EXODUS
Tempo Of The Damned
2004 - Nuclear Blast
DAVIDE CILLO
23/10/2017
Introduzione Recensione
E' dura uscire dalla spirale della tossicodipendenza. Un'autentica sfida, per chi ha la sfortuna di doverla affrontare. Come un'aspirapolvere, risucchia tutte le tue passioni e i tuoi desideri. Era il 2002, al Wacken Open Air gli Exodus annunciavano al pubblico l'oramai prossima uscita del loro nuovo disco. "Tempo of the Damned", ahimé, vide invece la luce solo nel 2004. "Al Wacken eravamo fatti, dicemmo un sacco di stronzate." Queste le parole di Gary, che prosegue: "pensi di avere tutto il disco pronto e di poter scrivere una canzone in cinque minuti, ma perdi tempo e ti droghi sempre di più". Spesso è un amico a tirarti fuori da queste situazioni. Così è stato anche per gli Exodus. Andy Sneap, non solo un grande produttore, ma un grande essere umano, finanziò personalmente il disco rischiando di non avere alcun ritorno economico. Stimolò Gary e Tom ad uscire dalla spirale in cui erano caduti. Valorizzò il sound degli statunitensi come nessuno avrebbe mai potuto. Un autentico "trascinatore" a tutti gli effetti, un sesto componente della band come sostenuto dallo stesso Gary, quel tassello che serviva a far tornare a risplendere quella inestinguibile scintilla che erano gli Exodus negli anni '80. Inestinguibile, appunto, perché non esiste chi abbia suonato il Thrash Metal come loro. Un Thrash diretto, violento, pregno d'attitudine e di passione, che non è mai sceso e mai scenderà a compromessi. Parliamo della band della Bay Area per antonomasia, quella che tutti noi sceglieremo di ascoltare nel momento in cui avremo voglia di massacrarci. Mica poco. Gli Exodus sono questo: zero compromessi, zero flessioni, "four albums and still no ballads", come sosteneva uno dei motti che divenne celebre per la band all'inizio degli anni '90, che significava semplicemente "quattro album e ancora nessuna ballata." Una frecciata, questa, probabilmente a qualche collega del genere, a testimonianza di tutta l'irriverenza e della voglia di stupire di una band destinata a rimanere indimenticata. Il lungo periodo di sterilità musicale cominciò per la band dopo il full-length "Force of Habit" del 1992, durando per ben dodici anni. E' emblematico che, proprio nel periodo in cui gli Exodus, la Thrash Metal band per eccellenza, caddero nella tossicodipendenza e nella sterilità compositiva, lo stesso Thrash Metal scompariva dai grandi palchi di tutti gli Stati Uniti. Ciò viene spesso imputato a buon ragione all'avvento di altre sonorità come quella della musica Grunge, con band come Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam, trinomio della cosiddetta "scena di Seattle", che divennero celebri in tutto il mondo. Ciò combinato alla sempre più persistente influenza della "radio-friendly music", la musica di ascolto facile, ed è impossibile sostenere che questi fattori non influenzarono negativamente gli Exodus, una band che viveva di musica anche semplicemente respirando ossigeno. Nel 2002, nel momento del ritorno, gli Exodus persero anche il loro fratello d'armi Paul Baloff. Il leggendario vocalist di "Bonded By Blood", e non dei primi due album come sosteneva una celebre rivista italiana al momento dell'uscita dell'album (mani nei capelli), perse la vita e questo colpì molto la sua unica famiglia rimasta, gli Exodus, nonostante non fosse più da anni un componente della band. Un'esistenza difficile, condotta fra l'eccessivo abuso di droghe, cosa che portò i suoi più cari amici a doverlo escludere dalla band, e la totale mancanza di affetti familiari. Il 31 Gennaio 2002 Baloff uscì di casa per un giro in bici, ma tornando nella sua dimora si sentì male. Ricoverato all'Highland Hospital di Oakland, la scelta di staccare la spina passò due giorni dopo proprio dagli amici degli Exodus e dall'unico familiare conosciuto. Questo la dice tutta sul rapporto fra i ragazzi della band e l'ex-cantante, un uomo che viene fortunatamente ancora oggi acclamato come una divinità del Thrash Metal, grazie alle sue ineguagliabili capacità di violenza vocale dimostrate nel lavoro di debutto della band e negli show live di quel periodo. Come se non bastasse, all'uscita di "Tempo of the Damned" gli Exodus dovettero anche fare i conti con una parte della critica, che ingiustamente puntò il dito contro il lavoro non comprendendo, superficialmente, di avere fra le mani uno dei più grandi album in assoluto del nuovo millennio. Non fra quelli dell'Heavy Metal, fra tutti. Gary si è sempre lamentato del fatto che la scena musicale degli Stati Uniti seguisse molto la moda del momento, come poteva essere per il Glam Metal nell'87. Lui come nessun altro, ha visto la carriera artistica sua e della sua band influenzata negativamente da una serie di correnti musicali del tutto estemporanee. Nei primi anni del nuovo millennio in pochi avevano intuito cosa stava realmente accadendo: che band come gli Exodus stavano riportando in vita il Thrash statunitense, genere che tornerà ad essere ritenuto una volta per tutte una delle frange, se non la frangia in assoluto, più importanti e riuscite dell'universo metallaro. Godiamoci allora questi dieci brani per 54 minuti di musica, perché qui avremo da massacrarci.
Scar Spangled Banner
E' folle il riff introduttivo di "Scar Spangled Banner" (Bandiera costellata di cicatrici), brano che introduce l'album in quarta facendoci massacrare il collo dopo circa cinque secondi aver premuto il tasto di "play". Ciò corrisponde al momento dell'ingresso batteristico di un furioso Tom Hunting. Un riff che riunisce tutto sotto la sua ala, una serie di note massacranti, un down picking a dir poco devastante, slide come da vecchia scuola, ed è valorizzato ed espresso tramite la massima violenza e carisma possibili grazie alla produzione di Andy. Ed ecco Steve, che inizia meravigliosamente a sputare le sue sentenze di guerra, guerra contro la classe politica americana. Questo grandioso brano è infatti quello che ha portato numerose critiche alla band al momento dell'uscita del disco, tramite infondate accuse di anti-patriottismo e di poco amore verso il proprio paese che furono in un secondo momento rispedite al mittente da Gary. Le liriche della traccia sostengono con furore: "America! The violent, the indifferent, the arrogant, the belligerent, will live in infamy. We the people, for no people, secure the blessings of tragedy. Do ordain we have established, the scar spangled banner." (America! La violenta, l'indifferente, l'arrogante, la belligerante, vivrà nell'infamia. Noi il popolo, per nessun popolo, si assicura la benedizione della tragedia. Ordiniamo che sia stabilita, la bandiera costellata di cicatrici.") Parole pesanti, specie quelle riguardanti la bandiera, che manifestano tutto l'odio per la band nei confronti della classe politica americana. Gary e gli Exodus furono accusati pesantemente, e tale fu la risposta del chitarrista leader della band: "In verità tengo molto al mio Paese, ma odio semplicemente la politica, i governi e chi comanda. Dicono bugie, uccidono la gente e compiono atti ignobili e questo chiaramente vale in tutto il mondo. Con questo pezzo ho solo voluto mettere le cose in chiaro, e non penso che la mia sia una posizione così assurda." Tornando al brano, questo non accinge a placarsi nemmeno per un istante, tramite uno straordinario primo assolo che dopo circa un minuto e trenta di ascolto funge da bridge per la seconda strofa. Una cosa voglio sottolinearla: mamma mia quanto spacca il suono del down-picking in questo album, ovvero le plettrate chitarristiche verso il basso tipiche di molte ritmiche Thrash Metal: la band batte sulla prima corda in maniera martellante inserendo in riff già straordinari dei frangenti da spezzarsi le ossa. Nella seconda parte del brano la goduria, non posso che chiamarla così, è anche maggiore: dopo tre minuti i nostri ci donano un riff che, fra le ritmiche di Gary e la batteria di Tom, non sapremmo come definire per la sua capacità di infilare una mole, o forse sarebbe meglio dire overdose, di penetrante violenza sonora. Segue un riff ritmato e in stop and go con la parte vocale strutturalmente di matrice Hardcore di Steve, in puro stile Thrash Metal come spesso si è fatto. Abbiamo anche la terza strofa, una cosa che a me solitamente non entusiasma, ma qui è talmente massacrante che ne benedico il ritorno. Che brano incredibile. Giù il cappello, gli Exodus sono tornati!
War Is My Shepherd
Il nome del secondo episodio è già un programma: eccoci a "War Is My Shepherd" (La guerra è il mio pastore). Se nel descrivere le ritmiche del brano precedente avevo utilizzato aggettivi come "massacrante e penetrante", qui ne utilizzerò uno solo: leggendario. Un riff da mosh, ovvero da "pogo", destinato a rimanere nella storia per decenni, un po' come può essere quello di "Raining Blood" degli Slayer o "Master of Puppets" dei Metallica. I paragoni non mi spaventano. La strofa ruota intorno a questa furiosa ritmica, un riff che sfrutta la sua ineguagliabile combinazione di note per sfoderare tutta la sua energia e cattiveria, conducendoci ben presto al devastante pre-ritornello e al travolgente e vocalmente più gutturale ritornello. Nella parte lirica la band ci intende dire che, quando l'immorale classe politica che ci governa ci spedisce nelle sue guerre di convenienza, non c'è fede o religione che possa salvarci la vita. Così nasce, tramite la metafora religiosa, il titolo del brano "la guerra è il mio pastore." Vengono infatti messe a confronto la fede nel fucile a quella in Cristo, che viene rimproverato a più riprese di "assenteismo" e, quando il protagonista si ritrova disteso sul terreno in fin di vita, riflette sul fatto che nessuno sia soccorso in suo aiuto. La provocatoria divinizzazione della propria arma da fuoco diviene dunque un simbolo, un simbolo che intende farsi beffa di tutto ciò che non è concreto e materiale, proprio come la guerra si fa beffa della propria vita. Beh, avendo utilizzato il termine "leggendario" per la prima parte del brano, non saprei proprio quale utilizzare per la seconda. Nella seconda metà infatti gli Exodus incrementano ulteriormente il livello di "devastazione" del brano, sfoderando un colpo dietro l'altro tutto il meglio del loro repertorio. E non è una cosa leggera, il meglio del repertorio degli Exodus. Concluso il secondo ritornello, infatti, la band sfodera un ulteriore riff destinato a rimanere negli annali, questo sempre mantenendosi però sul tema del brano, ed è su questo riff che si regge il primo assolo chitarristico. Ulteriormente superiore, se possibile, l'evoluzione di questo riff al termine di questo primo frangente di chitarra solista, ed è qui che raggiungiamo il momento all'apice di questo straordinario fottuto brano. Il riff da urlo contraddistinto dalla sua belligerante melodia, dopo qualche battuta su media velocità, acquista velocità con la martellante batteria di Tom, ed è qui che la nostra testa smettiamo di avvertirla del tutto, mentre ciò che avvertiamo è la sensazione di dolore del nostro collo. Si ritorna alla strofa, che spazza via tutto per qualche istante, per poi ricatapultarci ad un nuovo breve e tagliente assolo chitarristico. La band sceglie di portarci allo spettacolare gutturale ritornello di Steve, che urla ripetutamente "War Is My Shepherd", per poi chiudere con un simil-scream il brano. Abbiamo parlato tanto della musica, ma anche la prestazione vocale del cantante è destinata a rimanere indimenticata. Proprio come avviene in quei pochi album che rimangono scolpiti nella nostra memoria, non c'è una sola cosa che non sia perfetta. Trenta, lode e plauso della commissione metallara.
Blacklist
Non riuscirete a prendere una boccata d'ossigeno, perché senza pausa alcuna la band ci porta al successivo brano, "Blacklist" (Lista nera). Già il nome ci fa venire l'appetito. Assaporando l'introduzione già comprenderemo di trovarci dinanzi, ancora una volta, ad un brano di cotanta grandezza. Era da anni che le nostre orecchie non ascoltavano un album che partiva con tre tracce di simile qualità, un trinomio d'apertura devastante come può essere quello di "Among the Living" degli Anthrax o quello di "Rust In Peace" dei Megadeth. Il riff è di quelli dal groove potente e abbastanza cadenzato, mid-tempo come spesso si dice, e sfrutta al meglio quella qualità di produzione di cui vi parlavo in apertura di recensione, ovvero la perfetta resa del down picking nell'album. Andy merita, insieme ovviamente alla band, tutti i nostri applausi per aver contribuito a dare alla luce un lavoro del genere. Grazie Andy per questo album, io ti ringrazio! Sarà difficile fermarsi per un solo istante durante la strofa, ma il vero culmine di questa traccia lo si raggiungerà con il magnetico ritornello, un ritornello che ci scaraventerà nella sua essenza tramite il carisma vocale di uno scatenato Steve Souza, cantante in forma straordinaria ed irraggiungibile all'interno del suo genere. I Testament, quando presero Chuck Billy lasciando Souza, dissero: "Non avevamo mai pensato che potesse esistere qualcosa di così potente dietro ad un microfono." Mi spiace per Chuck, cantante straordinario, ma se lui ha la potenza allora Steve possiede il carisma. Carisma vero. Si tratta di quella capacità di immergerci in ogni parola che viene urlata, di scagliarci nel pieno dell'aspetto più divertente presente in ogni riff, e di non lasciarci davvero sorgere dubbi sulla qualità del lavoro che si ascolta. Personalmente, adoro la voce di Souza come poche, o forse come nessuna. E, quando qui canta le parole del ritornello, ci fa davvero godere. Le liriche di questa canzone rappresentano tutto il lato più aggressivo della band, dove il protagonista si fa auto-giustiziere praticando la legge del taglione, tipica nel passato delle popolazioni barbare ma non solo. Occhio per occhio dunque, o come spesso sentiamo nei brani del genere "eye for an eye". Rimanendo al racconto, l'uomo viene tradito da un alleato, e l'intero brano si sofferma sul desiderio di vendetta del protagonista e sulla sua promessa che, chi gli ha voltato le spalle, la pagherà. Sentitosi pugnalato comincia a progettare i suoi piani vendicativi, rivolgendo continue minacce a colui che si è comportato con infamia nei suoi confronti. Nel ritornello la voce consiglia alla vittima di cominciare a fuggire, perché oramai è stata aggiunta alla lista nera e non avrà modo alcuno di salvarsi. Dalle parole di Steve, sembrerebbe ad ogni modo che la persona a cui il protagonista si rivolge si stia nascondendo in modo da evitare un confronto. Non mancano, dunque, le accuse di codardia. E' un brano che sostanzialmente, ha nella sua principale qualità le parti di strofa e un ritornello "catchy" come più non potrebbe mai essere. Conclusa la prima metà di brano di struttura lineare la band ci scaglia in una serie di duetti chitarristici in assolo, ed è questa serie di solistiche che ci lasciano davvero estasiati per quanto, ancora una volta, sia immenso il brano messo a segno dagli Exodus. Segue un rallentamento e il ritorno alla tagliente strofa, dove Steve sputa le sue sentenze come di consueto. Lo amiamo per questo. Altrettanto straordinaria, bisogna dirlo, è la parte di bridge verso la conclusione della traccia: la band riporta in atto la melodia principale della canzone, per poi esprimere tutta la sua attitudine tramite i devastanti scream di Souza, che continuerà minacciosamente a ricordarci che siamo nella sua lista nera. O, almeno, qualcuno di voi ci sarà, io in quella lista francamente spero di non finirci mai.
Shroud of Urine
La band ci lascia due secondi, ma proprio due, di respiro prima dell'avvento della violenza sonora di "Shroud of Urine" (Velo di urina). E a noi piace così. Non avere pause è il vero segreto di questo tipo di produzioni, come del resto spesso vale per i concerti live. In questo breve momento introduttivo abbiamo il cosiddetto "effetto rehearsal", ovvero la band simula in studio di essere in sala prove con i classici quattro colpi del batterista per dare l'avvio del brano. Non so se voi ve lo sareste aspettato visto il già alto livello dei brani precedenti, ma il riffing qui è qualcosa di allucinante, siamo in presenza di una ritmica suddivisa in diverse scariche di alternate picking dove l'alfa e l'omega sono rappresentate da due differenti scale di note che aprono e chiudono la parte donandogli un impatto unico. Tuttavia, non è questa la prima cosa che mi colpisce. Il brano si presenta, dal punto di vista della produzione, in maniera sensibilmente differente rispetto ai precedenti. Abbiamo infatti un sound "più aperto", un maggiore "effetto stanza" per capirci, e anche la voce di Steve appare più cruda e naturale. Insomma, la band simula tramite lo stile di produzione un maggiore effetto live. E, anche questo, ci piace. Da sottolineare anche la maggiore presenza del basso di Gibson, che qui riveste un ruolo più di primo rilievo rispetto ai brani precedenti. La strofa incalza su ritmi sfiancanti anche grazie al lavoro in doppio pedale di Tom alla batteria, mentre Souza ha un approccio dietro al microfono più "rauco", come quasi se avesse già cantato diversi brani in uno show dal vivo. Questo ben si integra con l'approccio naturale della canzone, che comunque possiede diversi frangenti escusivamente strumentali. Colpisce molto il testo della traccia, dal momento che il cantante si fa qui interprete del nichilismo scagliandosi contro la cristianità e la religiosità in generale, facendo sfoggio non del suo ateismo, ma di un vero e proprio anti-teismo. Cristo sulla croce diviene così un simbolo non di sacrificio, ma di sconfitta, Dio non una divinità ma una semplice immagine di odio e, mancando in tal modo una religione di riferimento, emerge e resiste tutto il lato peggiore del mondo e dell'esistenza umana. Nel ritornello, letteralmente, il protagonista sostiene di non credere in nulla in un mondo così di merda, e se c'è una cosa fra tutte in cui meno crede quella è proprio la religione. Non mancano gli insulti verso l'etica cristiana del perdono, che a giudizio dell'uomo è una cosa esclusivamente per deboli. L'elemento fondamentale di questo quarto episodio resta, tuttavia, la sua essenza "maggiormente elaborata", più melodica se vogliamo metterla così. Il brano è infatti più studiato, la componente vocale come accennato minore, e gli Exodus scelgono qui di mettere in primo rilievo la loro capacità di comporre brani ben strutturati, vista la già consolidata e affermata capacità di mettere a segno tracce di indescrivibile e inarrivabile violenza sonora. Piuttosto che un modo per dimostrare di saper esprimere qualcosa di diverso, tuttavia, vedo questo brano come quella "naturale flessione" che ci voleva per tornare a goderci la violenza allo stato puro, violenza che se non "spezzata" in qualche modo avrebbe perso di impatto. E non c'è modo devastante quanto questa "Shroud of Urine" di affidare ad un brano un compito del genere. Questa è la traccia che in altri album sarebbe potuta essere la ballad, per capirci.
Forward March
Come avrete capito, per il prossimo brano dovremo prepararci al meglio. Beh, se non altro, giunti a questo punto sarete già belli caldi. E' il momento della monumentale "Forward March" (Marcia in avanti), unico episodio di questo "Tempo of the Damned" addirittura superiore ai sette minuti di ascolto. "E questo ci piace", dico volentieri ancora una volta, affermando quello che è oramai un vero e proprio mantra di questo full-length. Rabbia, adrenalina, impatto, questo è ciò che la band porterà in auge sin dal primo nanosecondo di ascolto. Il riff portante è di una cattiveria unica, stavolta rapidissimo, ed è sostenuto da uno dei maghi della batteria Thrash Metal, Tom Hunting, che brilla come meglio non potrebbe: ovvero tramite un ossessivo "tupa tupa" (per i pignoli Skank Beat) e robuste iniezioni di doppio pedale. Ritorna anche in primo piano la vocalità di Souza, che vocalmente parlando si fa qui distruttore di ogni cosa, e che con il suo fantastico ritornello è in grado di far cantare qualunque pubblico, anche il più ostile. Questa parte di ritornello, infatti, è contraddistinta da due differenti sezioni: la prima se vogliamo maggiormente carismatica e incalzante, rapida, la seconda più cadenzata e, dal punto di vista vocale, più gutturale. E' in questa che il cantante urla ripetutamente e con profondità di timbro le parole "Forward March", cioè "Marcia in avanti", mentre il lento e potente riff di Gary Holt funge da tappeto per il nostro incessante headbanging. Vi avverto, se avete intenzione di preservarvi e di restare fermi, qui non ci riuscirete. Anche il più "incallito dei passivi" si scatenerebbe durante un ritornello di questo tipo. Tornando però alle liriche, Steve qui ci parla della sua filosofia di vita, quella di andare sempre avanti e di non guardarsi mai indietro, mai e per nessun motivo. Le carte saranno accatastate contro di te, le persone si riterranno migliori a prescindere, e ci sarà sempre quell'individuo che ti guarda dall'alto verso il basso. Beh, nella canzone il protagonista gli fa sapere che c'è un nuovo sceriffo in città, e non è un fesso. Non mancano minacce fisiche e verbali, dove si invitano questi "bulletti di quartiere" allo scontro fisico. Una volta massacrata la vittima a suon di botte, questo porterà una sorta di sua "desacralizzazione" dinanzi alle persone che lo sostengono. Non solo dal punto di vista strumentale ma anche da quello lirico, dunque, questo quinto brano si incarica di caricare l'ascoltatore, perdonate il gioco di parole. E ci riesce, eccome se ci riesce, a partire dal momento in cui Steve sputa in rapida successione e a più riprese una serie di sentenze quasi alla "Liar" dei Megadeth, per poi ritornare allo stimolante ritornello. Eccezionale scelta questa, come strofa. Notare che, grazie alla sua carismatica melodia, continuerete a cantare questo pezzo anche dopo mesi aver ascoltato il disco. Sempre che non lo riascoltiate prima, perché vi assicuro che vi verrà voglia di farlo. Sottolineo anche l'ottimo lavoro di Rick svolto alla chitarra come gregario di Gary, che si cimenta sia in ritmiche che in soliste durante l'intero album con risultati eccezionali. La parte della canzone che più in assoluto preferisco è quella che introduce la seconda metà del pezzo, dove la band introduce una melodia chitarristica spettacolare e armonizzata con l'effetto della "tripla chitarra in studio" ed elaborata come bridge per l'attacco dell'assolo, che qui si fa carico di riunire sotto un'unica anima la sua straordinaria e difficilmente arrivabile melodia musicale e la proverbiale potenza della band. Tale melodia si evolve, secondo dopo secondo, cullandoci per oltre due minuti e facendoci amare sempre più il brano, fino al momento in cui non ci convinceremo di essere ancora una volta tornati ad ascoltare un "masterpiece" senza precedenti o quasi. Fantastico anche l'arpeggio che chiude il brano, che si attiene a seguire la già straordinaria melodia portante della traccia. E, vista la qualità, tanto ci basta per poterlo apprezzare fino in fondo.
Culling the Herd
La band ci scaglia su "Culling the Herd" (Abbattimento del gregge), brano dal devastante ed indimenticabile impatto. Il riff che dal primo istante irrompe infatti è da "mosh puro", uno di quelli che durante gli show dal vivo fanno impazzire gli ascoltatori. Anche stavolta ci manteniamo su velocità medie, e sono qui gli slide di chitarra a fungere da elemento devastante per questo riff. C'è da dire, tuttavia, che questo pezzo possiede una caratteristica fino a questo momento non ancora riscontrata nell'album: infatti Steve "Zetro" Souza, seppur in brevi istanti, si approccia dietro al microfono con melodia, per poi sfociare in ancora più feroci e maggiori momenti di rabbia. Non è una melodia "nuova scuola", capiamoci, non lo sarà mai. Gli Exodus sono fedeli allo stile Old School al 100%, e non vi è elemento che faccia eccezione. Dunque, da fan del genere, non posso che amare con sincerità questa strofa vocale che davvero contribuisce a fornire delle qualità uniche alla canzone. Questa contrapposizione melodia/rabbia, tuttavia, sfodera un impatto a dir poco notevole. Ben presto ascolteremo anche uno straordinario assolo di chitarra, dove la band ci dimostrerà anche di avere grandi qualità tecniche dietro lo strumento, nel caso non lo sapessimo. Una band completa e unica nel suo genere, questo sono gli Exodus con due aggettivi, e chi li conosce non avrà alcun dubbio su questo. Molti hanno sostenuto che avrebbero dovuto essere parte dei "Big Four" del Thrash Metal: come dargli torto? Quello che ascoltiamo anche in questo brano è il sound della Bay Area nel suo stato più puro. Colpiscono ancora una volta le liriche cantate da Souza, polemiche come sempre se non più del solito. Nel brano il cantante si scaglia contro le persone in blocco, ciò che è diventato la razza umana in generale, piena di spazzatura, una spazzatura che bisogna eliminare in maniera attiva. Le strade sono sporche, e ovunque ci voltiamo siamo ricoperti di merda, sta a noi ripulire. "You may think I'm a madman or maybe just a little disturbed. What you don't understand is I'm just culling, I'm just culling the herd." (Potresti forse pensare che sono un pazzo, o forse solo un po' disturbato. Quello che non capisci è che io sto solo abbattendo, abbattendo il gregge.") Le liriche giustificano quindi la violenza come mezzo per arrivare ad una società migliore, più giusta e dove si respira aria più sana. "Il fine giustifica i mezzi", potrete pensare, e effettivamente il credo del protagonista sembrerebbe far pensare questo. Ma non si tratta esclusivamente del protagonista: l'uomo infatti cerca di reclutare nuovi "soldati" per la sua causa, persone che credono nel suo ideale, ovvero quello di pulizia attiva del mondo, per donare a tutti un futuro migliore di quello che è il presente. Il mondo gira sempre peggio, e qualcuno deve farsi carica di invertire la direzione. Tornando al brano in senso stretto, veniamo catapultati in questa alternanza spacca-culi fra strofa e ritornello, con Souza che con degli autentici scream dimostrerà che si può rimanere old school pur utilizzando una tecnica di canto principalmente moderna. Un brano "quadrato", ordinato e strutturato, che accentuerà questa caratteristica con la sua piacevole conclusione in fade-out. E' tempo di marciare avanti al prossimo brano, dal momento che non potremmo fermarci anche volendo.
Sealed with a Fist
Si intitola "Sealed with a Fist" (Sigillato con un pugno) il settimo episodio, ed è indescrivibile quanto Tom Hunting alla batteria doni qualcosa di immenso anche a questa traccia. L'introduzione è da urlo, e la robustezza donata dal suo contributo dietro le pelli fornisce davvero quella potenza in più che tanto apprezziamo. Questa è una traccia, e per carità non una novità, tirata e tagliente sin dal primo momento e che intende mettere da subito tutte le cose in chiaro. E' anche di gran lunga la più breve del disco con i suoi tre minuti e trenta: preparatevi dunque ad una scarica di adrenalina allo stato puro, perché il riff è travolgente quanto un trattore lanciato a tutta velocità su delle uova. Ed il cantato di Souza è da urlo, né più né meno. Qualunque "Thrasher" o amante della musica in generale tesserebbe le lodi alla sua prestazione vocale, al punto che qui è più la parte strumentale della canzone a seguire la voce piuttosto che il contrario. Non mancano anche i cori, proprio come da buona tradizione per questo tipo di brano, ma la band al tempo stesso mette in campo anche una robustezza e compattezza di sound invidiabile. Squillante e rapido è il primo assolo di chitarra, a cui subito ne segue un altro in un vero e proprio duetto fra i due chitarristi. Elemento, questo, non certo nuovo a quest'album. Venendo alle liriche, queste raccontano di un matrimonio sfociato nella violenza più totale. La band gioca molto sul concetto stesso della promessa fatta nel momento del matrimonio, quella di starsi accanto, che come il cantante spesso ribadisce non senza una vena ironica non significa spaccarsi la faccia a vicenda. Ma il brano, tuttavia, è anche una critica verso la gelosia e verso il modo in cui nella nostra società vengono spesso vissute le relazioni sentimentali. Bella scelta, questa della band, di non ignorare ma anzi affrontare questo tipo di argomenti sotto una loro chiave ed una loro interpretazione. Tornando al trattore che travolge le uova, le chitarre di Rick e Gary si amalgamano a meraviglia con la batteria di Tom ed è questo a mia opinione l'elemento fondamentale che rende questa una canzone unica e devastante. Ed è un piacere ed emblematico osservare che, proprio uno come Tom che aveva avuto gravi problemi di tossicodipendenza, sia tornato così in forma dal punto di vista tecnico e fisico. Questa "Sealed with a Fist" possiede una struttura semplice ma funzionale, non si intende come al solito scendere a compromessi ma anzi si vuole mettere in primo piano il lato più diretto e scaltro della band. Non che negli altri non lo si facesse, intendiamoci, ma questo è qui in assoluto il primo aspetto. E' ora il momento di lasciar perdere la metafora del trattore per affrontare il successivo e ottavo brano dell'album.
Throwing Down
Eccoci a "Throwing Down" (Gettando giù), un brano contraddistinto da un roccioso groove e da una maggiore lentezza nel riffing. Questo è il brano cadenzato per eccellenza, ma non per questo più riflessivo: la band infatti si limita all'esprimere tutta la sua potenza in una chiave differente, con il cantato che tuttavia non si fa mai gutturale oltre un certo limite, distanziandosi dunque dai celebri interpreti del cosiddetto Groove Metal. Restando all'aspetto vocale, non mancano quegli scream in cui Souza spesso si cimenta durante il full, come del resto non manca quell'aspetto melodico o per così dire "musicale" ascoltato in alcuni frangenti del lavoro. E' in particolare durante l'assolo che la band sfodera il suo sound più "corposo" e appunto melodico, cullando la solistica sulla rocciosa base ritmica. Dal punto di vista lirico si rimane su aspetti negativi delle relazioni sociali, in particolar modo il vocalist nel suo racconto sembra quasi predicare individualismo e, ancora una volta, nichilismo. "Forgive and forget a sign of weakness" (Perdonare e dimenticare un segno di debolezza), queste le emblematiche parole di apertura del brano. A dire il vero, queste liriche davvero ben si legano con quanto espresso dalle due chitarre, e sebbene si possa non essere d'accordo con certi ideali bisogna riconoscere il valore artistico e l'intento provocatorio di ciò che si ascolta. E' semplice poter dare un giudizio complessivo sulle liriche e sulla "ratio" dietro la loro scrittura, e affronteremo tutto ciò in fase di chiusura della recensione. Facciamo però un attimo ritorno agli aspetti prettamente musicali di questo brano. Gli Exodus qui, pur senza tradire la loro rigorosa tradizione Old School, si approcciano per un momento in uno stile più elastico e a tratti moderno, mettendo in risalto anche una qualità importante della produzione di Andy: la versatilità. Infatti, pur incentrandosi su ritmiche lente e pesanti, il brano riesce a sfoderare eccellentemente tutta la sua potenza e incisività. Non ci troveremo magari di fronte ad una traccia capolavoro come le precedenti, ma del resto in tutti gli album al mondo, inclusi quelli che hanno scritto la storia, ci saranno tracce meno valide e tracce più valide. Siamo comunque in presenza di un episodio positivo, dove gli Exodus mettono in mostra aspetti interessanti quali compattezza e corposità del sound, e portandoci ancora una volta a complimentarci con il lavoro svolto in fase studio. Restate collegati allo stereo, perché ci attendono ancora due episodi tutti da godere.
Impaler
La successiva "Impaler" (Impalatore) è di tutt'altra scuola rispetto alla precedente, evolvendosi su ritmi più rapidi e riportandoci direttamente negli anni '80. Nel vero senso della parola: questo brano, mai pubblicato, risale infatti agli anni in cui Kirk Hammett era ancora nella band, al punto che il chitarrista attualmente in forza ai Metallica rientra tra i songwriter della traccia con il riff principale del brano. Non è tutto: le liriche cantate in questo brano da Souza sono state scritte da Paul Baloff (R.I.P.) proprio in quegli anni in cui la band tirava fuori le prime idee. La mia prima grande curiosità, è dunque quella di ascoltare come sia questo brano e come si approcci su una produzione degli anni 2000. La risposta è: magnificamente. Ancora una volta è positiva infatti la risposta del lavoro di Andy al "test della versatilità", e le due chitarre incalzano nota dopo nota con una potenza di sound disarmante. Souza canta meravigliosamente in questa traccia, valorizzando con la giusta cattiveria una linea musicale che con la parte strumentale avrebbe altrimenti rischiato di essere troppo soffice rispetto agli standard della band. Andando nel pieno del punto per quanto riguarda questa "Impaler", possiamo dire che a tutti gli effetti si divide in due parti: la prima più studiata e riflessiva, la seconda dove la band si scatena in tutta la velocità possibile. E' pazzesco quanto in questo momento i ragazzi ci riportino ai tempi di "Bonded by Blood", con l'assolo rapido e squillante e il furioso alternate picking nel riffing delle due chitarre. Violenza e attitudine pura anche per quanto riguarda le liriche di Paul: il brano narra di un malvagio personaggio, l'impalatore appunto, che porta la gente del posto a passare nottate di autentico terrore. Costui, giorno dopo giorno, va a caccia di prede da assassinare, prede chiaramente umane che ammazza brutalmente in quella che, oramai, è per lui una routine quotidiana. In quanto a brutalità, tuttavia, non siamo ancora arrivati alla parte peggiore: costui infatti beve il sangue delle sue vittime, non risparmiando nessuno una volta introdottosi nell'abitazione dove intende effettuare la strage. Attenti dunque a vostra moglie e ai vostri figli, perché nessuno sarà risparmiato. L'essere dinanzi a cui ci troviamo nel racconto proviene direttamente dagli inferi, e spaccare i teschi degli uomini uccisi rientra fra i suoi passatempi. "There's no hope", ovvero "non c'è speranza", questa una delle parole conclusive di questo brano. Che dire, se avete ascoltato le liriche, beh, aspettatevi questo dalla parte strumentale della seconda metà del pezzo. Una violenza vecchia scuola pura e incondizionata, dove la band dimostra che negli anni d'oro ha conservato idee da far paura. Il secondo assolo è altrettanto breve e veloce, ma si attiene maggiormente alla linea melodica, se di melodia si può parlare, del brano. Da sottolineare la violenza delle urla in scream di Souza quando urla la parola "Impaler", confermando di essere in una forma straordinaria. Abbiamo anche un terzo assolo, proprio quando giungiamo vicini alla conclusione, assolo che sfrutta il sensibile rallentamento della parte ritmica per donare ulteriore incisività e che, fra l'altro, si conclude molto "alla Slayer". Un'ulteriore conferma: questo è un album che fa paura.
Tempo of the Damned
Il tempo è volato, e incredibilmente abbiamo già ascoltato quasi un'ora di musica. Vi direi "preparatevi al peggio", ma se siete ancora qui vuol dire che siete dei duri. Il prossimo brano, infatti, è nientemeno che la title track di questo full, ovvero "Tempo of the Damned" (Ritmo dei dannati). Traccia di quattro minuti, relativamente breve considerando la media dell'album, questa torna nelle prime battute a mostrare l'indescrivibile potenza della band su ritmiche di media velocità. Se dico "nelle prime battute", è perché dopo pochi istanti la band schizza invece a tutta velocità, con la furiosa batteria di Tom che in skank beat (ancora una volta, "tupa tupa" per gli amici), sostiene un riff ruggente e trita-ossa che sembra uscito direttamente dai tempi di "Bonded by Blood". Velocità, aggressività, ossessività, devastazione, questi i termini che mi vengono in mente ascoltando questo brano. La voce di Souza è ancora una volta cattivissima, e mi è difficile trovare ulteriori termini per descrivere con quanta potenza e attitudine riesca a donare ai brani quella dose di innata violenza che tanto bramiamo e amiamo. Questo è un pezzo che merita a tutti gli effetti di essere la title track del disco, perché spazza via qualunque cosa gli si trovi dinanzi senza pietà alcuna. Che siamo noi, in questo caso. Discorso semplice, non semplicistico: tale è la pura realtà. A metà brano i californiani si cimentano anche in un assolo tanto veloce quanto ben strutturato ed eseguito, facendoci godere a pieno delle più svariate qualità della band. "Qualità e quantità", mi viene da pensare, dal momento che non siamo solo in presenza di una enorme mole di riff devastanti ma anche di un'ottima esecuzione dal punto di vista tecnico. Vi dirò una cosa: se questo brano fosse stato parte di "Bonded By Blood" a tutti gli effetti si sarebbe inserito perfettamente, e l'avrei anche apprezzato. Potete dunque capire quanto possa mai essere old school il lavoro compositivo, un lavoro che fa tornare una non più flebile speranza: gli anni '80 non sono ancora finiti. Nelle liriche la band torna ad approcciarsi su argomenti religiosi, sebbene non sia quello realmente il punto di questa traccia. Infatti non si tratta di altro che di una metafora, quella del richiamo del male, per descrivere la devastante potenza sonora delle canzoni della band. Questo tipo di argomenti e appunto di metafore è presente in centinaia di brani dell'universo Heavy Metal anni '70 e '80, e questo non possiamo che apprezzarlo in quanto siamo ancora una volta in presenza di una testimonianza di attitudine. La metafora prosegue, paragonando la danza del pogo a quella di un qualche rituale malvagio, e i metallari ad un'orda di sanguinosi guerrieri. Non vorrei essere retorico, ma davvero non potrebbe esserci finale migliore per questo disco. Mi sono divertito, cavolo se mi sono divertito, e sarà la centesima volta che lo ascolto. O "divoro", sarebbe forse meglio dire.
Conclusioni
"Tempo of the Damned" non è solo un album spaccaculi. E' anche un fottuto capolavoro, uno di quelli destinati a rimanere nella storia. Cinquantaquattro minuti di musica ci spazzeranno via le cervella e ce le rimetteranno insieme con una paletta, una volta finito l'album. Forse. E guai a chi non ascolta al massimo del volume, sarebbe un'eresia autentica. Gli Exodus segnano il loro ritorno con un album leggendario, un'altra lezione di violenza, "another lesson in violence" appunto. Non sono sicuro neanche che quando si erano fermati erano in uno stato di forma così straordinario, sono dodici anni di pausa che non si sentono neanche, se non per la mancanza che abbiamo avuto della loro musica. Un voto da uno a dieci? Venti, trenta, centomila, non lo so, fate voi. Dieci è il massimo che io posso mettere. Questo album non è solo devastante nel suo complesso, ma contiene anche al suo interno numerosissimi brani straordinari da ascoltare singolarmente quando l'umore più ci aggrada, e fidatevi che ci aggraderà. Devo dire però una cosa, e sì, voglio essere polemico, perché ciò che è stato attaccato è ciò che più amo. Per quanto riguarda questo album, è una vergogna aver letto certe cose sul cartaceo. La cosa più frustrante è la difficoltà, per non dire impossibilità, di poter controbattere. La critica, specie quella italiana, ha riservato una valanga di critiche ingiuste a questo lavoro, da gente che probabilmente il Thrash Metal nemmeno lo ama, perché è dura pensare diversamente. Perché, se scrivi che gli Exodus sono in sovrappeso (sì, questo è stato fatto), se scrivi che le canzoni sono troppo lunghe (anche questo è stato fatto) vuol dire che non ami ciò che stai ascoltando. E se scrivi in maniera prevenuta che questo disco non si può neanche paragonare a quelli degli Exodus dei vecchi tempi, allora probabilmente non l'hai neanche ascoltato. Personalmente, non mi stupirei più di tanto di ciò. Io sono qui e non mi tiro indietro invece, qualunque cosa che avrete da dire e rimproverare sulla mia recensione, mi troverete pronto a rispondere. Non certo un merito mio. Qualcuno denigra la rete, molti quando si tratta di recensioni musicali. Ma chi scrive sul web ci deve mettere la faccia. Vi basta lasciare un commento e premere invio, che centinaia di persone leggeranno il vostro punto di vista su quello che io oggi ho scritto. Ma se invece acquistate una rivista, spendendo i vostri soldi (eh già perché non è gratis come qui), e poi leggete che Paul Baloff ha cantato nei primi due dischi degli Exodus, non vi viene voglia di infilare la rivista in bocca al giornalaio? Che poverino, non è nemmeno colpa sua. Se amate gli Exodus e leggete che, quando una persona dovrebbe parlare di musica, gli rimprovera invece di essere sovrappeso, non potrete non incazzarvi almeno un po', non ci voglio credere. Ciò che la rete fornisce è un reale diritto di replica, prima assente, ma che invece adesso è garantito ad ogni lettore. E ognuno, prima di scrivere certe str*** come si direbbe, si vede obbligato a pensarci almeno due volte. Perché "Tempo of the Damned" è un disco che spacca, con al suo interno dei brani leggendari, questa è la sola e autentica verità: gli Exodus sono tornati come pochi artisti hanno fatto dopo anni di pausa. Non un ritorno "commerciale", non un ritorno fiacco o poco fedele al passato, ma uno che non lascia spazio ai dubbi. E, a voler dare onore al merito, non è facile uscire da una crisi e trovare i soldi per realizzare un disco. Questo è il valore dell'amicizia e del supporto. Non dobbiamo mai dimenticare però una cosa: chi insulta una band che ami, insulta i tuoi gusti. Insulta te dunque, non vi è differenza alcuna. E' in momenti come questo che sono felice che i tempi del "giornalismo di settore" siano passati, è in momenti come questo che sono felice che ognuno possa scrivere ciò che pensa su un album dovendo rispondere per le sue parole. Perché l'educazione prevede che si risponda, non dimentichiamocelo. Torniamo ancora una volta al disco: è uno degli aspetti più piacevoli vedere come Gary e Tom siano così in forma dopo le loro difficoltà, su Gary non abbiamo più ulteriori aggettivi ma per quanto riguarda la batteria, beh, in questo disco è un autentico elemento in più. Per quanto riguarda le liriche, leggendole e analizzandole, mi viene da pensare che siano volutamente provocatorie, in una rigorosa opposizione alla società e alle sue ingiustizie. In brani come quello d'apertura, gli Exodus mettono in campo le loro idee com'è giusto che sia. E chi crede che una critica sia frutto dell'odio verso il proprio paese, non capisce o non vuole capire. E' al contrario l'amore per la propria bandiera che porta a disprezzare una classe politica ingiusta, la voglia di difendere i propri diritti. Non mancano tuttavia tematiche che dobbiamo dire più semplici e comuni fra gli artisti metal, come ad esempio quelle anti-religiose, ma sono tutte contraddistinte da quell'intento volutamente provocatorio. Su lavori del genere è difficile ripetersi, ma chi può farlo sono gli Exodus: una band che, dopo decenni, mai smetterà di superarsi. Alla prossima, un saluto, in alto le corna.
2) War Is My Shepherd
3) Blacklist
4) Shroud of Urine
5) Forward March
6) Culling the Herd
7) Sealed with a Fist
8) Throwing Down
9) Impaler
10) Tempo of the Damned