EXODUS

Force of Habit

1992 - Capitol Records

A CURA DI
MARCO PALMACCI
13/01/2018
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

"Si saranno pentiti di averti fatto, sei talmente brutto che sembri un capolavoro d'arte moderna!"

Tagliente quanto pungente battuta pronunciata dal celeberrimo Sgt. Hartman nel capolavoro "Full Metal Jacket", ai danni della corpulenta recluta Leonard Lawrence (alias palla di lardo). Tuttavia, cari seguaci, non siamo certo alle prese con una dissertazione circa i film di Stanley Kubrick; questo è il proseguo del nostro percorso nei meandri dell'opera degli Exodus, giunta alla monografia protagonista di questo nuovo articolo. Vi chiederete, arrivati a questo punto, cosa c'entri quella battuta; la bruttezza, l'arte moderna e via dicendo... abbiate pazienza e ve lo spiegherò. Effettuate una breve ricerca su Google, digitate questo titolo: "Force of Habit". Or dunque, cos'appare? Un dipinto fra lo strambo ed il surreale, ad opera dell'illustratore Ralph Steadman, braccio destro del giornalista-romanziere sui generis Raoul Duke (al secolo Hunter S.Thompson), autore del best seller "Paura e Disgusto a Las Vegas"; opera dalla quale, fra l'altro, venne tratto il successivo e quasi omonimo adattamento cinematografico, "Paura e Delirio a Las Vegas", con protagonisti Johnny Depp (grande amico di Duke) e Benicio Del Toro. Insomma, la faccenda diviene complicata: avevamo lasciato gli Exodus alle prese con il buon (seppur non esaltante) "Impact Is Imminent", se non altro coerente con il loro status di thrashers privi di rimorsi o scrupoli. Rasoiate improvvise, parole al vetriolo, critica sociale, inviti al mosh più selvaggio... insomma, tutto stava procedendo come doveva, senza intoppi e senza incontrare ostacoli. Come si sia arrivati, dunque, ad un disco come "Force of Habit", resta sinceramente un mistero. Un mistero da svelarsi cercando di analizzare più punti, andando alla ricerca di possibili cause. Prima fra tutte, l'ammodernamento che il genere Thrash stava subendo, proprio in quegli anni. Siamo nel 1992, in piena epoca novantiana: il sound e l'aria in generale, stavano cambiando in maniera sensibilmente netta. Gli anni del Grunge, degli Alice in Chains e dei Nirvana (già all'epoca affermatissimi grazie a pubblicazioni del calibro di "Facelift" e "Nevermind"); gli anni del Groove maleducato  e polveroso dei Pantera, dell'atmosfera oscura e pesante di band quali Type O Negative e Crowbar. Band validissime, di seguito divenute veri e propri capisaldi di un periodo storico/musicale. Dinnanzi ad una sostanziale perdita d'interesse del pubblico per le sonorità più classiche e per così dire "sanguinolente", restava solo una cosa da fare: adattarsi, provando a cambiare, a stupire in qualche modo. La chiacchieratissima svolta dei Metallica con la pubblicazione dell'agrodolce "Black Album" fu in tal senso lampante: brani certo massicci e potenti, eppure totalmente differenti da una "Trapped Under Ice". Basta sfuriate, basta velocità. Qualità sonora ammiccante, ballads... insomma, una decelerazione totale, in virtù di una voglia di arrivare al grande pubblico e non più soffermandosi al popolo metal tout court. Andò meglio ai cugini Megadeth, il cui "Countdown to Extinction" venne sinceramente molto più apprezzato dalla critica e soprattutto dalle schiere di metallari in tutto il mondo, non troppo scandalizzati da quel rallentamento improvviso. Un disco che scalò le vette della Billboard pur riuscendo a mantenere (per sommi capi) quella cattiveria tipica del genere, quel sound abrasivo e rugginoso. Dinnanzi a questo periodo così delicato e particolare, per gli Exodus la parola "adattamento" suonò più come una costrizione che uno sviluppo naturale d'idee e di sound. Una "maturazione" improvvisa, dettata dalle leggi di mercato, dalla volontà di accaparrarsi quanto più pubblico possibile. Avevo già messo in luce, nel corso della monografia su "Fabulous Disaster", quanto gli innesti più Heavy avessero giovato al sound della band di Holt, rendendo il tutto ancor più potente e dinamico. Ebbene, in "Force of Habit" questi innesti sembrano divenire vere e proprie prerogative, piuttosto che elementi arricchenti. Il Thrash degli Exodus, come lo conosciamo, cambia dunque volto, in maniera quasi radicale. Complice la longa manus di un produttore come Chris Tsangarides (rip, grande maestro), storico pigmalione / nume tutelare di personaggi come Anvil, Judas Priest e King Diamond, la proposta dei nativi di Frisco diviene quindi più malleabile ed adatta ad ogni tipo di orecchio. Un sound meno dinamico e più lento, complice la durata importante di diversi pezzi più il ritorno di un combo di cover, situazione non più vista dai tempi del capolavoro "Fabulous...". Gruppi omaggiati, Rolling Stones e (scelta singolare) Elvis Costello & The Attractions. Possiamo ben capire, dunque, cosa ci troveremo dinnanzi, anche se l'orrenda copertina potrebbe farci pensare ad un album indie o peggio. Fu in effetti il primo punto di scontro avuto con i fan storici, i quali mal gradirono l'assenza dei membri della band nell'artwork (come accadeva da "Pleasures...") in favore di un dipinto a metà fra l'astratto ed il surrealista. Anche il logo venne ridotto ad una semplice scritta, abbandonando il vecchio layout "spinoso" tanto caro ai metalheads di tutto il mondo. Ulteriore cambiamento, l'inserimento di un nuovo bassista, Mike Butler, subentrato all'uscente-storico Rob McKillop. Sezione ritmica rinnovata, quindi, nel giro di due album. Stiamo ora a vedere cos'accadrà appoggiando il vinile sul piatto... che il nuovo corso degli Exodus possa effettivamente colpirci? Let's Play!

Thorn in my Side

Iniziamo il viaggio ascoltando quel che fu il primo singolo di questo tanto discusso platter, "Thorn in my Side (Spina nel Fianco)"; altra particolarità di "Force of Habit", come avrete notato proprio adesso, è l'uso ricorrente di metafore adoperate come titoli dei vari pezzi . In questo caso già sappiamo, più o meno, cosa il protagonista delle liriche voglia intendere: stiamo parlando di un personaggio triste, deluso ed amareggiato, costretto a rivolgersi malamente ad una persona alla quale - nonostante tutto - ha voluto molto bene, incondizionatamente. E' palesemente chiaro chi sia la sua controparte: il padre, un padre severo ed assente, noioso e bacchettone, mai soddisfatto di un figlio che, dal canto suo, ha cercato di farsi apprezzare in ogni modo e maniera, mettendosi in gioco, provando a soddisfare ogni aspettativa in lui riposta. Tristemente, il ragazzo, votato ad una figura che avrebbe dovuto dargli affetto, farlo sentire un campione, un vincente... ed invece, lo ha sempre ostacolato. "Per me non hai mai speso parole che fossero d'incoraggiamento, è difficile lenire questo dolore che provo..."; versi eloquenti quanto madidi di pianto, parole dure pronunciate dopo aver preso coscienza del fatto che un rapporto, sebbene duraturo e suggellato da un legame di sangue, possa rivelarsi di punto in bianco un totale fallimento. Anni sprecati ad illuderci, a considerare una rosa quel che alla fine è un'autentica spina nel fianco. A sottolineare questa triste consapevolezza, l'andatura del pezzo, decisamente lontano dalle funamboliche imprese sino a quel momento compiute dagli Exodus in fase d'apertura. Scordatevi "The Last Act of Defiance", si parte immediatamente mostrando il nuovo volto, quello più cadenzato, controllato e per certi versi "rockeggiante"; dato sì che "Thorn..." si avvale lungo tutta la sua durata di un andamento "...n' Roll" che la controlla e la placa, in qualche modo, tenendola "in gabbia". Un pezzo in sé che si dimostra comunque orecchiabile, capace di prenderci e coinvolgerci (l'andatura non è male, anzi)... eppure, incapace di spiccare il volo. Troppo prevedibile, troppo monocorde, fine a sé stesso. Diciamocela tutta, anche in fase di "rallentamento" e cadenze particolari, i Nostri avevano fatto DECISAMENTE meglio (chi ha nominato "The Toxic Waltz" e "The Lunatic Parade"?); qui risulta di contro palese la voglia di mostrarsi sotto una nuova veste, cercando di mantenere semi-intatte le masserizie Thrash ben riposte, se non altro, nella pesantezza dei riff. La mano è sempre quella di Holt, dopo tutto, il quale decide di mostrarci la sua verve più melodica, Hard n' Heavy, lungo degli assoli ben congeniati ed emotivamente vincenti. Unico guizzo di un brano che, fra strofe e ritornelli, non riesce a spiccare il volo come dovrebbe, quasi inglobasse in sé la tristezza di un figlio, la frustrazione di chi ha passato una vita a sentirsi giudicato dai suoi genitori in maniera netta e perentoria. "E' una vecchia storia, quella spina che hai piantato così profondamente in me. Ti sei sempre comportato come il Re dei Re, agendo come un Dio... indossi una corona di spine come fosse un cappello, ma il mio plotone metterà fine alla tua recita!"; voglia di ripartire da zero liberandosi della spina, così canta Zetro, impegnato a calarsi nei panni di un figlio deluso. Distruggere la tirannia del perfido genitore per liberarsi, finalmente, vivendo la propria vita in totale libertà, senza essere continuamente tacciati di fallimenti non nostri, ma riversati sulla nostra persona da un padre incapace nonché inadatto al ruolo che ricopre.

Me, Myself and I

Proseguiamo dunque con la seconda track, "Me, Myself and I (Io, me e me stesso)", smaccato panegirico all'autarchia più pura e semplice. "Bastare a se stessi", questo il mantra che gli Exodus pongono alla base delle liriche qui presentate. "Non capisco proprio i buoni samaritani, rinunciare ai propri affari per aiutare qualcuno!", verso caustico, al vetriolo, pronunciato da uno Zetro senza dubbio più a suo agio che in precedenza; l'ambiente torna infatti a scaldarsi, i Nostri si ricordano di poter osare in virtù del fatto dell'essere - fino a prova contraria - una band Thrash. Certo, il tutto suona come uno strano connubio fra gli Antrhax più prevedibili ed un outtake direttamente pescato da "Impact is Imminent", ma tant'è. E' un sincero piacere ri-udire riff granitici di certo non velocissimi ma comunque ben massicci, tirati, eseguiti con rabbia e caparbietà. Il pezzo corre sostenuto, baldanzoso e fregiato dalla sapiente mano di Holt, meno melodico che prima. Il ritornello, poi, è il vero punto forte di un brano che alle lunghe non stanca ed anzi, addirittura convince. Cori in stile stadio, tutti concordanti su di un'unica, grande verità: rimanere fedeli a noi stessi, anche a costo di sembrare egoisti. Non c'è spazio per l'interesse altrui o per la compassione, il protagonista di questo racconto ne ha subite realmente di ogni. Tradimenti, bugie ed inganni... arriva il momento di urlare "basta", e di proseguire solamente adoperando le proprie gambe. Nessuno da aiutare, nessun'anima da redimere o salvare. Egli, solo con se stesso, dice a chiare parole di star benissimo così, in questo stato. Non rendendo conto a nessuno, non aiutando nemmeno un amico, in modo tale da non spendere energie invano; sa già che il tradimento è dietro l'angolo, quindi, perché fingere di esser buoni? L'istinto di autoconservazione umano, lampante e limpido, che vince su tutto e tutti. Il brano non riserva chissà che sorprese, procedendo lungo una linea retta, coadiuvato come dicevamo dal sapiente uso dei cori, dalla foga tipica degli Exodus e da funambolici assoli di Holt. Anche questa volta, il momento solista si staglia a metà fra il Thrash e l'Heavy, non disdegnando melodie quasi Maideniane in alcuni punti, dotandosi di grande pathos, trasmissibile in ogni dove e modo. Di contro, l'ascia di Hunolt vuol risultare (in sede di ritmica) ben più pungente e rugginosa, appesantendo il lavoro del collega, rendendolo perfettamente inserito in questo nuovo corso dei nativi di Frisco. Si prosegue dunque sino a giungere all'ultimo ritornello, Zetro fa sempre la sua gran figura, recitando la parte del leone, chiarendo (come se ce ne fosse bisogno) il punto della situazione: nessuno merita aiuto, nessuno merita una spalla su cui piangere. Sarebbe un mondo migliore, se tutti noi pensassimo prima a noi stessi che inutilmente ad un prossimo meschino ed approfittatore.

Force of Habit

Arriva quindi il momento della titletrack, "Force of Habit (Forza dell'abitudine)", aperta dai possenti colpi di Tempesta nonché dal basso di Butler. Si prosegue con un riff deciso e roccioso, non certo veloce ma comunque di gusto Hard n'Heavy. Un po' in stile Angus e Malcolm (rip) Young, prestati però al Metal, Holt ed Hunolt lasciano che Zetro si immedesimi nel ruolo di un Bon Scott più ruggente e maleducato, facendo proseguire il pezzo lungo binari smaccatamente AC/DC. Come se le due band fossero state impastate fra di loro, ecco dunque il dipanarsi fiero di una traccia sinceramente interessante. Arrivano presto i soli, degni tributi di Holt alle mani dell'Hard Rock. Oltre che Angus, vengono chiamate in causa sensazioni vicine ad un qualunque Ted Nugent, proprio a rimarcare l'amore degli Exodus per il Rock più maleducato ed impertinente. Degno teatro per un attore singolare, il protagonista di un testo addirittura incentrato sulla cleptomania. "Rubare un dollaro od anche solo un centesimo, è la forza dell'abitudine, per sempre lo farai! Cosa me ne importa se mi sei amico o nemico... la tua casa è la mia banca!". Un ladro ossessionato dalla sua "professione", capace di rubare quasi per inerzia. Talmente abituato alla sua vita, talmente calato nella sua malattia da rendersi perfettamente conto del suo status. Conscio di ciò, prosegue con questo modus vivendi: egli non ha rispetto per la privacy di nessuno, ogni persona, ogni passante possono rappresentare una più che degna fonte di sostentamento. Tasche ricolme di gonfi portafogli, carte di credito da clonare, spiccioli da depredare... ed ancora case lasciate incustodite, automobili da scassinare. Un delinquente che vede la vita altrui come un immenso e privato parco giochi; unica cosa a cui pensare, da quale attrazione cominciare, con quale proseguire. Possiamo ormai dire, a nostra volta, d'esserci già "abituati" a questo disco, dato sì che tutti i pezzi stanno mostrando una certa linearità e semplicità di fondo. Solamente Holt riesce ad aggiustare il tiro, dandosi ogni volta a dei momenti solisti degni di nota. Gary non si fa pregare, e ben supportato da Hunolt, Tempesta ed Butler rinuncia questa volta ad espedienti troppo melodici, volendo risultare quanto più "redneck" possibile nel suo modo di approcciarsi allo strumento. Un modo di fare grezzo ma non villano, rozzo ma non certo privo di senso. La sua mano si appesantisce, graffiando come la zampata di un grizzly. Momento che aggiunge carne al fuoco e dunque rende la titletrack ancor più interessante che in precedenza, seppur la prevedibilità di fondo di questi primi brani stia cominciando a diventare un preoccupante punto fermo. Si ruba, si scassina, si froda, si inganna; il protagonista non cambierà mai, continuerà per sempre a compiere atti al limite della legalità. Ormai è questa la sua strada, ormai ha deciso, non cambierà mai per nulla al mondo. "Stai attento, tieni sempre d'occhio i tuoi soldi... le mie abitudini ti priveranno d'ogni tuo possedimento! La forza dell'abitudine... è questo il mio problema!". Ammissione di colpa finale e brano che dunque si avvia alla conclusione, senza riservarci sorprese o sussulti degni di nota.

Bitch

Prima cover del disco: la quarta track "Bitch (Puttana)" va ad attingere a piene mani dall'immenso e sconfinato repertorio dei Rolling Stones, tributando l'album di culto "Sticky Fingers", platter appunto in cui il pezzo originale compariva per la prima volta, nel lontano 1971. Per la prima volta possiamo udire una sezione d'ottoni comparire in un disco degli Exodus, già dall'inizio, spedito, al fulmicotone. Strumenti riprodotti mediante sintetizzatore e decisamente ben amalgamati lungo un contesto di scoppiettante Rock n Roll, dinamico e coinvolgente quant'altri mai. I nativi di Frisco si divertono quasi a ballare, dimenandosi alla maniera di Mick Jagger, non disperdendo neanche un po' della carica originale posseduta dal brano; c'è da dire, infatti, che questa "nuova" faccia di "Bitch", veloce nonché appesantita dalla componente Metal di cui i nostri sono portatori sani, risulta davvero una bella sorpresa. Se non altro, spezza il ritmo e rende il tutto più vivace nonché impertinente, decidendo infatti di recuperare in un attimo tutti i cliché tipici del Rock dei tempi d'oro. Eccessi in ogni dove, visto che il brano che qui udiamo non fa altro che descrivere lo stato di confusione / astinenza in cui imperversa un eroinomane dopo e durante la sua dose giornaliera. Una sostanza, l'eroina, che fu croce e rovina di molti musicisti del passato. Dal Rock al Jazz, tanti grandi ne hanno fatto uso, purtroppo rovinandosi irrimediabilmente (Charlie Parker) o salvandosi appena in tempo (il compianto Lemmy). Il protagonista di "Bitch" si sente dunque sottomesso alla sua "puttana", ben proposta come una sorta di ragazza senza cuore ma della quale non possiamo proprio fare a meno. Una metafora che nasconde quindi una verità ben più amara, di una pena di sottomesso amore. Inappetenza, stato confusionale, apatia totale, crisi, salivazione a mille... quando Lei chiama, non possiamo fare altro che rispondere. Cerchiamo di vincere la nostra dipendenza, cerchiamo di urlarle contro, di dimenticarla, di mostrarle quanto siamo più forti di lei... eppure, ogni volta che brama la nostra compagnia, eccoci pronti a tornare fra le sue braccia. Davvero notevole il modo in cui Holt ed Hunolt si cimentano in questa svolta Rock, dimostrandosi pronti ed attenti, veri e propri esecutori capaci nonché efficaci. Il loro modo di plasmare un guitar work per forza di cose pesante e torreggiante su di una serie di fraseggi così meravigliosamente Keith Richards Style è davvero notevole, come se ci fosse stato bisogno per i due di fornirci una prova circa le loro capacità. Zetro non cambia di una virgola il suo modo di fare ed anzi si trova anche meglio che nei pezzi inediti. Un'ugola forse rubata al Rock n' Roll, una prova meravigliosa fornita da tutti i nostri musicisti; tanto da renderla la loro miglior cover subito dopo "Low Rider". Assoli rockeggianti, cori meravigliosamente adoperati, fiati sintetizzati... tutto perfetto, tutto al suo posto: "Bitch" vince la sua personalissima sfida ed incorona gli Exodus, risollevando le sorti di un platter forse troppo monotono.

Fuel for the Fire

Torniamo a parlare di inediti con la successiva "Fuel for the Fire (Benzina sul fuoco)", traducibile - come avrete notato - in un modo di dire assai comune nel nostro linguaggio. Ragioniamo sui termini che compongono il titolo, anche solo per un attimo: "benzina" e "fuoco". La benzina è un carburante, un combustibile, proprio come il petrolio. Il fuoco si identifica per antonomasia con la forza distruttrice, con l'incendio... cioè la guerra. Ecco dunque che carpiamo, da questa breve analisi, come gli Exodus vogliano parlare di guerra, e di quanta ipocrisia si celi dietro gli atti compiuti dai nostri governanti. Croce e delizia del mondo sembra essere il petrolio, le cui fonti esistono a dismisura soprattutto in medio oriente, territori in cui gli U.S.A. hanno da sempre sotto tiro, vittime di azioni politiche e militari assai aggressive. Ci dicono che certe guerre servono per "mantenere la pace", eppure sappiamo bene quanto esse siano intraprese solamente per accaparrarsi il monopolio dei pozzi neri. Neri come l'atmosfera che si respira subito in apertura, un'atmosfera oscura, Thrash oriented, finalmente aggressiva in modo totale. Chitarre sferraglianti introducono una bella corsa veloce e serrata, Tempesta si ricorda di poter percuotere selvaggiamente il suo drum-kit e tutta la band lo segue, facendosi trascinare. Ritornano le legnate in puro stile Exodus, ritorna il Thrash, ritorna la potenza: un brano che sembra recuperare stilemi purtroppo lasciati troppo da parte in favore di "troppo" Hard n'Heavy, qualificanti in toto l'epopea di questo "Force of Habit". Particolare il refrain, in cui un violento Zetro viene affiancato da una voce particolarmente baritonale, intenta a dialogare con il vocalist circa quanto accade nel mondo. "Il sangue scorre sulle lande desertiche, la gente muore in quelle terre barbare. Ottieni il carburante, è questo il piano!", un verso che non lascia spazio a fraintendimenti di sorta ed anzi ci fa capire anche più di prima quanto gli Exodus siano contro l'eccessivo militarismo, la politica interventista squisitamente a stelle&strisce. Ci hanno raccontato sin troppe balle, l'amara verità è ormai sotto gli occhi di tutti. Starà a noi, crederci o meno. Arrivati a metà del pezzo, assistiamo ad un progressivo imbizzarrirsi del sound, reso ancor più frenetico dal parlato serratissimo di uno Steve sugli scudi, accompagnato da una sezione ritmica da manuale. Qualche istante dopo il momento parlato ecco comparire degli strani cori à la Van Halen, quasi il nostro stia duettando con David Lee Roth. Una parentesi spazzata via dal subentro imperiale di un Holt torreggiante, imperiale, dedito ad assoli melodicissimi ma comunque bellissimi, sempre in linea con quello che stiamo ascoltando. La guerra è ormai nel vivo, non possiamo esimerci dal commentare certe tristi immagini. Perché accade tutto questo? I Nostri non riescono neanche a provare pena per i soldati morti, in quanto "sapevano bene a cosa sarebbero andati in contro, accettando quel lavoro". Che la causa sia buona o meno, non è un problema di nessuno: se muori sul campo di battaglia, è perché hai accettato di fare quella fine sin dal giorno in cui hai vestito la divisa. Terrorista o Marine, nulla ha importanza. La fine, comunque, sarà la stessa. Una fine tragicamente aspra, violenta... crudele, come quella che i thrashers ci stanno mostrando, in queste ultime battute. Si picchia a più non posso, si strepita, si stride: gli Exodus sono tornati, speriamo non per rimaner poco in nostra compagnia.

One Foot in the Grave

Si rallenta con l'avvicendarsi della traccia numero sei, "One Foot in the Grave (Un Piede nella Fossa)", aperta da un riff cadenzato e preciso. Un mid-tempo certo roccioso ma nemmeno troppo esaltante, dall'incedere piuttosto ipnotico ed a tratti addirittura "Grunge", oserei dire, se non ci trovassimo fra le mani una release targata Exodus. Il metallo continua a domare sovrano, state pur tranquilli, miei cari drughi: solo il dipanarsi di questa "One Foot..." risulta sin troppo annoiato, polveroso quasi, eccessivamente ancorato a quella dannata linearità di fondo che torna a far capolino in maniera prepotente. Un brano almeno impreziosito dalle linee vocali di uno Zetro in gran forma, il quale soprattutto nel refrain riesce a disegnare interessanti linee vocali, giocando molto con le sue capacità. Il tutto messo a servizio di un ammonimento, di una vera e propria denuncia: la droga vista come piaga sociale. Non posso non trattenere un beffardo sghignazzo, anche sol pensando al fatto che, qualche traccia più su, trovavamo i Nostri a tributare un brano degli Stones palesemente "dedicato" all'ago assassino; andiamo avanti, tuttavia, trattenendo quanto più possibile le nostre perplessità. "Un piede nella fossa", così viene definito chi inizia ad abusare di qualsivoglia tipo di droga. Gli Exodus decidono di prendersela con quelle che considerano come le peggiori di tutte, ovvero l'eroina e la cocaina. Due disgrazie per questa società, due maledette sostanze in grado di farci scivolare in un baratro che più oscuro non si potrebbe. Soprattutto l'ero viene vista come la "regina" di questo inferno, come una piovra in grado di stritolarci fra i suoi tentacoli. Scaldando quel dannato liquido in un lurido cucchiaio, con il laccio ben stretto attorno al nostro bicipite, stiamo inconsapevolmente decretando la nostra condanna a morte. Una bara auto-costruita, fatta da noi per noi stessi. Bucheremo la nostra pelle, inietteremo quel veleno nelle nostre vene solo per avvicinarci ogni passo di più al gelo della tomba. Quasi come il pifferaio magico guidava i topi verso il precipizio, così l'eroina con i suoi adepti. Persino Holt adotta un solismo a tratti ipnotico, sinuoso, serpeggiante... finché decide, il Nostro, di aprirsi a melodie toccanti quanto delicatissime, eteree ed oniriche. Il tutto spiana la strada al ritorno del roccioso mid-tempo, che senza riservare ulteriori sorprese viene reiterato sino alla fine. Brano semplicissimo, arricchito da due sussulti: gli assoli di Gary e la voce di Steve. Troppo poco, per poterci far urlare alla perfetta riuscita del pezzo tutto.

Count Your Blessings

Giro di boa ufficialmente raggiunto con "Count Your Blessings (Pensa Positivo)", traccia dall'imponente durata. Ben sette minuti abbondanti in cui gli Exodus cercano di sollevare una polemica abbastanza "trita", ovvero l'invettiva da lanciarsi contro i ricchi insensibili, vanesi ed in qualche modo non abituati ad accontentarsi del molto che già hanno accumulato. Letteralmente, l'espressione "count your blessings" starebbe letteralmente a significare "conta le tue fortune, le tue benedizioni": una sorta di invito da rivolgersi a chi, nonostante una vita facile e ricca di soddisfazioni, ama lamentarsi d'ogni cosa, forse per attirare l'attenzione su di sé. Un atteggiamento che i nativi di Frisco mal sopportano, decidendo dunque di stigmatizzare il tutto a suon di Metal. E' la "solita" cadenza Hard n' Heavy ad aprire il brano, un riff reiterato e di seguito sviluppato lungo binari più veloci ed arrembanti. Seppur "stanchi" e leggermente privi di idee, gli Exodus tornano verso lidi Thrash, cercando di amalgamare meglio le due componenti del proprio sound. Corposa introduzione, stacco di Tempesta e possiamo dunque udire uno Zetro quanto mai convincente, grazie ad un background musicale decisamente funzionale e funzionante. Interessante il refrain, in cui i Nostri si aprono smaccatamente alla melodia grazie ad un sapiente gioco di duelli instauratosi fra Holt ed Hunolt. L'uno più etereo e delicato, tessente trame squillanti, l'altro più concreto e deciso a macinare il riff portante, massiccio e roccioso. Un connubio interessantissimo, unito poi alla prova vocale sempre variegata ed interessantissima del vocalist, decisamente in forma ed intento a fornirci una gran prova. Molto belli, ad onor del vero, il clima e l'atmosfera instauratisi lungo il percorso; possiamo godere della sostanziale pesantezza del sound dei nostri, l'operazione di decelerazione / ammorbidimento generale viene in questo senso condotta in maniera molto intelligente, riuscendo i Nostri a tirar fuori un brano finalmente più che valido ed esaltante. Un brano che senza paura sputa in faccia ai "riccastri" la triste verità, ovvero quanto la vita sia stata generosa nei loro riguardi; e quanto essi, forti di ciò, dovrebbero sinceramente smetterla di piangersi addosso o comunque di farsi compatire. Come si può mostrare pietà nei riguardi di chi ha tutto e contemporaneamente sostiene di non avere nulla? Come può una persona possedere un tale patrimonio ed al contempo bramare le attenzioni altrui, giocando al cane bastonato? "Dovresti cercare di pensare positivo... abbassa la guardia!", un invito nemmeno troppo velato a smetterla con determinate recite, realizzando per una volta la realtà dei fatti quale sia. Lesti ed al trotto arriviamo oltre la metà del brano, l'avvicendarsi di strofe e ritornelli ci porta ad un'altra, splendida esecuzione di Gary Holt, come sempre in bilico fra il Thrash e l'Heavy Metal. Le melodie tessute in questo frangente non risultano preponderanti ed anzi lasciano presto spazio ad un inasprimento generale del clima, esattamente quando Tempesta inizia a scalpitare dietro il suo strumento, facendo tornare la band verso lidi ad essa ESTREMAMENTE più consoni. Un momento incredibilmente potente, con un'ultima, ottima parentesi cantata da parte di Zetro. I ricchi non possono piangere, al di là di tutto... nonostante il brano termini improvvisamente in un delicatissimo arpeggio acustico, stupendoci in maniera abbastanza netta. 

Climb Before the Fall

Continuiamo l'ascolto con l'appropinquarsi della traccia numero otto, "Climb Before the Fall (La scalata prima della caduta)". Pezzo che, ancora una volta, decide di aprirsi in maniera abbastanza minacciosa e torreggiante, andando ad incutere nell'ascoltatore un certo timore reverenziale; questo prima che gli Exodus decidano di adottare una (seppur piacevole!) cadenza a tratti Rockabilly, fondendo il Rock n' Roll con il Metal, in maniera ancor più riuscita ed intelligente che in molti episodi prima. Non mi stupirei, se da un momento all'altro decidesse di spuntar fuori Brian Setzer! Gli Stray Catsodus (perdonatemi, ma dovevo dirlo!) continuano dunque ad esagerare con la brillantina, giocando magistralmente con stilemi anni '50 e contemporaneamente picchiando come solo un metallaro sa fare. Tutto questo per prendersela ancora una volta con "i ricchi", specialmente con quelli nati poveri e successivamente saliti alla ribalta. Nonostante il duro lavoro, nonostante i sacrifici personali e dei propri genitori, questi umili impiegati ormai divenuti capi sembrano aver scordato la strada da loro percorsa, per arrivare sino in cima. Sembrano essersi dimenticati degli amici, di tutti gli aiuti ricevuti in una parte di vita segnata dalle lacrime e dagli stenti. Per loro conta solo il presente, un presente fatto di auto di lusso e potere; girovagando per la città, sventolando le loro carte di credito sotto il naso di chiunque, facendo valere la propria superiorità dal punto di vista economico e sociale. Ecco dunque che i nostri Exodus fanno la voce grossa a colpi di Rock n' Roll, andando ancora una volta a girare il dito nella piaga, ricordando a certi soggetti quanto la loro posizione sia stata frutto di tante "spinte", e non solo del loro colpo di reni. Gli amici, i genitori... come si può dimenticare tutto? Siamo quindi al cospetto di una nuova invettiva che rasenta l'archilocheo, come già accaduto spesso nel corso di questo platter. Arriviamo lesti agli assoli, ben amalgamati in questo contesto ora rasentante il Blues Rock più ottantiano degli ZZ Top. L'anima Rock di Holt prende ancora una volta il sopravvento, trasformandosi egli in un Billy Gibbons periodo "Eliminator" / "Afterburner". Davvero incredibile come possano, in questo brano, convivere due componenti così particolari... in maniera così sapiente! La sorpresa che aspettavamo, la definitiva salvezza di un album che avrebbe rischiato purtroppo lo scivolone nemmeno troppo indolore. E si continua dunque a rockeggiare, il brano si mantiene fedele al suo status sino alla fine, sin quando Zetro non decide di chiudere il sipario assieme ai suoi compagni. Uno Zetro che, ora come ora, assume decisamente il ruolo di vero valore aggiunto della compagine americana.

Architect of Pain

Quanto di buono è stato fatto con le precedenti due tracce rischia or ora d'esser messo a dura prova. Non bisognerebbe mai giudicare un libro dalla sua copertina, questo è certo... eppure, nonostante l'orribile artwork  di "Force of Habit" ci abbia già di per sé messi a dura prova, leggere il titolo della successiva track con annessa durata non può che sgomentarci. Proprio quest'ultimo particolare, più che le parole comunque adattissime ad un contesto Metal. "Architect of Pain (L'Architetto del Dolore)" è una traccia dal minutaggio che definire imponente sarebbe un mero eufemismo: ben undici minuti segnati dal cronometro, il record definitivo degli Exodus, che mai più comporranno un brano così lungo ed importante. Veniamo accolti da una chitarra acustica ben stagliata su di un 4/4 abbastanza pacato, un arpeggio madido di pianto ed oscuro quanto serve, melodico ed accomodante; effetti sonori inquietanti, un'elettrica che cerca di ruggire e successivamente emerge, riempiendo meravigliosamente l'arpeggio iniziale, ormai doppiato dal suo compare "tecnologico". Il tutto instaura un clima di strano fascino oscuro, una sorta di serpeggiante invito ad addentrarci lungo un bosco dominato dal buio. L'andatura sinuosa del tutto tradisce un gusto per il macabro e per l'orrore, per il misterioso, per l'ambiguo. Ecco che Zetro, dopo una lunga introduzione strumentale, inizia quindi il suo canto. Voce coadiuvata da un bell'effetto eco, parole recitate mano a mano che il brano va avanti... ed ecco che finalmente capiamo il perché del tutto, il perché di questo strano clima, così asfissiante e demoniaco. Il protagonista di questo lungo brano altri non è che il Marchese De Sade: proprio lui, l'architetto del dolore, il sadico per eccellenza, uno degli uomini più crudeli e perversi che la storia abbia mai conosciuto. Autore del controverso, boicottato, proibito, bruciato, vietato, maledetto, discusso "Le 120 Giornate di Sodoma", De Sade era animato in vita dalla voglia di tastare ogni soglia dell'umana perversione, concedendosi ad ogni tipo di esagerazione sessuale. Amava torturare le proprie amanti, adoperando ogni tipo di strumento o situazione; del resto, il contenuto del suo best seller ce lo ricordiamo un po' tutti. Coprofagia, pedofilia, sadismo, masochismo... lui, l'uomo più malvagio al mondo (altro che Aleister Crowley!). Il pezzo, di per sé lunghissimo, non riserva chissà quali sorprese: eppure, la sua andatura così terribilmente sensuale ma al contempo nera come la pece non riesce a farci staccare le orecchie dal nostro stereo. Siamo come ipnotizzati, come topi dietro il pifferaio, in balia delle torture di De Sade. Legati ed imbavagliati, ustionati da ferri roventi e stuzzicati con attizzatoi piantati in profondità nelle nostre carni. Cerchiamo di divincolarci ma è tutto inutile, il pazzo sadico riesce a tenerci nella sua morsa, senza darci possibilità di difenderci. Anzi, man mano che la tortura prosegue, egli diviene sempre più spietato. Un po' come i Nostri, i quali dapprima ci deliziano con l'inasprimento generale del clima "oscuro" (onore a Zetro, rasentante quasi la teatralità più smaccata) e di seguito, dopo gli assoli di Holt (introdotti da una punta di neoclassical niente male), decidono di cambiare le carte in tavola. Ecco che si accelera vistosamente, disperdendo l'aura maligna, picchiando in stile Thrash. Vengono ripresi stilemi per molti versi rimandanti a "The Toxic Waltz", quasi stesse cominciando un nuovo brano. Un brano in cui gli Exodus vogliono quindi donarsi alla più diretta e schietta incarnazione della loro anima, quella che li ha portati alla ribalta. Assoli al fulmicotone, riff potenti e ben congeniati, momenti di stop improvvisi in cui Steve viene lasciato solo a declamare i suoi versi: il più che mai degno tributo al Marchese De Sade, fatto rivivere in questo brano mediante due modus suonandi abbastanza simili alla sua anima: da un lato l'aspetto più affascinante benché satanico della sua personalità, incarnato dai suoni più morbidi ma comunque oscuri e cantilenanti; dall'altro il suo status di sadico torturatore, ben rappresentato dall'accelerazione improvvisa. La quale si disperde verso il finale, dominato dagli stilemi iniziali, con tanto di parte narrativa recitata da una voce visibilmente alterata. Intorno al nono minuto, il pezzo parrebbe infatti spegnersi; invece, la suddetta voce fa la sua comparsa, lasciando poi il brano terminare così com'era iniziato. Debbo ricredermi: undici minuti davvero eccezionali, che alzano notevolmente il tiro di "Force of Habit" e lo salvano ufficialmente dal pericolo "fiasco totale".

When it rains it pours

Dopo questa esaltante parentesi arriviamo quindi a "When it rains it pours (Piove sempre sul bagnato)", brano aperto dagli scalpitanti Butler e Tempesta, di seguito raggiunti da Holt ed Hunolt. Viene riproposta una buona miscela di scoppiettante Hard n'Heavy misto a Thrash, per un brano che di sicuro inizia col piede giusto, non facendoci stancare o venir voglia di saltare alla traccia successiva. Zetro raggiunge presto i suoi compagni, iniziando a narrarci la storia di un povero impiegato tartassato dalla sfortuna. Di nuovo abbiamo stilemi Rockabilly smaccatamente presentati, non sarebbe male veder roteare qualche contrabbasso o magari osservare i nostri sfoggiare ciuffi e chiodi su maglia bianca. Insomma, la "figaggine" tipica di un simil Fonzarelli posta in netto contrasto con le vicissitudini del protagonista: disturbato dal proprio boss in un giorno di festa, costretto ad andare a lavoro; non può nemmeno farsi una bevuta in santa pace che la bottiglia si rompe, rovesciando il suo contenuto sui suoi pantaloni. Chiaro che non può presentarsi in ufficio a quel modo... ergo, un rapido ritorno a casa per cambiarsi. Casa in cui trova il suo affittuario, giunto poco prima per presentargli una notifica di sfratto, in quanto indietro con le rate. Il poveretto vorrebbe tirare una testata al muro dalla disperazione, realizza (come ben specificato nello scoppiettante e dinamico refrain) che mai e poi mai, quel giorno, avrebbe dovuto alzarsi dal letto. Sarebbe stato meglio continuare a dormire... consiglio fortunatamente non seguito dagli Exodus, impegnati dal canto loro a mostrarci la loro verve più caciarona ed allegra, riprendendo ancora una volta in prestito qualche stilema da Mr. Setzer, volendo rockeggiare a più non posso. Ottimi in tal senso gli assoli, ottimo il modo in cui Hunolt sa tessere riff ritmici estremi ma comunque n' Roll quanto basta, fondendo a mo' di fabbro ogni sensazione, ogni esperienza. Un pezzo che diverte ed esalta, antitesi del suo predecessore per durata e clima, con alla sua base una storia divertente per quanto surreale. Proprio perché il tutto non finisce qui: andando a lavoro, l'impiegato viene fermato dalla polizia e sbattuto in cella per la bellezza di 24 ore, per colpa di un fantomatico eccesso di velocità, accusato inoltre di guida in stato di ebbrezza. Fatti i dovuti controlli viene liberato. Il nostro si rimette quindi in marcia per l'ufficio... facendo un incidente e rimanendoci quasi secco. Insomma, una storia al limite del fantozziano, narrataci però in maniera assolutamente geniale. Altro pollice in su, finalmente "Force of Habit" sta prendendo il volo; e mi verrebbe da dire, c'erano voluti tutti quei filler iniziali e mediani?

Good Day to Die

Arriva il turno di "Good Day to Die (Un buon giorno per morire)", brano aperto da un blues paludoso, quasi proveniente dalle calde ed umide terre della Louisiana. Strumenti acustici sormontati dall'arrivo della chitarra elettrica, decisamente "dirty south" nel suo incedere. Lo strumento sembra quasi fondere assieme lo stile di Zakk Wylde e quello dei Down di Phil Anselmo, potremmo addirittura credere, chiudendo gli occhi, di trovarci dinnanzi ad un brano della Black Label Society. L'incedere risulta molto simile a quel determinato tipo di Metal; ecco dunque che gli Exodus tornano più oscuri, parlando di suicidio e dipingendoci davanti i pensieri di una persona intenzionata a farla finita. L'atmosfera "southern" a dire il vero risulta con l'andamento del pezzo più una sorta di riempitivo, in quanto (soprattutto in fase di refrain) a dominare sembra essere più un'oscura pesantezza, al di là di ogni genere. Il suicida ha deciso che questo sarebbe stato il suo ultimo giorno sulla faccia della terra, ha deciso di farla finita una volta per tutte. Non può più continuare a vivere tormentato dalla disperazione, dalla paura del mondo che lo circonda. Le persone non sono altro che manichini insensibili, tristi comparse penosamente adagiate in un continuum che tutto ingurgita e niente fa tornare indietro. La felicità è solo un'utopia, è impossibile raggiungerla appieno. Ecco dunque che il suicida inizia a maturare in sé l'idea di sparire per sempre, di togliersi questo terribile peso: l'esistenza. Eppure, è combattuto: come ogni essere umano è preda del suo istinto di autoconservazione, è preda della sua voglia (seppur scarsissima) di vivere, alla fin fine. Che l'atto da compiersi sia in realtà più un gesto di codardia, che di stoica rassegnazione? Difficile a dirsi, la sua mente è tormentata, distorta, annebbiata. Un po' come le melodie tessute da Holt ed Hunolt, disturbanti per quanto plumbee. Anche gli assoli di Gary risultano, a dire il vero, più grigi che mai, struggenti per ampi tratti, beneficianti sia delle cadenze blues che di aperture più Heavy. Dopo questi bei momenti si ritorna ad uno Zetro triste banditore, permettendo al brano di proseguire lungo i suoi binari. In questo senso, mi verrebbe quasi da ammettere la presenza di vaghe sfumature Grunge in fase di pre-refrain; per quanto riguarda la voce di Steve, quando più bassa e declamatoria sembra richiamare addirittura (seppur alla lontana) il modus cantandi di un certo Layne Staley. Ecco quindi che il brano si avvia alla conclusione, rafforzando alla fin fine la decisione del protagonista. Togliersi la vita, alla fine, è la cosa più giusta da farsi: nessun amico attorno a noi, nulla di felice o quanto meno gioioso. Che senso ha, quindi... continuare?

Pump it Up

Penultimo brano del lotto, "Pump it Up (Gonfialo)" rappresenta il secondo tributo rivolto agli Exodus ad un personaggio ben noto del mondo Rock; nientemeno che sua maestà Elvis Costello, re del Pub Rock britannico. Il brano scelto rappresenta un vero e proprio pilastro dei suoi primi anni di attività: lo vediamo originariamente presente nel suo secondo album "This Years' Model" (1978), il primo registrato con i The Attractions come band di supporto. Un pezzo che, nel suo incedere, risulta divertente e coinvolgente, inglobando in esso tutte le influenze Rock di quell'epoca. Molto Rolling Stones, qualche parentesi à la Beatles. Il Rock n' Roll delle origini ben suonato dall'irriverente Costello, vero e proprio maestro della sua scena. E' la batteria di Tempesta unita al basso di Butler ad aprire le danze... sembra quasi che i sue stiano intonando "My Sharona"... ma è solo un'impressione, in quanto con la comparsa di Zetro il tutto si indirizza verso il sentiero originariamente tracciato da Elvis. E quel che udiamo, francamente... sembra quasi tradire una certa svogliatezza di fondo. L'aura scoppiettante e dinamitarda del pezzo principale viene come dispersa, sotterrata da un incedere pesante e dalla voglia di eseguire una semplicissima cover, senza per forza di cose volersi divertire e divertire il prossimo. Solo il ritornello spezza questa pesantezza monocorde, recando un po' di brio. Niente di che, con gli Stones era stato fatto un lavoro eccezionale; lo stesso non si può dire di "Pump it Up", anzi forse decisamente rovinata dalla triste voglia di non voler far più del minimo sindacale. Mi verrebbe da chiedere, ai Nostri: sapete, che potevate anche divertirvi? Un filler nel vero senso della parola, un riempitivo inutile ed anche imbarazzante, per alcuni versi. Il testo non viene minimamente alterato, rimanendo pesantemente ambiguo ed aperto a diverse interpretazioni. I più bontemponi hanno voluto vedere in questa "Pump it Up" dei significati prettamente sessuali (la "ragazzaccia" da abbordare, "gonfiare QUELLO" finché possa darle il piacere necessario), anche se in realtà tutti propendono più per una semplice descrizione di una notte brava passata a girovagare fra follie e divertimenti. Droghe, alcool, sesso occasionale... insomma, chi più ne ha più ne metta. Una "party song" che gli Exodus avrebbero potuto rendere ancor più pazza e sfrontata. Occasione miseramente persa, non c'è che dire.

Feeding Time at the Zoo

Dopo questa inspiegabile battuta d'arresto, arriva il momento dei saluti con "Feeding Time at the Zoo (Confusione immane)", altro titolo metaforico atto a descrivere una situazione densa di caos, proprio come sarebbe uno zoo nel mentre dell'ora del pasto, con tutti gli animali nervosi per la brama di cibo. Inizio strano con una telefonata abbastanza surreale, a tema "scimmie". Una persona telefona ad uno zoo, chiedendo informazioni sui primati lì ospitati; una voce femminile comincia ad elencare le varie razze, al che l'uomo chiede quale di queste sia la più indicata per preparare... una zuppa di scimmie! "Per cosa???" - "For WHAT??" tuona la segretaria, ed ecco che il brano inizia a picchiare durissimo, in maniera perentoria ed arrogante. Il Thrash torna imperiale, rasentando addirittura soluzioni Hardcore Punk; una vera e propria bolgia infernale in cui gli Exodus recitano la parte degli animali feroci, intenti a strappare e divorare lembi di carne, uccidendosi fra di loro, mordendosi, affrontandosi per il tanto ambito quarto di bue. Meglio non disturbare gli animali, per ora: cercare di attirare la loro attenzione significherebbe per forza di cose rischiare di divenire il loro prossimo pasto! E macinano, i Nostri macinano come non facevano dai tempi di "Fabolous Disaster"! Era dall'assalto di "Verbal Razors" che non provavo un'emozione simile: il miglior brano del lotto, se vogliamo parlare di episodi più prettamente estremi, recanti con essi ben pochi compromessi. Una rasoiata, una randellata in pieno volto, capace di dipingere dinnanzi a noi scene di selvaggia vita da giungla. I predatori divorano e masticano volgarmente lembi di carne sanguinolenti, i gorilla battono tonanti le loro mani sul petto, i giaguari e le tigri corrono all'impazzata, i rinoceronti caricano infuriati... è ora di pranzo, allo zoo!! Zetro, dal canto suo, non manca di dimostrarsi un vero e proprio animale del microfono, urlando e cantando in maniera sguaiata e serrata, dimostrando ancora una volta la sua immane poliedricità. Gli assoli di Holt rendono il tutto ancor più micidiale, sconfinando sempre in territori Heavy, portando la band a chiudere il discorso in un modo netto, perentorio, manesco. Cori da ultras e tanta, tanta maleducazione, livelli d'arroganza paurosamente alti. Che sarebbe successo, se un gioiello del genere avesse "contaminato" tutto il resto delle tracce?

Conclusioni

Ancora esaltato per la grande chiusura, mi rendo conto, oggettivamente, di quanta bontà sia effettivamente ben serbata nei solchi di questo "Force of Habit". Un disco che, per forza di cose, non è certo da buttare via; tutt'altro, e posso giurarci. Debbo ammettere in primis un fatto: se paragonato a "Pleasures of the Flesh", "Fabulous..." o anche ad "Impact is Imminent", ogni speranza di poterlo considerare un episodio solido e stabile viene a crollare miseramente. Poiché, provato e comprovato, questi Exodus non sono gli Exodus ai quali eravamo abituati. A volte troppo sperimentali, a volte eccessivamente semplicioni; a volte coraggiosi, altre volte stanchi. A volte ispirati, altre volte desiderosi di terminare in fretta il brano per potersene andare a casa. Una continua altalena ben distante dalla solidità mostrata dai tre platter precedenti. "Pleasures..." era il glorioso comeback, "Fabulous..." il capolavoro, "Impact..." la continuazione onesta di ciò che era stato fatto in precedenza. Tutto funzionava, tutto filava. Corse dal ritmo preciso e sostenuto, mai una virgola stonata, mai un ostacolo. Proprio per questo, dobbiamo in virtù di troppi elementi dimenticarci del passato per inquadrare "Force of Habit" quasi come un episodio a sé stante, come un qualcosa di abbastanza lontano dagli illustri predecessori. Doveva essere l'album di una presunta svolta, del nuovo, dell'avanti tutta. Largo all'avanguardia! Invece, quel che ci ritroviamo fra le mani, annega nel mare dell'incertezza più totale; sprazzi d'eccellenza sepolti da un mare di monotonia e stanchezza, fattore dovuto ed incoraggiato anche dal "troppismo" di questa fatica discografica. Ben tredici tracce, dalle durate singole non proprio esigue in molti casi. Se da un lato ci è consentito bearci della notevole tecnica chitarristico-musicale di tutti i membri, con uno Zetro sempre sul pezzo, dall'altro - in più di un'occasione - ci ritroviamo a sbuffare, chiedendoci quando diamine giungerà la fine di questo periglioso avvicendamento lungo i solchi del "nuovo". Intendiamoci: tracce come quella conclusiva, come l'ottima cover degli Stones, come la dedica a De Sade, come la stessa "A Good Day To Die" o "When it Rains it Pours" valgono davvero il prezzo del disco. Sconvolgenti a tratti, nuove, fresche, particolarissime. Non posso dunque fare a meno di chiedermi: cosa sarebbe successo, se queste poche e buone idee fossero state messe al servizio di un progetto più ragionato, organizzato e meglio definito? Avremmo avuto fra le mani un disco validissimo, altroché. Quel che effettivamente abbiamo, invece, è un compito ben eseguito ma ben lungi dal potersi dire abbastanza coraggioso dall'iniziare un corso importante. Verrebbe da pensare al capolavoro tirato fuori dai Voivod appena un anno prima, con la presentazione di "Angel Rat". Dopo anni di Thrash, un disco quasi Hard Rock; un signor disco, un vero e proprio gioiello da incastonare accuratamente in una magnifica corona. Avessero seguito quell'esempio, gli Exodus avrebbero potuto far faville. Bastava semplicemente riflettere per bene ed agire con calma. Nessuno stigmatizza la voglia di cambiare, tutt'altro. Possiamo e siamo in grado di giudicare, però, se quella voglia sia stata effettivamente trasportata verso una situazione all'altezza, se sia stata carburante adatto ad una macchina da spingere oltre la velocità del suono. La storia del Metal è piena zeppa di cambi repentini: i canadesi sopracitati riuscirono in pieno... i Celtic Frost caddero letteralmente in un fossato. "Cold Lake" (purtroppo!!) ce lo ricordiamo tutti. Ecco, dovessi inquadrare "Force of Habit" per forza in una determinata ottica, direi che ci troviamo dinnanzi ad un rarissimo esemplare di "Angel Lake" o "Cold Rat", decidete voi. Un disco che a volte esalta ed alcune volte fa sbadigliare, un potenziale flop salvato in extremis da qualche bella trovata. Nulla di più, nulla di meno. 

1) Thorn in my Side
2) Me, Myself and I
3) Force of Habit
4) Bitch
5) Fuel for the Fire
6) One Foot in the Grave
7) Count Your Blessings
8) Climb Before the Fall
9) Architect of Pain
10) When it rains it pours
11) Good Day to Die
12) Pump it Up
13) Feeding Time at the Zoo
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