DEFTONES
White Pony
2000 - Maverick Records

GIANCARLO PACELLI
28/09/2017











Introduzione Recensione
Dopo solo tre anni dal capolavoro "Around the Fur" i Deftones, divenuti ormai timonieri indiscussi non solo di un sottogenere musicale ma generalmente di tutta una fetta importante del metal, ritornano in studio gonfi e forti ormai dell'avere attorno a sé milioni di sostenitori, a differenza di quanto accadeva nel periodo dei primi due dischi, in cui i Nostri californiani avevano ancora tutto da dimostrare. Non che, comunque, in questa circostanza le cose si fossero rivelate tanto più facili di un tempo: dopo il boom di "Around..." le aspettative erano ampiamente alte e un passo falso sarebbe stato tremendo per la sopravvivenza della band. Fortunatamente non è stato il loro caso, poiché il terzo disco targato Deftones è al pari del precedente un capolavoro assoluto, in grado anch'esso di tracciarer un solco fondamentale nel mondo musicale di fine anni '90. Già semplicemente scrutando con tutta curiosità la cover di "White Pony" (termine derivante dallo slang americano che dovrebbe accennare alla cocaina), dove ci appare in quel mare di bianco quel meraviglioso pony, possiamo capire il fatto di trovarci dinanzi ad un disco profondamente maturo; una cover ben diversa dalla precedente, nella quale notavamo una ragazza fotografata di sorpresa durante un party tenuto dai Deftones durante le registrazioni di "Around...". Lo stesso Chino ebbe di che ridire, nel corso degli anni, definendo col senno di poi quella copertina come "orribile". Questa volta non è di sicuro il caso: tutto sembra studiato nei minimi dettagli, un'apparenza dalla quale sembrano fuoriuscire soprattutto le caratteristiche lirico / musicali dei nostri, forti di grandi esperienze; un degno songwriting che qui risulta denso di innovazione. Siamo in un periodo delicato, il 2000, in cui si assisteva alla conclusione di un secolo che aveva praticamente disegnato tutta la storia della nostra musica... ed i Deftones, senza timore di smentita, si meritano l'appellativo di "finalino di qualità eccelsa",un ottimo modo per concludere il tutto. Ancora oggi risulta complicato trovare una band simile sia per strutture ritmiche che per qualità, anche parlando di una compattezza come band da far invidia a migliaia di altre realtà. I nostri, dunque, avevano l'arduo compito di concludere con bellezza il decennio che si stava avviando alla ovvia conclusione.I vocalizzi di Chino, le straordinarie qualità tecniche alla sei corde di Carpenter.. ormai i Deftones erano diventati una certezza, tanto da trasformarsi in veri e propri pilastri, dei fiori all'occhiello del nu-metal, dell'Alternative e non. Anche la rivalità (perlopiù di natura commerciale) con i KoRn, forti di un ovvio successo con il loro "Issues" del 1999, si era decisamente affievolita favorendo quindi una maggiore leggerezza da tutti i punti di vista. Doveroso sottolineare che, se il precedente "Around The Fur" era ricolmo di influenze calibrate col metronomo, anche nel "Pony bianco" i nostri non hanno perso tali capacità di ammassare e dare forma a più generi provenienti da galassie differenti: qui difatti abbiamo l'avvento improvviso di uno stile musicale molto in voga in quegli anni, il trip hop di band come Massive Attack (coadiuvato dall'innesto in pianta stabile di Frank Delgado,divenuto dj e tastierista ufficiale dei nostri californiani). Quindi, almeno dal punto di vista delle influenze, non è cambiato nulla rispetto a tre anni prima: abbiamo sempre quell'enorme intelligenza di fondo nell'unire sofisticamente generi molto differenti per stile e per sound, capacità che tutt'oggi rende i nostri una band sperimentale al cento per cento. Quella sperimentalità che in quegli anni sconvolse anche i più fieri oppositori del genere nu metal, rendendo i Deftones amati letteralmente da ogni tipo fan, di ogni fascia di età. "White Pony" è ad oggi il platter dei nostri che ha venduto di più in assoluto, oltre ad aver raggiunto posizioni di degno prestigio nelle classifiche musicali di ogni parte del globo, ed è considerato la massima espressione del genere. Anche l'obiettivo stesso di raggiungere un certo risultato commerciale(e nell'album si sente) stava a significare un'agguerrita maturità che stava prendendo una forma decisa nelle cellule "deftonsiane". Da momenti di assoluta intensità a partecipazioni di assoluto livello, da pezzi ricolmi di riff granitici a ballate vecchia scuola, il nostro disco presenta tante facce tutte tese con l'obiettivo di creare brividi non indifferenti nelle orecchie di noi ascoltatori. Quindi, cinture allacciate e tenetevi pronti per l'assaporare la massima espressione del sound dei nostri Deftones, cavalcando quel meraviglioso pony che ci strizza l'occhio. Buona lettura!

Back To School (Mini Maggit)
Il nostro disco parte subito col botto, con un pezzo che dietro di sé ha una storia molto particolare per gli eventi che ne hanno portato alla creazione; stiamo parliamo della traccia introduttiva, "Back To School (Mini Maggit) - Ritorno a Scuola", brano che ancora oggi è in grado di suscitare tante polemiche (viene proposta raramente live proprio per questo suo lato). Perché questo particolare pezzo trascina con sé un alone di polemica? Sicuramente perché i Deftones non avevano intenzione di inciderlo di loro spontanea volontà, proprio per le tematiche trattate che risultavano ormai molto lontane dalla loro sfera narrativa ben matura; ma fu la loro etichetta, la Maverick Records, a insistere (soprattutto per ragioni commerciali) sulla creazione di questa traccia; la quale venne inserita nella seconda edizione del disco, a pochissima distanza dalla prima (Giugno / Ottobre). I Deftones, per la inusuale creazione di questo brano, hanno appositamente prelevato il chorus di "Pink Maggit"(pezzo conclusivo del disco dalla durata di oltre sette minuti, molto sullo stile shogaze/psidechelico) e gli hanno aggiunto alcune strofe rappate, creando cosi questa faticosa e criticata canzone. Difatti, nel retro di "White Pony" notiamo la dicitura "Mini Maggit" accanto al titolo originale, messa tra parentesi proprio per fare riferimento a ciò. Ovviamente questa "tattica discografica", importante perché si trattava pur sempre il secondo singolo promozionale, fu fondamentale per l'enorme riuscita di "White Pony". La traccia, come è percepibile dal titolo tratta di problemi adolescenziali, come la nostalgia dei tempi della scuola, della possibilità di non tornare ad assaporare quei momenti spassosi di convivialità e spensieratezza. Tracce del sound primordiale di "Adrenaline" saltano subito all'occhio sin dai primi fraseggi ma questo non è un punto a sfavore, anzi, significa che i nostri nonostante l'evidente maturità sono ancora ancorati e affezionati a quel tipo di atmosfere. Come da copione il pezzo fu accompagnato da un curioso videoclip in cui Chino appare ribelle nei confronti della scuola, salta sui banchi come se niente fosse, creando un simpatico panico generale. L'intro è sempre affidato alle mani calde di Carpenter che riescono a creare una solidità nel sound che sarà di base per il "So run" (cosi corri) introduttivo di Chino, che a tutta forza gioca con il suo talento vocale. Questo pezzo rimanda molto ad "Adrenaline" anche per lo stile molto sul rap/hip hop, sempre amalgamato alla grande con il potente riffing di Stephen Carpenter che qui si riallaccia meravigliosamente con l'entrata in gioco dei piatti di Frank Delgado, creando un mix letale. Come abbiamo detto pocanzi è una track fortemente nostalgica e tale sentimento risulta tangibile verso la metà del secondo minuto, in cui il nostro singer si lascia andare con strani modulazioni vocali assimilabili a cedimenti improvvisi, che nascondono però sempre un virtuosismo di fondo veramente eccezionale.Quel virtuosismo che sarà fondamentale per la riuscita del pony bianco. Se proprio dobbiamo trovare il pelo nell'uovo ci risulta logico affermare che qui le corde di Chi Cheng sono praticamente inesistenti, mentre è da applaudire l'enorme presenza della batteria di Cunnigham, vero cuore del sound dei californiani. In fondo, "Back To School (Mini Maggit)" è uno straordinario biglietto da visita dove, senza nessun dubbio, emergono tutti gli intenti compositivi e non nella band. "Rappare" ricordando i tempi della scuola, quelli in cui cominciavano le prime ribellioni, le prime pulsioni di dissenso contro l'autorità. L'insegnante visto come ostacolo da superare, come figura del potere, come un qualcosa da sfidare. Saltiamo sui banchi, disturbiamo la lezione, rintaniamoci in bagno per una fumata in compagnia, sognando di fuggire e di scappare, da quel covo di conformismo e noia mortale.

Feiticeria
Un dolce colpo di cassa accompagnato da un solido intreccio di chitarra e diamo inizio alla seconda tappa della consacrazione definitiva dei nostri. Dopo la malinconia provata in "Back To School (Mini Maggit)" il discorso si discosta di un millimetro in quanto alle tematiche trattate nella successiva traccia, confluendo in parte nella ermetica e claustrofobica "Feiticeria (Strega)". "Feiticeria" nasconde già dal significato stesso del termine una storia ben concreta, tale track deriva da un game show portoghese e si può tradurre come "strega". Chino, diventato ormai uno dei pilastri indiscussi della stesura dei testi, secondo alcune interviste prese spunto da una lettura di un magazine brasiliano (che parlava di tale show) e a proposito di ciò disse: "It's nameda fter a Brazilian female, but it'sl yrically about a kidnapping scenario" (Deriva da un nome di una ragazza brasiliana, ma liricamente parla di uno scenario di rapimento"), e la ragazza cui fa riferimento il nostro singer è la protagonista di tale show, divenuta famose per la sua gradevole presenza ;"Feiticeria" starebbe dunque a rappresentare quest'ultima. La traccia, secondo le parole di Chino stesso, tratta di rapimento, trabocca di claustrofobia principalmente perché è incentrata sulla sensazione di prigionia, assolutamente tremenda per la negatività che ispira. Difatti uno degli obiettivi del nostro frontman era quello di traslare e rendere tangibili le percezioni non positive che si possono trovare in tale situazione. Il pezzo in se per se è pieno di richiami al grunge e ci mette sull'attenti per come strutturato (come nella precedente traccia), riprende molto dal sound primordiale di "Adrenaline". Non abbiamo l'utilizzo di feroci scream (eccezion fatta per la parte centrale del pezzo) e il tono di chitarra mano mano che il pezzo procede si addolcisce seguendo i vocalizzi di Chino, che qui letteralmente esplodono per quanto sono soffusi. La potenza espressiva dei nostri scoppia nel finale con chiare distorsioni e un Chino letteralmente funambolico che ci accompagna verso la conclusione. Rapimenti e claustrofobia: la sensazione di ritrovarsi sperduti in chissà che luogo, bendati ed imbavagliati, alla totale mercé di un pazzoide. La paura di scoprire quale sarà il nostro destino, nel mentre che siamo legati su quella sedia, buttati in un angolo buio, senza la possibilità di vedere nulla. Possiamo solo sentire, e nemmeno troppo bene. Voci, urla, discorsi confusi... cos'avranno in mente i nostri aguzzini? Non ci resta che pregare, fermi ed immobili, paralizzati dalla paura. Qualora esista, speriamo vivamente che un Dio possa sentirci e liberarci da questo incubo.

Digital Bath
Ogni band (famosa o meno) ha un inno, quella traccia particolarmente affascinante tanto da essere richiesta perennemente durante i live, quella traccia che crea (nonostante gli anni che passano inesorabilmente) un'alchimia diamantata coi fan... bene, potremo definire la terza song di "White Pony" in questo modo, un piccolo gioiello. Pezzo colonna portante in ogni live dei californiani, dotato di un'atmosfera decadente e magica alla quale si agganciano meravigliosamente le vocals sussurrate di Chino, che qui raggiungono la loro forma più espressiva. Respiri angelici che ti accarezzano per portarti, dunque, tenendoti per la mano, verso un inconsueto abbandono della grezza aggressività sia lirica che strumentale a cui i nostri ci hanno abituato, per fare spazio ad un primordiale istinto che cela dietro di sé solo un alone di intensità. Dai solchi di "Digital Bath (Bagno digitale)" fuoriesce infatti il cuore "cotonato" di una band le cui pulsazioni fragorose riescono nell'arduo tentativo di ammaliarti e di spezzare ogni parola che potresti pronunciare; non serve poi a molto parlare, poiché i silenzi nell'udire ciò, dominano. Siamo di fronte ad un brano concettualmente ispirato, costruito su note condite dal sapore del più ricercato brivido, che è in fondo quello che noi cerchiamo nella nostra musica. Meravigliosi refrain e lungimiranti giochi di tastiere creano i solchi affinché i nostri abili musicisti entrino in gioco in grande stile, soprattutto il nostro vocalist che in questa traccia dà il meglio assoluto, costruendo intrugli vocali che in particolare nel chorus riescono a centrare l'obiettivo di raggiungere una soglia di pathos senza limiti. Compito importante è affidato anche ai giusti rintocchi di Cunnigham che quasi bisticciano con le geometrie elettroniche che il fresco membro Delgado destreggia con i suoi piatti, con un gusto squisitamente ricercato. Ma il vero punto caratteristico è il ritornello, che quasi inaspettatamente concede un pelo di groove al nostro brano: "I feel like more/Feel like more"(sento di più/sento di più) che Chino, a mo' di urlo battagliero, con tutta la sua forza evocativa, grida contro il cielo e con lui migliaia di voci, raggiungendo il confine delle stelle. Il pezzo, nei minuti finali, non solo raggiunge quella soglia di sound tanto cara ai nostri ma supera tutto e tutti creando un tappeto di emozioni allucinante, coinvolgente e incredibilmente appassionante. "Digital Bath" è un brano da custodire, ti entra nel cuore, una gemma preziosa, incredibilmente riuscita in ogni minimo dettaglio che vi incita ad alzare il volume per lasciare spazio alle più recondite sensazioni. Un pezzo il quale ci parla, in maniera abbastanza velata, di una rinascita, di un innalzamento verso un livello superiore dal precedente. Il protagonista ammette di aver compiuto questo percorso grazie al preziosissimo incontro con un'altra persona, probabilmente la sua anima gemella. Entrambi considerati dei "reietti" dalla società, i Nostri insieme si sentono invincibili. Si sentono "di più" appunto; soprattutto lei è in grado di far provare al giovane delle sensazioni prima di allora mai percepite. Una persona in grado di rendere calda l'acqua al solo tocco, di muovergli l'anima, di farlo sentire speciale. Respiri all'unisono... sentirsi "di più". Sentirsi particolarmente valorosi, sentire di contare qualcosa, almeno per qualcuno, nella vita.

Elite
Dopo la leggiadria mista a magia a cui abbiamo assistito in "Digital Bath" i nostri riprendono il loro carattere battagliero nella quarta traccia del pony bianco, spiattellandoci prepotentemente addosso questa caotica song di quattro minuti, "Elite". Quest'ultima è basata su una netta e incisiva distorsione in cui ogni elemento componente raggiunge una soglia di pesantezza ottenuta soprattutto mediante l'utilizzo di tanti elementi innovativi come l'industrial, che propone un'impronta cibernetica ad un sound già bello denso proposto in maniera diretta e potente dai nostri. In questa traccia si può ben capire che la voglia di sperimentare e di creare un sound "fuori dal canonico" non ha mai abbandonato nemmeno per un secondo la visione artistica dei Deftones, anzi: se in "Adrenaline" abbiamo riscontrato un'ovvia incertezza compositiva ed in "Around The Fur" abbiamo assistito ad un netto salto di qualità, in "White Pony" abbiamo di fronte una band matura, capace nel gestire la miriade di influenze che avevano di fronte, con pura e rara intelligenza. "Elite" è una canzone che si può brutalmente definire cattiva, costruita contro una specifica e mirata casta. Chino a proposito disse: "This is laughing at every body trying to become what they already are. If you want to be one of the elite, you are, i'm sort of the asshole in the song, pretty much talking shit about everybody else. You're supposed to feel stupid after listening to it and wonder what it is to be elite" (Si prendono in giro tutti coloro che cercano di diventare quello che sono già; se vuoi essere uno della "elite", sei il tipo stronzo della canzone, quello che praticamente parla male di tutti gli altri. Dovresti sentirti stupido dopo aver ascoltato questo pezzo, e chiedo cosa significa far parte della elite). Vengono dunque messe in luce negativamente tutte quelle tipologie di persone che cambiano faccia solo per attenzione "You like attention/It proves to you you'realive" (ti piace l'attenzione/questo prova a te stesso che sei vivo"), persone che evidentemente nascondono una debolezza interiore nonostante siano molto sicure dall'esterno. Questi quattro minuti cibernetici sono belli tesi e terremotanti, riescono a rendere percettibile la negatività che questo nostro brano vuole proporci. Il basso, che ha un sound praticamente inesistente, viene sostituito da un massiccio uso di componenti elettroniche permettendoci quindi di catalogare tale traccia nel filone dell'industrial. Anche la voce di Chino, quasi a sorpresa, ha un registro totalmente inaspettato, si avvicina quasi ad un growl (soprattutto nel cuore del pezzo) ma come sempre percepiamo ad orecchio nudo la personalità del nostro, le cui corde vocali sono grintosamente ancorate alla sei corde di Carpenter, sempre protagonista. In conclusione, "Elite" si può ben definire un pezzo squisitamente aggressivo e dimostra il carattere unico e formidabile dei nostri Deftones.

Rx-Queen
Passiamo ora alla seguente "Rx-Queen (Regina a raggi X)", brano in cui noteremo che, come una spirale, il quartetto passa dalla violenza alla leggiadra in pochi secondi, seguendo (perché no) anche linee atmosferiche tendenti strutturalmente al pop che sicuramente faranno storcere il naso agli affezionati del sound grezzo e diretto della prima fase dei californiani; nonostante ciò la leva ispiratrice è sempre una costante presenza. Chino, che compose questo pezzo assieme all'indimenticabile Scott Weiland degli Stone Temple Pilots, si è espresso molte volte in merito definendolo "il pezzo più futuristico" dell'album (the most futuristic song in the album). In effetti, mettendo e rimettendo "Rx-Queen" riusciamo proprio a capire appieno il fatto di trovarci dinnanzi ad un brano guidato da un forte e attento spirito avanguardistico, chiaramente influenzato da tinte dark à ka The Cure (quasi onnipresenti in "Around The Fur") e dal granitico ed elettronico sound industrial alla Nine Inch Nails. Sin dai primi battiti di chiara matrice dub-step si capisce la pesantezza oscura del brano, pesantezza che risulta tangibile appena udendo questi piccoli tocchi di natura digitale: sembra normale che qui dentro si parli di sofferenza, intesa come risultato di un etereo amore di un ragazzo nei confronti di una ragazza messa al livello di una "Queen" (regina). Lui ama davvero questa ragazza, anche se quest'ultima si sta trasformando per il massiccio uso di sostanze, forse droghe. O forse si tratta di un qualche tipo di malattia correlata ad una cattiva abitudine; a causa della RX (prescrizione), comunque, la vita della giovane sta cambiando in peggio... ma nulla è più forte del sentimento: il protagonista ama davvero questa ragazza e non può smettere di stare con lei, farebbe qualsiasi cosa per la sua amata, ucciderebbe addirittura. E se deve innamorarsi della sua cattiva parte, è disposto a farlo. Come abbiamo accennato pocanzi, a partire dall'intro capiamo che siamo ad un pezzo condito da una chiara impronta elettronica. L'ascia di Carpenter all'inizio è decisamente offuscata per lasciare spazio sia alle vocals sempre ispiratissime del nostro frontman che al beat palpitante della batteria di Abe Cunnigham, il quale mostra sempre la sua incisività. Questa incisività che nessun sound elettronico sparato a mille toglierà mai dalle mani dei nostri. Voci in background e giochi di piatti improvvisi contribuiscono alla tendenza pop del brano, ma questo espediente non è da vedere come una cosa negativa, anzi. Basso e chitarra sul procedere del pezzo guadagnano di espressività fino a diventare ovviamente fondamentali mentre la voce di Chino, una volta leggera un'altra aggressiva, contribuendo a rendere questo brano abbastanza poliedrico nella sua struttura. "Rx-Queen" in conclusione mostra cose molto buone, che sicuramente hanno contribuito alla riuscita di "White Pony".

Street Carp
I pezzi non pretenziosi e taglienti nonostante l'apparente vaporosità del nostro platter ci sono, e sono anche messi in bella mostra. Difatti la seguente tack, "Street Carp", fa parte della ristretta cerchia di quelle tracce brevi e concise (inusuale per questa parte del disco), che in pochi minuti ti sbattono in faccia un mare di cose con una semplicità estrema. Sin dai graffiati tocchi iniziali della sei corde, ci sentiamo subito presi d'assalto dalla capacità dirompente dei vocalizzi di Chino, concentrati a tessere situazioni vaporose e ammalianti. Le pelli hanno sempre il loro giusto peso e sono le responsabili per la grande orecchiabilità della nostra traccia, che parla probabilmente di un'amicizia rotta da una particolare situazione. "Snap at the walls" è una tipica espressione dello slang americano che sta a significare, ad indicare una persona sconcertata (evidentemente situazione derivante da un azione ben precisa). Come abbiamo detto pocanzi, le reminescenze dei brani precedenti a questo sono molto lontane: viene in questo senso risaltata la capacità multi forme dei Deftones, quella di cambiare colore come fanno i camaleonti più furbi e scaltri. Da un forte post grunge passando per tocchi del sound alternativo, "Street Carp" si aggroviglia più o meno su questi due tipologie di sound: nei minuti iniziali dove schiocca un riff introduttivo filiforme e granitico di Carpenter e seguendo queste linee distorte si allaccia Chino, di conseguenza al suo potere di farvi rimanere attaccati all'ascolto. Verso la metà del primo minuto assistiamo a giochi di "prestigio" del nostro frontman che con un audace caparbietà modifica la sua voce a mo' di strumento fino a che le linee melodiche dei primi secondi prendono il comando per poi mutare di nuovo verso gli ultimi sgoccioli del nostro brano. Un pezzo dunque adattissimo per descrivere una situazione ai limiti dello sconcerto, dello sconforto. Ci sentiamo confusi ed abbandonati, arrabbiati con il mondo. Prendiamo a pugni i muri in preda a vistose crisi di nervi, proprio perché una rottura (amorosa o d'amicizia che sia) è sempre difficile da accettare e da interiorizzare. Siamo sgomenti, chiedendoci perché mai una situazione fino a ieri stabile e felice sia ora tramutata in un'autentica tragedia, in un vaso rotto. Ammiriamo i cocci sparsi per tutta la stanza, ferendoci nell'atto di calpestarli. Siamo ormai ridotti ad osservarci dal di fuori, stanchi e stressati, arrabbiati e delusi. Chi mai ci ridarà indietro il tempo perso ad inseguire una causa rivelatasi quindi fallimentare? Domanda al quale nessuno sa come risponderci.

Teenager
Esteticamente ispirata e dolcemente disegnata è la successiva "Teenager (Adolescente)", evidentemente strutturata seguendo vaghe linee di natura pop che la rendono sicuramente una ballad di ottima fattura. Raramente i Deftones scrivevano pezzi di tal genere, ed in questa specifica traccia si sono decisamente lasciati andare, facendo fluire l'ispirazione, facendo scivolare la matita sul foglio, seguendo solo il fedele istinto. Dal titolo sembra facile intuire che il brano in questione tratti di amore nella sua sfera più semplice, spontaneamente meraviglioso, quel sentimento chiaro e senza ombre derivante dal più puro inconscio. Sentimento che vede la mente di Chino narrare con estrema gradevolezza, dato che "Teenager" parla di una sua vecchia esperienza: era il 1988 quando un quindicenne Chino in compagnia dei suoi nonni in Arizona (Stati Uniti) ingenuamente scriveva piccoli pensieri sul suo primo appuntamento, e la conseguente rottura di un primo, flebile e labile rapporto con una ragazzina sua coetanea. Il brano difatti è sia liricamente che strumentalmente uno dei più semplici mai composti dai nostri quattro, in virtù della sua aura di "dolcezza" e semplicità. Non vi sono né straordinari eccessi di virtuosismo né funambolici giochi di chitarra, nella traccia colpiscono a nudo i vocalismi del nostro frontman che dominano dall'inizio fino al termine del tre minuti abbondanti del pezzo. Oltre al vocalist, l'impronta è data da un marcato utilizzo dello "scratching" (tecnica tipica dei Dj creata mediante un assortimento di suoni con la manipolazione ritmica di un vinile) e un dolce riff acustico che scandisce le prime note. Questo pezzo di natura sperimentale, basato anche sul saggio utilizzo del trip-hop, rappresenta appieno la capacità dei nostri di abbattere le barriere fiutando sound e tecniche, riuscendo a mescolarle alla perfezione. Si tratta di una maturità raggiunta appieno che ora cerca di essere equilibrata... e come vedremo col proseguire del disco, non ci deluderà. Nel frattempo possiamo quindi goderci la spensieratezza tipica degli anni che furono, "gli anni verdi" per l'appunto; quelli in cui ogni sentimento risulta per forza di cose puro ed amplificato, quelli in cui esploriamo la vita con sguardo curioso ed a tratti adamitico. I Nostri ci trasportano dritti in quel mondo quasi "finto", dominato da sogni ed incertezze, da paure e da gioie incommensurabili. Un brano semplice ma estremamente efficace, in grado di instaurare quest'atmosfera unica e genuina.

Knife Party
Decisamente simpatica è la storia che si nasconde dietro la nostra ottava traccia, "Knife Party (Festa del coltello)". Molto curiosa sia per quanto riguarda la stesura del testo che per la composizione della canzone. Sin dai primi graffi sulle corde di nylon dell'ascia di Carpenter ci rendiamo conto che siamo dinanzi ad un pezzo ben costruito, tanto da avvalersi il titolo di una delle tracce più riconoscibili e famose del nostro disco. Il pezzo fu ispirato da un party organizzato dal batterista della band, Abe Cunnigham, che in una maniera improvvisa si inventò una specie di ballo da eseguire rigorosamente con dei coltelli in mano. Nemmeno a dirlo, Chino stesso rimase colpito da tale bravata tant'è che ancora oggi ricorda questo fatto con simpatia, sorridendo dinnanzi alla scena surreale la quale vedeva appunto il suo amico barcamenarsi in una danza quanto meno estroversa e singolare. Gli accordi di apertura di "Knife Party" traslano in una atmosfera distorta gli ascoltatori, che vengono accarezzati da una linea di basso danzante e da un ponte vocale cantato dalla voce femminile ospite Rodleen Getsic, in uno stile spagnolo-arabo che aumenta il potenziale di affiatamento tra i due timbri vocali. Insomma, un mix di scorrevolezza racchiudente in sé un'anima determinata, possente in certi casi. Chino, circa questo pezzo, ha dopo tutto dichiarato quanto segue detto: "È una canzone seducente con molte immagini violente". La sezione centrale presenta vocals straordinarie offerti dalla già citata Rodleen, capace di istaurare un solido intreccio con i ben differenti vocalizzi del nostro Chino. La traccia apparentemente è scaturita da un episodio gioioso ma in realtà ha un significato estremamente delicato: tratta di violenza di natura sessuale, dove i coltelli rappresentano gli oggetti capaci di creare incorreggibili ferite, dove questa rabbia nel descrivere ciò fuoriesce quasi seguendo un istinto naturale. Quasi al termine del secondo minuto una schitarrata improvvisa di Carpenter ci avvisa che il pezzo cambierà marcia di lì a breve, il clima che già era etereo per l'aura creatasi diventa cento volte più sofferente con gli innesti di Rodleen (a mo' di soprano) scanditi da un beat lento e martellante di Cunnigham. Le urla malinconiche della nostra ospite sono intervallate da funesti agganci vocali da parte di Chino, che negli ultimi secondi battono il chorus e con lui la conclusione. Insomma, la dichiarazione del frontman circa la duplice natura del brano ha alla fine il suo perché di esistere. Un brano che certamente riesce a fare un ottimo uso della melodia, ma contemporaneamente descrive storie abbastanza forti, di violenza ed abusi, raccontandocele in maniera schietta e decisamente diretta, senza fronzoli alcuni.

Korea
Il livello interpretativo dei brani dei nostri, a differenza del valore tecnico (cresciuto con l'esperienza) non è mai variato, siamo sempre messi dinnanzi a testi ostici ed a dir poco criptici; oserei definirli addirittura funambolici, per quanto sia estrosa la capacità di scrittura del gruppo, sempre abile nel destreggiarsi fra versi oscuri e mai troppo chiari o comunque espliciti a livello di reale significato. Proprio in virtù di queste importanti qualità, anche "White Pony", quindi e come i primi due album risulta vaporoso e multiforme, tant'è che ancora oggi sono messe indubbio le reali intenzioni messaggistiche del disco. Difatti, la successiva "Korea", come abbiamo detto agli inizi sembrerebbe orientarsi verso i temi riguardanti l'uso di sostanze stupefacenti. Tra l'altro la traccia in questione fu una delle prime se non la prima che Chino si impegnò ad orchestrare sia liricamente che musicalmente. Il testo di "Korea" potrebbe riferirsi anche ad una patologia chiamata "chorea", malattia del sistema nervoso, definita come "patologia caratterizzata da movimenti sconnessi e involontari, principalmente del viso e delle estremità". Quindi, il duplice significato del brano potrebbe essere rappresentato appunto da una malattia cerebrale dovuta al consumo di cocaina, abuso che via via porta a perdere le proprie facoltà cognitive. Tuttavia, questa è solo una punta dell'iceberg, poiché il livello di interpretazione, di questo e altri testi, si allontana abbastanza dall'oggettività, come già ci hanno abituato i nostri.Tralasciando gli aspetti esplicativi di natura testuale, il nostro pezzo è battezzato da un riffing perpetuo e virtuoso, elevato a tale livello tanto da aprire le danze per l'entrata sul palcoscenico del nostro attore principale, Chino, che con la sua solita modulazione vocale aumenta il livello qualitativo dell'insieme. Quest'ultimo cresce drasticamente di pari passo con la temperatura generale del pezzo, la quale si eleva ogni secondo che passa: in particolare è da sottolineare l'ossessività del chorus, "Night time, cavity, come in/Downtown, pony, work yourpitch", tagliente e lancinante. Verso gli sgoccioli del primo minuto, improvvisamente il beat di Cunnigham (sempre presente in precedenza) scompare per circa quindici secondi, rendendo protagonista sia la sei corde che i sospirati espressivi del nostro singer. Tutto questo fino a che il ritmo decadente degli inizi riprende il timone e con loro degli scream inaspettati, dando pepe alla nostra traccia, chiudendo il tutto nella maniera aggressiva alla Deftones.

Passenger
La decima traccia di "White Pony" è un altro brano enigmatico e mostruosamente riuscito nelle sue intenzioni, un pezzo che possiamo definire onirico e malinconico nella sua struttura. La critica difatti accolse questa particolare "Passenger (Passeggero)" come uno dei brani pilastro del nostro album, sebbene non sia successivamente stato il prescelto per essere lanciato come singolo promozionale. L'enorme successo che ebbe fu inevitabilmente dovuto alla presenza di un musicista, paroliere soprattutto di una voce cardine degli anni '90, Maynard James Keenan, frontman di una band rivoluzionaria e stilisticamente unica come i Tool. La presenza di Maynard funge quindi da amplificatore emozionale, dato che i suoi vocalizzi uniti a quelli stratosferici di Chino il Nostro riesce nell'impresa di rendere "Passenger" una track decisamente unica, intensa e marchiata da un timbro di qualità eccelsa. Chino, a proposito delle intenzioni liriche del brano, disse: "I did this song with Maynard from Tool. Basically, I told him I wanted to create a scenario of being in a car and being taken for a drive when you don't really know what's going on. I wanted him to create a lot of imagery. He wrote a majority of the of the lyrics and left blanks for me to fill in. It seems like you're being held captive, but enjoy what's going on"(Ho scritto questa canzone con Maynard dei Tool. In pratica, gli ho detto che volevo creare uno scenario simile all'essere in una macchina, guidando, pur non sapendo dove andare. Volevo che lui creasse molte immagini, e per questo ha scritto la maggior parte delle parole ed ha lasciato pochi spazi vuoti, che poi ho riempito. Sembra che tu sia tenuto prigioniero, ma comunque divertito per quello che sta succedendo". Proprio da queste dichiarazioni possiamo dunque ben comprendere le sostanziali intenzioni dei nostri: creare una situazione oscura e artificiosa in cui ognuno di noi viene bendato e catapultato metaforicamente in una esperienza decisamente particolare, ed è appunto l'esperienza il tema centrale della nostra traccia. Può trattare di qualcuno completamente sotto il controllo di altri, ma nonostante questo la persona ama l'esperienza e non vuole che finisca. Gli donano cose che sembrano buone, ma non hanno necessariamente valore reale ("chrome buttons", pulsanti di cromo, ecc.). Il brano è architettato proprio come il senso che scaturisce da quanto il testo comunica: sin dai primi secondi degli strani suoni di "tooliana" memoria iniziano ad avvolgerci molto timidamente quasi ad avvisarci caldamente del brano che ci accostiamo ad assaporare. Ci troviamo in una macchina, al sicuro, ma stranamente dopo alcuni secondi veniamo gettati verso un'esperienza del tutto inaspettata; nonostante ciò non ci spaventiamo e continuiamo ad osservare che cosa potrebbe succedere. Dopo circa trenta secondi ecco intervenire le succose pelli di Cunnigham, calibrate al metronomo, scandenti i sospiri posti in lontananza del nostro Chino i quali si agganciano sinuosamente con le vocals di Maynard. In questo brano c'è una capacità immensa da parte dei nostri di alternarsi all'unisono, poiché risulterebbe ovvio che uno dei due vorrebbe avere una supremazia vocale. Nonostante tutto, non è il nostro caso. Le due voci sebbene molto diverse per tonalità ed estensione riescono ad incastrarsi alla perfezione. L'impronta della band madre di Maynard risulta oggettivamente riconoscibile, poichè notare il sound dei Tool (per esempio nelle parti basse di Maynard nella sezione centrale) è sinonimo di una peculiarità assolutamente stratosferica. La procedura lenta del brano è interrotta da un riff di Carpenter che spezza l'atmosfera creatasi, rafforzando la base del chorus decisamente accattivante: quel "I'm your passenger" ripetuto per ben due volte rimarrà per sempre nel nostro cervello. Di cambi di tempo ce ne sono pochi, ce n'è uno in particolare verso i battiti finali che dà una diversa colorazione attraverso un gioco di corde allucinante accompagnato da linee di basso importanti, istaurando un clima onirico dove si inseriscono Chino e dopo alcuni secondi Maynard, che chiudono il sipario della nostra meravigliosa "Passenger".

Change (The House Of Files)
Di canzoni-emblema nel "pony bianco" ce ne sono a bizzeffe, e proprio da questo si comprende il peso del nostro platter. Pezzi che quasi tutti sono marchiati da una diversità di sound, tesi a dimostrare la malleabilità dei nostri ma che in fondo nascondono dietro lo stesso intento, ossia quello di affascinare l'ascoltatore: infatti, nella prossima track, "Change (The House Of Files)" (che tra l'altro fu il primo singolo di lancio del nostro disco), pressappoco proveremo un senso di assoluto fascino dovuto ovviamente alla bellezza del suddetto brano. Decadente e nostalgico ma allo stesso tempo fragoroso e esplosivo, la nostra nona traccia è una summa esplicativa di tante emozioni. Si percepisce sin dall'inizio, quando siamo posti in un'atmosfera filtrata come la voce di Chino, che bisticcia con il sound solido delle pelli di Cunnigham fino all'incidere del chorus, creando una situazione a prova di bomba, dove la voce del nostro (e in territorio live, lui con migliaia di fan) esplode letteralmente costruendo un alchimia imprescindibile. In fondo, l'intento di un pezzo di una qualsiasi band è creare una ragnatela emozionale col pubblico che nessuno si deve permettersi di disciogliere, e "Change..." riesce alla grande a superare questo scoglio. Il pezzo come è percettibile dal titolo parla di cambiamento inteso come una cosa positiva, nonostante l'aura quasi negativa che si può percepire udendo i vocalizzi di Chino i quali (nella parte centrale del pezzo) raggiungono appunto livelli nostalgici. Dopo aver assimilato bene il ritornello ecco un cambiamento inaspettato del brano, dove assistiamo al solito eccellente cantato filtrato, intervallato da tocchi forti e decisi di batteria che scandiscono questi insoliti minuti, e per accentuare il tutto abbiamo la sensazione di trovarci inseriti in un clima serrato e cupo, dalle sane reminiscenze new-wave, improvvisamente storpiato dal riffone di Carpenter introduttivo al chorus che crea il sound tipico di casa Deftones. Il nostro pezzo si conclude con validissimi giochi di abilità sia vocale sia strumentale, con note sia di basso che di chitarra raggiungenti una soglia elevata di qualità.

Pink Maggit
Siamo quasi giunti alla conclusione di questa lunga cavalcata fatta in groppa al nostro pony dal color bianco accecante, brillante come la personalità che trasuda in ogni singolo pezzo della terza uscita discografica dei nostri californiani. Ovviamente la conclusione non è rappresentata un pezzo scolorito, concepito giusto per, anzi: la chiusura è ornata grazie alla presenza di un pezzone atmosferico, "Pink Maggit" risulta quasi inusuale dato che è un'impresa da trovare nella discografia dei Deftones una traccia pesante e ossessivamente lancinante come questa. "Pink Maggit" è un lungo viaggio, un'esperienza tortuosa che inizia come una cavalcata psichedelica la quale ha per basi un materasso bello spesso denso di atmosfera rasentante il drone con ovvi tocchi di natura elettronica, responsabili di creare solide vibrazioni sulle quali si erge la voce suggestiva di Chino Moreno. Il chorus non è una novità poiché già lo abbiamo incontrato nella traccia di apertura del nostro platter, "Back To School", e ben conosciamo le cause che hanno portato a creare quest'ultima. A circa metà del pezzo, giunti all'apice della progressione in cui le distorsioni fanno il loro ingresso, un urlo improvviso viene filtrato ed allungato, dopo di che la cavalcata si trasforma in un pezzo emotivo e rabbioso, con le chitarre ed il basso tirati al massimo. Il tutto accompagnato dal groove magistrale del nostro Abe Cunnnigham con il cantato ibrido di Chino, capace di avvicendarsi verso più registri tonali: dal cantato "parlato" dei primi secondi fino a rappate furiose, passando per scream improvvisi di matrice drone posti in background, i quali senza alcun dubbio gettano benzina sul fuoco e contribuiscono nel rendere tale traccia un'assoluta battaglia interiore. Una palude sonora ricolma di rovi e spine capaci di farti piombare nel terreno più claustrofobico, situato solo nel peggiore dei tuoi incubi. Quasi vi troverete come soffocati da queste assordanti e surreali atmosfere che tessono una tela di introspezione. Ma in tutto questo fervore adrenalinico dovuto alla particolarità della traccia c'è un piccolo spiraglio di speranza, che quasi silenziosamente ci tiene la mano come da assicurarci. "Pink Maggit" è solo una delle tante facce del poliedro Deftones, il quale non smette mai di sorprenderci sfornando pezzi che spaziano verso le linee sperimentali più geniali e disparate possibili. Un ottimo bocconcino per concludere in bellezza questo ammaliante viaggio.

Conclusioni
Come considerare "White Pony" se non un disco seminale nelle sue strutture e nelle sue composizioni, ispirato al massimo e ricco di iniziativa. I Deftones hanno osato, gettando il cuore oltre l'ostacolo; dato che è sempre bene tenere presente il contesto nel quale il nostro pony si ritrovava a cavalcare, la strada / il sentiero più impervio che ci sia: superare le attese e le aspirazioni dei fan, anche dopo il successone del precedente "Around The Fur". Non era affatto semplice bissare un successo di tale portata, generando quasi in automatico un nuovo capolavoro dai tratti fisici ancor più estroversi e particolari dell'illustrissimo predecessore. Se difatti cataloghiamo come "disco della svolta" quest'ultimo, possiamo tranquillamente definire il raggiante Pony Bianco come la consacrazione definitiva, sotto tutti i punti di vista. Proprio per questo, è letteralmente complicato se non addirittura impossibile trovare un neo a questo platter, un difetto seppur lieve, appena accennato. Ogni traccia è orchestrata in una maniera molto personale, incisiva e accattivante, capace proprio per questo ed indubbiamente di accendere dentro di noi una funesta curiosità nelle ascoltare il resto tutto d'un fiato, per scoprire cosa si celerà mai successivamente, brano dopo brano, nota dopo nota, secondo dopo secondo. Dalla pomposa "Digital Bath" all'aggressiva "Elite" passando per il marchio di fabbrica "Change (The House Of Files)", possiamo ben dire che da ogni track fuoriesce, anzi straborda carattere. Tanto carattere, coraggio, inventiva. Tante capacità tese a dimostrare il fervore battagliero dei nostri quattro ragazzi, i quali hanno compiuto ancora una volta un'impresa vera e propria dimostrando di sapersi realizzare anche dopo aver consegnato una perla del panorama alternativo come il precedente disco. A volte, l'utilizzo eccessivo di una buona produzione è sinonimo di strafottenza, indice del voler apparire a tutti i costi, creando un disco che nasconde una natura plastica... non questa volta; no, amici lettori, non è proprio (fortunatamente!) il nostro caso: il pony bianco è si ben prodotto, ma questa perizia ed attenzione al dettaglio non possono assolutamente assurgere a punti negativi, poiché dietro di sé il platter quest'oggi analizzato cela sempre quello spirito primordiale, quella stravaganza ingenua, punto cardine per il progetto Deftones, ben curata e lasciata integra dal "talent scout" Terry Date, il quale poteva festeggiare ancora una volta un successo più che ottenuto. Erano passati solo tre anni, in fondo, tre anni di tour mondiali, in cui i nostri hanno visto in prima persona cosa significhi avere successo. Con grande eleganza hanno saputo ammaestrarlo, allontanando le ombre dell'eccesso. Il clima quindi si era giustamente incendiato per i tanti impegni, pur non fermando tutto questo la voglia dei Deftones di costruire un disco di qualità superiore. Disco che senza dubbio ancora oggi crea forti emozioni e intime sensazioni. Riascoltandolo ne fuoriesce come da copione una perfetta calibrazione di diversi suoni provenienti da estrazioni radicalmente differenti, e a differenza delle prime due release qui abbiamo quel tocco in più di ispirazione che ovviamente va a giovare generalmente a tutto. Detto ciò, per il nu-metal "White Pony" è stato un disco di fondamentale importanza, poiché lo sappiamo per certo, questo lavoro ha fatto appassionare a questa band anche i fan del metallo old school; proprio coloro i quali sicuramente drizzavano e drizzano ancor'oggi le antenne solo a sentir nominare questo odiato genere. Un disco, quindi, totalmente riuscito nelle sue intenzioni. Mi duole dire che i Deftones dopo questo capolavoro e la ovvia legittimazione a livello mondiale non riusciranno più a tornare a questi livelli eccelsi... ma questa, come si suol dire, è un'altra storia. Quella che abbiamo narrato, dopo tutto, è solo la prima parte dei un'epopea che fra alti e bassi è sempre riuscita a risultare vincente, nonostante tutto e tutti. In qualsiasi modo, in qualsiasi periodo, i californiani hanno saputo stupire. Lo sanno fare tutt'oggi, a distanza di anni ed anni. Proprio perché la magia di "White Pony" è ben lungi dallo smarrirsi, dal perdere di valore. Forse, un disco ancora più avanti di tante altre release, rintanante dentro di sé lo spirito guerriero e genuino di chi vuol far musica prima di tutto per dar voce alla propria interiorità, e solo successivamente per ottenere consensi.

2) Feiticeria
3) Digital Bath
4) Elite
5) Rx-Queen
6) Street Carp
7) Teenager
8) Knife Party
9) Korea
10) Passenger
11) Change (The House Of Files)
12) Pink Maggit


