EXODUS
Pleasures of the Flesh
1987 - Combat Records
MARCO PALMACCI
15/09/2017
Introduzione Recensione
Squadra che vince, non si cambia. O forse sì? Stando alle vicissitudini che portarono gli Exodus lontani da Paul Baloff, probabilmente, potremmo anche decidere di mettere in discussione lo storico proverbio. Inutile sottolinearlo: la squadra che realizzò quel pilastro in granito e cemento armato altrimenti noto come "Bonded by Blood" fu una delle più vincenti in assoluto. Duelli chitarristici intrisi di pura rabbia, riff infuocati, ritmica tritaossa... voce bestiale, a dire poco. Un'ugola, quella del compianto Paul, capace di valorizzare enormemente il meraviglioso lavoro svolto dai suoi colleghi, donando al Thrash degli Exodus una dose a dir poco massiccia di violenza e ruvida attitudine. Ruvida quanto il rumore di una sega passata su di un tronco di legno grezzo. Insomma, la parabola dei Nostri sembrava veramente in netta ascesa: giovani, affamati, indiavolati, con (già) alle spalle un disco che - nonostante ritardi nel rilascio e problemi di business - riuscì a scuotere in maniera subitanea i cuori e le viscere di tantissimi metallari in giro per il mondo, scrivendo immediatamente una pagina importantissima del Thrash Metal. Vi chiederete, amici lettori, come sia dunque possibile - arrivati a questo punto - riallacciarsi al proverbio posto in apertura di articolo. Insomma: quella narrata sino ad ora sembra davvero una favola degna di un lieto fine, inutile negarlo o cercare di nasconderlo. E certamente gli Exodus avrebbero meritato un percorso più scorrevole, meno irto di problemi e preoccupazioni, dopo cotante "prove" superate in maniera brillante; eppure, sappiamo fin troppo bene quanto sia sorda ed insensibile la dea bendata, altresì siamo coscienti della vista da lince posseduta dalla sfortuna. E proprio quest'ultima decise di abbattersi su di una formazione nel pieno della sua potenza, separandola di netto da un membro chiave. Come se non fossero bastati i problemi sorti durante la lavorazione di "Bonded By Blood", come se non fosse bastato dover fare i conti con un ritardo che di fatto lo penalizzò anche più del dovuto; superate le avversità iniziali, per gli Exodus arrivò il momento di fare i conti con gli stravizi del proprio frontman, decisamente più interessato all'alcool ed alla droga, piuttosto che alla musica. La situazione era divenuta di fatto ingestibile: se da un lato il comportamento di Baloff poteva essere considerato come una "normale" esagerazione tipica della rockstar impertinente e dannata, dall'altro ben capiamo (tutt'oggi) quanto sia impossibile relazionarsi in maniera professionale con una persona più dedita al culto della bottiglia che della serietà lavorativa. Gary Holt, Rick Hunolt, Tom Hunting e Rob McKillop decisero quindi, seppur profondamente a malincuore, di dividere le proprie strade da quelle di Paul; il quale non mancò certo di dare in escandescenze, sbattendo rumorosamente la porta dopo la sua uscita, formando ex novo una band chiamata (per ripicca, presumibilmente) Piranha esattamente come uno dei più noti brani degli Exodus. Exodus i quali si ritrovarono dal giorno alla notte senza un cantante fisso, senza un frontman capace di farli spiccare e riconoscere all'interno della scena. Pur perso dietro vizi autodistruttivi, tutto si poteva dire di Baloff meno che non fosse un cantante carismatico: la sua attitudine bestiale, quasi selvaggia, la sua voce ruggente, violenta, tagliente... qualità che sarebbe stato difficilissimo rimpiazzare, ma che dovevano per forza di cose ritornare in auge, presenti in una nuova ugola. La scelta e la ricerca furono ardue... finché un giorno i Nostri non notarono un giovane assai particolare, a livello vocale; già cantante in una band nota con il nome di Legacy, il rampante Steve Souza (per gli amici Zetro) sembrava incarnare in sé diversi tipi di pregi. Prima di tutto, il suo particolarissimo modo di cantare: diametralmente opposto a Paul, il ragazzo sembrava più un Bon Scott / Marc Storace prestato al Thrash Metal. Non troppo bestiale o comunque ruggente, anzi a tratti urticante e lisergico, nasale. Secondo pregio, l'essere un ottimo songwriter (fu lui a scrivere la maggior parte del materiale poi confluito nella demo "The Legacy", esordio del suo ex gruppo). Terzo ed ultimo, ma non in ordine di importanza, l'essere una persona totalmente affidabile. Inutile dire che per gli Exodus fu come vincere alla lotteria, ancor più quando il cantante, seppur titubante all'inizio, decise di cominciare l'avventura assieme alla nuova band, lasciando i suoi precedenti compagni. I quali non rimasero comunque privi di un frontman troppo a lungo, in quanto Zetro presentò loro un suo amico... un amico destinato a scrivere con i Legacy una saga fondamentale per la storia del Thrash Metal made in U.S.A. Se vi dicessi che, subito dopo l'entrata di questo sconosciuto Chuck Billy, i Legacy avrebbero cambiato il proprio nome in Testament, come reagireste? Andiamo pure avanti con la nostra storia! Dunque, ritroviamo gli Exodus finalmente uniti e compatti, liberi delle esagerazioni e delle mancanze del proprio ex cantante, con in scuderia un giovane promettente e particolare. Un membro, Souza, che avrebbe dovuto cucirsi all'interno del gruppo un suo spazio personale, diverso da quello già occupato da Baloff ai suoi tempi. Tutto un altro tipo di voce, un elemento di novità pazzesco ed a tratti spiazzante; bisognava per forza di cose rimescolare le carte in tavola, rendendo il seguito di "Bonded by Blood" più adatto alle vocals di Zetro. Il quale non mancò certamente di fornire ai colleghi più di un ottimo assist, di fatto innescando quel processo di maturazione che avrebbe portato, dalla grezzaggine iniziale, al più fluido e levigato "Fabolous Disaster". Prima di giungere sui lidi di quel capolavoro, tuttavia, dobbiamo necessariamente citare l'album spartiacque, il decisivo compromesso, il disco che più di tutti incarnò gli Exodus che furono e che divenirono: quel "Pleasures of the Flesh" rimasto incastrato fra due capolavori di portata epocale, purtroppo mai considerato come avrebbe (ampiamente) meritato. Partorito negli studi "Alpha - Omega" di San Francisco, prodotto dalla sapiente mano di Marc Senasac (in un certo senso, da quel momento, il "pigmalione" dei Nostri) e rilasciato ufficialmente nell'Ottobre del 1987, "Pleasures..." andò quindi a presentare i "nuovi" Exodus. I quali non persero certo in potenza od impatto, ma per forza di cose indirizzarono il proprio Thrash al servizio di un cantato differente. I piaceri della carne erano dunque pronti per essere gustati... come ci suggerisce l'eloquente copertina, la quale ritrae i membri del gruppo seduti in un bar dall'aspetto assai etnico e tribale, possedenti ciascuno un teschio umano, appoggiato loro vicino, sul bancone. Versione edulcorata di un art work in seguito scartato, il quale li avrebbe visti invece in atti di "cannibalismo" ben più espliciti. Possiamo dunque tirarci indietro dinnanzi a questo succulento barbecue? La risposta è ovviamente no. Let's Play!
Deranged
Veniamo dunque accolti dalla prima traccia del platter, "Deranged (Svitato)", aperta da una voce radiofonicamente sinistra. Come se gli Exodus avessero raccolto le testimonianze su nastro di un serial killer, ecco che il folle chiacchiericcio di un barbone (nel modo di esporsi assai simile a Charles Manson) si destreggia nelle nostre orecchie. L'avvinazzato clochard risponde al nome di Tom Skid, un senzatetto alcolista che di quando in quando bazzicava dinnanzi agli studios dove i Nostri erano soliti lavorare per la realizzazione di "Pleasures...". Gli venne offerto di prendere parte alle registrazioni, e l'uomo accettò in cambio di un gallone di vino; costo complessivo, quattro dollari. Ecco dunque che, con il suo modo di fare ai limiti dello psicopatico, l'ospite descrive appieno la sua vita distrutta dall'alcool. Risse, ricoveri d'urgenza, voglia di mangiare insalata (??)... chi più ne ha, più ne metta. Il modo giusto per aprire un brano incentrato sull'umana follia, di lì a poco pronto ad esplodere. Riffing serrato e violento da parte della coppia Holt / Hunolt, si picchia duro e si corre veloci in maniera quasi asfissiante ed opprimente. Possiamo finalmente udire la voce di Zetro quasi immediatamente, un vero e proprio Bon Scott prestato al Thrash Metal; ugola abrasiva ed acida, certo violenta ma anche estremamente più particolare e versatile rispetto a quella di Baloff. Il tutto messo al servizio di un brano concitatissimo, che alterna strofe e ritornelli in maniera impertinente e manesca, senza lasciarci neanche un istante per riprendere fiato. Hunting e McKillop sudano le proverbiali sette camicie per star dietro ad una coppia d'asce da manuale, riuscendo comunque nel loro intento; del resto, è di follia che parliamo, e non potevamo in virtù di questo aspettarci una ballad! Siamo al cospetto di un personaggio combattuto, evidentemente disturbato. Un folle sul punto di esplodere, in procinto di dar libero sfogo alla sua pazzia. Cercano di consolarlo, di tenerlo buono, persino il suo psichiatra lo definisce sano ed innocuo... eppure, lui sente di avere in sé qualcosa di sbagliato, di covare nella sua mente pensieri malsani. Un vortice di rabbia e malattia mentale ben scandito da un brano che non fa prigionieri: "Deranged" è come un bastone chiodato, ricevuto in pieno volto, all'improvviso. Rompe ossa e lascia i segni, proseguendo con la sua violenta galoppata fino a sfociare in una coppia di assoli decisamente di forgia Slayeriana. E' Gary a recitare la parte di Kerry King, quella di Hanneman tocca a Rick. Assoli squillanti e taglienti come rasoi, oscuri, pesanti come macigni. Un po' come tutto il brano, il quale nella sua parte finale (se possibile) si esaspera ancor di più. Con esso anche la voce di Zetro, ansiogena, lisergica eppure così meravigliosamente buia e crudele. Esattamente come il protagonista delle liriche, ormai giunto a compiere l'atto definitivo: l'omicidio. Trascurare i suoi evidenti segni di malattia lo hanno dunque portato ad agire indisturbato; arrestato e condotto in un penitenziario, dopo soli sei mesi viene rilasciato per essere ricoverato in una clinica specializzata, nella quale subirà pesanti trattamenti a suon di psicofarmaci e persino una lobotomia. Tutto sembra rientrato nei ranghi... quando ecco la sorpresa finale. Il folle ha solo finto di mostrarsi accondiscendente nei riguardi delle terapie: egli ama uccidere, e tornerà a farlo nonappena verrà dimesso. Insomma, la cronistoria di un serial killer ben raccontata attraverso riff rocciosi, granitici, scanditi da una ritmica terremotante e da una voce che, in questo esordio, ha dimostrato di poter dire la sua. Senza farci rimpiangere nessuno.
'Til Death do us Part
Proseguiamo di gran carriera grazie all'avvento di 'Til Death do us Part (Finché morte non ci separi), pezzo aperto dai roboanti tamburi di Hunting, percossi in maniera tonante. Il fabbro degli Exodus maltratta i suoi incudini percuotendoli a suon di martelli, in maniera comunque precisa e chirurgica. Un tempo, quello scandito da Tom, non propriamente veloce né tanto meno serrato. Tribale, quasi, evocativo: l'ideale per lo snodarsi di un riffing per molti versi rimandante alcuni brani dei Metal Church, quelli più oscuri e cadenzati, per intenderci. Un brano che sorge direttamente dal regno delle ombre e per forza di cose non opta per una velocità senza quartiere, anzi. A recitare la parte del leone è ovviamente uno Zetro versatilissimo, capace di adattarsi a questo improvviso cambio di clima. Per un brano più lento, misterioso e particolare del precedente, occorreva per forza di cosa una timbrica ad esso coesa: Steve non ci delude ed aggiunge un bel carico da 90 ad un'atmosfera già di per sé molto ansiogena. Atmosfera recante seco una sorta di autobiografia in versi, nella quale gli Exodus ci parlano delle svariate difficoltà incontro alle quali possiamo incappare, semplicemente vivendo. Tanti nemici, tanta sfortuna, tanta voglia di lasciar perdere tutto. Eppure, i Nostri sembrano godere della propria sofferenza; godono, perché più sono chiamati a combattere più si esaltano. Più sono sotto pressione, più amano far vedere agli altri chi realmente essi sono. Dei guerrieri fatti e finiti, che per nulla al mondo getteranno la spugna. Si sprecano i riferimenti alle vicissitudini gravitanti attorno al rilascio di "Bonded..." nonché all'abbandono di Baloff. Una vita, quella dei Nostri, corsa sul filo del rasoio, per nulla facile. Proprio per questo hanno deciso di lottare ancor più alacremente, andando avanti laddove molti sarebbero tornati indietro. Si placano ulteriormente i tempi verso lo scoccare del terzo minuto, quando Holt e Hunolt si donano ad inserti caratteristici di vaga forgia Mercyful Fate, allietandoci verso la fine con degli assoli serpeggianti ed immersi nel buio. Oscurità che domina, ansia, angoscia... eppure, nel testo si evince chiaramente una fortissima voglia di rivalsa. La musica sarà quel che sarà, ma i versi parlano chiaro: bisogna lottare, impegnarsi. Tutto è possibile, finché si è ancora in vita. Sarà la morte, la falce incappucciata, a metterci dinnanzi al limite invalicabile. Prima di allora, nulla ci sarà precluso e varrà sempre la pena andare avanti, farsi largo a suon di pugni e calci. La strada del successo (sia personale sia in senso lato) è lastricata di macigni da estirpare a mani nude. Chi ha paura farebbe meglio ad abbandonare il campo di battaglia: con gli Exodus o si lotta o si va a casa. E' il riff portante a protrarsi a lungo verso il finale e dopo gli assoli, decretando la buona riuscita di un pezzo davvero particolare. Sempre a testa alta... indietro mai, nemmeno per prendere la rincorsa.
Parasite
Un rumorosissimo sciame di mosche apre il terzo brano, "Parasite (Parassita)", il quale squarcia a suon d'artigli affilati (pardon... di riff affilati!) l'atmosfera instauratasi nel brano precedente. Siamo dunque catapultati all'interno di un brano violentissimo: il battere ossessivo di Hunting sembra mimare i colpi di un fucile, mentre la coppia d'asce macina note serrate, sporche e rugginose. Si spara, si corre, si picchia: il Thrash Metal com'era e come DEVE essere, poco altro da aggiungere. Ancora una volta possiamo, nemmeno a dirlo, apprezzare la grande capacità di uno Zetro sugli scudi; capace con le sue linee vocali di donare grande dinamismo ad un brano dalla struttura semplice ma, grazie proprio al suo apporto, vivace e sempre pronto a stupire. Ora più manesco nelle strofe, ora più melodico nei chorus, Steve colora la sua tela con fare estroso ed impertinente, mentre nel background piove musica a manciate di grandine. Proprio manciate... migliaia di essere microscopici, venuti da chissà dove, chissà quando. Parassiti alieni, giunti sulla terra per impossessarsi della nostra vita. Si insidiano in noi, li vediamo volare compatti verso le nostre teste: il cielo è nero, oscurato dalla loro presenza. Come locuste fameliche essi si gettano sulle nostre ignare teste, desiderosi di nutrirsi d'ogni neurone in queste ultime presenti. Non riusciamo più a controllare nemmeno un muscolo, siamo come imprigionati dentro noi stessi. I parassiti stanno vincendo la loro vita, e non sembra esserci veleno in grado di fermarli. DDT e derivati... nulla riesce a bloccare quest'orda maledetta. Ecco proprio in concomitanza dell'invasione che Gary dà vita ad un assolo incredibilmente melodico e coinvolgente, quasi parodiante le main theme di diversi videogame dell'epoca. Un modus suonandi à la Space Invaders, mentre Rick continua a macinare il riff portante in maniera potente e sfrontata. Presto si ritorna nei ranghi, ed ecco che la coppia d'oro riprende il proprio naturale stile. Si corre all'impazzata, rischiando di schiantarsi... ma l'urto è ben lungi dall'avvenire, ancora! Dopo una lunga sezione solistico-strumentale, Zetro torna a presentarci un'ultima letale accoppiata di strofa e refrain. L'invasione è completa, siamo ormai alla mercé di questi microscopici alieni. I parassiti hanno vinto, non possiamo fare altro che piegarci al loro volere e lasciare che lentamente ci divorino, finché del nostro libero arbitrio non resterà che un pallido ricordo; e forse, nemmeno quello. Un testo che sembrerebbe descrivere la trama di vecchi film horror / sci-fi, come ad esempio "L'invasione degli Ultracorpi" di Don Siegel. Non sarebbe sbagliato pensare ad un tributo meravigliosamente offerto dagli Exodus a questo tipo di pellicole, da sempre fautrici di testi ed idee per molte band Metal.
Brain Dead
Quarto brano del lotto, "Brain Dead (Morte Cerebrale)" si configura sin da subito come una dura invettiva scagliata - senza peli sulla lingua - contro un certo stile di vita. Nemmeno a dirlo, sembra proprio che la rabbia degli Exodus venga indirizzata nei riguardi di chi, come Paul Baloff, sia dedito al culto dell'autodistruzione. Droghe ed alcool: non dobbiamo certo aspettarci un testo à la Minor Threat, sia chiaro, visto che i Nostri di certo non possono essere considerati degli straight edge. Quel che viene condannata non è l'assunzione in sé, più che altro è l'abuso sciocco e sconsiderato della sostanza in generale, a non dover sussistere. Un bel mid-tempo si palesa sin da subito: la batteria di Hunting ed il basso di Rob divengono più essenziali e lineari, decisi a ben tenere il tempo piuttosto che lanciarsi in corse funamboliche. Zetro rimane il leone che tutti conosciamo, in grado quasi di "sussurrare" durante un chorus sicuramente interessante, particolarissimo. Il ritmo generale incalza, "Brain Dead" fa venir voglia di muoversi a ritmo e riesce nell'intento di stringerci in coorte, facendoci muovere all'unisono le nostre teste, scuotendo i capelli. Insomma, ritmi "pacati" (per quanto maneschi) alla base di un testo di condanna, di feroce condanna contro l'abuso di determinate sostanze. Ci chiedono, gli Exodus: come dev'essere, ridursi ad un vegetale? Come ci si sente, una volta che il nostro corpo smette di rispondere ai comandi del cervello, ormai ridotto ad un cumulo di carne inservibile? Semplicemente, si cessa di vivere. O meglio, si può ancora venir considerati vivi, in teoria; in pratica, una vita gettata alle ortiche ed ormai indegna di venir protratta troppo a lungo. I Nostri nemmeno sembrano credere alla possibilità di riabilitazione, in quanto per loro l'unica cura possibile, per un "tossico", è la morte. Un verso cinico e spietato, recitato da Zetro con fare sardonico ("Sì, è giunto il momento di aiutarti.. muori!!) e con tanto di risata accennata, risulta in questo senso piuttosto eloquente. Chiaro come il risentimento nei riguardi di Paul sia ancora vivo. Quel Paul che ha di fatto impedito agli Exodus di poter condurre una sana vita di band, perso com'era dietro ogni stravizio, mancanza di professionalità ed irresponsabilità. La ritmica si fa più articolata in concomitanza degli assoli, ben eseguiti e magnificamente stagliati sul mid-tempo generale. Si termina urlando in coro il titolo del brano, come se i Nostri si fossero trasformati in cinque ultras. Il concetto viene dunque esasperato, un cervello morto non serve a nulla; e chiunque si trovasse in certe condizioni, dovrebbe solamente prendersi e gettarsi da solo in un cassonetto, tanta sarebbe la sua inutilità, in quello stato. Un testo ancora una volta autobiografico ma comunque caustico, distruttivo. Molti potrebbero obiettare, ritenerlo magari eccessivamente cinico e spietato, ma tant'è. Questi ragazzi, alla fin fine, parlano di un'esperienza realmente vissuta: non ci troviamo dinnanzi ad una conciona moralista, tutt'altro. "Brain Dead" non è altro che rabbia urlata contro ciò che ha quasi impedito agli Exodus di proseguire sereni verso il loro cammino.
Faster Than You'll Ever Live To Be
Il lato A di "Pleasures of the Flesh" termina quindi con il brano "Faster Than You'll Ever Live To Be (Più veloce di quanto tu potrai mai essere)", il quale onora il suo titolo spingendo subito sull'acceleratore. Pedal to the Metal, gli Exodus iniziano a correre in maniera spropositata abbandonando ogni proposito mostrato nella traccia precedente. Anche la voce di Zetro torna più carnivora e viscerale, sempre estremamente interessante e preziosissima in fase di impostazione. Dinamismo e vivacità, l'ugola di Souza si sposa alla perfezione con il riffing work serrato e violento di Holt ed Hunolt, i quali non lasciano scampo né prigionieri. Il gruppo deve correre, vuole correre. Vuole mostrarsi crudele, potente, decisamente intenzionato a far del male anche fisico a chiunque stia ascoltando questo disco. Tanti altri provano a suonare come gli Exodus, ma nessuno di loro riuscirebbe mai ad eguagliarli. Ogni sciocco, miserabile disadattato che proverà a fermare questa corsa non dovrà fare altro che arrendersi anzitempo, dimostrando di tenere alla sua pelle. In caso contrario, i Nostri guerrieri della strada estrarranno le loro pistole liberando non poche raffiche di pallottole. Sono i più veloci, sono i più cattivi, sono i più feroci. Sono gli Exodus, e sono tornati a ruggire dopo un silenzio quasi fatale per tutti loro. Con un nuovo cantante in scuderia, con la voglia di esagerare, carichi a mille, come un mitra pronto a sparare: un manipolo di soldati pronto a far fuori ogni cosa, ogni oggetto, ogni persona, a suon di riff di cemento, batterie tonanti, bassi frastornanti ed una voce fiera, leonina. Si continua a martoriare gli strumenti finché la premiata ditta Holt / Hunolt non decide di lanciarsi in assoli potenti ed anche particolari, in quanto il finale dell'esibizione combinata del duo sembra quasi richiamare (per alcuni versi) lo stile del celebrato Jeff Waters. Sono proprio i soli il fiore all'occhiello di un brano che basa la sua ultima porzione interamente sull'incessante dialogo dei due axemen. Note squillanti ed urticanti, funamboliche ostentazioni di violenza, priapismo musicale: duri come la roccia, impenetrabili come il metallo. Assoli al fulmicotone perfettamente adagiati su di un riff ritmico veloce e scalcinato, in grado di esaltare ogni nota emessa dal combo a 12 corde. Gli Exodus menano colpi tanto quanto ne ricevono: portano sulle loro schiene profonde cicatrici, in nome delle quali vogliono battersi. Si prende come si dà, restituendo i "doni" il doppio più grandi. Con il fuoco nelle mani e negli occhi, la band si scaglia contro di noi, distruggendo i nostri timpani. Cerchiamo di divincolarci, ma ci muoviamo troppo lentamente. I cinque cacciatori ci hanno ormai incastrati nei loro mirini, è solo questione di tempo ed una rasoiata letale reciderà i nostri tendini, facendoci cadere a terra. Ignari, verremo travolti da questa furia esecutiva, destinata a naufragare in una chitarra che pian piano deciderà di fermarsi progressivamente, lentamente, mimando quasi lo spegnimento di un motore. Che ne dite, è stata una corsa abbastanza veloce?
Pleasures of the Flesh
Lato B aperto dalla titletrack, "Pleasures of the Flesh (I piaceri della carne)", nonché il brano più lungo dell'intero platter (più di sette minuti). Tamburi etnici e strumenti / versi tipicamente indigeni aprono un brano che si preannuncia da subito particolarissimo. I rumori delle foreste pluviali, delle giungle, si fanno presto largo nelle nostre orecchie: sembra di essere immersi in una terra lontana anni luce dalla civiltà occidentale, smarriti nelle verdi macchie popolate da bestie feroci. Una danza ritualistica degna di una civiltà precolombiana, ansiogena, celebrante un sacrificio umano. Urla e ruggiti non meglio definiti, rumori di fauci fameliche, respiri affannosi... un clima degno dei migliori Lenzi e Deodato. Catapultati in pieno nel mondo di "Cannibal Holocaust", veniamo così accolti dalla strumentazione elettrica; pesanti chitarre descrivono un clima ansiogeno, a suon di ritmi cadenzati, questo prima che gli Exodus decidano di correre ed aumentare i giri del motore, presto presentandoci una letale accoppiata di strofa e ritornello. Si dilania e si squarcia, chitarre sferraglianti ed un cantato mordace, salace, atto a descrivere questa razza di cannibali ormai impadronitasi dell'intero mondo. Non vediamo altro che cumuli di ossa lungo le strade, pozze di sangue, pile di cadaveri avidamente consumati a suon di morsi: uno scenario apocalittico nel quale veniamo nostro malgrado inseriti, costretti a difenderci da questa strana razza di vampiri (pare che gli esseri, infatti, vivano solo di notte e traggano prezioso nutrimento dalle nostre carni / dal nostro sangue). E' dopo il primo chorus che tutto cambia improvvisamente, quando la coppia d'asce si lancia in ritmiche cadenzate e particolarissime, ancora una volta strizzanti l'occhio a chitarristi come Andy LaRocque e Jeff Waters. Piacevole intermezzo destinato comunque a preannunciare una nuova corsa, un nuovo lancio nel vuoto duranrte il quale gli Exodus dimostrano di non aver affatto paura dell'altezza. I vampiri agiscono di notte, in maniera famelica ed animalesca, barbarica a dire poco. Uccidono senza pietà, senza un piano... uccidono per consumare lauti pasti, totalmente a caso, noncuranti. Non possiamo fare altro che nasconderci e sperare di non essere trovati. In caso contrario... bon apetit. Ritornano gli inserti "tecnici" subito dopo il secondo chorus, dopo i quali Hunolt e Holt si esibiscono in assoli vorticosi sebbene lineari, scanditi dalla canonica velocità alla quale il brano ci ha abituati. Linearità di fondo eppure esecuzione brillante e mai scontata, anzi. Note vibranti, capaci di entrare nell'anima, di inculcarci un po' di sana voglia di air guitar. Dopo aver scosso le nostre teste a suon di battute taglienti e telluriche, ci si ferma per un secondo: qualche sprazzo di King Diamond / Annihilator risorge prepotente. Giusto il tempo di rifiatare per prepararsi ad un assalto finale, il quale ci condurrà alla fine del brano. Meglio non girare per strada, dopo il tramonto. Credevamo di vivere in un mondo civile, eppure la giungla sembra proprio non essere composta solo da vegetazione e selvaggina. I nostri palazzi sono diventati le nostre tombe, i nostri cimiteri le loro cattedrali. I cannibali sono già in cerca della loro prossima vittima... chi mai potrebbe essere? Forse... proprio tu, che ci stai leggendo? Occhio alle spalle.
30 Seconds
Tiriamo il fiato con un brevissimo intermezzo, dalla durata già annunciata nel titolo: "30 Seconds (Trenta secondi)", ovvero un'esibizione di chitarra acustica, a metà fra il folkloristico ed il menestrellare, con sprazzi di Spagna qui e là. Sicuramente un'esibizione, per quanto corta, spiazzante a dire poco. Cosa dovremmo dunque aspettarci? Zetro intonare Malaguena Salerosa? Staremo a vedere con il proseguo dell'album! Di certo, trenta secondi di pura goliardia comunque da non sottovalutare; fa sempre bene mostrare una certa pluralità di base, per un musicista. Almeno, il vostro affezionatissimo è convinto di ciò.
Seeds of Hate
La scalpitante batteria di Hunting, fremente ed indomita quanto un nero frisone, ci dà dunque il benvenuto in "Seeds of Hate (I Semi dell'Odio)"; un brano che decisamente non riprende il precedente - giullaresco - gigioneggiare a suon d'acustica! Un brano che parte veloce ma si assesta con l'arrivo di Zetro su tempi più quadrati e ragionati, precisi ed incalzanti. Un riffing work dedito al culto dell'ansia, volenteroso di mimare l'arrivo di un predatore a falcate impercettibili. Zetro assume un tono anch'esso misterioso e particolare, andando di pari passo con la struttura del brano. Lunghe note ben emesse, ranghi non troppo serrati e scorrevolezza a mo' di marcia: come un plotone in viaggio verso la nuova guerra, gli Exodus ci narrano di quei danni causati irrimediabilmente dai cosiddetti semi dell'odio. I germi dell'umana follia, la stessa pazzia che ci porta ogni giorno a compiere atti atroci in nome di non si sa bene cosa. Probabilmente, non ne siamo nemmeno consapevoli. Far la guerra è ormai lo sport preferito dagli umani, e nessuno sembra deciso ad esimersi dal praticarlo. C'è sempre un razzo puntato chissà dove e contro chi, ci sarà sempre un carro armato pronto a varcare un confine, avremo sempre di che combattere. Petrolio, soldi, manie di grandezza o protagonismo... il motivo non importa nemmeno più. Quel che vogliamo è semplicemente invadere, distruggere, conquistare. Un po' come gli imperiali Exodus, i quali tornano a correre dopo metà brano. In questo frangente, "Seeds..." si tinge di concitata violenza, scuotendosi e decidendo di premere sull'acceleratore. La corsa è presto servita, e dopo i duri e ruggenti versi cantati da Zetro Gary e socio si lanciano in una letale accoppiata di soli, velocissimi e quasi esasperati verso il finale della loro esibizione, salvo poi acquisire maggior carica melodica in concomitanza di una lunga parentesi strumentale. Di lì a poco i chitarristi decideranno infatti di tingere la loro musica di triste solennità, non rinunciando alla velocità ma molto giocando con la melodia, mimando uno scenario apocalittico e desolante. Tutto è stato raso al suolo, nulla è più come un tempo. Macerie, morte, distruzione... siamo giunti alla fine della civiltà, al totale annichilimento di quest'ultima. Non abbiamo di che vivere, non vi sono più ideali. La pace è l'utopia delle utopie, nasciamo già con un mitra in mano. Marchiando a fuoco il concetto, la band decide sul finale di inserire rumori bellici d'ogni sorta: marce di soldati, esplosioni di bombe e missili. La fine del mondo come l'abbiamo sempre temuta, giunta per mano nostra. L'uomo e la voglia di dar battaglia, un'accoppiata che affonda le sue radici sino all'età della pietra. Siamo vittime e carnefici di noi stessi, al contempo, e non possiamo certo biasimare nessuno per gli sbagli commessi in maniera totalmente sciocca ed irresponsabile. Un brano dalle due facce, ben studiato e decisamente dinamico; non c'è che dire, i Nostri Exodus sembrano non sbagliare neppure un colpo!
Chemi-Kill
Ci avviciniamo alla fine del platter con l'avvento di "Chemi-Kill (Morte Chimica)", aperta da una cantilenante quanto ipnotica melodia di chitarra, alquanto sinistra nel suo dipanarsi. Non riusciamo a capire cosa possa accadere di lì a poco, ma il mistero viene presto svelato con il proseguo del brano: un pezzo che si rivelerà essere un bel mid-tempo condito da riff talvolta serrati e talvolta più essenziali. Cadenze letali, dinamismo ai massimi livelli, ritmi incalzanti, propensione ad una velocità letale mai del tutto manifestate... il tutto ammantato di una pesantezza a dir poco granitica, metallica, quasi tutta la canzone si configurasse come la marcia di un enorme Juggernaut giunto qui per disintegrare ogni cosa. Un brano pesante anche se non veloce, recante in sé messaggi d'odio puro scagliati contro i politici in generale, in maniera del tutto schietta, non censurata in alcun modo. Qual è, secondo gli Exodus, la loro colpa maggiore? Quella di aver distrutto la natura per profitto. L'aria che respiriamo, contaminata da chissà quanti veleni, non è altro che il frutto di certe, sconsiderate strategie; disboscamenti, abbandono di rifiuti tossici, mari irrimediabilmente inquinati, acque contaminate... le loro imprese, le loro macchine da soldi, verranno costruite a discapito d'ogni equilibrio ed ogni legge. Niente potrà mai fermare "il progresso", nemmeno un pianeta che lentamente (già nel 1987!) mostra(va) pericolosi segni di cedimento. Immissioni di gas e liquami tossici che porteranno noi persone "normali" ad un'orribile morte per avvelenamento, la quale giungerà senza nemmeno manifestarsi, da un momento all'altro, non dandoci modo di capire come mai la fine sia giunta così, anzitempo. Il tutto, mentre i responsabili assistono soddisfatti allo sfacelo da loro combinato. In fondo, ad un politico, cosa potrebbe mai importare delle nostre vite? L'esistenza di un "ricco" è sin troppo facile, viziata da agi e lusso sfrenato. Quei privilegi che un politicante qualsiasi vuol mantenere ad ogni costo, tralasciando la legalità, la compassione, l'empatia. Conta solo il denaro, poco importa se in questo modo si infliggerà ad un'innocente una tremenda morte chimica! Verso il quarto minuto i tempi tornano a calmarsi: la chitarra riprende la nenia ipnotica sentita in apertura, poco dopo l'atmosfera torna a surriscaldarsi con l'avvento degli assoli, non velocissimi ma rugginosi, ferrosi quanto basta. La fine è ormai giunta, il nostro pianeta è al collasso definitivo. Le grandi case, le ville dei politici, saranno sempre un rifugio sicuro, per chi le abita; noi mortali, di contro, saremo costretti a vedere i nostri polmoni rosi irrimediabilmente, le nostre pelli screziate, il nostro stomaco rigettare ogni cibo ingurgitato, intriso di veleno. Tumori dilaganti, bambini nati deformi, ogni giorno malattie nuove... questo è il nostro pane quotidiano. Hanno distrutto il nostro mondo, e non hanno avuto neanche l'accortezza di fermarsi quando ancora era possibile farlo. Nessun rimorso, nessun rimpianto. Il finale del brano è dunque un alternarsi di riff possenti ed infernali cantilene, scivolando verso una fine amara, quanto quella dell'umanità. Arriverà mai il giorno in cui li prenderemo per il colletto della camicia, e li getteremo nelle pozze di liquami create dalle loro fabbriche?
Choose Your Weapon
Arriviamo alla definitiva conclusione con il palesarsi di "Choose Your Weapon (Scegli la tua arma)", brano che parte immediatamente in maniera sfrontata e diretta, senza fronzoli. Quel che udiamo nei secondi iniziali sembra semplicemente una rincorsa, un breve momento di "preparazione" all'esplosione che di lì a poco deflagrerà. E come, se lo farà! Gli Exodus premono subitamente sull'acceleratore quasi sfondando la macchina, portando il loro mezzo a velocità insostenibili. Il vento svernicia la carrozzeria, la strada s'incendia, la band si scaglia a tutta forza contro di noi, travolgendoci e facendoci saltare in aria, in mille pezzi. Chitarre che massacrano, dedite ad un riffing work serrato e devastante; basso e batteria sembrano quasi cedere sotto i colpi dei loro proprietari, mentre Zetro ruggisce ogni verso con rabbia inumana. Un connubio perfetto, condito da versi urticanti, al vetriolo. I Nostri, ci è sembrato di capirlo ben ascoltando tutto il platter, non sono certo qui per farsi degli amici o comunque risultarci simpatici. Al contrario, la loro sfrontatezza è stata chiara e ben palese sin da subito. Ed ancora una volta, gli Exodus ci invitano a non temporeggiare, ad afferrare subito un'arma, ad affrontarli. E' tempo di duellare, di combattere. Vogliono dimostrarci quanto siano irrimediabilmente più forti non solo di noi, ma di chiunque altro. Possiamo liberamente scegliere che tipo di oggetto usare: pistole, coltelli... nulla potrà salvarci dalla loro furia! Lotteranno sino allo stremo delle forze, sino a polverizzarci, sino ad annichilirci. Sono tornati, ancora più indiavolati di prima. Il brano non conosce praticamente sosta, salvo per alcuni momenti in cui i cinque sembrano "adagiarsi" momentaneamente, per riprendere fiato... per poi ripartire, più crudeli di prima. Assoli rombanti e prepotenti, ritmica spacca-ossa, cantato incredibilmente sul pezzo. Una compagine sugli scudi, quella dei thrashers di Frisco, disposta all'esercizio dell'amata Ultraviolenza. "Choose Your Weapon" è la chiusura definitiva, quella che ogni disco Thrash Metal dovrebbe annoverare fra le sue fila. Un pezzo cattivo, diretto, malvagio. Sprezzante, maleducato. Insomma: gli Exodus sono tornati, la loro voglia di farsi sentire, percepire, vedere è alle stelle. Un brano del genere non fa altro che confermare quanto sia meravigliosa quella punta si sfacciataggine che possiamo distintamente tastare, lungo i solchi di questo disco e nel brano in particolare. A malincuore, giungiamo alla fine... la fine di un pezzo e di un disco letteralmente da applausi.
Conclusioni
Vi confesso, amici lettori, che riascoltare "Pleasures of The Flesh" a distanza di anni non ha fatto altro che re-immettere nelle vene del vostro affezionatissimo quel po' di sana adrenalina che con gli anni e la maturità in più viene - ogni tanto - a mancare. Si cresce, si diviene più cauti, più pacati, se vogliamo. E magari, ci si getta alle spalle molto del tempo trascorso, dimenticandolo. Il tempo delle dure lotte, il tempo dei sogni, della furia giovanile, della voglia di spaccare il mondo a suon di musica; quel tempo che, invece, dovrebbe sempre rimanere vivo nelle nostre menti. Che adulti potremo mai essere, un giorno, se crescendo ci dimenticassimo dei ragazzi che siamo stati? E' in quest'ottica che mi sento, alla fin fine, di inquadrare "Pleasures of the Flesh". Pensiamo agli Exodus, come li vediamo oggi: un gruppo di certo affermato, non famosissimo ma nemmeno sconosciuto. Un nome rispettato e temuto da tutti, che nonostante tante vicissitudini ha sempre saputo svecchiarsi, riconfermarsi, riproporsi in maniera prepotente e decisa. Una storia irta di ostacoli, la storia di chi non ha mai smesso di lottare; proprio perché, in fin dei conti, non ha mai dimenticato quel che è stato. Gli Exodus del 1987 erano nient'altro che una band di ragazzi affamati, massicci... incazzati, se volete passarmi un francesismo random. Arrabbiati, schiumanti furia. Avevano tutto da perdere, ben poco da vincere: un ottimo album sulle spalle dimostrava ben poco, bisognava andare avanti e riconfermarsi, a discapito della tranquillità, del quieto vivere. L'abbandono di Baloff, la sua sciocca perdita... in tanti, in troppi si sarebbero fermati, avrebbero issato bandiera bianca definendo l'epopea di "Bonded by Blood" come un bel sogno e nulla più. Invece, eccoli resuscitare. Eccoli ingaggiare un cantante versatile ma sui generis come Zetro (risultato, nemmeno a dirlo, STRAORDINARIO), eccoli immettere nei loro riff una rabbia già più matura, già meglio indirizzata verso un percorso di crescita che li avrebbe portati a definire in toto il loro stile. Quello stile che avrebbe portato tanti metallari in tutto il mondo ad esclamare: "loro, sono gli Exodus!". Tanta creatività, tanta voglia di rimettersi in gioco nonostante tutto. Provate a pensare, a ripercorrere la storia di questa sventurata compagine di San Francisco. Quante volte i Nostri hanno dovuto rialzarsi e tirar fuori gli attributi? Tante, tantissime volte. Non si sono mai arresi, fra alti e bassi hanno sempre trovato modo di dire la loro, in maniera più o meno veemente. Proprio perché, in fondo, non si sono mai dimenticati di cos'erano ai tempi di "Pleasures of the Flesh". Un gruppo prepotentemente chiamato a reinventarsi. Un gruppo che avrebbe dovuto urlare più forte della concorrenza, per ritagliarsi il suo posto sotto i riflettori. Un gruppo che, semplicemente, avrebbe dovuto mangiare per non essere divorato. Con la famelica brama di un vampiro cannibale, dunque, gli Exodus ripresero in mano le redini della loro storia, ricostruendosi e trovando il modo di camminare ancora. Muovendo passi incerti? Decisamente no. Proseguendo con passo fiero e militaresco verso quel capolavoro che sarebbe stato "Fabolous Disaster", il disco che più di tutti li avrebbe innalzati al rango di numi tutelari del Thrash Metal. Ma prima di allora, prima della vetta, c'è stato "Pleasures...". Un disco da non sottovalutare, assolutamente. La rinascita, la rivincita. La dimostrazione di quanto la caparbietà e la durezza (o il calore...) della testa, alla fin fine, paghino sempre. Provarci, anche quando è meglio di no. Questo, il motto degli Exodus del 1987. Questo, il loro solo ed unico ideale. Come rimanere dunque indifferenti, dinnanzi a tanta potenza? Come poter non considerare "Pleasures..." come il disco della definitiva ripresa, quello che avrebbe permesso la consacrazione? Non si può, almeno a mio avviso. Ripetersi dopo un capolavoro del calibro di "Bonded..." era difficile se non assolutamente impossibile; difatti, la band non si "ripete". Semmai, prende quanto di buono fatto e lo piazza in maniera decisa sotto altre luci, complice anche un cambio importante dietro l'asta del microfono. Il Legame di Sangue era una storia passata. Il Piacere della Carne è la riscoperta. Un passato glorioso, quello dei malvagi gemelli siamesi raffigurati sull'artwork della prima fatica a marchio Exodus. Glorioso ma non statico, inquadrato in un disco storico e nulla più. Una legacy (scusatemi il gioco di parole...), un continuo divenire trasformatosi poi nel futuro che tutti noi conosciamo bene.
2) 'Til Death do us Part
3) Parasite
4) Brain Dead
5) Faster Than You'll Ever Live To Be
6) Pleasures of the Flesh
7) 30 Seconds
8) Seeds of Hate
9) Chemi-Kill
10) Choose Your Weapon