EXODUS
Shovel Headed Kill Machine
2005 - Nuclear Blast
DAVIDE CILLO
20/11/2017
Introduzione Recensione
"Tempo of The Damned", nonostante qualche ingiusta critica iniziale decisamente di troppo, riuscì via via a farsi apprezzare, convincendo alcuni degli scettici delle diverse qualità del lavoro. Brani come "Blacklist" e "War Is My Shepherd" si fecero più che apprezzare nei numerosi show dal vivo della band, che però ben presto vide il presentarsi di diversi problemi di formazione che portarono al cambiamento di ben 3/5 della line-up. Rick Hunolt, gregario di Gary Holt alla chitarra, lasciò la band sostenendo di desiderare più tempo per dedicarsi alla sua famiglia. Fu sostituito dall'ottimo Lee Altus, già chitarrista degli Heathen, una band dove aveva più che dimostrato le sue capacità sia tecniche che compositive. Band Technical Speed/Thrash proveniente direttamente dalla Bay Area californiana, come del resto gli Exodus, aveva guadagnato consensi soprattutto fra gli amanti dell'underground del genere. Album come "Breaking the Silence" dell'87 e "Victims of Deception" del '91 sono infatti apprezzatissimi ancora oggi, e in pochi hanno dimenticato i carismatici show degli Heathen degli anni '80. Un rinforzo di qualità, dunque, che ben poco ci mise a convincere Gary a reclutarlo fra le fila degli Exodus. Purtroppo anche il batterista Tom Hunting, che aveva svolto un lavoro eccezionale nel precedente album e relativo tour, dovette abbandonare la formazione. Ma Gary, che oramai aveva individuato il sound che aveva intenzione di proporre in questi "nuovi Exodus", necessitava obbligatoriamente di qualcuno che percuotesse la batteria con la sua cattiveria e precisione, con la sua energia e con il suo impatto. Gli Exodus, dunque, necessitavano di un grande nome. Lo trovarono. Gary reclutò Paul Bostaph, lo storico batterista che militò negli Slayer fra il '92 e il 2001 riuscendo, cosa affatto non facile, a non far sentire la mancanza del grande Dave Lombardo. Paul Bostaph aveva già dimostrato di essere uno dei più preparati batteristi nel genere, debuttando discograficamente con "Forbidden Evil" del 1988 e "Twisted Into Form" del '90 con la sua band Forbidden. Questi due album, probabilmente, sono i più sottovalutati in assoluto all'interno dell'inarrivabile universo del Thrash Metal, e non passarono inosservati. Infatti, Eric Peterson dei Testament chiamò Bostaph pochi anni più tardi quando necessitava di qualcuno che percuotesse le pelli nella sua band. Fu poco più tardi che venne informato da un suo amico, che gli comunicò che gli Slayer erano alla ricerca di un batterista. Lui immediatamente ottenne il posto, distinguendosi per le sue capacità ed esperienze. La sua storia con la band californiana sarà poi destinata a durare per 7 anni. E' subito dopo che si unisce agli Exodus, appunto, con cui rilascia l'album protagonista della recensione odierna: "Shovel Headed Kill Machine" del 2005. Le novità non erano però finite: infatti anche il carismatico vocalist Steve Souza abbandonò la band, dedicandosi in seguito per qualche tempo al progetto dei "Dublin Death Patrol", una band formata con il cantante dei Testament Chuck Billy. Gli Exodus persero dunque una delle loro grandi sicurezze, la pirotecnica voce che aveva da sempre entusiasmato gli ascoltatori della band. Gary, a questo punto, cercò qualcuno che potesse adattarsi al sound più robusto e moderno delle produzioni Thrash del nuovo millennio, qualcuno che come Souza aveva saputo adattarsi o che era già stilisticamente in linea in un approccio estremo dietro al microfono. La scelta ricadde su Rob Dukes, un vocalist sconosciuto e senza precedenti esperienze, ma con un approccio piuttosto estremo e pronto ad adattarsi alle più potenti e purtroppo meno affilate produzioni Thrash moderne. In molti furono sorpresi, ma non è il curriculum che fa la voce. Vedremo poi a breve, nel corso della recensione, le nostre valutazioni su questo cantante. Il nuovo album, ad ogni modo, ottenne l'appoggio della Nuclear Blast, che già aveva rilasciato "Tempo of the Damned" e dunque non si fece problemi a sostenere il nuovo lavoro degli Exodus, un lavoro di dieci tracce e composto da oltre 52 minuti di ascolto. Buon ascolto a tutti allora, è tempo di dedicarci al consueto "track by track"!
Raze
Niente traccia monumentale, l'album si apre secco con "Raze" (Radere al suolo), un brano della durata di circa quattro minuti. Sin dai primi istanti notiamo una produzione più cupa e profonda rispetto al precedente "Tempo of the Damned", con il nuovo vocalist Rob Dukes che possiede un approccio certamente diverso rispetto al predecessore Souza, che comunque in certi aspetti prova a "imitare". Il brano è roccioso, con la batteria di Bostaph violenta e dura: Paul, infatti, non si risparmia devastanti tappetti di doppio pedale. La produzione è dunque, sommariamente, certamente differente per molti aspetti da quelle a cui gli Exodus ci hanno abituato negli anni. Più moderna, certo. Tuttavia, volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, l'album preserva quel violento taglio di chitarra tipico delle ritmiche Thrash ottantiane specie in fase di alternate picking. Avremo modo, traccia dopo traccia, di approfondire il suono. Concentrandoci nuovamente sul brano in sé, le ritmiche non sono poi di grande valore, limitandosi per il vero ad una serie di power chord piuttosto scontata, così come nulla di nuovo sotto al cielo porta la melodia. Gli arrangiamenti sono, al contrario, perfetti: gli Exodus valorizzano il più possibile dunque una base non eccezionale. La potenza e l'impatto dietro al microfono certo non mancano a Rob, che in certi frangenti anche strizza l'occhio allo stile di Souza senza però, ahimé, possedere anche lontanamente il suo carisma e la sua originalità. Due cantanti validi dunque, ma uno sostituibile, l'altro unico. Il brano ci racconta di come l'esercito, esercito di cui gli Exodus simbolicamente si ergono a "generali", si prepari a sputare tutto il fuoco e la violenza che possiede contro i nemici. "Che la pira funebre abbia inizio!". Vittima dopo vittima dunque l'armata della morte abbatte qualunque cosa che inciampa sul suo percorso, urlando sentenze nei confronti dei corpi rimasti inermi senza vita. Le conseguenze non importano, l'unica cosa che davvero conta è quella di abbattere, di radere al suolo, qualunque cosa sul percorso. Una sola è la parola d'ordine nel racconto di Rob: "distruggere". Parola, questa, imperativa. Se qualcosa resterà dopo questo assalto, per quanto piccola e insignificante, allora questo atto di guerra sarà da ritenere un fallimento. E' la stagione della demolizione. Tornando alla parte strettamente strumentale e in particolar modo all'ottimo modo in cui questo brano è arrangiato, ci tengo a sottolineare che, al fianco della devastante doppia cassa di Paul Bostaph, perfetto alla batteria, vi è una linea di basso altrettanto devastante e che non certo si limita ad un ruolo di secondo piano. Il "quattro corde" picchia come un trapano, dando un'aggiunta importante a quanto portato dalle chitarre. Questo avviene anche durante lo squillante assolo di chitarra, lungo e ben strutturato, molto in scuola Slayer e privo di ogni educazione. Ma chi la vuole l'educazione, del resto?
Deathamphetamine
La "monumental track" che aspettavamo è la seconda, intitolata "Deathamphetamine" (Anfetamina della morte). Il brano si apre con il ruggente basso di Gibson, incisivo e d'impatto nella produzione. Il quattro corde è coadiuvato da distorti effetti di chitarra. L'inizio della traccia è lento e studiato, con una serie di tre scariche di alternate picking. Improvvisamente, tuttavia, queste si interrompono, e parte il devastante riff di Gary Holt. Uno dei migliori, veloce, incisivo, e su cui Paul Bostaph alla batteria scarica tutta la sua cattiveria, forse adoperando un po' troppo i piatti. La ruggente strofa di canto ci conferma le sensazioni avute con la prima traccia: tecnicamente il lavoro di Rob Dukes è più che valido, ma ciò che manca è quella personalità e quel carisma che contraddistingue i cantanti delle grandi band. Sostanzialmente, se Dukes dovesse lasciare la band, sarebbe in realtà facile da sostituire. Ad ogni modo, il ritornello è semplice e si limita a liberare qualche power chord su cui il vocalist intona le sue sentenze di morte. Nel brano gli Exodus inveiscono infatti nei confronti della vittima di un destino spiacevole, un uomo che corre verso la morte attraversando una serie di sofferenze, sofferenze che vedono i suoi polmoni cristallizzarsi e del gas velenoso penetrare nel suo corpo. "Non è un sogno, questo è un incubo", queste sono le parole ripetute da Rob durante il chorus, che parla di questa strana anfetamina della morte che a quanto pare la vittima ha assunto. A quanto pare, la conseguenza finale, quella che porta al decesso, è l'attacco cardiaco, e il pover'uomo non può fare che attendere che arrivi. Non mancano le minacce verbali come quella che viene urlata nella parte finale del pezzo, "a breve ti troverai sei metri sottoterra." Tornando al brano dal punto di vista strettamente musicale, interessante la formula dell'assolo posto dopo il primo ritornello, un assolo in un primo momento di media velocità e gustoso, ma nella sua evoluzione rapido ed esplosivo. La parte centrale della canzone è quella lenta e riflessiva, e vede la band rilassare l'ascolto con una serie di power chord un po' in salsa, concedetemi questa licenza poetica, Thrash/Doom. Stavolta le scelte batteristiche di Paul Bostaph sono meravigliose, e gli stacchi si fanno ben notare. Conclusa questa parte di metà brano più pacata e riflessiva, la canzone esplode improvvisamente con un secondo e squillante assolo in pentatonica, classico se vogliamo, ma ben adatto alla situazione. E' a questo punto che torna Rob con la sua furiosa voce. Ciò che manca a questa canzone è quella parte "epica", concedetemi il termine, che avevamo per esempio avuto in molte tracce del precedente album, quel frangente indimenticabile dove abbiamo un riff o magari un'evoluzione spettacolare, magari dopo un assolo. Il brano, infatti, è piuttosto quadrato e compatto, e la ritmica più godibile è proprio quella che apre la canzone e che viene talvolta ripetuta.
Karma's Messenger
Ecco il terzo brano "Karma's Messenger" (Messaggero del Karma). Un nome, una garanzia insomma. Questo è il brano grezzo e diretto per eccellenza, un pugno diretto nello stomaco. Si tratta di una traccia che non lascia spazio alcuno ad equivoci: la voce incalza sin dalla prima nota, la ritmica è violentissima e memorabile, la batteria e il basso svolgono un lavoro a dir poco perfetto e sono inserite molto bene nel mix. La stessa voce di Rob, in questo brano, cambia stilisticamente. L'approccio del cantante dietro al microfono è infatti più profondo e gutturale, lo scream dei precedenti brani si trasforma in un più cupo timbro maggiormente vecchio stampo, cosa che non può che legar bene in una band come gli Exodus. Verso metà brano ogni voce viene interrotta, e vi è il solo Gary Holt che con una straordinaria ritmica mid-tempo spezza via qualunque cosa proprio come il carro-armato sulla copertina travolge tutto ciò che gli si para innanzi. La violenza della voce si riflette anche sulla parte testuale, che qui non lascia spazio alcuna all'immaginazione. Come infatti avrete già probabilmente intuito dal titolo, qui si parla di un uomo che subisce tutto il male che ha fatto agli altri. Una vendetta inesorabile, un assassinio spietato, una vita alimentata da potere e lussuria che andrà in contro alla logica conseguenza, una punizione dal quale non si può sfuggire. La conseguenza è l'inferno, con le sue corrosive e infernali fiamme che conducono ad una sofferenza infinita ed eterna. Questa fine attende una gran parte dell'umanità, compresi gli indifferenti che non fanno nulla per dare il loro piccolo contributo alla nostra specie. La sofferenza sarà implacabilmente inflitta. Tornando alla bellissima canzone, penso sia giusto prima terminare di descriverla per poi fare delle considerazioni personali. Infatti, terminata la sezione esclusivamente strumentale di metà brano, sul potente riff vi è un tecnico assolo di chitarra che davvero colora magnificamente la melodia della traccia, armonizzandosi con la potente base ritmica di sottofondo. La musicalità dell'assolo, terminato quest'ultimo, viene poi riproposta, accelerata, legando perfettamente con gli altri strumenti. Il brano si chiude con il ritorno della devastante strofa ritmica, e Rob che urla la parola "Vengeance", vendetta. Venendo alla mia considerazione, preferisco di gran lunga questo "Karma's Messenger", brano breve e compatto ma devastante e funzionale, ad un tentativo di masterpiece non troppo riuscito come "Deathamphetamine", a cui manca quella verve tipica dei grandi pezzi. Ritengo infatti che un grande brano venga da sé, non bisogna cercarlo, e questa è purtroppo la sensazione che mi aveva dato il precedente brano, molto meno efficace rispetto a questo terzo bellissimo episodio. Da sottolineare, ancora una volta, quanto il riff principale della strofa sia affilato e ben riuscito, così come merita di essere sottolineata la qualità della sezione strumentale di metà traccia.
Shudder to Think
Il quarto brano si intitola "Shudder to Think" (Rabbrividisco al pensiero). Anche stavolta siamo in presenza di un brano inferiore ai 5 minuti di ascolto, abbiamo dunque generalmente brani più brevi rispetto a quelli ritrovati in "Tempo of the Damned". Il brano si apre con un riff di media velocità molto in stile nuova scuola del Thrash Metal, ed in linea con alcune release di grandi band del genere del nuovo millennio. Mi viene da pensare al brano "M-16" dei Sodom, per farvi un po' capire di quale stile si parla. E' un brano che, nonostante la breve durata, non acquista mai straordinaria velocità, limitandosi ad una rocciosa e cadenzata base ritmica ausiliata da un grande lavoro batteristico di Paul Bostaph. La produzione valorizza bene il down picking, che ben si fonde agli stacchi dello stesso batterista. Adatta in questa circostanza la voce di Rob, che proprio come la musicalità non è particolarmente personale o originale ma devo dire piuttosto scontata e prevedibile. Tuttavia il brano, voce inclusa, gode di una certa incisività. I riff principali, come detto, infatti suoneranno con ogni probabilità come ascoltati e riascoltati alle vostre orecchie, ma è a maggior ragione interessante ascoltare e comprendere evoluzioni e arrangiamenti adottati dalla band durante questi quasi 5 minuti di ascolto. Al terzo minuto sferza l'assolo di chitarra, qui più rapido e squillante rispetto a quanto ci si aspetterebbe dallo stile della traccia. Dunque, tirando un bilancio, questo brano adotta un po' lo stampo del precedente, ma senza la stessa riuscita e originalità creativa. Lo schema strofa-ritornello è molto lineare e strutturato, e l'elemento fondamentale è senza dubbio il down picking, continuamente riproposto nei diversi riff e valorizzato nell'impatto dall'utilizzo dell'accordatura ribassata. Nel brano la band invita le persone che hanno toccato il fondo, e che non rispettano le loro responsabilità, a guardarsi allo specchio e a rendersi conto di dove stanno andando. Le parole più ripetute, infatti, sostengono "rabbrividisco al pensiero" di essere come te. Non mancano riferimenti alla droga, al decadimento, problematiche con cui gli Exodus come ben sappiamo hanno avuto a che fare. Sorprendentemente, in questo brano non vi è alcuna minaccia di morte e di violenza, vi è solo un invito, per quanto diretto, a risollevarsi da una situazione di vita patetica e deprimente sia per chi la vive sia per chi gli sta intorno. Sicuramente, questo testo, è quello che trovo più interessante fra quelli ascoltati fino a questo momento. Da sottolineare il tono interrogativo del ritornello, che sostiene "Why don't you take some responsibility?", ovvero, "perché non ti prendi delle responsabilità?". Basterebbe questo a sottolineare la grande differenza stilistica nel tema di questa "Shudder to Think" rispetto ai brani precedenti, che possedevano il classico tono duro della band.
I Am Abomination
Ecco, per il quinto brano aspettatevi tutto l'opposto del precedente. Già il titolo non lascerà spazio a nessuna fantasia. Stiamo infatti ascoltando "I Am Abomination" (Io sono abominio). Brano di soli tre minuti, siamo in presenza della quinta traccia che picchia violenta e diretta senza flessioni. Le ritmiche fanno molto leva sull'ottima e scandita batteria di Paul Bostaph, che dopo pochi secondi si cimenta in un autentico e devastante tappeto di doppia-cassa che dona quell'incisività ulteriore ad un riff potente e molto classico. Anche stavolta la velocità non impenna, il brano sfrutta molto il suo groove ritmato e i cambiamenti di tempo. Vi sono infatti numerosi stacchi, dove batteria e basso svolgono un lavoro di primo piano, e proprio in seguito ad uno di questi stacchi impenna improvvisamente l'assolo di chitarra, molto grezzo e per questo motivo divertente. L'utilizzo della leva è sfrenato, ancora una volta concedetemi il termine "Slayeriano", ed è anche felice la scelta di porre nuovamente la profonda e gutturale voce di Rob immediatamente al termine dell'assolo. Un brano grezzo e godibile, dovendone definire il livello qualitativo certamente non al livello della terza "Karma's Messenger" ma un grande passo avanti rispetto alla quarta traccia. "I Am Abomination" riesce infatti, tramite continui stacchi e cambiamenti, a rendersi dinamica e piacevole all'ascolto, e il mixaggio riesce a valorizzare bene tutti gli strumenti allo stesso tempo, proprio come dovrebbe essere. Risuonano nel nostro cervello le parole emesse dal vocalist che urlano il titolo della canzone, andiamo dunque a goderci le brevi liriche di questo brano. La band sostiene, impersonandosi, di essere tutto il male che governa questa Terra. Ovviamente, e questa non è una sorpresa, ritroviamo quel tono minaccioso e tanto ricco di attitudine rivolto all'ascoltatore. Le parole ripetono, "io sono l'afflizione, io sono l'abominio, io sono il caos", insomma, tutto ciò di tremendo e negativo che si può abbattere su di una persona. Non potrei, a questo punto, non farvi godere le parole urlate verso la conclusione del brano dal nostro Rob, perché davvero sono spettacolari nel loro modo di essere. Eccovele qui dunque:"Io sono Geova, io sono la vergine puttana. Io sono il campo di battaglia, io sono la pestilenza e la guerra. Io sono il mostro, che si nasconde sotto il tuo letto. Io sono tutte le tue perversioni, intrappolate dentro la tua testa." Mi chiedo: cos'altro mai si potrebbe aggiungere a ciò? Queste parole non possono non richiamare quello stile un po' volutamente polemico presente nelle parti liriche di "Tempo of the Damned", ma stavolta di certo non siamo in presenza di una qualche critica politica. Si tratta di pura e semplice violenza, ed è per questo che si ascoltano gli Exodus!
Altered Boy
Facciamo ritorno ad uno stile compositivo più strutturato nella successiva "Altered Boy" (Ragazzo alterato), quinta tappa di questo nostro viaggio attraverso "Shovel Headed Kill Machine", album dei californiani Exodus del 2005. L'introduzione della traccia si limita a liberare una serie di power chord aperti, molto classici, con il ruggente basso di sottofondo. Dopo venti secondi la band introduce una melodia davvero molto "alla Testament", ma del resto il genere è quello. Una serie di colpi secchi sul rullante del nostro Bostaph introducono il riff principale di chitarra di Gary, molto particolare e non particolarmente old school come ci si potrebbe aspettare. La resa musicale, così come la voce, strizzano l'occhio al Groove Metal e per molti sensi a band come Exhorder o poi i Pantera, e questa è un po' una sorpresa considerando che nella propria strofa gli Exodus di rado avevano adottato questo stile. Durante il ritornello, invece, il riff, seppur più lento e cadenzato di quanto è solita fare la band, ha armonie e melodie tipiche del Thrash Metal e che sentiremmo appunto spesso nei colleghi Testament. Resta prorompente, per tutto il brano, il ruolo di Jack Gibson al basso, autentico protagonista di alcuni stacchi in cui il suo quattro corde diviene il primo strumento fra tutti. Uno di questi apre all'assolo, lungo e strutturato, mai particolarmente veloce se non nell'ultima parte e molto in linea con la melodia principale proposta dal brano. E' "la roccia" che vogliono imitare i nostri Exodus qui, una roccia naturale che cade in testa all'ascoltatore risultando fatale. Anche il riff post-assolo, infatti, non si accinge a velocizzare la traccia, e questi sette minuti circa di ascolto restano un episodio molto a sé e a dirla tutta non particolarmente convincenti, specie considerando ciò che si aspettano i fan della band. Non aspettatevi nulla di particolarmente originale dalle liriche, che ricordano molte di quelle recenti nel genere e si allineano ad una retorica anti-cristiana spesso utilizzata. La band qui si scaglia contro la Chiesa, sostenendo che i così detti uomini discepoli di Cristo, non sono altro che stupratori. I bambini vengono ingannati e stuprati nel nome del Signore, molte vite vengono lacerate all'interno della Chiesa sotto l'ala protettiva e indifferente del papato. Così, in una serie di evoluzioni e sviluppi dal dubbio valore logico, il Santo Padre diviene la bestia, né più né meno. Vescovi e Cardinali, sempre secondo la band, non sono altro che predatori, predatori che godono di versamenti multi-milionari come premio per i loro crimini. Intanto, le giovani vite delle vittime della pedofilia, sono per sempre andate in fumo, distrutte, da una Chiesa interamente corrotta e che non è più in grado di fare nulla di buono.
Going Going Gone
Si ritorna alla formula più diretta con il sesto episodio, intitolato "Going Going Gone" (Andando andando andato). E, fortunatamente, gli Exodus fanno ritorno al loro tradizionale stile Thrash Metal, anche perché le alternative non ci hanno particolarmente convinto. Questo brano si basa interamente sulla straordinaria robustezza delle ritmiche, e in particolar modo sulla collaborazione fra Bostaph alla batteria e Gibson al basso: i due battono come martelli, incalzando durante le triplette con violenze scariche di plettrate e doppiopedale. Per quanto riguarda la voce di Rob, già avevo notato durante i precedenti brani una sorta di involuzione stilistica, ma prima di parlarne volevo esserne certo: un cantante, infatti, quando è in studio non sempre rende allo stesso modo nei diversi brani. Tornando al vocalist, a cominciare da questa seconda parte di album ha iniziato ad adottare uno stile sempre meno vecchia scuola e più in linea con il metal estremo moderno, più classico, smettendo anche di strizzare l'occhio allo stile di Souza. Cosa anche buona, per carità, perché non essendo Steve tanto vale interpretare le cose in chiave propria. Se non fosse che ci si attiene ad uno screaming estremamente classico, quasi indistinguibile da quello di altri vocalist, e considerando chi sono e cosa hanno fatto gli Exodus questo è un po' un peccato. Continuando a fare parallelismi fra gli Exodus del brano in ascolto e altre Thrash Metal band, questo è il brano "alla Destruction" dei primi 2000, dove ritmiche incessanti e costanti martellano e trapanano le orecchie dell'ascoltatore come un fuoco incessante con l'ausilio appunto di un'ottima base ritmica. Le continue triplette di alternate picking battezzano lo sferzante duetto in assolo di chitarra, energico e squillante, gustoso, veloce e incalzante, sicuramente uno dei frangenti più riusciti, se non il più riuscito, fra quelli solistici presenti in questo full-length. Devastante il tappeto di doppio-pedale di Paul Bostaph nella parte successiva all'assolo, il batterista davvero dà qualcosa in più a questo album che altrimenti avrebbe avuto davvero troppo da rimproverarsi. Nel brano il vocalist impersona un violento serial killer, insicuro e psicopatico, che ha bisogno di uccidere e tagliare gole per trovare il suo piccolo angolo di pace e sicurezza. La sua passione per il sangue caldo e il freddo abbraccio della morte, valgono per lui il motivo di andare a caccia, a caccia di vite umane. Da qui la frase della prima strofa, "la violenza è beatitudine". Nel ritornello il vocalist sostiene che, tutto ciò che quest'uomo è e sa di essere, è un pazzo omicida, che segue se stesso e le sue ispirazioni naturali, soffiando come una bomba atomica sulla sua vittima. Il titolo del brano, ovvero "Going, Going, Gone" è la frase utilizzata quando un oggetto sta per essere venduto al miglior offerente durante un'asta. La metafora, dunque, è quella fra l'asta che sta per terminare e la vita a cui sta per porre fine lo spietato assassino. Uccidere, per lui, è come un orgasmo di depravazione, il miglior tipo di terapia per una mente malata e incurabile.
Now Thy Death Day Come
Non aspettatevi nulla di diverso dalla successiva "Now Thy Death Day Come" (Adesso arriva il giorno della tua morte). Il titolo, come avrete visto, è già una garanzia. Il brano possiede una durata estremamente simile al precedente, sempre dunque intorno ai cinque minuti di ascolto. Anche stilisticamente lo stampo è quello, la band sin dal primo istante incalza con un riff secco, potente e brusco che gode dell'ausilio di una perfetta base ritmica. Bello l'utilizzo di una rapida serie di power chord ripetuti, che ancora una volta strizzano l'occhio ai Destruction del nuovo millennio. Stiamo dunque parlando di un Thrash Metal classico, puro e genuino, ma non quello che siamo abituati ad ascoltare dagli Exodus. Si tratta infatti di un sound maggiormente teutonico, espresso da una produzione tendenzialmente moderna ma che cerca di conservare alcune qualità, specie per quanto riguarda la chitarra, del suono vecchia scuola. Dalla vocalità aspettatevi però uno stile moderno e classico, un qualcosa che strizza l'occhio a band come i Lamb of God, per capirci. La ritmica sfrutta un alternarsi fra il down picking, costante, e qualche breve frangente in alternate, dove le note fungono da variante al lungo e costante riff. L'assolo è tipico di band Prog Metal per lo stile, ma è davvero estremamente breve e per i suoi cinque secondi mette semplicemente in mostra una buona tecnica e un suono di chitarra molto corposo. Le ritmiche rapide della prima metà del brano incontrano un brusco rallentamento nella parte centrale della traccia, dove viviamo il ritorno di quei Groove pesanti e cadenzati ascoltati in brani come "Altered Boy". Il brano si chiude riproponendo la sua qualità ritmica migliore, quella ripetuta e scandita serie di power chord che si fa più che apprezzare. Le liriche ci raccontano di un'umanità finita in preda alla violenza e alla spietatezza, un'umanità che non conosce più amore e solidarietà, ma che si limita a soddisfare una sorta di frenesia assassina. Il testo non è certo privo di citazioni all'Apocalisse di San Giovanni, descrivendo la fine dei tempi e dell'uomo e l'avvento di Lucifero, ma il tutto viene tuttavia affrontato in una chiave diversa e con un esito finale che appare essere differente, seppur tale fattore non sia poi specificato. Ciò che attendono alla nostra specie, ad ogni modo, sono secoli di paura e di odio, secoli di orrore, le porte del paradiso saranno distrutte e sarà guerra per l'eternità. L'ultima strofa si chiude con le parole "Can you feel the irony? War for all eternity" ovvero (Puoi sentire l'ironia? Guerra per l'eternità). E' tempo per noi di passare al nono brano di questo "Shovel Headed Kill Machine", che sarà il penultimo che ascolteremo.
44 Magnum Opus
Eccoci infatti a "44 Magnum Opus", brano che irrompe nel nostro udito con una straordinaria violenza e un impatto sonoro caotico e energico. Infatti vi è una burrascosa sovrapposizione fra i vari strumenti, che qui nello stesso momento, si rendono protagonisti scaricando una mole di suono notevolissima. Si giunge di seguito alla strofa, una strofa sempre più teutonica di quanto ci si aspetterebbe, ma dove è la voce davvero a colpire. Rob infatti uno stile quasi "alla Demolition Hammer", e di conseguenza anche la base musicale è resa in maniera particolarmente estrema. Questo è il brano in cui gli Exodus quasi si affacciano ai confini del Thrash/Death Metal vecchia scuola, a quei confini che prima d'ora mai la band aveva sperimentato. La bellezza di questo brano, il punto di forza, fra l'altro non è dato dalla bellezza dei tempi e delle ritmiche, ma dall'impatto e dall'esplosività, specie quella con cui la batteria si inserisce nel mix. Lo stesso suono di rullante per alcune sue caratteristiche sembra avvicinarsi a quello di band come appunto i Demolition Hammer, e anche l'assolo di chitarra diviene più marginale e breve rispetto al contesto della traccia, rivestendo un ruolo secondario. Come potrete immaginare, per un brano di questo tipo è necessario un lavoro alla batteria di primo piano, ed è questo che Paul realizza perfettamente: tappeti di doppia-cassa, martellate serratissime che potrebbero sfondare un muro di cemento armato, ed una produzione che a maggior ragione valorizza la componente ritmica nel mix. Direi un brano più che ben riuscito nel suo modo di essere, che non è quello degli Exodus che conosciamo. Sta a voi stabilire se ciò è un problema, le mie considerazioni arriveranno come sempre in fase di chiusura della recensione. Nella canzone Rob ci racconta di una sete di sangue che necessita di essere soddisfatta, di una rabbia talmente grande da risultare incontrollabile. L'obiettivo del protagonista è in questa canzone solamente uno: uccidere tutto ciò che ha sempre odiato. E, in una sua concezione della realtà, mentre si appresta a sterminare centinaia di vita si descrive come un fottuto Van Gogh con una pistola, che sta per dipingere il suo lavoro più grande, e in questo capolavoro il colore sarà dato dal sangue dei defunti. Il protagonista si impone di non far mai cessare la sua sete di sangue, e afferma con convinzione che arte e omicidio siano in realtà due sinonimi. Lo spietato assassino, durante l'ultima strofa, ci lascia con queste parole "Non mi fermerò finché l'ultimo corpo sarà caduto. Il proiettile sarà la mia guida."
Shovel Headed Kill Machine
Si conclude dunque con nientemeno che la title track, una breve traccia di durata inferiore ai tre minuti intitolata appunto "Shovel Headed Kill Machine" (Macchina della morte a testa di pala). Una scelta particolare, quella di intitolare così il brano omonimo dell'album nonostante sia il pezzo più breve del full. Il brano è il più violento e devastante, asfissiante, e i ritmi di batteria divengono martellanti e incessanti. La voce di Rob diviene ancora una volta più estrema, sempre molto più vicina ad una scuola Death Metal piuttosto che ad una Thrash, e le ritmiche sono di una violenza difficilmente descrivibile. In parole povere, è la velocità la vera protagonista di questo brano, almeno nella prima parte. La canzone possiede infatti un riff contraddistinto da un groove lento e cadenzato che porta infatti il tutto per il minuto centrale del brano. Un riff valido ma non eccezionale, certamente valorizzato dalla produzione, e certamente adatto per gli spettacoli dal vivo, pur non impressionando appunto dal punto di vista compositivo. Nel terzo e ultimo atto della canzone c'è una nuova e brusca velocizzazione, nessuna sorpresa a tal proposito, atto finale che rivede fra l'altro la strofa di canto. Non molti artisti, per fare un eufemismo, hanno scelto di concludere il brano nella maniera più grezza e violenta possibile, anche all'interno del genere. Gli Exodus invece sorprendono ancora una volta per le loro scelte, ponendo l'episodio più "volgare", concedetemi il termine, e diretto proprio al termine di questo lavoro. Nel brano la vera protagonista è la distruttiva macchina da guerra, ovvero il carro-armato disegnato in copertina. Quest'ultimo calpesta e riduce in polvere qualunque cosa sulla sua strada, alimentato dalla carne fetida dei cadaveri e presentandosi come l'arma più malvagia e impura della storia, l'arma di Satana, con l'unico obiettivo di "uccidere tutto", citando letteralmente le liriche. Davanti ad una tale potenza distruttrice, ci si può solo inginocchiare e morire ridotti in poltiglia. Gli Exodus affermano con consapevolezza che una tale arma sia del tutto inumana, demonica, e sostengono che il suo nome non deve essere pronunciato. A noi, personalmente, basta sapere che è lubrificata dal sangue e alimentata da cadaveri, in modo da avere abbastanza motivazioni per evitarla.
Conclusioni
Una cosa è certa, questo "Shovel Headed Kill Machine" è decisamente differente dal suo predecessore "Tempo of The Damned". Tanto per incominciare, è diversa la formazione, per ben 3/5. Sono diverse le scelte, è diverso il sound, praticamente è diversa qualunque cosa. Ora, considerando la grandezza e maggiore qualità del suo predecessore, questo "Shovel Headed Kill Machine" sarebbe facilmente condannabile anche solo per questa quasi inevitabile involuzione. Ma sarebbe banale. Come amanti della musica abbiamo l'obbligo di guardare in profondità, analizzare i diversi fattori, cogliere cosa c'è di buono e cosa c'è di brutto. Dunque, parliamoci chiaro, questo settimo album della band è un album che possiede alti e bassi. Basti dire che abbiamo trovati episodi diretti e concreti, e nel modo di essere perfetti, come "Karma's Messenger", tentativi di creare una sorta di brano-capolavoro con "Deathamphetamine", gli allineamenti con molti contemporanei lavori del genere sono stati frequenti nella seconda metà dell'album, ed allo stesso modo la band ha strizzato l'occhio sia a tratti a band considerate fondamentali della scena Groove Metal, vedasi Exhorder o Pantera, sia a qualcuna del Death Metal più Old School, specie dal punto di vista vocale. Ecco, diciamo che questo è un elemento più a sfavore che a favore, la compresenza di diverse tipologie di sound che non donano un'anima unica e contraddistinguibile al full-length. Questo è un album che potrebbe essere anche odiato dai veri amanti del genere che non hanno voglia di ascoltare il loro genere preferito "inquinato" da altri magari più moderni, e questo è importante dirlo perché gli Exodus rappresentano una di quelle band che con il loro Thrash Metal vecchia scuola non sono mai scese a compromessi, e dunque hanno in questa frangia il loro target d'ascolto. Ad ogni modo, troviamo un Gary Holt che ci regala qualche ottimo riff, forse lo vediamo un po' spento però, questo bisogna dirlo, rispetto ai suoi standard. Meno costante soprattutto, dal momento che ci sono episodi dove come detto le ritmiche non ci hanno affatto impressionato, cosa rara considerando le enormi qualità compositive di un chitarrista come Holt. E qui si ritorna al discorso degli alti e bassi. Rob Dukes è un vocalist particolare, una scelta atipica, considerando gli Exodus e la filosofia che hanno sempre portato avanti. Un vocalist new school su una band old school. Inevitabile così, che in composizione e produzione, dei cambiamenti ci sarebbero stati, delle rivoluzioni sarebbe più appropriato dire, considerando nome e storia Exodus. L'interpretazione vocale l'ho trovata migliore nella prima parte del full, peggiore nella seconda dove in generale l'album salvo qualche frangente è andato spegnendosi. Il motivo? Stiamo parlando di un vocalist magari anche ottimo, ma non ancora ben inserito in un sound che a dirla tutta potrebbe proprio non essere il suo. Gli Exodus, infatti, hanno dovuto smettere di essere gli Exodus per poterlo collocare adeguatamente nel lavoro, lavoro in cui appunto si trova meglio nei momenti in cui la band più si discosta dal suo sound originale. Il discorso sul carisma l'abbiamo già fatto, lo ripetiamo: uno Steve Souza è un cantante unico al mondo, dona ad ogni canzone quel qualcosa in più, e non c'è nessuno con cui può essere sostituito. Nessuno. La voce è la sua e basta, è la voce degli Exodus, quella storica band unica e originale nella proposta. Rob Dukes no. Rob Dukes lo puoi sostituire con qualsiasi growler o screamer qualunque, tant'è che quando nei primi brani imita un po' il trademark vocale di Souza viene un po' drammaticamente da sorridere. Ma quegli stessi sono i momenti migliori, dal momento che sono quelli in cui la band resta fedele alla sua linea facendo ciò in cui è più brava. Guardando il lato positivo, perché ce ne sono di lati positivi, il lavoro dei nuovi entrati Paul Bostaph e Lee Altus è magistrale, la batteria è devastante e contraddistinta da ritmi forsennati e a tratti epocali, e anche il basso di Jack Gibson è reso bene, con la sua feroce distorsione e il suo saltuario protagonismo. Dunque ottimo, ottimo lavoro con la base ritmica. Resta un album carino e piacevole da ascoltare una volta, forse due, ma che non si fa ascoltare e riascoltare decisamente dagli amanti di quel Thrash Old School che fino a "Tempo" gli Exodus hanno sempre suonato. Durante il "track by track" ho fatto molti parallelismi fra alcune delle tracce della seconda parte dell'album e lavori del nuovo millennio dei Destruction, dal momento che le influenze di album come "The Antichrist" del 2001 sembrano aver influenzato notevolmente gli americani in questo lavoro. Ciò non vuol dire che sono tracce negative per carità, anzi sono potenti e godibilissime. Ma gli Exodus sono una grande band, non possono e non devono limitarsi a scarabocchiare altri lavori lanciandosi in un sound che non è il loro. Possono evolversi, possono trasformarsi, come hanno fatto Voivod, Forbidden e decine di altre band del genere, ma devono evolversi e trasformarsi su loro stessi, rimanendo gli Exodus, non perché suonano qualcosa di altrettanto classico, differente e già sentito e risentito. Spero che il mio punto di vista sia chiaro. Resta questo nonostante questi importanti difetti un lavoro sufficiente, più che ascoltabile, e con frangenti eccezionali come la terza traccia e qualità importanti come quelle ritmiche. Bello anche l'artwork, che in un freddo e grigioblu monocromatico mette in primo piano il devastante carro armato della morte, un carro armato guidato da un pazzo e che si nutre di sangue e cadaveri. Altrettanto valida artisticamente la contrapposizione fra questi freddi colori dell'artwork e quelli caldi per il consueto logo della band, fiammeggiante e incendiario. Il titolo dell'album è invece sito in basso a sinistra, e si affianca al contrario allo stile del resto del disegno. Spero che questo ascolto e recensione vi siano piaciuti, noi ci vediamo al prossimo lavoro della band. In alto le corna!
2) Deathamphetamine
3) Karma's Messenger
4) Shudder to Think
5) I Am Abomination
6) Altered Boy
7) Going Going Gone
8) Now Thy Death Day Come
9) 44 Magnum Opus
10) Shovel Headed Kill Machine