DELIRIUM X TREMENS
Troi
2016 - Punishment 18 Records
EMANUELE RIVIERA
02/05/2017
Introduzione recensione
All'interno di un panorama musicale come quello attuale che, anche in ambito estremo, vede un incredibile sovraffollamento di uscite discografiche fotocopia, lavori cioè che, per quanto piacevoli all'ascolto, risultano tremendamente carenti quanto a genuinità e personalità, fa piacere, una volta tanto, ascoltare qualcosa di innovativo e riconoscibile, immettere nel nostro stereo una di quelle sparute realtà che ancora hanno il coraggio ed il desiderio di intraprendere nuovi sentieri sulla via della sperimentazione sonora, (il riferimento non è casuale, come avremo modo di scoprire in seguito), è motivo di grande entusiasmo. A maggior ragione, la curiosità e l'interesse aumentano se parliamo di una formazione al 100% italiana, importante portabandiera del vivace movimento metal tricolore, confinato a priori nei meandri dell'underground, ma in grado di proporre lavori di altissima caratura, nella maggior parte dei casi snobbati dai più, incapaci di aprire le menti e di considerare l'Italia come una Nazione di prim'ordine, in relazione all'ottimo rapporto quantità-qualità dei prodotti licenziati, (anche il sottoscritto, al riguardo, fa mea culpa per il notevole ritardo con cui si è avvicinato al lodevole panorama estremo del Bel Paese). Restringendo il nostro campo di osservazione, è al versante death che dovremo rivolgere le nostre attenzioni principali nel corso di questa stimolante trattazione. Come certamente saprete, il metallo della morte, dopo un decennio di sostanziale egemonia, entrò in crisi profonda verso la fine degli anni novanta, superato dalla spietata concorrenza del black che, dalla natia Norvegia, si espanse a macchia d'olio nell'Europa continentale, grazie all'onda lunga della sua nera fiamma, corroborata da musica grezza e quanto più possibile rabbiosa e sguaiata ed ulteriormente alimentata da una vasta scia di odio e di morte, elementi, questi, che fecero subito breccia sulle fragili ed insicure generazioni di fine millennio. Proprio in quegli anni, e qui il nostro orizzonte si restringe ulteriormente, in quel di Belluno, capoluogo più settentrionale del Veneto, risalente all'età romana e splendidamente incastonato alle pendici delle Dolomiti, in uno scenario paesaggistico mozzafiato, inizia il sorprendente percorso artistico dei Delirium X Tremens. All'ombra di quei Monti Pallidi che, fin da epoche remote, hanno affascinato ed incantato l'essere umano, ispirato numerosi e celeberrimi tra cantori, poeti e pittori, acceso fantasie di conquista negli anni pionieristici dell'arrampicata, prese il via uno dei progetti più interessanti e meritevoli del metal italiano. Sicuramente un ambiente naturale congegnale per cercare l'ispirazione artistica ed in cui poter rivalutare, nell'ottica di relazioni autentiche ed improntate al rispetto reciproco, il rapporto con la natura, (nel 2009 l'UNESCO ha dichiarato le Dolomiti patrimonio mondiale dell'umanità). D'altro canto va detto che, in un periodo storico in cui la decadenza del death pareva essere inevitabile, muovere i primi passi in una cittadina periferica come Belluno non deve essere stato facile. Il nucleo originario della band, parzialmente dissimile da quello attuale, si costituì inizialmente come cover band, (Death, Deicide, Morbid Angel ed, in prevalenza, la scuola americana). Un inizio, quindi, piuttosto canonico ed ordinario. Con una formazione che, a quel tempo, prevedeva la doppia chitarra ed un diverso batterista, nel 2003, uscì l'ep autoprodotto CyberHuman costituito da 5 tracce complessive. La desiderata stabilità di line up, necessaria per poter imprimere una svolta professionale al progetto, arrivò subito dopo e, con essa, anche la firma del primo contratto ufficiale. Nel 2006, infatti, i Delirium X Tremens attirarono l'interesse della piccola ma intraprendente label piemontese Punishment 18 Records, la quale non esitò a mettere sotto contratto la band, (fu la seconda formazione in assoluto ad entrare nel roster di Corrado Breno e Marita Mirabella), un sodalizio vincente e da allora ininterrotto. Fu quello un momento chiave per la carriera della formazione bellunese, il primo tassello sulla strada della definitiva consacrazione. Logica conseguenza di quella collaborazione fu l'esordio su lunga distanza, CreHated From No_Thing, risalente al giugno del 2007. Questi due prodotti discografici mostrarono una band decisamente promettente, alle prese con il difficile rapporto dell'uomo con la tecnologia, con la sua crescente alienazione e dipendenza verso di essa, sullo sfondo di scenari apocalittici e cibernetici in cui a regnare è l'odio più bieco. Ma chi si cela concretamente dietro al singolare appellativo Delirium X Tremens?, (la lettera X, a tal proposito, venne inserita sia per differenziarsi da alcune omonime band locali, sia con l'obiettivo di inserire una sorta di elemento incognito attorno alla band). Le due figure di spicco, attorno alle quali la fama dei nostri iniziò a crescere nei circoli locali, le uniche presenti fin dal lontano 1998, sono quelle del vocalist Alberto "Ciardo" Da Rech e del bassista Matteo "Pondro" De Mori. Altra presenza di lungo corso è quella del chitarrista Med, al secolo Fabio Della Lucia, mentre il batterista Thomas Lorenzi è entrato a far parte del sodalizio veneto subito dopo il rilascio del primo ep. Un quartetto al 100% made in Belluno, fieri ed orgogliosi delle proprie origini e delle proprie radici. Un legame ancestrale, inscindibile con una terra ricca di storia e di leggende, ferita ed insanguinata a morte dalle cruente vicende del primo conflitto mondiale, ("un inutile bagno di sangue" come venne definito da Papa Benedetto XV), ma in grado di rialzarsi con gagliardia e tenacia, parimenti capace, mezzo secolo dopo, di non soccombere definitivamente nemmeno dinanzi alla immane catastrofe del Vajont. Una simbiosi sincera e schietta che ritroveremo anche nella musica del gruppo. Benché i riscontri inizialmente ottenuti furono, tutto sommato, incoraggianti, l'ambizione e la voglia di emergere di Pondro & Co richiedevano altro, il gruppo sentiva la necessità di dover imprimere una svolta alla propria carriera. All'ombra di quei monti imponenti che tutto il mondo ci invidia, gustando senza fretta un'ottima grappa locale, la band decise, quindi, con una bella dose di coraggio mista a sana incoscienza, di intraprendere una fondamentale virata di stile, incentrata sull'omaggiare quelle terre così ricche di fascino, di leggende popolari e di storia. Il rifiuto della moderna tecnologia imperante, leit motiv dei primi due lavori, venne declinato in una nuova e più radicale dimensione, mirata a riscoprire le tradizioni della propria terra d'origine. Siamo giunti nel 2011 e sul mercato viene immesso il validissimo Belo Dunum, Echoes From The Past, punto di partenza del nuovo corso della carriera del gruppo. Il look della band cambia drasticamente, i costumi di scena divengono quelli di intrepidi montanari dei primi del Novecento, i testi non disdegnano il ricorso all'italiano, ritenuto indispensabile per esprimere concetti che altrimenti perderebbero gran parte della loro forza e della loro suggestività, (la stessa parola "alpini", ad esempio, è una peculiarità assolutamente nazionale che nessuna traduzione, per quanto accurata, potrà mai rendere in tutte le molteplici sfaccettature), compaiono strumenti caratteristici del folklore e cori patriottici di un epico tempo che fu. Il consenso tra critica e fan cresce ancora, la band esce, sempre più spesso, dai confini nazionali e riscuote successo anche in una discreta porzione dell'Europa centro/orientale, (a fianco di band del calibro di Asphyx, Belphegor, Tankard ed Unleashed, tanto per citare quattro pezzi da novanta), le esibizioni dal vivo si susseguono ed, in parallelo, anche interviste e recensioni, nella maggior parte dei casi molto positive. E siamo, così, arrivati ai giorni nostri. Dopo un intenso periodo trascorso on stage, finalizzato a promuovere il secondo full length di casa DXT e a meglio definire la propria dimensione artistica, il gruppo torna a far parlare di sé nel corso del mese di novembre dello scorso anno. Sempre sotto l'attenta ala protettrice di Punishment 18 Records, in data 30 Novembre 2016, viene immesso sul mercato Troi, ideale successore dell'album edito ben 5 anni prima. Il legame con la propria terra natia emerge fin dal titolo scelto, Troi nel dialetto bellunese significa "sentiero", (ecco l'anello di congiunzione con quanto da noi detto in testa a questo lavoro). E proprio lungo gli impervi, ma affascinanti, sentieri di montagna il gruppo ci conduce nei cinquanta minuti di musica che ci apprestiamo ad ascoltare, con una certa impazienza. Il terzo lp della band si configura, infatti, come un affascinante concept lirico, sviluppato attorno al difficoltoso viaggio di un ragazzo che, sotto la supervisione di un sapiente gufo, giungerà fino alla vecchia e diroccata dimora di un valoroso alpino perito durante la Grande Guerra. Lo spirito dell'alpino morto rivive nel gufo, magica creatura dei boschi d'alta quota. Una volta giunto nella casetta, il giovane troverà un album di fotografie, ormai attanagliato dalla polvere ed inaridito dal tempo. Sfogliando le pagine di quel diario, egli rivivrà i leggendari ricordi di cui quelle terre sono intrise, ognuna di esse rappresenta un capitolo di questo Troi, probabilmente l'album della definitiva maturazione del gruppo. Il significato profondo che sta alla base del concept è legato all'urgenza di mantenere vivi i ricordi, per quanto dolorosi, del nostro Paese, troppo a lungo dimenticati in favore di una ingiustificata ed aprioristica esterofilia. Nessuna Nazione al mondo, del resto, possiede un bagaglio culturale, linguistico, (inteso come quantità e varietà dialettale), storico e di tradizioni popolari paragonabile al nostro. Per estrinsecare all'esterno simili e già valide idee di fondo, il gruppo rafforza l'utilizzo della lingua italiana, conferisce una valenza ancora più importante ad inni e cori, affianca, con perizia tecnica notevole, al tradizionale binomio chitarre elettriche/batteria l'uso di strumenti tradizionali quali armoniche, chitarre acustiche, trombe e violini, il tutto reso coeso e sorprendentemente omogeneo da una produzione che non ha nulla da invidiare ai lavori assemblati in Svezia o negli Stati Uniti. Nel dettaglio, l'album è stato registrato, nel mese di febbraio del 2016 nei The Crowns Studio di Fabio Perucchini, (già nei Koma Killer e nei Seven Dark Eyes), a Voltago Agordino, piccolo Comune a nord del capoluogo ed, in seguito, mixato e masterizzato nei RecLab Studios di Milano sotto la supervisione di Larsen Premoli, già collaboratore dei Destrage e dei Node. In relazione alla particolare natura dell'album che andremo ad analizzare, anche la nostra trattazione sarà ricca di riferimenti ambientali e cronologici, relativi ad episodi realmente accaduti e documentabili, di fondamentale importanza per contestualizzare al meglio le tracce più dense di spunti. Si è cercato, nei limiti del possibile, di fornire ricostruzioni storiche e dati numerici il più possibile corrispondenti al vero, estrapolando e raffrontando diverse fonti bibliografiche e letterarie. L'alea di mistero che ancora aleggia su taluni degli episodi narrati in Troi, unita all'impossibilità di fornire dati precisi in merito ad altri, sono elementi che, per dovere di correttezza, segnaliamo fin da ora, affinché possiate fruire al meglio di questa impegnativa lettura e per stimolare ulteriori ricerche personali a riguardo.
Ancient Wings
La prima traccia che il gruppo ci propone, una sorta di corposo prologo all'avventuroso cammino che ci apprestiamo ad intraprendere, è "Ancient Wings (Antiche ali)", aperta da un breve e soffuso interludio atmosferico, di gran pregio. Fisarmonica e violoncello si intrattengono con noi per pochi secondi appena che, tuttavia, lasciano intravvedere già che personalità e coraggio non fanno certo difetto ai quattro alfieri dell'autodefinito "dolomitic death metal". Siamo al cospetto del diretto successore del precedente Belo Dunum, Echoes From The Past: ciò è facilmente intuibile, fin da subito, dal momento che questo delicato arpeggio d'apertura ricalca fedelmente quello che aveva caratterizzato la ghost track finale, "Il respiro della montagna", che aveva il compito di chiudere l'album del 2011. La batteria entra, di gran carriera, sulle scene con un terremotante assalto in doppia cassa che ci fa letteralmente sobbalzare verso l'alto, la chitarra di Med inizia a cesellare riff di incredibile potenza ed anche il basso di Pondro è pienamente della partita. Al minuto 0:45 fa la sua comparsa pure il vocalist Ciardo, il quale si affida inizialmente ad un canonico, ma non per questo meno interessante growl, alquanto cavernoso, profondo al punto giusto e perfetto per concretizzare in termini pratici l'attitudine battagliera dei nostri. E' ancora l'ottimo Thomas, peraltro, a dettare legge con un lavoro davvero consistente e che evidenzia una impronta personale netta e ben definita, ulteriormente esaltato da una produzione che pare mettere al centro proprio le sezioni di drumming. Il tessuto ritmico che egli imbastisce, adornato da una tecnica di base non indifferente, mette subito le cose in chiaro sul fatto che i DXT siano, fondamentalmente, genuinamente una formazione che suona death metal. Mostrando una versatilità sorprendente, il vocalist sposta le proprie coordinate stilistiche su tonalità più sporche ed abrasive, a partire dal minuto 02:20. La sostanziale nonchalance con cui Alberto mischia le carte in tavola ci mette di fronte al primo di una serie di elementi che, anche in seguito, ci consentiranno di parlare di un certo avvicinamento agli ambienti del black metal da parte del gruppo, qui peraltro limitato al solo comparto vocale, dal momento che l'impianto rtimico di base rimane di matrice death. Dopo una ventina di secondi ancora, i toni del cantato assumono una ulteriore differente impostazione, ora incentrata sulla ricerca di una notevole solennità di stampo teatrale, le cadenze rallentano e l'epicità, per contro, aumenta. Il momento è propizio per collocare un piacevole intermezzo acustico, siamo al minuto 03:07. Durante questi trenta secondi, l'intento principale del gruppo è quello di ricreare una adeguata atmosfera di contorno, all'interno della quale muoversi con maggiore agio. E', inoltre, possibile scorgere graziose divagazioni folk appena accennate. Si torna, tuttavia, a pestare forte quando siamo nei pressi del quarto minuto. Ancora il brano non è concluso, ma risulta evidente, fin da qui, che ci troviamo alle prese con un pezzo dalla struttura tutt'altro che lineare, anzi piuttosto instabile e nervosa, condita da rallentamenti fragorosi, simili a veri e propri stop'n'go, e repentine accelerazioni al fulmicotone. Anche gli ultimi due minuti, in cui segnaliamo un leggero coro di sottofondo ed un secondo ricorso a registri più facilmente ascrivibili al black, seguono questo andamento convulso ed irregolare, consentendo, d'altro canto, di mantenere alta la tensione sino in fondo. Al savio e maestoso gufo, presenza costante lungo tutto l'album, spetta il compito di chiudere le ostilità, dopo 6 minuti e 20 secondi che definire intensi è decisamente riduttivo. Proprio questa labirintica costruzione ritmica cui si è fatto riferimento poco fa, se da un lato potrebbe far emergere qualche criticità quanto a fruibilità ed immediatezza d'ascolto, dall'altro conferma in toto la nostra prima impressione di essere alle prese con una band con i connotati d'acciaio, in questo caso di dolomia. Chi ci parla è il gufo stesso, nostra sapiente guida, in lui rivive la tragica epopea dell'alpino morto. Seguimi attraverso il misterioso bosco delle Anguane. Il mio spirito ti darà la forza di proseguire, lungo i sentieri più impervi ed oscuri, allontanerò le inquietanti urla demoniache che si odono tutt'intorno. I latrati animaleschi della Càzha Selvàrega ti geleranno l'anima, infinite scorribande per redimere i peccati dell'uomo. L'ambiente è inospitale ed i pericoli si celano dietro ogni angolo, fai attenzione a non perdermi di vista, o il tuo sangue verrà preso dagli spiriti pagani del bosco. Vedrai le anime dei peccatori cadere in oscuri ed infiniti baratri, inseguite e torturate senza pietà dai cani infernali del Demone della Caccia. Io ti farò trovare la mia vecchia casa, planerò tra i venti secolari, la mia dimora è un album di fotografie, Belo Dunum il passato è ancora qui. Ali. (Belo Dunum, "città splendente" è l'epiteto con cui, in età celtica, era conosciuta Belluno). Tu, giovane ragazzo mio, entrerai in un luogo ove il tempo è in grado di parlare, ti sarà di insegnamento in un portentoso vortice di alberi e di polvere. Sarai in grado di vedere attraverso i miei occhi, le mie fotografie alimenteranno il falò dei ricordi, la mia storia, in un istante, spirerà inarrestabile attraverso le cime più alte, sarà in grado di sollevare la bufera grandiosa delle sacre nevi immacolate. Camminerai nelle trincee in cui ho abitato, raccoglierai i poveri resti dei miei compagni deceduti, sentirai quanto dolore hanno provato. Salirai per i rocciosi sentieri del Teveròn, ti spingerai sino alla sconsolata valle del Vajont, ascolterai le grida di dolore di quella Longarone che non esiste più, spazzata via da un'onda assassina di acqua, fango e detriti. Prenderai coscienza di tutto ciò, affinché simili sciagure non si ripetano più. Ti farò trovare la mia casa, seguimi e riuscirai a vedere, grazie alla mia guida potrai capire, segui il gufo che ora io sto cavalcando, vedere il passato ti farà capire il presente. Ali antiche. Il tempo per stare seduti ad ascoltare il crepitio del fuoco nel camino è terminato, gli aliti di vento hanno ripreso a raccontarci storie antiche, la macchina (alata) dei DXT si è rimessa in moto. Segnaliamo, infine, la splendida realizzazione grafica a colori, interna al booklet, ad opera della giovane artista bellunese Cristina Reolon, già chiamata in causa nel precedente lp, la quale ha sviluppato un concept grafico dello stesso Ciardo ed il cui lavoro certosino riesce a cogliere perfettamente lo spirito ispiratore dell'album.
Col di Lana, Mount of Blood
Si entra, ora, nel vivo del libro dei ricordi, commemorando quello che fu, certamente, uno degli episodi più cruenti e memorabili del primo conflitto mondiale. "Col di Lana, Mount of Blood (Col di Lana, Col di Sangue)", primo singolo estratto dall'album, (un video promozionale è stato girato con la preziosa collaborazione di una giovane agenzia di management, la milanese Eagle Booking), ripercorre, infatti, i tragici eventi che interessarono quella cima, facendola assurgere a montagna simbolo del'eroismo e del valore militare degli italiani. I primi, durissimi, mesi di guerra, forse i più aspri quanto a combattimenti corpo a corpo, non avevano spostato in maniera sostanziale le sorti di un conflitto che, era ormai divenuto chiaro su entrambi i fronti, sarebbe durato molto più di quanto si era immaginato e sperato. Vittorie parziali da una parte e dall'altra, la natura della contesa che, progressivamente, si trasforma e diviene scontro di posizione, conflitto tattico, guerra di trincea. Il peggiore scenario possibile, nel contesto di luoghi già di per sé impervi, inospitali e severi. L'inverno, particolarmente rigido quell'anno, piomba sulla testa di soldati già altamente sfiduciati, logorati psicologicamente, malnutriti ed in preda a forme acute di dissenteria e di influenza, il freddo miete vittime, su entrambi gli schieramenti, anche più della lotta armata in sé, vettovaglie e scorte alimentari si stanno esaurendo, sul fronte italiano matura la decisione di imprimere una svolta decisiva a quella situazione di sostanziale e doloroso stallo. Per fare breccia nelle linee difensive nemiche, le truppe italiane erano a soli 50 metri dalla cima del Colle, si decise di far brillare un'enorme mina nel punto più interno della montagna. I lavori iniziarono tra il Natale del 1915 ed il gennaio dell'anno seguente e si protrassero, senza sosta, per circa tre mesi, gli austriaci, che erano a conoscenza di quanto stava accadendo per via dei forti rumori che si udivano nel sottosuolo, scavarono, a loro volta, una contro galleria per bloccare l'avanzata nemica. In quei mesi così intensi, fatti di piccole scaramucce reciproche ed intrisi di una tensione crescente, appare chiaro che è di vitale importanza arrivare per primi nel cuore della montagna, le sorti dell'intera guerra potrebbero dipendere da chi piazzerà prima la propria mina. E per primi nel ventre del Col di Lana ci arrivano gli italiani, i rumori degli scavi cessano quasi di colpo, è il segnale che l'attacco è ormai prossimo, gli austriaci, in inferiorità numerica ed assediati dalle trincee sottostanti, sanno di essere spacciati ma ricevono l'ordine di non abbandonare la prima linea. Alle 23:35 del 17 aprile del 1916, 5.500 chilogrammi di gelatina esplosiva brillano nel cuore della notte e fanno, letteralmente, saltare per aria la montagna, creando uno spaventoso cratere largo quasi 30 metri ancora oggi visibile ad occhio nudo. Oltre 100 soldati austriaci perdono la vita, le loro postazioni di difesa vengono spazzate via, sepolte sotto una immane montagna di detriti e di roccia, le operazioni di rastrellamento del giorno successivo procedono rapide e spedite, il nemico è in ginocchio, la vetta è conquistata. Sfortunatamente fu la più classica tra le vittorie di Pirro, gli austriaci indietreggiarono solo di qualche centinaia di metri e si ripresero la vetta appena l'anno dopo, a seguito della catastrofica ritirata di Caporetto. Altro giovane sangue innocente versato per nulla, "l'inutile bagno di sangue" assunse proporzioni catastrofiche. Proprio a causa di questo tragico avvenimento, (e di tutte le vicende belliche che qui si sono svolte), il Col di Lana è anche conosciuto, per l'appunto, come Col di Sangue. Questa doverosa premessa storica, senza avere la pretesa di essere esaustiva al 100%, è di fondamentale importanza per comprendere la genesi artistica del brano che andiamo, ora, ad ascoltare. Del resto, ce l'hanno ricordato poco fa i quattro di Belluno, non si può ignorare il passato ed avere la pretesa di comprendere il presente. Ed il passato rivive subito grazie ad un tradizionale coro alpino al quale è affidato il compito di aprire il brano: "Col di Lana, Col di Lana, non si vince, non si perde, la montagna è una frana, in cui la vita si disperde". La batteria esplode in tutto il suo fragore grazie ad una poderosa rullata, anche a noi pare di essere immersi in quelle anguste trincee, il rumore delle rudimentali granate esplosive sibila nelle nostre orecchie, la polvere ci annebbia la vista. Altra dimostrazione di tecnica ragguardevole da parte dei nostri con la chitarra impegnata ad eseguire riff debordanti, ammantati di una nostalgica vena anni novanta. Una impervia via ci è aperta dal prode condottiero Ciardo che acuisce la sua enfasi espressiva e la sua propensione per il lirismo di derivazione teatrale. Nel buio di una notte silenziosa come un sepolcro, la quiete era solenne, ma eravamo consapevoli dell'arrivo imminente della bufera. Bufera di rocce e corpi, un'immensa, colossale e maestosa fontana di morte. L'ordine di innescare la carica si insinuò in trincea, simile alla peste portata dai topi, un oscuro ed imponente terremoto presto griderà come impazzito. Refrain centrale anch'esso assolutamente degno di nota, improntato a garantire una resa live che ipotizziamo essere spettacolare. Sopra a questi massi insanguinati non vi è vittoria né sconfitta, qui la storia è stata scritta col dolore dei soldati, per questo colpo mortale inferto al Col di Lana nessuno potrà dichiararsi vincitore. La collina insanguinata assisterà alla nostra gagliarda avanzata, contro la bandiera imperiale di Francesco Giuseppe, le aquile austriache urleranno l'allarme per il sacrificio compiuto nel sangue e nella roccia. Le tonalità si fanno più drammatiche quando si passa dall'altra parte della barricata, il nemico è consapevole di essere in trappola, ma va incontro al proprio destino a testa alta, senza indietreggiare di un passo. L'uso della lingua tedesca contribuisce ad accrescere il pathos. Vedo soldati intrappolati fra le rocce, il forte odore di morte si fa strada attraverso i polmoni dilatati. Il massacro di così tante, giovani, vite prosegue senza sosta. Le unghie scavano nella neve profonda per sfuggire al destino. Lo stentoreo "Col di Lana, Col di Sangue" pronunciato a gran voce emette una incredibile dose di trasporto personale, questi ragazzi amano davvero la loro terra, di un amore genuino e sincero, non siamo di fronte all'ennesima trovata commerciale studiata a tavolino. Si evince tutto l'orgoglio italico per lo stoico sacrificio di quei patrioti indomiti. Altra accelerazione poderosa della batteria di Thomas, (ritroviamo echi dei Morbid Angel di Pete Sandoval, ma anche riferimenti più recenti al fenomenale Inferno, batterista dei polacchi Behemoth). Nel momento in cui verranno strappate simultaneamente le corde, le cariche brilleranno in tutta la loro devastante forza d'urto, la terrà sarà scossa da tremori senza precedenti e guairà come un animale ferito, un boato cupo e formidabile farà rotolare a valle le pietre come acqua dal cielo, quel che rimarrà del nemico fuggirà senza una meta, simile ad un gregge allo sbando, senza più difesa al cospetto del nostro assalto. Fuoco! Gli effetti della montagna che si sbriciola crudelmente fanno da apripista al ritorno sulle scene della musica tradizionale, sotto forma di un altro coro dialettale. Danza la luna ubriaca di sangue, mentre le stelle non hanno più colore, la nebbia delle rocce frantumate si diffonde nell'aria. Sul Col di Lana soldati dalla divisa diversa hanno provato, dentro il loro cuore, il medesimo dolore. Luccicano gli occhi delle anime perse, madri inconsolabili piangono i loro figli caduti in battaglia, la vittoria non ha alcun sapore di fronte a tutti questi soldati che han perso la vita. Di loro resta il ricordo ed il valore. Terminate le operazioni belliche, sula cima del Col di Lana, a 2.465 metri di quota, echeggia il disperato grido di dolore dell'aquila, anch'essa provata da quella immane tragedia. Una bianca lapide commemorativa in marmo, sopra alla quale sono posti alcuni reperti bellici e del filo spinato, una grande croce in legno e ferro ed una piccola cappella, anch'essa edificata in legno, testimoniano di quell'impresa eroica. La struttura del brano, (anch'esso di durata superiore ai 6 minuti), mantiene il proprio orientamento principale nel solco di quanto ascoltato in precedenza, siamo, dunque alle prese con un pregevole death tecnico, infarcito da molteplici cambi di tempo e di atmosfere. Premesso che, limitarsi ad una definizione del genere appare, ancora una volta, limitativo nei confronti degli sforzi profusi da Pondro e soci, e volendo essere più precisi, da una parte abbiamo la chitarra e la batteria, impegnate in un continuo e furioso rincorrersi verso l'alto, protagoniste assolute delle porzioni più aggressive e tirate, dall'altra il preciso lavoro al basso e l'impostazione vocale cupa e molto personale di Ciardo, splendidamente divisa tra l'inglese, l'italiano ed il tedesco, che conferiscono la necessaria ambientazione storica alle vicende narrate, catapultandoci, anche noi, in prima linea in quelle fasi così importanti per la storia unitaria del Paese.
The Dead of Stone
In terza posizione troviamo "The Dead Of Stone (Il morto della pietra)", affascinante brano dedicato alla misteriosa figura di Girolamo Segato. Per comprendere meglio chi era costui, è necessario partire dall'epilogo, dalla sua morte, o, meglio, dal dopo morte. "Qui giace disfatto Girolamo Segato da Belluno che vedrebbesi intero pietrificato, se l'arte sua non periva con lui. Fu gloria insoluta dell'umana sapienza, esempio d'infelicità non insolito. Morto di anni XLV il III Febbraio MDCCCXXXVI". Credo non siano in molti, visitando la splendida basilica di Santa Croce in Firenze, il "Tempio dell'Itale glorie", come ebbe a definirla Foscolo, a prestare particolare attenzione alla tomba dello scienziato bellunese, sulla cui lapide capeggia la dicitura poc'anzi riportata, (io non fui tra questi nella mia ultima visita al capoluogo toscano, nel dicembre di tre anni fa). Eppure, a fianco di personaggi del calibro di Michelangelo, Galileo, Rossini, Alfieri, Machiavelli, lo stesso Foscolo, ateo convinto, accanto al cenotafio di Dante o di Leon Battista Alberti, nello stesso luogo in cui è custodito ciò che resta del prodigioso Crocifisso del Cimabue, in un simile contesto di bellezza senza pari, nel Pantheon degli artisti, riposa anche lui. Qualche motivazione ci dovrà pur essere, allora. Nato nel bellunese nel 1792, Segato spese gli anni migliori della propria giovinezza in Egitto come archeologo, cartografo e storico e fu costretto a tornare, controvoglia, in Italia a seguito di un episodio che, quasi, gli costò la vita, (rimase intrappolato all'interno di una piramide per tre giorni dopo una caduta, anche se, secondo altre fonti, la sua fu una decisione volontaria, finalizzata a comprendere a fondo l'oscuro sapere lì contenuto). L'ardente desiderio di tornare in Africa crollò definitivamente quando un immane incendio distrusse gran parte dei suoi dettagliati appunti di viaggio. Per Girolamo gli anni più fulgidi dell'illuminismo sperimentale italiano non furono particolarmente densi di soddisfazione, trascorsi di città in città, alla continua ricerca delle necessarie sovvenzioni economiche per proseguire nelle ricerche. Inviso, più o meno in egual misura, sia all'aristocrazia che agli ambienti clericali, si trasferì, infine, a Firenze dove restò sino alla prematura scomparsa. Qui si dedicò, con fervore e ritrovato zelo, alla chimica organica ed a personalissimi studi di anatomia patologica. Di particolare interesse, motivo principale per cui ancora oggi il suo nome suscita curiosità e mistero nel mondo accademico, furono i suoi esperimenti sulla conservazione dei tessuti, attraverso quel particolare processo scientificamente noto come mineralizzazione, ma che, impropriamente, è conosciuto come pietrificazione. L'atavico desiderio di fissare per sempre nel tempo le forme corporee, anche dopo la morte, trovava, forse, compimento grazie alle sue particolari e mai svelate tecniche di imbalsamazione? Le sperimentazioni da lui compiute ebbero risultati sorprendenti e quasi del tutto inediti per l'epoca, i tessuti organici trattati mantenevano pressoché intatta la colorazione originale ed una immutata elasticità, la sua fama crebbe, seppure in maniera non esponenziale. Segato si rinchiuse giorno e notte nei suoi inaccessibili laboratori fiorentini, (resi tali in seguito ad un furto subito da parte di un socio invidioso che lo aveva privato di altro, prezioso, materiale raccolto), e continuò imperterrito nei suoi tentativi, sebbene le dicerie sul suo operato, ritenuto non convenzionale, si intensificarono. Abbandonato pure dal Granduca Leopoldo II, (al quale, per convincerlo della validità del suo metodo, aveva inviato un tavolino intarsiato con frammenti di carne umana perfettamente conservati), si sentì, infine, pronto per confidare la segreta tecnica utilizzata al fidato amico Pellegrini, ma la morte lo colse a soli 44 anni, seppellendo con lui l'arcano della pietrificazione dei corpi. Ed è proprio con l'aulica recita dell'epitaffio inciso sopra alla lapide che la traccia si apre: un prologo imponente e maestoso, certamente piuttosto insolito, ed ulteriormente rinforzato da un coro sfumato di sottofondo. Affrontando tematiche che avrebbero fatto gola persino ai Carcass pre-Heartwork, anche l'approccio della band pare divenire ancora più grezzo e minimale, le bordate della batteria, peraltro, mantengono immutata tutta la loro forza straordinaria, il cantato di Ciardo si fa più aggressivo e scomposto, (anche il minutaggio globale scende, per la prima volta, sotto i cinque minuti). Hai fatto tua l'arcaica conoscenza degli antichi egizi, l'hai acquisita in tre giorni e tre notti, nel buio ventre di una piramide. Hai reso immortale la morte, hai fatto pietra della carne, i tessuti conservati integri. Iniettando una miscela di calce e resina nell'arteria femorale hai reso eterna la carne, nessuno, prima di te, aveva ottenuto risultati simili. La pietrificazione della pelle, l'immortalità dei volti, i corpi di pietra, i morti di pietra riposeranno nella tua tomba. Primo momento di relativa pausa al minuto 01:14, una quindicina di secondi utili per ricaricare le batterie, a conclusione dei quali ci imbattiamo in una profonda ed inconfondibile linea di basso. La chitarra di Med, sebbene dia l'impressione di avere ancora a disposizione del potenziale inespresso, prende progressivamente coraggio e si ritaglia il suo adeguato spazio di manovra a partire dal secondo minuto. Immortalità e morte fuse nel medesimo corpo, i maestri imbalsamatori dell'Egitto antico ti hanno donato un segreto, un segreto maledetto e misterioso. Nessuno poteva capire, nessuno voleva vedere. Tutti chiedevano e tutti volevano, il seme dell'ignoranza ti ha schernito ed offeso ingiustamente. Il tuo grande sapere morirà con te. Una nuova, monumentale, rullata da parte di Thomas precede un inaspettato e prolungato momento in cui a farla da padrone è la ricerca della melodia. I ritmi si fanno meno indiavolati, i nervi si distendono per qualche momento, la struttura del brano si amplia e si fa, in parte, più complessa. Con uno sforzo di immaginazione proviamo ad entrare anche noi in quegli oscuri e segreti laboratori in cui Segato cercò, vanamente, il riconoscimento tanto anelato. La sua sfortunata vicenda professionale sta volgendo al termine, l'amarezza per non essere stato compreso a dovere viene a galla, il dramma personale si fa enorme, un ultimo, definitivo, tiro mancino del destino è dietro l'angolo. Hai dissolto le tue formule nella nebbia, ma la donna dagli occhi vitrei, emblema massimo della tua arte nera, ora può guardare il presente. Il momento è di importanza cruciale, il ricorso alla lingua italiana ne è testimonianza chiara, il pathos raggiunge il suo picco massimo, il segreto sta per essere svelato al solo uomo che meritava di conoscerlo, il fedele Pellegro. Mio caro amico, la mia conoscenza occulta giace in fondo a questi scantinati, lì troverai la chiave di volta per pietrificare i morti, l'oscuro rituale brucerà ancora per mano tua. Da parte di tutti gli altri ho ricevuto soltanto sdegno, ignoranza ed una scomunica, sebbene la morte ti abbia trafitto con la sua lama, inaspettata, essa non potrà, in alcun modo, scalfire le tue opere, non potrà incidere la carne pietrificata. In sede di analisi, The Dead Of Stone è un pezzo che punta maggiormente sulla forza d'urto e sulla potenza, il riffing, compatto e meno intricato che in precedenza, va a tutto vantaggio della fruibilità d'ascolto. Non mancano, tuttavia, nemmeno momenti più oscuri e meno immediati, in cui la melodia si incunea in stretti anfratti polverosi, un sapore vagamente mediorientale pervade l'aria, (scorgiamo anche echi dei portentosi Nile del duo Sanders-Kollias), le atmosfere evocate in questi frangenti sono perfette per ricordare un personaggio ancora oggi, in gran parte avvolto nel mistero, come Girolamo Segato.
The Voice of the Holy River
Impossibile, per una band originaria di Belluno non fare riferimento al Piave, "Fiume Sacro alla Patria" sulle cui sponde si sono svolte alcune cruciali battaglie nel corso della prima guerra mondiale, soprattutto quando, a seguito della disfatta di Caporetto, le linee offensive imperiali penetrarono in profondità nel territorio italiano, provando, in almeno tre circostanze, ad impossessarsi della fondamentale sponda destra del fiume. La stoica resistenza italiana, messa più volte a dura prova dalle frequenti incursioni nemiche, culminò nel decisivo scontro di Vittorio Veneto che, di fatto, sancì la resa dello schieramento austro-ungarico e spianò la via all'armistizio di Villa Giusti. Va aggiunto anche che, prima di divenire teatro di guerra e fino alla seconda metà dell'Ottocento, il Piave aveva dato lavoro a moltissimi residenti di quelle zone, i cosiddetti zattieri che, mettendo a rischio la propria vita, erano costretti a rifornire la Serenissima Repubblica di Venezia del pregiato legno del bellunese. Ed è proprio sulle patriottiche note de "La Canzone del Piave", inno nazionale sino al 1946, che si apre "The Voice Of The Holy River (La voce del Fiume Sacro)", brano che occupa la quarta posizione della tracklist. Da questo ulteriore e singolare particolare avrete, ormai, capito che ogni elemento ha un significato profondo in questo album e che grande importanza viene data alle introduzioni dei singoli pezzi, ritenuti momenti di rilevante significato per circoscrivere con puntualità le vicende descritte. Il gruppo ci fa da guida lungo quei sinuosi 231 km che, partendo dalle sorgenti alpine, nel Comune di Sappada, ad oltre duemila metri di altezza, si spingono nell'entroterra sino a sfociare nel mar Adriatico, a nord-est di Venezia. Presso quelle antiche terre dolomitiche il mio maestoso scorrere ha origine, in quelle zone ho portato vita e gioie, ma anche tragedie e morte, come una madre devota vi ho adottato ed accudito, ricambiando dello stesso trattamento che, per secoli, voi mi riservaste, curando il mio inesorabile cammino verso sud. Questa è la voce del Piave, Fiume Sacro alla Patria. I ritmi del pezzo, almeno inizialmente, tornano a flirtare da vicino con il cosiddetto blackened death metal di gruppi quali i già citati Behemoth o i vicini di casa austriaci Belphegor, sebbene declinato in una più moderna versione, maggiormente definita da un punto di vista tecnico e permeata da una forte indole sperimentale. Una pesantezza generale che, in linea di massima, non avevamo udito nei precedenti lavori del quartetto veneto. Fui energia per i vostri mulini e per le vostre forge, fonte di vita indispensabile per i vostri campi, ho condiviso le vostre aspre giornate, ho assunto le sembianze di un fedele ed instancabile operaio, ho lavato i vostri vestiti, inzuppati dalla fatica e dal sacrificio. Il glorioso vessillo tricolore sarà mio debitore in eterno. Prima del secondo minuto, le cadenze del brano assumono l'andamento di una marcia militare, la batteria rallenta il proprio incedere, ma non smette di scandire il tempo con precisione maniacale, ritroviamo un soffuso coro di accompagnamento, ben incastonato sullo sfondo del muscoloso growl di Ciardo, sebbene anch'esso, qui, meno indemoniato. Vi ho traghettato verso l'invadente laguna veneziana, la quale si impossessò, con il giogo, dei vostri boschi lussureggianti, mi ersi a barriera inespugnabile contro la crudeltà del nemico invasore, fui vostro prezioso alleato, malgrado una barbara guerra che tinse di rosso le mie acque e che decimò migliaia di giovani germogli cui fa fatta indossare, coercitivamente, una ruvida uniforme grigio-verde. Con un improvviso, forse perfino troppo azzardato, cambio di rotta ritroviamo, per qualche istante, le note de "La Canzone del Piave" arrangiate, però, in una audace riproposizione death metal. Ricordatevi di me nei secoli a venire, accuditemi come io ho fatto con voi in anni passati, affinché il nostro legame non abbia di che spezzarsi. L'incursione nella storia è assai fugace, sommersa, ben presto, da una tonante sequela di riff, pesanti come macigni. Qui il messaggio dei DXT assume una diversa valenza, non più storico-patriottica, bensì ambientale ed ecologista, (di conseguenza particolarmente cara al sottoscritto). Dovrete pulire i miei argini affinché il mio scorrere sia placido, nella stessa misura in cui lo è il volo del gufo, non macchiate le mie acque solenni, altrimenti la mia collera non avrà pietà e griderà efferata, straripando sofferenza tra di voi. Messaggio idealista e sognatore, probabilmente destinato a rimanere inascoltato dal momento che il Piave, in passato considerato come il più turbolento tra i fiumi veneti, è stato fortemente antropizzato nel corso degli anni novanta. Solo in tempi recenti "il caso Piave" è stato fatto oggetto di indagini e del necessario, per quanto ancora insufficiente, monitoraggio. Come dire che, se l'ultima grande alluvione in zona risale allo storico 4 novembre del 1966, quando in pratica mezza Italia finì sott'acqua, lo si deve più al caso che non alla lungimiranza dell'uomo. Dopo il quarto minuto, il gruppo decide di risalire la corrente e di ripetere, con enfasi ulteriormente accresciuta, la strofa iniziale, spingendosi, anche oltre. Linea di confine, gendarme della nostra terra! Al minuto 04:47 ecco sopraggiungere pure l'elegante e grazioso suono di una chitarra acustica, prima timida ed in seguito maggiormente disinvolta. Alberto conclude la narrazione ricorrendo al cantato pulito, mai così presente come nel corso di questo Troi. Canti dalle tue onde, lievi frasi oltre il tempo, nasci dal monte Peralba, vena delle nostre vite. Pericolosamente a cavallo tra i due secoli, la band corre, però, il rischio di perdere il bandolo della matassa, all'interno di una struttura ritmica eccessivamente frastagliata e troppo poco lineare. Alcuni intermezzi acustici, specie nella seconda porzione della traccia, sembrano confondere le idee, crediamo, inoltre, che sei minuti, in questo caso, non fossero necessari.
Owl
Si torna a respirare aria di montagna, ci si incunea nuovamente per stretti sentieri e boschi odorosi con "Owl (Gufo)", brano che, nei suoi tre minuti e mezzo scarsi di durata, (il più breve tra i pezzi inediti qui proposti), accentua, sostanzialmente, le digressioni atmosferiche e folk dei DXT. L'apertura del pezzo è affidata agli strumenti tradizionali, armonica e flauti, sopra ai quali si innesta alla perfezione, in un ancestrale connubio tra musica e natura, l'inconfondibile verso del gufo, (bubolare), uccello notturno per eccellenza, austero e nobile nella sua cupezza caratteristica. La sensazione immediata è che il punto baricentrico attorno al quale la traccia si dipanerà sia rappresentato, in questo caso, dalla prova offerta dal cantante, il quale pare addirittura esibirsi in un curioso esercizio di riscaldamento vocale, non appena le atmosfere divengono più elettriche, in seguito all'entrata sulle scene della batteria e della chitarra. Le tinte del pezzo appaiono, fin da subito, ammantate di una oscurità notevole, l'ambientazione è decisamente sinistra e persino nordica nei lineamenti, ulteriormente appesantita dall'impostazione fortemente incavata utilizzata, almeno in prima battuta, da Alberto. Come quasi tutti i pezzi contenuti in Troi, anche in Owl l'esperienza che viviamo sulla nostra pelle è totale, non semplicemente limitata al solo comparto sonoro, ma anche impregnata di una forte componente naturalistica e silvestre, la stanza in cui siamo immersi si espande verso l'esterno, in ogni direzione e si ammanta dell'aroma tipico del sottobosco, minuscole stille di rugiada ci bagnano la fronte, una piacevole brezza penetra nei pori della nostra cute. Re della notte, monarca dei boschi, mieto la nebbia con le mie imponenti ali di tenebra, magica creatura, oscuro cacciatore. E di nuovo, si fa ricorso a calorose ed affabili clean vocals al minuto 01:14, per conferire un'aurea quasi soprannaturale al volo notturno del gufo. In questi momenti, ci pare di scorgere persino qualche richiamo ai Moonspell di Fernando Ribeiro. La dinamicità ed una versatilità pressoché totale, sia per quel che concerne l'elemento lirico, sia per quel che concerne l'intelaiatura ritmica dei brani, stanno davvero giocando un ruolo importante nel corso dei questo lp, non vi è, sinora, un solo momento simile a quello precedente, il continuo contrasto tra le molteplici anime della band è qualcosa di realmente sorprendente. I DXT reinterpretano in chiave assolutamente personale l'impostazione classica della forma canzone, i refrain centrali, laddove distinguibili e presenti, sono consistenti e mai saturati da melodie banali, pacchiane o ridondanti. Custode del crepuscolo, io volo e ferisco la notte con le mie piume, simili a lame di cristallo nero. Il mio tetro volo, affascinante e seducente, portatore di morte per le mie vittime, sacro uccello, io volo tra gli spiriti dei monti accompagnando la voce dei loro racconti, cantando alla luce argentata della luna. Il filo conduttore con la solida base death è rappresentato proprio da quei frangenti in cui Ciardo si affida al suo cavernoso e baritonale growl, mentre la struttura portante del pezzo, viceversa, è ricca di pregevoli ed affascinanti contaminazioni di natura diversa, la venatura black è anche qui presente, non mancano accenni al gothic, ma maggiori sono le incursioni in territorio folk ed ambient. Del resto lo stesso cantante bellunese ha ammesso di avere pensato, in fase di songwriting ed all'insaputa degli altri membri della band, ad un album interamente acustico, (salvo poi rischiare di venire preso a roncolate dallo stesso Pondro, ironicamente, ma neanche tanto). La sezione ritmica, tradizionalmente intesa, questa volta è meno incisiva che in altre circostanze, prevale, piuttosto, la ricerca di armonizzazioni ammalianti e gentili, quasi catartiche ed ipnotiche nel loro lento avanzare. Da questo momento in poi, gli sconfinamenti in territori musicali personalmente poco conosciuti diverranno maggiori, lo spunto di riferimento principale che ci sentiamo di offrire è dato da un'altra, meritevole, sebbene ancora poco conosciuta band italiana, gli abruzzesi Selvans, fautrice di un raffinato black metal, grandemente contaminato proprio dall'ambient e dal folk. Il loro primo e sinora unico full length, Lupercalia, è stato, inoltre, sviluppato partendo da un concept molto simile a quello di Troi. Avremo, comunque, modo di tornare su questo parallelismo tutto tricolore anche in conclusione della nostra analisi. Io volo e lacero l'oscurità di queste foreste incantate, mantello delle nostre montagne. Io che nella notte vedo come uno spirito errante, vi porto il fantasma di un passato ancora vicino a voi.
Spettri nella steppa
Giungiamo così al momento più alto di Troi, il pezzo che meglio identifica e rappresenta quelli che sono i Delirium X Tremens attuali, nonché, probabilmente, la summa massima di tutta la loro produzione artistica sin qui rilasciata. "Spettri Nella Steppa" è una monumentale suite di oltre 7 minuti in cui sono presenti praticamente tutti gli elementi tipici grazie ai quali, con il passare degli anni, il sound dei DXT è divenuto del tutto peculiare, quasi inconfondibile a livello internazionale. Se è vero che, per stessa ammissione del gruppo, l'uso della lingua nazionale vuole conferire maggiore enfasi ai momenti più significativi delle canzoni, il fatto che la traccia sia interamente eseguita in italiano conferma che siamo di fronte all'opus magnum di tutto l'album. Cambia il contesto storico in cui sono ambientate le vicende: l'Italia, sebbene formalmente sia uscita vittoriosa dal primo conflitto mondiale, è un Paese sostanzialmente in ginocchio, arretrato da un punto di vista economico, scosso da nord a sud da violente tensioni sociali, (gli abitanti del Trentino, divenuti italiani, manifestano, a più riprese, non sempre pacificamente, la loro volontà di tornare con l'Austria), l'analfabetismo e la povertà investono una larga fetta della popolazione, uno Stato non coeso politicamente ed incapace di porre un argine alla inevitabile deriva autoritaria intrapresa dal regime fascista. Un'Italia simile divenne, quindi, un facile bersaglio per le visionarie e folli lusinghe della Germania nazista: una alleanza politico-militare non fondata su reali equilibri delle forze in campo, bensì decretata secondo una servile ed umile forma di sottomissione pressoché totale alla supremazia tedesca trascinerà, infine, il Paese in un secondo, ancor più cruento, conflitto bellico. La carenza dei mezzi economici ed umani necessari, uniti all'arretratezza del settore industriale e tecnologico furono i presupposti alla base di una sconfitta annunciata. D'altro canto schierarsi a fianco di un alleato ben attrezzato militarmente ed indomito nello spirito, che non avrebbe lesinato a profondere sforzi immani pur di conseguire la vittoria finale e che, soprattutto, aveva un'enorme sete di rivalsa verso l'intero Continente, dopo le durissime condizioni di pace imposte dai Paesi vincitori della guerra del 1915-1918, parve la strada migliore per ampliare la sfera d'influenza italiana in Europa. Gli insuccessi del nostro esercito, male attrezzato e governato anche peggio, furono, ben presto, evidenti in ogni dove, dall'Albania al nord Africa, passando per la Grecia. L'imponente macchina da guerra tedesca, da parte sua, non parve dare molta importanza a tale inadeguatezza collezionando, invece, importanti successi sul versante occidentale al punto da occupare Parigi e di isolare il Regno Unito. Forte dei risultati conseguiti, in posizione egemone rispetto a qualunque altro Stato, la brama di potere tedesca rivolse, quindi, le proprie attenzioni verso il ben più esteso e poco conosciuto fronte orientale. La famigerata "Operazione Barbarossa", con cui il regime nazista si era prefissato l'obiettivo di invadere e di sottomettere l'Unione Sovietica, venne sancita il 22 giugno del 1941. Benché dalla Germania, almeno inizialmente, non arrivò alcuna richiesta ufficiale all'Italia di prendere parte alle operazioni militari, i nostri contingenti, poco e male equipaggiati, vennero subito inviati nelle zone di guerra. Ed è qui, nella gelida e paludosa steppa russa, tra le insidiose e profonde acque del Don, che decine di migliaia di italiani, soprattutto alpini e fanti, ma anche artiglieri, cavalieri, genieri, infermieri da campo e soldati semplici, andarono incontro alla morte durante la tragica rotta del gennaio del 1943, l'evento simbolo della resa al cospetto di una guerra insostenibile, sfacelo completo di un regime dittatoriale che quella guerra la avallò, pur non avendo alcuna possibilità concreta di vincerla. Nelle primi fasi del conflitto, gli italiani mostrarono più volte il loro valore, benché messi alle corde da un nemico soverchiante in numero e meglio attrezzato. Ormai giunto alle porte di Stalingrado, ad un passo dall'annientare il nemico, l'esercito tedesco venne bloccato dalla imprevista, durissima resistenza russa e fu costretto a ripiegare verso ovest, proprio in direzione del fiume Don. Le sorti della guerra si rovesciarono, per le forze dell'Asse fu l'inizio del tracollo. Tra il mese di dicembre del 1942 ed il gennaio del 1943, con temperature perennemente comprese tra i 20 ed i 40 gradi sotto lo zero, le forze dell'Armata Rossa, consapevoli del fatto che l'anello debole dello schieramento ostile era proprio rappresentato dalle milizie italiane, penetrarono a fondo nelle linee difensive nemiche e costrinsero qualcosa come 70.000 alpini, (a cui si aggiunsero parecchi soldati tedeschi, rumeni ed ungheresi alla deriva), a ritirarsi in tutta fretta verso occidente. Nonostante l'ultimo, eroico tentativo di bloccare l'avanzata sovietica, e a fronte di tensioni crescenti con le forze "alleate" tedesche, i numeri della ritirata italiana furono catastrofici. Si calcola che, dei 229.000 uomini inviati sul campo, il numero complessivo delle vittime, ottenuto dalla somma, da un lato, di morti e dispersi, e, dall'altro, di feriti e congelati, ammonti a qualcosa come 115.000 individui, la metà dell'intero contingente ivi dislocato. (Parliamo di cifre relative ai soli mesi di dicembre 1942 e gennaio 1943, le vittime tra gli alpini furono oltre 40.000). Altri 10.000 valorosi soldati fecero ritorno in Italia a guerra conclusa a partire dal 1946 e fino al 1954, dopo aver subito una disumana prigionia ed essere sopravvissuti alle interminabili "marce del davaj". Entriamo, lo avrete capito, in un terreno particolarmente caro ad un'altra, valida band italiana, quei Dark Lunacy da Parma, a loro volta paladini del "dramatic death metal" che, oltre a dare un taglio più politico ai loro racconti, hanno preferito concentrarsi su quanti quella guerra l'hanno vinta, i sovietici ed, in primis, il formidabile esercito dell'Armata Rossa, (l'intero album The Day Of Victory è esemplificativo, a tal proposito). Il pezzo si apre su cadenze delicate e lente, la connotazione folk domina questi primi istanti carichi di pathos, la tragicità di quegli eventi emerge subito, il trasporto che la band ci mette anche, Ciardo recita la prima strofa affidandosi a tonalità gravi e meste. Siamo spettri nella steppa, in una colonna di sbandati, gli amici cadono al mio fianco, a migliaia. La mia penna nera guarda il cielo, ma tra non molto, forse, anche io me ne andrò lassù, e diventerò neve, coprirò le mie lontane montagne. Sessanta secondi emozionanti ed intensi come, personalmente, non udivo da tempo. Ammetto, francamente, di essere quasi arrivato alle lacrime di fronte ad una maestosità artistica del genere. Una malinconica chitarra acustica disegna note angosciose, il senso di eroica rassegnazione di quegli alpini che, pur non avendo scampo, vinti prima dal freddo e poi dal nemico, andarono incontro al loro destino, scuote l'anima fin nel profondo, lacerandola senza pietà. Al minuto 01:13 una rapida e ficcante incursione dell'armonica dà il via ad una prima sferzata tipicamente death metal. La batteria si fa sentire per la prima volta, ma senza debordare nel suo avanzare, il cantato si mantiene aulico, lapidario, ancora pulito. Cammino sui passi già affondati dall'interminabile colonna di spettri in ritirata, essa si snoda davanti a me per chilometri e chilometri, in questo bianco deserto di neve. Ad accompagnarci solo i nostri freddi e flebili respiri, ognuno dei quali potrebbe essere l'ultimo in questa vita. Quando non è ancora scoccato il secondo minuto riemerge l'anima più diretta e seminale della band, il growl di Alberto si fa largo per quelle lande desolate ed innevate e, pur nelle condizioni assai precarie in cui versiamo, funge da sprone per proseguire nella nostra lenta, patetica marcia verso ovest, alla disperata ricerca di una salvezza che, passo dopo passo, diviene sempre più simile ad un miraggio. Con una spontaneità disarmante, la struttura del brano si libera delle precedenti divagazioni folk ed atmosferiche, un muro sonoro poderoso si erge grazie ai massicci riff di Med ed ulteriormente puntellato dalle rasoiate taglienti di Thomas. Il vento sferza impetuoso, come l'irruenza con cui avanzano i potenti cingolati russi, essi si fanno strada in mezzo a noi, travolgendo tutto e tutti. Il falò dei nostri sogni si spegne in quella spaventosa tormenta di neve e fuoco, le nostre lunghe ed ispide barbe si ghiacciano all'istante e si scolpiscono come pietra su visi aridi, volti dai lineamenti aspri, ma duri come la roccia dolomitica. Gli scarponi, sfaldati dalla morsa del gelo, sono quasi del tutto inservibili, la loro fine, così come la nostra, è vicina. Le potenti rullate della batteria del minuto 02:35 preannunciano l'apertura di un differente scenario: tornano le clean vocals, compaiono i cori di accompagnamento, il lato più introspettivo e ricercato dei nostri viene nuovamente a galla, è tempo per un altro momento catartico. Ad un passo dalla morte, sconfortato e senza apparente via di scampo, riusciamo ad entrare nella mente dell'alpino, cerchiamo di prendere visione dei suoi pensieri, in quegli istanti fatali. Come sarà la mia vita, se uscirò da questo gelido inferno, talmente candido nel suo biancore da divenire accecante. E subito, scaturisce un'altra poderosa sfuriata, la tormenta di vento e neve riprende vigore, la morsa russa si sta sempre più serrando attorno a noi, è difficile immaginare di riuscire a farvi breccia. Ho camminato per giorni a fianco di un altro alpino, prima di capire che era mio fratello, le slitte trainate da muli, anch'essi sfiniti, recano con sé feriti agonizzanti, anime erranti inseguono la vita, schiacciata dalla speranza morente. Nuovo rallentamento attorno al minuto 03:30, anche l'elegante basso di Pondro trova modo di farsi sentire, disegnando pregevoli linee di supporto alla sezione ritmica, già di per sé sensazionale, tra un potente breakdown e l'altro. In questo gelido silenzio, spettri nella steppa avanzano lentamente, superando cumuli di commilitoni morti o congelati, lontani dalla madre che già ne piange la dipartita, spettri di ghiaccio condannati al martirio in questa landa sconosciuta, tomba e cripta della nostra valorosa gioventù. Rivedrò mai le mie amate montagne? Figli abbandonati dall'amata Patria, orfani di un futuro cui non potremo far parte, dissanguati della luce del domani, quella fulgida dei nostri anni migliori, quella che tanto attendevamo. Al minuto 04:35 fa la sua comparsa anche la tromba, strumento ancor più inusuale nel panorama estremo, e che qui viene impiegato per sottolineare la straordinaria drammaticità di quei momenti, una infinita fiumana di persone, letteralmente alla deriva, senza alcun riferimento geografico attendibile, che cerca disperatamente di mettersi in salvo. La band sperimenta altre soluzioni stilistiche personali e davvero pregevoli, compare la chitarra acustica ed il parlato teatrale ci traghetta verso gli ultimi due, intensi, minuti. Istanti eterni nell'attesa di un comando per l'ultimo, disperato assalto a Nikolajewka, si apre il sipario dell'ultima battaglia. Avanti battaglioni! Avanti Alpini! Raffiche di mitra sibilano tra le isbe, urla esasperate intonano l'attacco, carneficina e disperazione, la sacca è rotta, si torna a baita. La via verso ovest è aperta, l'incubo è finito. La ferma e nitida voce dell'alpino, miracolosamente scampato a quell'inferno, ha il compito di chiudere la narrazione lirica, a partire dal minuto 05:30. Fredde notti nella steppa, sotto il chiaro della luna, la mia bella a casa aspetta, scalerò questa pianura, e, se io non tornerò, inciderai queste parole sulla mia lapide: "qui giace l'anima del mio amor", nel mio cuor non morirai. La batteria echeggia in lontananza, simile al rombo dei tuoni che annunciano l'arrivo del temporale, gli stessi tuoni che accompagnarono gli ultimi, estenuanti, quattro giorni di marcia dei sopravvissuti verso postazioni occidentali più sicure, nelle orecchie fischiano ancora pallottole lontane, l'impenetrabile e spessa coltre di neve, cimitero naturale per migliaia di nostri fratelli, è alle spalle, la strada verso casa è ancora lunga, ma la speranza rinasce nel cuore. La sensazione di essere al cospetto di un prodotto la cui fruizione deve essere intesa a 360° trova qui la sua espressione più completa e totale, un pezzo in cui gli elementi tradizionali, (i cori, l'uso dell'armonica, della tromba e della chitarra acustica, il continuo ricorso a diversi registri vocali, da un parlato austero e misurato ad un growl incalzante e diabolico, passando per un affabile cantato in pulito), si miscelano splendidamente con la tradizionale componente death metal, a base di sfuriate in blast beats e riff poderosi, in grado di squassare l'atmosfera, un equilibrio pressoché perfetto di tante e così diverse componenti da lasciare a bocca aperta, le molteplici sezioni acustiche collegate mirabilmente l'una all'altra, senza stacchi netti o transizioni troppo azzardate. La versatilità di Ciardo raggiunge l'apice massimo, egli non solo si sobbarca l'intera narrazione lirica, esibendosi con risultati encomiabili in almeno tre differenti registri vocali, ma si occupa anche di quasi tutti gli arrangiamenti complementari affidati a strumentali tradizionali. Concedetevi 7 minuti della vostra giornata per l'ascolto, non rimarrete delusi!
Song to Hall Up High (Bathory cover)
La scheggia impazzita dell'album, fondamentale momento di transizione verso l'ultima porzione di esso, è rappresentata dalla malinconica e nostalgica cover dei Bathory "Song To Hall Up High (Canzone per il salone del Paradiso)", pezzo originariamente contenuto nel memorabile lp Hammerheart, immesso sul mercato nell'aprile del 1990. L'album che segnò il distacco del compianto Quorthon dalle primigenie sonorità black per abbracciare la causa del viking a fortissima connotazione pagan/folk e che, al suo interno, contiene pezzi davvero indimenticabili come Shores In Flames, Valhalla, Father To Son e la fenomenale One Rode To Asa Bay, rivive a distanza di quasi 30 anni, grazie alla appassionata e personale reinterpretazione dei nostri del brano più breve di quella tracklist formidabile, nemmeno due minuti e mezzo di lunghezza. La scelta è caduta su questo pezzo proprio in virtù della sua caratteristica atmosfera di fondo, a metà strada tra il nostalgico ed il sognante, gli incantevoli paesaggi nordici che vi sono ritratti paiono fuoriuscire da una nebbia antica, ove si intravvedono appena memorie e paesaggi di un tempo. Proprio quello di cui i DXT necessitavano per rendere completa l'esperienza di ascolto attorno a Troi, quel sapore commovente e, nello stesso tempo, desolato, che il gruppo non avrebbe potuto trovare in altre realtà musicali, dal sapore più genuinamente death metal. Una proposta inizialmente lanciata quasi per provocazione, per scherzo da parte dell'istrionico Ciardo, in breve tempo, ha assunto invece una propria consistenza ben definita, a degna conclusione di un processo artistico condiviso, elettrizzante e stimolante. Gli stati d'animo che fuoriescono da quella breve traccia, col senno di poi una sorta di testamento artistico dello sfortunato Quorthon, sono assolutamente perfetti se contestualizzati all'interno di un album come questo. La band, forse anche in segno di rispetto verso un personaggio che ha fatto la storia del metal estremo e che ha segnato un'epoca, non si discosta molto dalla sua versione originale: la chitarra acustica disegna languide e decadenti note, dal forte impatto emotivo, sopra alla quali si innesta la voce parlata, le lancette del tempo paiono essersi fermate d'improvviso, l'ago della bussola indica che stiamo puntando decisamente verso il profondo nord, in direzione delle bianche e sterminate lande di Svezia, tanto care all'immenso Ace Borje Thomas Forsberg. L'avvilita invocazione, una preghiera di stampo pagano, rivolta ad Odino prosegue lenta e solenne, simile ad una fosca cantilena di chi si sente già morto a questa vita. L'arrangiamento che il quartetto di Belluno ci propone è decisamente toccante e denota una spiccata personalità, un delicato tappeto di tastiere fa da sottofondo lungo tutto lo sviluppo del pezzo, il coro di riferimento è connotato da un retrogusto intriso di grande epicità. Gli arpeggi della chitarra acustica assumono una connotazione estatica, viviamo il momento di sublimazione massima della nostra anima. Il punto di riferimento artistico è, infatti, rappresentato da un album che assunse, rapidamente, i connotati di una vera e propria esperienza di vita, mistica e visionaria come mai, prima di allora, si era udito, un disco permeato da un enorme e sincero coinvolgimento emotivo personale ed intimo, a testimonianza di un fortissimo legame ancestrale ed inscindibile tra l'artista e la propria terra natale, qualcosa di così intenso da divenire toccante fino alle lacrime. Presente pure l'inconfondibile richiamo dei gabbiani, altra fugace ma significativa incursione in musica da parte di Madre Natura, al minuto 01:22. Poco oltre, esattamente al minuto 01:40, compare anche una malinconica fisarmonica, la quale acuisce la pesante coltre di disperazione che aleggia sopra al brano. Sebbene sia pressoché impossibile raggiungere la medesima intensità espressiva e lo stesso pathos emozionale della versione originale, il pezzo scorre con grande fluidità e si incastona senza difficoltà al resto della tracklist sinora analizzata, anzi ne rappresenta proprio l'ultimo, piccolo, tassello mancante. So che tu guardi sopra di me, padre di tutto il passato e di ogni cosa che sarà in futuro, tu sei il primo e l'ultimo. L'osservatore di tutte le cose viventi, il guardiano di ciò che è morto, il potente e saggio Dio dal solo occhio guarda ogni cosa dall'alto, sei tu che governa il mio mondo ed il cielo tutto. Il vento del nord mi sospinge verso l'alto, la sala di gloria nel cielo mi attende, i cancelli spalancati della Valhalla saluteranno il mio arrivo glorioso, quando sarà arrivato il momento della mia morte. Abbiamo parlato in termini generalmente positivi di questo pezzo, ciò nonostante ci sentiamo di aggiungere che, a nostro avviso, in questo frangente, la band abbia, forse, compiuto il passo più lungo della gamba. Nulla da eccepire, sia ben chiaro, sulla loro versione di Song To Hall Up High, semplicemente riteniamo Quorthon un personaggio troppo grande, troppo epico da coverizzare. Un personaggio ancora oggi attorniato da una strabiliante aura di mistero che lo ha reso una sorta di creatura leggendaria, quasi irreale, già quando era in vita, disturbare il suo riposo eterno, dopo la morte, seppur garbatamente e con classe, potrebbe quasi apparire sacrilego. L'amore genuino e la passione per la propria terra d'origine paiono essere gli unici elementi in comune dai cui quali poter attingere, ma a nostro avviso incidono di più sul rendimento della canzone l'enorme distanza culturale, storica e sociologica tra l'Italia e la Svezia, insieme al diverso retaggio artistico dal quale le due realtà sono, a modo loro, emerse, del resto gli stessi membri della band si sono più volte, giustamente ed orgogliosamente, definiti: "montanari italiani e non marinai con la pelliccia di pelle ed il caschetto con corna di capriolo".
When the Mountains Call the Storm
"When The Mountains Call The Storm (Quando le montagne chiamano la tempesta)" è il pezzo più diretto ed immediato di tutto l'album: un pesante macigno death metal che, fragorosamente, rotola verso valle e che tutto travolge nel suo incedere furioso. La ben assortita accoppiata Med-Thomas non si dilunga in delicati arpeggi introduttivi, né tantomeno in soffusi fraseggi atmosferici, preferendo, piuttosto, badare al sodo. L'impatto sonoro in cui ci imbattiamo è alquanto notevole: un muro sonoro di granitico spessore viene, presto, eretto con trentina meticolosità e con una classe, ribadiamo ancora una volta il concetto, decisamente superiore alla media. In cima ad esso si inerpica, intrepido, il valoroso capitano Ciardo con il suo profondo cantato in growl, al solito incisivo e penetrante, nella misura in cui lo abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni. Anziché rallentare, i ritmi crescono ancora quando sono, da poco, trascorsi i primi sessanta secondi della contesa. Sempre brillante la prestazione offerta dall'indiavolato batterista che, con il suo incedere sicuro e spedito, funge da autentico metronomo e trascina con sé il resto della formazione. Il ripetuto ringhio selvaggio del cantante, minuto 01:26, si staglia massiccio sopra all'arrivo dei primi fragorosi tuoni, la portentosa tempesta che i DXT stanno scaricando contro di noi avanza rapidamente, all'apparenza senza incontrare ostacoli in grado di poterla, in qualche modo, arginare. Non è difficile rendersi conto che, nella circostanza specifica, la band decida di accantonare ogni forma di pregevole divagazione acustica o folcloristica, incontrate in gran numero sino a questo momento: viceversa il quartetto veneto si muove con sicurezza e padronanza dei mezzi nei solchi del tradizionale metallo della morte, siamo al cospetto di una traccia dal sapore decisamente old-school, più facilmente ascrivibile alla scuola americana piuttosto che a quella nord-europea. Reggere cinque minuti abbondanti a velocità simili, tuttavia, non è facile nemmeno per Pondro e soci, ecco dunque, al minuto 02:10, il primo momento per tirare un po' il fiato: le tempistiche assumono un andamento più ragionato, la melodia ne guadagna in ariosità e trova rifugio in una piccola cassa di espansione in cui potersi adagiare per qualche istante, una ventina di secondi di break in cui, ancora una volta, la batteria si distingue rispetto alla concorrenza. L'assordante boato del tuono del minuto 02:28, ormai fattosi prossimo, è il segnale che la tempesta, generatasi dalle alte cime dolomitiche, si è portata, ora, nella valle e, complice il rialzo termico incontrato scendendo di quota, è pronta a scaricare a terra tutta la sua dirompente forza d'urto. Le primi, copiose e pesanti, gocce di pioggia cadono dal cielo, i fulmini deflagrano al suolo con violente scariche elettriche, il cielo, fattosi minaccioso e completamente buio, non promette nulla di buono. Nuova rasoiata secca al minuto 03:10, davvero terremotante il contributo di Alberto dietro al microfono: sgravato dall'onere di prendere parte alla sezione ritmica, egli può focalizzarsi meglio sul solo ruolo di vocalist e sciorina una prestazione convincente e che non subisce cali di tensione. Terminata la narrazione, al minuto 04:52, resta solamente il tempo per ascoltare l'ultimo, debole, scroscio di pioggia, anche i tuoni echeggiano, ormai, in lontananza, con la medesima velocità con la quale si era palesata dinanzi a noi, la tempesta abbandona il campo e lascia spazio ad un magnifico tramonto rosso fuoco che incendia le cime più alte delle Dolomiti. L'aura magica delle maestose Dolomiti avvolge tutte le vallate, l'aria è satura dei loro imponenti respiri, la possiamo percepire nelle verdi foreste che le proteggono. Immense ed imponenti Dolomiti, la vostra saggezza è millenaria. Ora però dovete lavarvi dai parassiti, eliminare ciò che è superfluo, l'atmosfera vibra, bestiale ed oscura, gli animali guadagnano frettolosamente le loro tane, la tempesta è in arrivo. Per primo giunge il lampo, allarme luminoso in grado di squarciare la buia atmosfera caliginosa, schiere compatte di nubi oscurano rapidamente il sole, il tuono, invocato dalle montagne stesse, arriva puntuale con la sua grandiosa potenza, simile ad una granata che esplode in cielo. A tempesta in corso il superfluo si lava, urlo lo spirito del grande bosco, le sue sono parole di ferma condanna, elogi alla maestosa tempesta furente si levano verso l'infinito. Il cammino del giovane uomo sarà protetto dalle secolari volontà delle Dolomiti, procedi veloce ragazzo, non perdere di vista il gufo, lui ti mostrerà dove ritrovare ricordi perduti, tra la fitta coltre di nebbia nei boschi. La grandine che cade al suolo evoca i tamburi di guerra che, nel passato, hanno risuonato per queste valli, essa non perdona chi ha violato le leggi della natura, dettami secolari e sacri, tramandati di padre in figlio e scolpiti nelle rocce dolomitiche, solo anime scelte le possono leggere. Tuono, fulmine, tempesta, collera, quando le montagne chiamano la tempesta.
The Picture
L'ultima traccia "effettiva" che il gruppo propone è l'introspettiva e meditativa "The Picture (La fotografia)", canzone che fa riemergere il lato sperimentale ed innovativo dei DXT. Si tratta di un'altra piacevole ed emozionante suite musicale di oltre cinque minuti, anch'essa ricca di pathos e di trasporto. Una malinconica armonica a bocca ci accoglie con il suo mesto ed inconfondibile suono, dal sapore tipicamente retrò, sullo sfondo la natura funge da corollario prezioso con il suo alacre fervore e la sua consueta dinamicità, brulicante di vita. Constatiamo, per l'ennesima volta nel corso di Troi, la sorprendente capacità della band di armonizzare ottimamente un canovaccio piuttosto ordinario su di uno scenario di fondo profondamente insolito, quella che architettano i nostri è una pregevole soluzione musicale, di sicuro impatto, resa funzionale ed omogenea grazie all'ottimo lavoro svolto in fase di produzione, in cui la potenza della batteria si abbina magnificamente con gli strumenti tradizionali del folclore e con le melodiose vibrazioni della natura stessa. Tale è la precisione e la puntualità dell'arrangiamento proposto da dare la sensazione che due componenti simili, strutturalmente, tradizionalmente e radicalmente distanti l'una dall'altra, siano addirittura complementari, indispensabili elementi simbiotici che rendono, al giorno d'oggi, il sound dei Delirium X Tremens chiaramente riconoscibile, anche a distanza. Non vi è prevaricazione della classica componente death nei confronti di quella più tradizionale, l'armonica a bocca, infatti, si fa sentire nitidamente anche nei momenti in cui maggiore è l'apporto della batteria di Thomas. Eleganti sono anche le linee soliste della chitarra di Med, mentre Ciardo inizia la narrazione affidandosi, ancora una volta, ad un solenne e maestoso parlato lirico, in lingua italiana. Un vento tiepido sibilava nelle sere d'autunno, lo si sentiva intonare seducenti melodie tra i boschi, esso recava con sé le tinte della malinconia, aveva il compito di dipingere le foglie per la nuova stagione entrante, come un morbido pennello. Nelle nostre baite lo accompagnava l'intenso crepitio del fuoco nei camini, il cielo di ottobre gocciolava le sue incandescenti scintille. I ritmi crescono nella seconda stanza, il vocalist torna ad esprimersi in growl ed in inglese, la tensione cresce, sebbene, la situazione iniziale tratteggiata dal gruppo, sia abbastanza rassicurante. Tutti raccolti attorno al falò, raccontavamo le nostre dure giornate per i boschi, spossati nel corpo e nella mente citavamo antiche leggende dolomitiche, come io ho fatto con voi prendendo appunti in questo mio diario di note. Bicchieri di buon vino e goliardiche espressioni colorite ci davano la forza di ridere in compagnia, eravamo in grado di spezzare il silenzioso suono delle foglie che cadono a terra dormienti, la natura si spogliava del tabarro primaverile, candido fardello di una stagione morente che, lentamente, appassiva giorno dopo giorno. Alberto, grazie al suo magnifico cantato, indirizza il tiro della canzone verso l'alto, benché i ritmi, contenuti ed armonizzati a dovere, facciano emergere anche un certo orientamento progressivo degno di rilievo. In quegli istanti il tempo pareva fermarsi, il fuoco danzava agile sulle note dei nostri racconti, qualcuno suonava l'armonica e si cimentava, con risultati imbarazzanti, nell'imitare il canto del gufo o l'imponente bramito del cervo in amore. I larici piangevano lacrime intrise di resina dalle loro nodose cortecce, mentre il loro etereo aroma accoglieva il suadente arrivo della sera. Mi rivolgo a voi che guardate questo album, non fate cadere a terra le memorie ivi contenute, piuttosto raccoglietele e conservatele perché il passato è la radice dell'albero del presente in cui ora state vivendo. Con discrezione e a poco a poco, il pezzo aumenta la sua inclinazione verso già sperimentati ambienti folk, la tristezza per essere giunti al termine del nostro cammino pervade il nostro animo, pur senza travolgerci completamente. In parallelo anche il cantato di Ciardo si allontana dai dettami classici del growl per avvicinarsi ad una sorta di scream appena abbozzato, dai lineamenti scandinavi. Non è tempo, però, per la commiserazione e per i rimpianti, al minuto 03:54, quindi, la melodia si fa più briosa, la nostra visuale ha modo di scrutare un più ampio orizzonte, benché il nostro viaggio a ritroso nel tempo sia, ormai, prossimo alla conclusione, prevale in noi la consapevolezza di essere uomini diversi ora, l'auspicio che infervora il cuore è che altri, dopo di noi, possano prendere visione di questo diario storico. Questa foto è ormai antica e sbiadita, ritaglio di un'epoca lontana da noi, ma c'è sempre la speranza che un giorno possa ancora animarsi di nuova vita e possa riportarci alla radice del tempo, laddove tutto appare nel suo vero e solo colore. Ai gentili e secolari suoni della natura è affiato il compito di chiudere il pezzo, il diario di fotografie in cui ci siamo imbattuti, viene richiuso e riposto al suo posto, la nostra sapiente guida, il gufo, può riporre le maestose ali, ha portato a termine il suo compito.
Conclusioni
Prima di passare al giudizio conclusivo, la band consegna un ultimo, singolare cadeau ai propri fan: ripetendo il fortunato esperimento di 5 anni prima, anche Troi si chiude, infatti, con una breve ghost track, non inserita nella tracklist ufficiale posta in calce all'album, e conosciuta come Ombre Nel Bosco. Una fugace narrazione scandita in dialetto veneto caratterizza i primi trenta secondi. Ciardo ci informa che l'ennesima, dura giornata di lavoro, spesa nel bosco a fare legna, si è conclusa, una giornata che, per i DXT, è durata addirittura 5 anni, (il tempo di gestazione e di realizzazione necessario per l'album stesso). Nelle numerose stagioni che si sono succedute, ne abbiamo tagliate tante di piante, frassini, faggi, larici, legni pregiati delle dolomiti bellunesi, tutti caricati a mano sulle nostre robuste spalle e stipati a poco a poco, uno alla volta, a formare una grande catasta, alcuni dovranno essere fatti stagionare, altri verranno buoni per riscaldare le fredde serate invernali. Adesso che il lavoro è finito, davanti al fuoco, all'ombra delle cime innevate, mentre fuori imperversa il vento della bufera e questi vecchi boschi ci stanno ascoltando, è ora di bersi un sorso di vino, magari raccontando una volta di più l'epica storia di un alpino morto nella prima guerra mondiale e del suo spirito reincarnatosi in un saggio gufo. Il caloroso ed appassionato dialetto locale fa da sfondo all'incontro di questi amici, ci si complimenta reciprocamente per il lavoro svolto, si sottolinea l'enorme quantità di legno accumulata, rumore di bicchieri che si scontrano l'uno contro l'altro per brindare al riposo e al piacevole momento conviviale di svago. Salute, evviva, finalmente, cin cin, si alimenta il fuoco del camino con altra legna da ardere, si estrae un mazzo di carte e ci si prepara ad una sana partita in compagnia, chi teme di perdere al gioco mette le cose in chiaro fin da subito, i compagni non se ne preoccupano, è il momento per stare tutti assieme e per festeggiare. Una nostalgica chitarra acustica disegna languide note di commiato, la tensione finalmente si scioglie del tutto ed il respiro assume un andamento regolare e disteso. Il richiamo del corvo sopra alle sacre vette bellunesi, lui soltanto a tarda ora, echeggia nell'atmosfera, solitario e maestoso. Ombre Nel Bosco si propone agli occhi ed alle orecchie dell'ascoltatore come una piccola chicca conclusiva, una sorta di spaccato di vita quotidiano, una traccia volutamente non segnalata affinché sia l'ascoltatore stesso ad andare a cercarla e a scoprirla, in ultima analisi essa vuole essere la trasposizione in musica dell'intero processo di lavorazione del disco. Il terzo full length dei Delirium X Tremens è un'opera di assoluto spessore ed interesse, l'album che consacra definitivamente la formazione bellunese, guidata dall'eclettico binomio Ciardo-Pondro, quale una delle formazioni migliori del panorama estremo italiano. Cinque anni di gestazione artistica sono un periodo lunghissimo, in questo tempo la band ha avuto modo di concentrarsi a fondo su quali storie e leggende popolari fossero meritevoli di essere inserite nel nuovo lp, un processo di songwriting lungo e condiviso al 100% ha portato, infine, a sviluppare un meraviglioso concept lirico che farebbe invidia perfino a quanti, Jon Schaffer in primis, di questa tipologia di prodotti è divenuto, nel corso degli anni, un autentico maestro. Troi brilla di luce propria dall'inizio alla fine per tutta una serie di motivazioni, musicali e non, che ora andremo a rimarcare con maggiore accuratezza e precisione. Innanzitutto è necessario evidenziare gli aspetti più strettamente correlati alla musica: soluzioni tecniche audaci ed innovative, anche se sarebbe più opportuno parlare di migliorie ulteriori rispetto a quanto fatto intravvedere nel già positivo precedente album, come il continuo alternarsi tra l'inglese e l'italiano, l'utilizzo del canonico growl, tipico del death metal, accanto al cantato in pulito, per giungere sino alla voce parlata, l'inserimento di patriottici cori alpini e l'ampio ricorso agli strumenti tradizionali, rendono speciali e peculiari i momenti più caratterizzanti ed enfatici dell'album. La maturazione artistica del gruppo è evidente, in ogni sua componente, la brillante produzione assicurata da Larsen Premoli contribuisce ad innalzare ulteriormente il livello qualitativo medio delle singole canzoni. All'interno di una tracklist semplicemente grandiosa, diviene quasi superfluo, oltreché tremendamente difficile, assegnare la palma di migliore traccia del lotto, detto questo un episodio imponente e monumentale come Spettri Nella Steppa, a nostro avviso, merita una menzione speciale per la ricchezza e la completezza di soluzioni proposte e, nondimeno, per il pathos che riesce a trasmettere lungo quei sette, strepitosi, minuti che paiono addirittura essere pochi, una volta che le note hanno smesso di risuonare nell'aria, ne consigliamo vivamente l'ascolto, una volta di più, magari leggendo o (ri)leggendovi assieme le parimenti magnifiche pagine di Giulio Bedeschi. Altri brani certamente da ricordare sono, poi, la bella e potente Col Di Lana, Mount Of Blood, l'oscura ed arabesca The Dead Of Stone, (la sfortunata vicenda personale di Girolamo Segato è una delle più interessanti da approfondire), e la più tradizionale e stentorea When The Mountains Call The Storm. Durante il corso di questa corposa trattazione abbiamo già avuto modo di sottolineare i pochissimi episodi che, secondo il nostro giudizio personale, restano un pochino in ombra rispetto alla concorrenza, in questa sede ci limiteremo a ricordarli, aggiungendo, in ogni caso, che si tratta di pezzi che meritano, senza ombra di dubbio, la sufficienza ampia in pagella. The Voice Of The Holy River, nel dettaglio, appare essere lievemente penalizzata da una costruzione di base troppo arzigogolata ed incostante, mentre la reinterpretazione personale di Song To Hall Up High paga, quasi esclusivamente, l'impari confronto con la versione originale, realizzata da uno dei personaggi più influenti ed importanti dell'intero universo metal degli ultimi trent'anni, e, probabilmente, di sempre. Dei quattro componenti il gruppo, citazione d'onore la spendiamo, più che volentieri, per il cantante e polistrumentista Alberto Da Rech, davvero disinvolto ed a suo agio in ogni frangente, sia al microfono, sia alle prese con gli strumenti tipici della tradizione ladina e per il funambolico batterista Thomas Lorenzi, autore di una prestazione dietro le pelli semplicemente magnifica e di caratura internazionale. Bene, in ogni caso, pure il sempre puntuale Fabio alla chitarra solista ed il roccioso Pondro al basso, anch'egli in grado di assicurare il suo prezioso apporto ritmico. Andando, poi, oltre l'aspetto musicale, che i DXT abbiano il desiderio e l'ambizione di voler emergere, e che ce la stiano mettendo davvero tutta per farlo, lo si evince anche da altri tre, importanti elementi. Il primo è rappresentato dalla scelta di inserire i testi delle canzoni anche in lingua italiana, all'interno dello splendido booklet di Troi, una ulteriore testimonianza del fiero e sano orgoglio nazionale che alimenta questi quattro ragazzi, e riprova tangibile dell'intenzione di voler offrire un prodotto il più possibile completo e personalizzato. La seconda iniziativa lodevole, che qui ci sentiamo di segnalare, peraltro collegabile, per certi versi, alla prima, è stata rappresentata dalla decisione di mettere in vendita 60 esemplari dell'album in una edizione limitatissima, elegantemente confezionata in ricercati cofanetti in legno, realizzati ed intagliati personalmente dai ragazzi della band. Ecco il richiamo ai connazionali Selvans cui avevamo fatto riferimento più sopra, dal momento che anche loro avevano offerto il loro Lupercalia in un formato simile, sebbene in un numero più elevato di copie. Detto che i 60 pezzi sono andati esauriti nel giro di poche settimane, ci sembra importante evidenziare quest'altra interessante soluzione, al fine di rendere del tutto peculiare ed inconfondibile la propria proposta musicale, la velocità con cui le copie sono andate vendute testimonia il notevole apprezzamento ricevuto da questa iniziativa. La voglia di non fossilizzarsi troppo a lungo su canovacci ordinari e monotoni è testimoniata, infine, anche dalla scelta, anch'essa carica di significati profondi, di rinnovare parzialmente il proprio logo. In particolare è proprio la centrale lettera X del moniker ad avere subito un restyling significativo. Essa è stata arricchita con delle lunghe e nodose propaggini, simili alle radici di un albero che si sviluppano in ogni direzione. La band manifesta così, anche a livello grafico, il desiderio di volere ritornare alle proprie origini, senza, tuttavia, snaturare la propria natura più intima. Complimenti ragazzi, ben fatto davvero! Ai lettori, quindi, consiglio caldamente di procurarsi al più presto una copia di Troi, senza dimenticare mai che "non vi è alito di vento che non abbia qualcosa da raccontare, basta saperlo ascoltare"!
2) Col di Lana, Mount of Blood
3) The Dead of Stone
4) The Voice of the Holy River
5) Owl
6) Spettri nella steppa
7) Song to Hall Up High (Bathory cover)
8) When the Mountains Call the Storm
9) The Picture