Europe

Bag Of Bones

2012 - earMUSIC/Edel

A CURA DI
CHRISTIAN RUBINO
01/06/2020
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione recensione

"Bag Of Bones è un disco di una band itinerante. È stato fatto spontaneamente e rapidamente con molta attitudine ed emozione. Come dovrebbero essere fatti gli album rock!"

Joey Tempest - intervista di Mick Burgess per Metal Express Radio


Il contenuto di una telefonata ricevuta in tarda serata da un amico conosciuto l'anno scorso e con il quale condividiamo la stessa passione per il Metal mi abbatte momentaneamente ma allo stesso tempo mi sveglia da un torpore che mi ha portato ad assopirmi, per vari motivi, in questi ultimi anni e ad accettare le prepotenze altrui. Confesso di essermi sentito cadere un macigno in testa e ho avvertito la sensazione di essere proprio un "mucchio d'ossa", come il titolo di questo disco degli Europe. Non per la magrezza del mio fisico ma per una stanchezza corporea e mentale che in quel momento ha preso il sopravvento. Ecco, la copertina dell'album rappresenta esattamente com'ero fisicamente sulla mia scrivania e il mio stato d'animo di quella fortunata sera. Fortunata, perché scoprire di aver sbagliato in buona fede fa sempre male ma i consigli e gli incoraggiamenti sinceri aiutano, se detti con il cuore, a risollevarsi. Ironia della sorte, allo squillare del cellulare stavo per ascoltare questa fatica discografica degli svedesi del 2012 ed ho pensato quanto sia importante l'affetto di qualcuno, anche se lontano dalla tua città e la riscoperta della mia anima rocchettara che avevo seppellito da molto tempo. Gli Europe hanno ripreso da un po' quest'attitudine che avevano perso per strada nella prima parte della loro celebre carriera. Certo, quando si è giovani l'entusiasmo di sfondare, di guadagnare soldi è enorme e giustificato. I cinque scandinavi, con sacrifici e il destino a favore, sono riusciti a emergere da uno Stato, la Svezia, che quarant'anni fa non era il Paese musicale di adesso. Oggi siamo invasi da validissimi gruppi svedesi di qualunque genere musicale, ma nel lontano 1980, soprattutto le band rock locali cantavano in svedese, per volontà delle case discografiche e non superavano per ovvi motivi i confini della loro patria. Capisco quindi Tempest & soci che in poco tempo sono entrati in un business dorato e perverso, che non guarda in faccio nessuno e dove devi trovare dei compromessi per sopravvivere. A parte l'indiscutibile "The Final Countdown" negli anni hanno sempre espresso della buona musica, anche se non capita in pieno dalle masse, tranne che nel periodo post reunion con "Start Of The Dark" che per certi versi è stato un disco deludente. Anche "Last At Look Of Eden" del 2009 non è stato accolto magnificamente dai fans più accaniti. Però proprio da quest'ultima opera i vichinghi hanno poi proseguito speditamente il loro percorso artistico con più slancio, con le idee chiare, senza sbagliare un colpo e concedendosi un'altra chance nel circuito che conta. Questa volta non per primeggiare e arricchirsi ma per divertirsi e dimostrare ancora una volta la loro bravura e, quello spirito rock che avevano purtroppo perduto per vari motivi. In questo nuovo lavoro in studio, "Bang Of Tones" gli svedesi trovano la via e la direzione corretta, dimostrandosi così una delle band hard rock più credibili e più energiche in circolazione. Joey Tempest è sicuramente una parte importante di questa rinascita perché il suo carisma e la sua potente voce è migliorata con l'età così come la sua profonda umiltà che è rimasta intatta negli anni. Sui solchi di questa nuova uscita si sente che è ancora un animale da palcoscenico pieno di sentimento, in grado di interpretare al massimo la più sensibile delle ballate o il più pesante degli inni che si possono cantare a squarciagola. Il vero segreto è la sua collaborazione con il figliol prodigo John Norum, il chitarrista dal grande talento che si sente adesso a proprio agio in questo nuova direzione sonora, scatenando riff di potenza devastante e che rispolvera la sua chitarra acustica per suonare dei bellissimi riff di rock and blues. L'interazione tra i due, abilmente sostenuta dalla precisissima sezione ritmica di John Leven e Ian Haugland, è sostenuta dalla fantastica atmosfera generata dalle mani vellutate di Mic Michaeli e rendono gli Europe, una forza molto influente da non sottovalutare. Nonostante questa inclinazione verso le origini del metal, non è certo una sorpresa che per il loro nono album in studio la band abbia annunciato che avrebbe lavorato con Kevin Shirley, onnipresente produttore di hard rock, che non solo ha aggiunto più profondità alle ispirate composizioni del combo, ma che ha anche avvicinato lo straordinario chitarrista blues Joe Bonamassa, che porta così il suo talento a quest'opera: "Abbiamo sentito le cose positive che Kevin ha fatto con Joe Bonamassa. Abbiamo ascoltato la sua produzione di canzoni come "The Ballad Of John Henry" (dall'album omonimo del febbraio 2009) e "Blue And Evil"(dal Black Rock di marzo 2010). Quando abbiamo ascoltato quelle canzoni, ci siamo resi conto che era sulla nostra stessa direzione. Eravamo nella stessa missione, nel fare un classic rock passionale. Abbiamo avuto l'idea. Lo abbiamo chiamato e lui ha detto: Sì, mi piacerebbe molto produrre gli Europe. Siete una band molto sottovalutata"(John Norum). È giusto, quindi, dire che l'attesa è stata altissima e i fan sono stati lieti di sentire che "Bang Of Tones" non delude in alcun modo le attese, dimostrando di essere uno dei migliori platter di hard rock della loro lunga carriera. Certo, togliersi di dosso certi stereotipi che giravano negli eighteen e che li hanno accompagnati per lunghi anni, non è stata un'impresa facile, ma alla fine, sono riusciti a superare quel successo travolgente e superficiale, togliendosi adesso con quest'ultimo disco qualche sassolino dalle scarpe.

Riches To Rags

Dopo aver terminato la mia lunga chiamata, aver chiarito la situazione e aver parlato pure di musica, inserisco finalmente il cd sul mio lettore e premo il tasto play. Già conosco quasi a memoria tutti i pezzi di Bag Of Bones e quindi il mio è solo un piacevole ripasso. Da quando sono tornati insieme, Joey Tempest, John Norum, Mic Michaeli, John Leven e Ian Haugland hanno fatto con bravura musica che trasuda classe e passione, ma soprattutto in questo platter trovo un gruppo di musicisti a proprio agio con se stessi. Si parte subito con il botto iniziale della movimentata "Riches To Rags" (Dalle stelle alle stalle), esempio calzante del nuovo corso della band e una dichiarazione d'intenti del tutto inequivocabile sullo stile intrapreso. Song che nasce da un riff di John Leven, completato da Joey Tempest, che aggiunge un coro tutto suo e scrive dei versi per dimenticare il trionfale passato, andare avanti e cercare di riemergere con una nuova coscienza artistica: "Questo è quello che siamo. Ci stiamo esprimendo esattamente come vogliamo. Eccolo. Siamo passati, abbiamo oltrepassato il limite e abbiamo perso la nostra mente, eccolo, prendere o lasciare, piaccia o no". Questo è proprio l'atteggiamento strafottente di "Riches To Rags" che ricorda da vicino la struttura armonica della canzone "Got To Have Faith" di "Star Of The Dark", con un assolo di chitarra micidiale di John Norum, che si esprime a briglie sciolte con il suo consolidato connubio di melodia e ruvidezza rock and blues. In un'intervista confessa, che non era pianificato, che niente era previsto per quest'assolo: "Il giorno in cui ho dovuto registrare quest'assolo, ero in macchina ad ascoltare Frank Marino & Mahogany Rush. C'è una canzone particolare chiamata "Ain't Dead Yet" e chiunque non abbia ancora sentito questa canzone dovrebbe farlo perché si ascolta un modo sorprendente di suonare la chitarra. Stavo ascoltando quest'album mentre andavo in studio con questa canzone particolare e avevo questo spirito, questa energia dopo aver ascoltato Frank Marino. Sono arrivato in sala di registrazione e l'assolo era già pronto in due o tre prove! È arrivato molto rapidamente e ho avuto questa energia e ringrazio Frank per avermi dato questa ispirazione! John lancia subito un enorme riff di riempimento mentre Joey Tempest parte in quarta con delle tonalità vocali molte alte. Si sente subito la magia del produttore Kevin Shirley che fornisce alla canzone, ma in generale all'intera opera, una produzione stretta e meravigliosamente profonda. La batteria di Ian è in grande spolvero insieme ai riff di Norum caldi e sferzanti, che diffondono un sorprendente virtuosismo da parte del guitar hero. Hard rock variegato da un caldissimo blues, ben supportato dalla voce inconfondibile del singer e dal testo liberatorio che chiude definitivamente con un passato per certi versi scomodo: "Questo è il rumore di non tornare mai all'inizio. Questi sono i giorni dove dobbiamo determinare il nostro destino. Siamo fuggiti da un mondo impazzito ma non mi sono mai sentito così vivo. Siamo passati dalle stelle alle stalle!"

Not Supposed To Sing The Blues

Il primo singolo "Not Supposed To Sing The Blues" (Non si presume che canti il blues) è una delle canzoni più influenti dell'album ed è un'altra composizione in stile blues, che presenta un tessuto sonoro più lento e cadenzato, con influenze alla Led Zeppelin. Traccia che rimane fissa nel cervello per il suo refrain scanzonato e con un testo coinvolgente che riprende la storia del genere blues nato in America, grazie agli afroamericani. I suoi inventori erano schiavi, ex schiavi e discendenti degli schiavi afro-americani, che cantavano lavorando nei campi di cotone e nelle piantagioni di tabacco. Nei versi i cinque vichinghi parlano della discriminazione, dei pregiudizi, ma anche delle polemiche che hanno subito per essersi orientati verso uno stile lontano dalle loro origini: "Ragazzo, non dovresti cantare il blues. Da dove vieni? Se attraversi quei binari ferroviari, sarai da solo ma tutto quello che so è quello che sento e non può essere sbagliato. Ragazzo non dovresti cantare il blues. Non si fa". Il calore familiare del rock classico, con il vantaggio di una moderna e brillante produzione, crea quella miscela musicale che Joey Tempest sognava ardentemente insieme al grande amico John Norum. Questa song è l'anticamera di quello che si sente in tutto il cd e dove l'eccellente vocalist dimostra di essere nato per cantare facendolo con una veemenza e con un entusiasmo assolutamente innegabile. Inoltre, le influenze Zeppaliane, grazie alla tastiera di Mic, danno alla canzone un tocco di misticismo orientale che fa tanto per accendere l'immaginazione e l'entusiasmo dell'ascoltatore. E' strano ascoltare e leggere oggigiorno che ancora nelle liriche di molti artisti si parli di disparità tra uomini per il colore della pelle o per la religione e le idee politiche, come anche di pregiudizi e sterili critiche musicali. La canzone è stata però anche scritta in omaggio agli anni '60 e a tutti i musicisti che provenienti da piccoli luoghi hanno avuto un successo tale da capovolgere tutto il mondo. Il pezzo contiene riferimenti all'anno di nascita dello stesso Tempest, alle carriere di Jimmy Page, di Malcolm Young, di Angus Young ed Elvis Presley: "nato nel 1963 all'ombra dei Kennedy ero ancora un bimbo quando l'argine si ruppe. Torno in nero e ho 17 anni. Mi è stato detto, figliolo lascia che sia e ho ancora quelle linee sul mio viso".

Firebox

La successiva "Firebox" (Situazione esplosiva) ci porta, invece, nei territori di un epico hard rock contrassegnato da suoni armoniosi che richiamano alla nostra memoria il sound rock di gruppi come i Rainbow e i Deep Purple. "Firebox" è stata scritta alla fine come ultima traccia dell'opera e nasce da un riff composto dall'ottimo Michaeli, aiutato da Tempest, che compone i versi, i cori e le parti soliste. Mic suona e gioca con la sua keyboard, usando anche dei sintetizzatori e sviluppando uno strano suono orientaleggiante che assomiglia a una cedra e a un sitar indiano. L'effetto è così strano che sembri stiano suonando tre chitarre che si alternano tra di loro, riuscendo così a creare alcune sfumature spirituali, che sono davvero maestose. Il sitar in realtà sembra vero ma è prodotto dal synth e da un'idea del produttore, ovviamente per dare un tocco tutto indiano alla composizione. "Firebox" è quindi una forte esplosione di hard rock dalle influenze orientali e dove il bravissimo tastierista, si guadagna la giusta e meritata attenzione. Il tutto anche grazie all'esperienza di Kevin Shirley, che ha lavorato di recente con una band dal suono simile agli attuali Europe: i Black Country Communion. La forte presenza di synth e l'abilità di John Norum che sprigiona riff di una straordinaria vitalità, come se la sua vita dipendesse solo da questo, sono la chiave vincente della riuscita del pezzo. La lirica è molto attuale, come se la quotidianità ti facesse dimenticare il vero valore e le cose importanti della vita. Poi all'improvviso, può succedere qualcosa che ti apre gli occhi, un fulmine a ciel sereno, che ti costringe a fermarti: "Ci sono uomini che non si fermano mai in una vita intera. Oh una situazione esplosiva! Sempre a perdere tempo da qualche parte tra il desiderio e la disperazione". Lirica profonda che riporta inevitabilmente alla mia chiacchierata telefonica che riesce a svegliarmi dal mio lungo letargo, così come all'attualità della pandemia mondiale che stiamo attraversando e che inevitabilmente cambierà il nostro modo di vivere, fcendoci forse aprire gli occhi sui veri valori della vita. Un grande suono rock dalle sfumature blues, che ne fa una delle grandi composizioni di questo platter.

Bag Of Bones

"Bag Of Bones"(Mucchio d'ossa) è un'altra canzone che Tempest ha scritto durante le pause per le prove musicali nello studio discografico londinese di Shepherd's Bush. Joey ormai musicalmente così come nei testi, scrive e crea con la testa di un vero inglese. Ormai sono passati quasi trentanni anni da quando ha lasciato l'amata e odiata Svezia per le note vicissitudini fiscali e il fatto di pensare in anglosassone, lo ha aiutato molto perché questo è il primo album in cui ha messo più di se stesso nelle composizioni, ottenendo un risultato più maturo e intimo. La song è stata scritta sulla sua chitarra Fender Stratocaster, collegata a un amplificatore Marshall e con la collaborazione di John Norum. Inizialmente aveva una struttura di filastrocca ma dopo vari ritocchi e all'aiuto del produttore è diventata una delle più interessanti canzoni in scaletta. Nata per stanchezza, i testi parlano proprio dell'esaurimento di Tempest, che provato da due anni e mezzo di tournée in giro per il mondo, e anche preoccupato dei disordini in Inghilterra del 2011 che sono iniziati a Londra, esprime in musica tutte le suefrustrazioni: "Mucchio d'ossa. Sono un mucchio d'ossa. Giorni oscuri che non avevo mai conosciuto. Da dove viene questa sensazione? Dio mi manca la mia casa felice. Ti chiedo perché adesso? Dovrei avere tutta la vita davanti". Il vichingo sta male e l'unica preoccupazione è di riabbracciare la propria famiglia per proteggerla e riposarsi: "Si, la mia città è in rovina alla luce fredda del giorno e sono uscito fino a tardi dopo il coprifuoco. Ci deve essere una canzone per tornare a casa". In effetti questa ricerca della strada giusta per trovare equilibrio proietta la band alle origine del metal. Da notare la collaborazione nella canzone del chitarrista Joe Bonamassa, che aggiunge un po' di magia alla chitarra suonando con la tecnica dello slide guitar. La titletrack è l'esempio di uno straordinario allenamento blues che si apre in modo polveroso prima di dare il via a un riff davvero pesante che non suonerebbe fuori posto su un disco dei Deep Purple. Questo è il giusto accostamento a un combo che si mette a nudo e che adora follemente le strutture tradizionali del blues ma allo stesso tempo desidera possedere l'intensità infuocata dei Led Zeppelin e di Jim Hendrix. Proprio come Bonamassa, optano per creare un suono che è senza tempo e fuori dalle mode: "Penso che la musica degli Europe sia sempre venuta dal cuore e dall'anima di noi come band. Non penso che saremmo in giro se facessimo musica in base al gusto e all'opinione della gente. Facciamo musica per soddisfare noi stessi e se piace a qualcun altro, è fantastico ... E ci sentiamo fortunati di farlo"(Ian Haugland).

Requiem

La strumentale "Requiem" è il più breve dei momenti orchestrali e porta la firma dell'abilissimo Mic Michaeli che con la sua tastiera crea un suono leggero e spirituale. Questo intermezzo tra la titletrack e la song "My Woman My Friend" è interessante ma inspiegabilmente brevissimo. Non so quale sia lo scopo di questo intervallo, ma solo ventotto secondi non sembrano il massimo per raggiungere qualcosa. Comunque, "Requiem" sembra proprio una preghiera d'invocazione per i defunti, che separa due tracce simili. Contiene un tenebroso suono di campane che continuano nella traccia successiva con un pianoforte che lega tutto insieme e che alla fine è abbastanza piacevole ma anche molto sinistro.

My Woman My Friend

Uno dei batteristi più sottovalutati del rock, Haugland si mette in mostra anche in questa cupa sesta traccia dell'opera, guidando la canzone, con il compagno Leven, che riesce ad offrire delle raffiche di bassi sempre costanti e fluidi. Le campane a morto e il groove guidato dalla tastiera di Mic legano, come scritto prima, la precedente "Requiem" a "My Woman My Friend"(La mia donna, la mia amica), che aggiunge un tono più pesante al platter. La song nasce da un riff di basso composto proprio dall'esperto Leven, sistemato come sempre da Tempest, che lo accosta con il riff di un vecchio brano musicale messo da parte e chiuso anni prima in un dimenticato cassetto. In seguito nasce l'idea di scrivere su un amore spirituale, fatto di prove e tribolazioni. Stare insieme con la stessa persona per molto tempo è difficile e una relazione è sempre fatta di alti e bassi: "La mia donna, la mia amica. Tutto quello che so è che un uomo a volte va all'inferno. Ti ho perso ormai così tante volte. Voglio solo sentire quell'amore di nuovo. Deve essere una sorta di miracolo se ricominciamo tutto di nuovo". Ma anche l'unione tra due persone diverse è meraviglioso soprattutto se dura nel tempo: "Tutto quello che so è che un uomo va in paradiso qualche volta e io lo sono perché tu sei la mia donna, la mia amica". Nell'album, il riff originario di Leven è riprodotto nell'introduzione, accompagnato da Michaeli al pianoforte e dove la guitar di John Norum fornisce il meglio di sé nell'esprimere il proprio amore nei confronti dei mitici Thin Lizzy e di chi vuole bene pazzamente al rock and blues. I riff del norvegese sono scoppiettanti, crudi, pesanti e sorprendenti. L'esteso assolo di chitarra è poi uno di quei momenti in cui puoi solo stare in piedi e ascoltare in silenzio mentre la tua anima ribolle di gioia.

Demon Head

Per Joey Tempest questo è un pezzo molto divertente, ispirato dai beniamini Deep Purple. "Lo adoro! Ha un grande e vecchio spirito, è un po' lirico e non ho intenzione di approfondire il senso del testo, ma i ragazzi della band lo associano all'organo sessuale maschile, sai - La testa del diavolo - questi ragazzi hanno una mente molto sporca"(Joey Tempest).
Sound hard rock un po' ossessivo e appunto con una strana lirica: "Tu mi dai qualcosa che posso usare amico mio. Qualche ubriaca onestà e qualche rimedio per la mia mente demoniaca". "Demon Head" (Testa del demone) è un brano aggressivo e allo stesso tempo melodico, che piacerà molto. Questo è pure uno dei due brani creati dalla mente diabolica di John Norum, che è poi l'anima ribelle della band. Ritornello perfetto e incisivo, come pochi nel cd, nella sua apparente semplicità, che riprende le calde atmosfere sentite nei pezzi precedenti, abbracciando non solo elementi dei già citati Deep Purple ma aggiungendo i suoni tipici dei Led Zeppelin, degli Audioslave e perfino degli Aerosmith. L'iniziale ritmo frenetico è frenato in parte da cambi di tempo guidati dall'iniziale dolcezza dell'hammond di Michaeli per poi esplodere alla fine in enormi turbinii di tastiera, rulli di batteria e con la voce rauca di Joey che cerca di sovrastare il muro di suono creato da tutti gli strumenti. Nel complesso il tutto è ben interpretato dalla straordinaria voce di Joey che però in quest'occasione, nella parte conclusiva del brano, sembra lasciare più spazio ai suoi compagni per agevolare il notevolissimo groove imposto dalle sei corde di Norum, e le indistruttibili pelli del diavoletto Haugland.

Drink And A Smile

Un'atmosfera calda e sporca da pellicola western è la sensazione che si percepisce nella breve ballata semi acustica di " Drink And A Smile" (Bere e un sorriso), che inizia con una chitarra acustica molto veloce che porta ad un sound dal gusto country ma a tratti anche rock e folk, e che vede Joey cantare più che mai, come Robert Plant per una traccia che sembra uscita direttamente da un vecchio e impolverato Lp dei Led Zeppelin. Questa è l'ultima canzone scritta per l'album da Tempest e Michaeli, che escono dal cilindro l'ultima magia e dove addirittura il tastierista degli Europe riproduce perfettamente il suono di un mandolino. Con un riff di chitarra inquietante e i ritmi di batteria melodici, la song ha quella forza di farti alzare le mani in aria e di urlare a squarciagola come dovrebbe fare ogni degna canzone rock. Due Minuti circa di allegria, dove l'ugola del vocalist sembra essere un po' modificata in studio ma che fa comunque la sua parte e mostra anche belle tonalità soul. E' pazzesco credere e sentire che il biondo singer possa cantare e interpretare un pezzo del genere mostrando così un altro lato della sua voce ma è la realtà e soprattutto il bel Joey ne esce ancora una volta vincitore dimostrando con i fatti tutta la sua maestria: "Mi sento come un vincitore. Stanotte non posso sbagliare. Beh il tutto è ben lungi dall'essere perfetto. Il mio cuore continua a battere veloce finché le luci si spengono e sento una risata. Mi ricordo cosa vuol dire". L'impressione di tornare indietro nel tempo con questa traccia è molto forte avendo quasi nulla di moderno tra le sue note.

Doghouse

Con la nona traccia "Doghouse" (Nei guai) la formazione vichinga alza il ritmo ancora una volta mentre il vendicativo Joey grida nei primi versi: "Ho fatto dei nemici, mi sono preso alcune libertà vivendo semplicemente la mia vita e provando a fare le cose giuste". Questo sfogo accompagna il riff iniziale ed enormemente accattivante della canzone che sprigiona un hard rock caratterizzato da un impetuoso rincorrersi di chitarre e tastiere. Il suono è sempre un rock classico tradizionale con il singer nelle vesti di un ribelle inseguito dalle corde elettriche e dirette del fido Norum, che si ritaglia anche qualche spazio da solista lungo il brano. Questa volta però primeggia alla grande un groove di basso e una battery che picchia all'inverosimile, tanto è il rancore dei cinque musicisti per come sono trattati dalla critica sulla nuova direzione musicale intrapresa: "Dio lascia che ti dica che sono sempre nei guai e non importa quello che faccio. Sono sempre nei guai"! Quando la fama ha colpito gli scandinavi con "The Final Countdown" molti pensavano che John Norum fosse un pazzo ad allontanarsi dalla band per cercare altre strade più soddisfacenti al suo modo di suonare la sua amata chitarra. Norum voleva un rock impregnato di blues e molto simile ai suoi amati Deep Purple. Se la sua visione era realizzare un'opera come questa allora ha indovinato nel seguire questo viaggio. In generale, la collera e il pessimismo sembrano andare a braccetto ma la song è cosi ossessionante, robusta e con un assolo mostruoso che il testo passa subito in secondo piano lasciando pienamente appagati. "Doghouse" è uno dei primi brani a essere stati composti dalla band tant'è che lo troviamo presente in anteprima sul CD / DVD "Live At Sheperd's Bush", registrato a Londra nel 2011 durante il tour promozionale dell'album "Last Look At Eden". La canzone è una delle chicche del disco, e gli autori Tempest e Norum sono francamente in una fase eccellente della loro creazione artistica.

Mercy You Mercy Me

"Mercy You Mercy Me" (Pietà per me, pietà per te) è ancora una volta un brano poderoso e incalzante, forse il più metal dell'intero album ma non eccezionale ed è graziato soprattutto da un gran bell'assolo di chitarra. La traccia proviene da un riff composto da John Norum che conquista subito l'amicone Joey e viene perfezionata da Shirley che aiuta i due a completarlo costruendoci sopra una canzone: "Tipica song di John Norum, che quando ho toccato i riff mi ha fatto impazzire, Woooowww! Che diavolo è quello?"(Joey Tempest). Il testo è stato scritto durante le pause nella sala prove di "Shepherds Bush" a Londra ed è ispirato da una riflessione di Tempest sul fatto che al mondo ci siano persone fortunate che hanno tutto e persone tristi e sfortunate che non hanno avuto o poco dalla vita: "E' una sorta di pazzia, come siamo schiavi di una morte precoce e siamo sciupati. Devi liberartene, rimettiti in piedi. Far vedere di che pasta sei fatto. Crearti la tua fortuna". Le coordinate stilistiche sono quelle di un hard rock settantiano intrapreso dagli svedesi che confermano un risultato efficace, grazie soprattutto alle vincenti melodie del canto. I riff robusti di John Norum ricordano lo stile rock di Zakk Wylde, il virtuosismo di Slash e la vena compositiva dei Velvet Revolver. John Norum illumina la scena ancora una volta con un assolo piacevolmente inserito nelle ultime fasi della canzone, ricordandoci ancora una volta che è uno dei migliori chitarristi hard rock in circolazione. Un altro potente promemoria per un grande musicista che non teme confronti tra i tanti in giro per il mondo.

Bring It All Home

La conclusiva e leggera "Bring It All Home"(Porta tutto a casa) è la song dei saluti in tutti i sensi. Chiude bene l'opera malinconicamente, con un dolce refrain guidato dalle soavi sei corde di Norum che raggiungono il culmine nell'assolo misurato e prolungato del chitarrista norvegese. L'ugola affranta di Tempest e accompagnata dalla sottilissima tastiera, che penetra nell'anima e porta a ricordare i momenti più intensi della nostra esistenza. Il pezzo nasce da una jam session tra Tempest e Michaeli a San Francisco nel lontanissimo 1990 durante la scrittura di "Prisoners In Paradise". I due musicisti hanno l'ispirazione mentre guardano il film documentario "The Last Waltz" del1978 di Martin Scorzese dedicato ai "The Band" che fanno il loro ultimo concerto e invitano tutti i loro amici musicisti per celebrare l'addio dalla scena musicale. Le due canzoni che sono uscite da quella jam erano "New Love In Town" (che è finita nel platter Last Look At Eden) e "Bring It On Home" (su questo disco).L'idea di quest'ultimo pezzo era che sarebbe stata l'ultima canzone della scaletta e che sarebbe stata eseguita, un lontano giorno, nell'ultimo spettacolo degli Europe a fine carriera: "Questa è la canzone che gli Europe suoneranno come ultimo brano tra due o venti anni e sarà suonata dal vivo quando ci salutiamo. Questa era l'idea: ringraziare i fan e ringraziare il business della musica. Ed è così che sono nati i testi. D'ora in poi, non so quanti anni passeranno, ma questa sarà l'ultima canzone di tutti i nostri spettacoli, poi andremo a casa?"(Joey Tempest). Liricamente, si tratta di dire appunto "thanks" a tutti i fan e le persone che li hanno supportati e amati durante la loro leggendaria avventura artistica: "E' la chiamata alla ribalta. Abbiamo barcollato con ruoli incompleti ma va tutto bene, i brividi svaniranno. Ci siamo divertiti lungo la strada". Lento vellutato, elegante, pieno di sincere emozioni, con in evidenza la voce rauca dell'ottimo vocalist, per una ballata più leggera in pieno stile AOR e un'ottima conclusione per un buon album di tradizionale hard rock settantiano. Nel suono della chitarra acustica si può riconoscere la storia, la maturità e la rinnovata sensibilità di questi musicisti. L'episodio più melodico e commovente dell'opera, la song strappalacrime che non ti aspetti, ma eseguita e interpretata con grande classe: " Thank you for coming alon. Bring it all home".

Conclusioni

Dopo aver estratto il mio cd dal lettore, perdonatemi ma sono ancora all'antica, e averlo riposto nella sua custodia, rifletto su questa strana serata e sul mio cambiamento d'umore. Non era cominciata bene ma con l'incoraggiamento ricevuto telefonicamente e la buona musica degli Europe mi sono ripreso e rialzato, come una fenice, dalle mie ceneri. Posando il disco tra i miei scaffali, riguardo ancora una volta la misteriosa copertina vintage dell'album, tipica dei seventies e ricca di tanti interessanti elementi. Sembra una collezione di oggetti ma mostra anche alcuni titoli dei brani proposti nel disco, con in evidenza l'immagine di un uomo addormentato sulla scrivania, distrutto dalla fatica o come me abbattuto dalla consapevolezza di aver commesso bonariamente un piccolo errore. Quello che conta è sempre il contenuto, insomma quello che c'è dentro i nostri cuori e il platter, in effetti, non delude chi gradisce le oneste sonorità rock and blues, perché la maggior parte dei brani ha un sound leale, intenso, adrenalinico e passionale. Quaranta minuti di buono e puro hard rock classico, che attesta ancora una volta che la band nordica sia in forma e in viaggio sul tragitto corretto. Ormai questo è il quarto album dalla reunion del 2004 e i fan si sono abituati alla nuova direzione artistica dei cinque musicisti. I supporters non sono più sorpresi e ovviamente gli Europe fanno liberamente ciò che amano suonare senza cercare di trovare consensi o di entrare in stupide classifiche che lasciano il tempo che trovano. Il sound trafigge positivamente per il grande lavoro di produzione di Kevin Shirley, che ha una grossa parte di merito nella stabilizzazione del suono della band, che adesso appare più organico e convinto. Considerevole è pure la fenomenale intesa tra i due leader, Tempest e Norum che porta tanta qualità e sicurezza all'intero gruppo, cosa che oggi manca sfortunatamente a tantissime band moderne. Dall'inizio alla fine, questa è un'opera accattivante che ripercorre bene una certa strumentalità retrò, fatta da chitarre blues, dall'hammond, dai synth e da una precisissima sezione ritmica, mantenendo comunque un hard rock degno di essere ascoltato dai rocker del ventunesimo secolo. "Abbiamo preso questa direzione con l'album precedente e adoriamo questo suono. Il nostro produttore Kevin Shirley essendo un chitarrista, apprezza i grandi suoni di chitarra. È molto positivo per me suonare con un produttore che adora quel suono. Non l'abbiamo davvero scelto, è stata un'evoluzione naturale. Siamo più o meno cresciuti con le band degli anni '70 come gli Ufo, i Deep Purple, quindi in un certo senso torniamo alle nostre radici. Ma adoriamo anche Joe Bonamassa - sia i suoi album da solista che quello che fa con i Black Country Communion - così come gli Audioslave, anche se la band non esiste più. E tutti i membri degli Europe hanno la responsabilità di ciò che suoniamo adesso" (Jhon Norum). Importante è stato quindi l'incontro con Shirley ma anche la collaborazione con l'ospite d'onore Bonamassa che esegue un assolo dalle venature blues settantiane in "Doghouse", e che porta inevitabilmente a fare dei paragoni con i Black Country Communion. "Bag Of Bones", è un liberatorio viaggio indietro nel tempo, ancorato però in questo nuovo millennio, con una ricerca di suoni antichi come quelli indimenticabili degli anni '70. L'unica pecca di questo buon lavoro discografico è la mancanza di canzoni memorabili che possano rimanere scolpite nella storia del metal, ma penso che questo alla fine lo scopo della band e l'ultimo dei pensieri degli attuali Europe. Già sono entrati nella storia dell'hard rock mondiale e adesso non dovendo dimostrare niente a nessuno si godono la bellezza e il divertimento di suonare apertamente ciò che vogliono. Chi trova un amico, trova un tesoro e chi ascolta questi rivitalizzati Europe fa lo stesso perché gli scandinavi, nonostante non propongano nulla di particolarmente originale meritano la nostra fiducia e la nostra amicizia. Giganti emozioni e grandi passioni che nonostante il logorio del tempo, i musicisti svedesi riescono ancora a trasmettere direttamente dal cuore, senza compromessi o inganni.

1) Riches To Rags
2) Not Supposed To Sing The Blues
3) Firebox
4) Bag Of Bones
5) Requiem
6) My Woman My Friend
7) Demon Head
8) Drink And A Smile
9) Doghouse
10) Mercy You Mercy Me
11) Bring It All Home
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