamento di tutti i paesi e alla pace. Liriche interessanti e costruttive, che personalmente apprezzo molto più delle precedenti. La canzone si apre con un ottimo assolo batteristico di Tom Hunting, proponendo successivamente un riff cupo, lento e cadenzato, non particolarmente convincente e alquanto "plasticoso". Intelligente l'interpretazione vocale di Rob che limita gli scream cercando di colorare e valorizzare una melodia altrimenti piatta. Anche il ritornello del brano è, purtroppo, poco ispirato, limitandosi ad una serie di power chord banali e ad una musicalità molto poco convincente. Assistiamo subito ad un assolo fra le due strofe, assolo che spezza un po' quel piattume che sarebbe altrimenti emerso. Poche, per non dire nessuna, le variazioni fino alla seconda metà della traccia, dove ritorna il momento di chitarra solista, convincente e che cerca di risollevare comunque senza troppo successo le negative sorti del brano. Positivo comunque il lavoro, ancora una volta, della batteria alla doppia cassa. Dovendo dire le cose come stanno, cosa in cui fra l'altro consiste il nostro lavoro, questo è il brano senza dubbio meno riuscito e meno convincente di questa prima metà dell'album, e non possiamo che augurarci che gli Exodus si rialzino nella seconda parte di questo ascolto. Peccato, perché le liriche meritavano una bella musica.
The Atrocity Exhibition
Giungiamo alla lunga sesta canzone di questo album, che è fra l'altro la title track del full-length protagonista della recensione odierna. Eccoci dunque a "The Atrocity Exhibition" (La mostra delle atrocità). La canzone parla con pessimismo e nichilismo della vita umana e del percorso morale, esistenziale ed ultra-terreno della nostra specie. Per la band, la possibilità di una vita eterna in cielo è del tutto falsa e pertanto da escludere, e la morte non è altro che un sentiero da percorrere. Non vi è via di scampo, è segnato nel nostro destino dal momento in cui nasciamo. Come avrete intuito, si tratta di un brano fortemente anti-teistico, rivolgendosi con forza contro la religione e il modo in cui influenza l'ideologia e l'esistenza umana. Dio è un attore, ed in quanto tale recita falsità, e l'unica testimonianza che possediamo della vita è, sempre secondo la band, la natura: natura dunque destinata a morire, proprio come noi. Nel corso dei secoli, lo svolgere della storia racconta che il Cristianesimo non è composto da altro che violenza e tirannia, una catastrofe che non ha fatto altro che portare male e distruzione. Nella parte conclusiva del brano gli Exodus parlano del fatto che non ci sia alcun peccato da espiare, ma solo un grande nero eterno che è il nostro decesso. Venendo alla musica, il brano si introduce con una ritmica lenta e potente, intervallata da secchi e esplosivi stacchi batteristi di Hunting. Tanto semplice l'introduzione, quando basilare lo svolgimento: la strofa con i suoi continui slide e power chord sfiora il livello dell'irritabilità. La feroce voce di Rob e le martellanti ritmiche di batteria e basso, purtroppo, non riescono a valorizzare un'ispirazione chitarristica non valida, e nella prima parte d'ascolto il brano si limita a riproporre con continuità un riff certamente non memorabile. Se le liriche, per quanto discutibili, sono una questione soggettiva e dunque soggetta a valutazione sino a un certo punto, la parte musicale certamente non si mostra da Exodus. Alla fine del terzo minuto d'ascolto i nostri si cimentano in una parte solistica costruita e impegnata, nella cui parte finale emergono le influenze di band come i Metallica specie quelli delle loro composizioni strumentali. Questa è, senza dubbio alcuno, la parte più piacevole della traccia, sebbene sia paradossalmente quella che possiamo definire "meno Exodus". Alla metà del brano la band propone un riff con un groove profondo e cadenzato, riff ben presto coadiuvato dalla gutturale voce di Rob. La band successivamente si impegna in una solista squillante e rapida, frangente abbastanza apprezzabile, che una volta concluso lascia spazio ad una serie di riff caratterizzati da una sconcertante banalità. Qualcosa più alla portata di un ragazzo al primo sano approccio con il Thrash Metal che di una leggenda del riffing come Gary Holt. Dal suo inizio alla sua conclusione, purtroppo, una title track mediocre.
Iconoclasm
Ed eccoci al settimo capitolo, intitolato "Iconoclasm" (Iconoclastia). Come avrete capito già dal titolo, gli Exodus proseguono a trattare argomenti di tipo religioso. La band, nel corso di questa canzone, descrive Dio come una creazione dell'uomo, creazione che si rivolge contro l'uomo stesso, tradito dunque dalla sua stessa invenzione. Così, come il pastore macella l'agnello, siamo noi le pecore ingannate e consumate dalla fede. Dunque, una volta in più, gli Exodus sfoggiano il loro anti-teismo, con le liriche che proseguono con le seguenti parole: Cristo è lo stesso di ieri, lo stesso di oggi e lo stesso che sarà domani, una menzogna. I cieli sono stati architettati per dare al popolo un narcotico desiderio di dipendenza, e non sono altro che uno strumento per tenere chiunque in pugno. Nella seconda parte del brano, Gary Holt e compagni sostengono che la fede in Dio non è altro che un frutto dell'ignoranza e che, così come i lupi proteggono il gregge massacrando i deboli e i malati, i deboli troveranno dolore se andranno in cerca della salvezza. Non c'è che dire, gli statunitensi ci vanno ancora una volta giù pesanti e ancora una volta mostrano le loro ideologie su temi teologici. Certamente, "nell'universo metallaro" i thrashers della Bay Area si ritroveranno in buona compagnia. Bando alle ciance però, è tempo di passare a descrivere chitarre e distorsioni. Il brano si apre con un devastante stacco batteristico di Hunting e un riff profondo e diretto. L'impatto delle percussioni è davvero devastante mentre le ritmiche, se cominciano in maniera più convincente rispetto ai brani precedenti, si perdono durante le loro evoluzioni. Il brano mostra ben presto i propri limiti, la voce di Rob Dukes è molto "nuova scuola", scelta fra l'altro confermata da mixaggio ed effettistica. Ad ogni modo, per quanto riguarda il sottofondo degli scream del vocalist, cioè la musica, questa si attiene a ritmiche molto costanti e poco varie, senza mai impressionare l'ascolto se non per lo straordinario lavoro di basso e batteria. A convincere poco è l'intero arrangiamento stilistico del brano, sebbene al terzo minuto gli Exodus ci regalino un momento più che apprezzabile con un riff originale e incisivo. Il momento, questo, senza dubbio migliore della traccia. Come negli altri brani, gli assoli si mostrano anche qui ben curati, squillanti e affilati, e il fatto che i brani tirino fuori il proprio meglio nella loro sezione centrale diviene a questo punto una costante dell'album. Il bridge che porta ad una seconda serie di assoli è infatti più che apprezzabile, mentre il ritorno alla mediocre strofa non può che essere infelice: questa "Iconoclasm" in frangenti ottimi e altri altamente rivedibili, è la pura espressione di "alti" e "bassi". E la voce di Rob, ancora una volta, ha un sapore di già sentito.
The Garden of Bleeding
L'ottavo brano si intitola ferocemente "The Garden of Bleeding" (Il giardino del sanguinamento). In questa traccia gli Exodus ci raccontano di un giardino, giardino che proviene direttamente dal regno di Satana. Qui il terreno viene fecondato da cadaveri, la terra è seminata dalla morte e si scopre il vero significato della parola "horror". In questo malefico giardino il diavolo in persona aspetta ognuno di noi, per fargli scoprire l'inferno che è nel destino. I violenti scream di Rob Dukes scandiscono che i laghi di fuoco, le ceneri e il fetido odore della morte sono ciò che resterà del nostro pianeta, la Terra. I fiori che sbocceranno dal terreno saranno frutto del male. Beh, quando a breve andremo a parlare della parte strumentale di questo brano, non aspettatevi arpeggi e melodie, ma solo violenza. Nella parte finale della canzone Rob grida narrando di un pianeta mortuario dove i corpi sono impiccati ai rami nello stesso modo in cui l'uva pende dalla vite, il vento che soffia non è altro che urla di sofferenza, e la vita cessa così di esistere. Questo brano, di cinque minuti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare si introduce in maniera piuttosto lenta e con dei riff lenti e costruiti. Se secco è in tal senso il contributo di Tom Hunting, che con i suoi stacchi colora le ritmiche di chitarra con precisione e impatto, il riff non è di quelli impressionanti. Il brano irrompe ben presto in maniera rapida e martellante, incentrandosi però su una serie di power chord come tipicamente accade nel corso di questo full-length. Gli scream di Rob sono feroci e gutturali, il vocalist qui non si cimenta in un cantato tipicamente Thrash Metal, come del resto spesso accade nell'album. Nel corso del brano, la struttura rimane sempre estremamente semplice e basilare, al punto che il ritornello consiste semplicemente in power chord aperti intervallati dagli scream di Rob. Dal punto di vista del mixaggio si sceglie ancora di puntare suoni tendenzialmente moderni, mentre la batteria rimane nel suo sound fedele alla vecchia scuola. "The Garden of Bleeding", infine, si contraddistingue per la mancanza di quei frangenti di chitarra solista che spesso hanno innalzato il livello dei brani, che sarebbe altrimenti stato spesso gravemente insufficiente, di questo disco. In effetti, un po' se ne sente la mancanza.
Bedlam 1-2-3
L'ultimo pezzo si intitola "Bedlam 1-2-3" ed è di durata monumentale per il genere, quindi chiediamo scusa ai nostri lettori se, "inconsuetamente", gli dedicheremo più spazio rispetto ai precedenti. Gli Exodus in questo brano parlano di un'apocalittica epidemia di violenza che investirà il mondo intero. La Terra scenderà nel caos e nella distruzione, scoppieranno ovunque atti di violenza del tutto casuali, e chiunque di noi, ahimé, verrà investito da assordanti frastuoni di distruzione. Ancora una volta, vediamo il protagonismo di una sorta di forza malvagia, di un imminente regno del male, che con gioia celebrerà questo stato di morte e caos. Chiunque, "anche tu stesso", sostiene minacciosamente la band, avvertirà una spinta di adrenalina e un primordiale impulso di uccidere. L'oblio totale, la morte più nera, questo è ciò che è scritto nel destino della nostra razza. Nella parte finale del brano tutto ciò si porta ad un livello più estremo: gente che corre impazzita sbattendo contro gli altri, collisioni esplosive come colpi di cannone, risse del tutto immotivate, cadaveri travolti dalle furiose mandrie di persone. E c'è chi, alle spalle, godrà di questo teatrino, festeggiando il giorno che testimonia l'inizio della fine. Che dire, se queste sono le liriche, sappiate che sono secondarie rispetto alla parte musicale, certamente la principale componente di questa monumentale traccia. Inevitabile dunque dedicargli ampio spazio. La canzone si introduce con un cattivo riff introduttivo in palm muting, dove la corda stoppata diviene grazie al supporto ritmico interpretazione di ferocia e violenza. Ad ogni modo, ci troviamo in un riff tutto sommato abbastanza pacato considerati gli standard dell'album, attenendosi a ritmi piuttosto lenti e riflessivi. Finalmente la parte si mostra coraggiosa e non già sentita, evolvendosi al primo minuto d'ascolto divenendo appunto da "stoppata" a "continua" e musicale, grazie anche ai misteriosi accordi chitarristici. Quando manca poco al secondo minuto il brano esplode in una scarica di barbarica violenza, ruggendo tramite gli scream di Rob in uno dei frangenti più positivi del full, per quanto nuova scuola e deludente per i fan dell'Old School, ma su questo ne parleremo nell'oramai imminente parte conclusiva della recensione. Gli scream di Rob si fanno gutturali e profondi, andando ad avvicinarsi incredibilmente ai nuovi interpreti della scuola fra Groove e Death Metal. Pur non proponendo nulla di nuovo dal punto di vista vocale, comunque, il vocalist riesce nel suo intento di dare impatto e cattiveria alla canzone. E' al quarto minuto che irrompe la prima serie di assoli, con un duetto tecnico e estremamente rapido fra le due chitarre, talvolta addirittura troppo monotono e poco musicale nonostante il mio generale apprezzamento verso questo genere di soluzioni. Superati i cinque minuti la traccia riprende con il suo muro sonoro, un muro sonoro che strizza fortemente l'occhio al metal estremo e rende il brano godibile specialmente a volume molto alto. Come del resto dovrebbe essere. Straordinario lo stacco batteristico di Tom Hunting alle porte del settimo minuto, che porta la traccia ad una nuova evoluzione. Una evoluzione melodica e armoniosa, macabra e che minaccia morte, con gli sweep picking chitarristici che, squillanti, battezzano un riff secco e roccioso. Questo brano, per chi non l'avesse intuito, intende essere "l'opera magna" del full-length, un'opera dove il culmine della violenza e della rabbia supera ogni limite. E, inoltre, questa è la canzone che riesce nell'arduo compito di risollevare almeno parzialmente le sorti del full. E' curiosa l'alternanza fra nuova scuola e vecchia scuola, talvolta ambigua ma comunque di riuscita commerciale. Gli Exodus, anche con il pesantissimo riff al nono minuto e mezzo di ascolto, continua a strizzare l'occhio simultaneamente a band moderne come i Lamb of God e ad altre del Thrash/Death Metal storico, come ad esempio i grandiosi Demolition Hammer. Nella parte conclusiva la band addirittura introduce l'utilizzo di cori di voce, novità assoluta considerando le caratteristiche violente e cupe del full, e l'ultima parte vede l'assoluto protagonismo delle squillanti chitarre, che si cimentano in una velocissima e vorticosa serie di assoli stavolta perfettamente a loro agio con la base musicale estrema e rocciosa. Gli Exodus tornano a cimentarsi in tecnicismi, che talvolta possono sembrare anche fini a loro stessi, ma che dopotutto non sono che espressione dell'ignoranza pura" di questa ultima, finale, traccia. I californiani, infine, scelgono di concludere con una grigia e malinconica chitarra clean conclusiva.
Conclusioni
Questo "The Atrocity Exhibition: Exhibit A", su questo saremo tutti d'accordo, non è uno di quei leggendari album da ascoltare e riascoltare, uno di quelli che usurano lentamente il CD fin quando i raschi fanno ascoltare il brano a pezzi. Per coloro che apprezzeranno il sound e le caratteristiche della proposta musicale di questo full-length, quest'ultimo rimarrà, ad ogni modo, un lavoro da ascoltare saltuariamente quando si ha voglia di una bella scarica d'energia. La prima sensazione che ho avuto ascoltando questo disco, è che quest'ultimo avrebbe diviso molto le persone, probabilmente come un disco degli Exodus non abbia mai fatto. E' probabile che un ascoltatore di metal della nuova generazione, magari affine a sonorità moderne ed estreme, possa addirittura preferire questo album a quelli degli anni '80. E' ancor più probabile che, ad un integralista del Thrash Old School come me, il disco deluderà. Ma siamo qui per dare un giudizio obiettivo. Certamente la produzione è parecchio "plasticosa", a tratti davvero troppo artificiale, e in alcuni frangenti di chitarra solistica questo diviene addirittura imbarazzante. Dall'altra faccia della medaglia, il master è ben eseguito ed estremamente potente, è possibile ascoltare la musica ad altissimi volumi senza che i brani vadano in clip. L'unico strumento il cui suono è davvero piacevole è la batteria, esplosiva e secca, martellante e affilata, proprio come nelle buone produzioni dovrebbe essere. La scelta del sound, cosa diversa, è particolare, sicuramente inattesa per una band sempre fedele a sé stessa come gli Exodus. Si può comprendere che, dopo decenni passati a proporre il medesimo sound, si abbia voglia di innovare e sperimentare. Il punto è questo, ed è oggettivo: il 90% delle persone che ascolteranno gli Exodus, non lo faranno per ascoltare un album di questo tipo. Dunque, più della metà degli ascoltatori resteranno certamente delusi. E tale è un dato oggettivo: in molti generi, primo fra tutti il metal, una band è spesso vincolata alla sua storia. E, francamente, quasi nessuno come gli Exodus ha proposto il Thrash Metal classico a certi livelli. Basti paragonare la voce di Steve Souza, una voce carismatica e unica al mondo, distinguibile al primo secondo di ascolto, con quella di Rob Dukes, potente, adatta, ma sentita in altre centinaia di band. Vi sfido a distinguere il suo cantato in questo full da quello di altri "screamer" come distinguereste quello di Souza da altri cantanti. Il paragone, penso che su questo ci troveremo tutti d'accordo, non può reggere. Il fatto che sia un dispiacere che gli Exodus abbiano proposto un lavoro di questo tipo, non toglie che le tracce hanno caratteristiche convincenti e positive: ad esempio i duetti in assolo, le fasi di metà brano, e in generale gli sviluppi e le costruzioni centrali, spesso sono di grande livello. Dando uno sguardo, ancora una volta, all'altra famosa faccia della medaglia, ci sono riff anonimi che davvero dicono poco e nulla, al punto di essere a tratti irritanti. Quei famosi "power chord" continuamente ripetuti sono il primo elemento che non convince. Buona è invece la scaletta, con l'album che si rialza nelle sue fasi finali: convincente" Bedlam 1-2-3" come mattonella conclusiva del lavoro. Nel giustificare la mia sufficienza a questo album di comunque dubbia riuscita c'è un altro elemento positivo da considerare: non è un lavoro "pigro", non è un lavoro nel suo complesso poco ispirato, ma poco ispirati sono solo alcuni frangenti. La band prova a stupire, prova a tirar fuori parti monumentali e prova a fare tutto ciò che deve fare. Semplicemente, lo fa nella maniera sbagliata. Sarebbe dunque errato sminuire questo "The Atrocity Exhibition: Exhibit A" ad un album pigro e commerciale. E, se di Rob Dukes abbiamo più che parlato, a deludere nel lavoro è proprio l'intoccabile artista e leader della band Gary Holt, in particolar modo nelle sue scelte ritmiche che lasciano talvolta davvero perplessi. Come nella produzione abbiamo riconosciuto alla batteria come fosse lo strumento che suonava meglio, allo stesso batterista Tom Hunting riconosciamo il premio di miglior componente in questo lavoro. Le sue scelte batteristiche, i suoi stacchi e la sua incisività, sono uno di quegli elementi che portano questo full-length alla sufficienza. Per quanto riguarda le liriche possiamo esprimerci fino a un certo punto, si tratta di un elemento molto soggettivo. Ciò che è certo è che esse sono alquanto stereotipate e banali e trattano di argomenti davvero sentiti e risentiti nel panorama metal estremo, giungendo ad un livello quasi nauseante. Sarebbe bello se i cantanti di queste grandi band portassero un messaggio migliore ai tanti ragazzi che le ascoltano, fosse anche solo per stimolarne la creatività intellettiva. In conclusione, vi descriviamo come di consueto l'artwork del lavoro: quest'ultimo si mantiene sulle tematiche antireligiose delle liriche, mostrando in primo piano un bianco angelo corrotto con gambe e corpo sommersi da mortuari teschi e ali sanguinanti. Le mani, con un buco in esse, mostrano che il malefico angelo rappresenta in realtà la figura di Gesù Cristo. Siamo curiosi di sapere come abbiate trovato quest'ultimo album degli Exodus, un album come detto che divide facilmente. Il mio voto finale, come avrete intuito, è un 6. Alla prossima, continueremo la discografia dei californiani!
2) Riot Act
3) Funeral Hymn
4) Children of a Worthless God
5) As It Was, as It Soon Shall Be
6) The Atrocity Exhibition
7) Iconoclasm
8) The Garden of Bleeding
9) Bedlam 1-2-3