DEFTONES
Saturday Night Wrist
2006 - Maverick Records

GIANCARLO PACELLI
14/12/2017











Introduzione Recensione
Sebbene ufficiosamente considerati i portabandiera di un intero sottogenere musicale che ha delineato le regole del mainstream americano di fine anni '90, i Deftones si sono sempre discostati da questa tipologia di sound, che ha marchiato a fuoco miriade di bands le quali vedevano i loro idoli proprio nei quattro ragazzi di Sacramento (California). Come per tutte le tendenze e mode musicali, però, arriva quel fatidico momento in cui l'interesse mediatico scende, l'ispirazione cala picco assieme alla voglia degli stessi musicisti; consapevoli del fatto che a volte è necessario cambiare aria attraverso l'apertura ad altre esperienze, in modo da spalancare la mente verso nuovi orizzonti musicali. Siamo nel 2006, e prima che i Deftones dopo ben tre anni tornassero in studio per un nuovo album contorniato da una grossa incognita, assistiamo a stravolgimenti importanti per molti gruppi che col nu metal avevano raggiunto il successo. I Korn, dopo la dipartita con lo storico chitarrista e cofondatore Brian "Head" Welch, vedevano dare alle stampe un criticatissimo disco, See You on the Other Side, platter accolto amaramente dal mercato discografico statunitense. Inutile affermare quanto tale situazione quasi simboleggiasse un serio tracollo dal punto di vista strettamente artistico dell'agognato stile. Prendere i nu-metallers di Bakersfield (California) come esempio è altamente necessario, dato che furono praticamene loro ad aprire la scena quasi un decennio prima. Quindi, un inaridimento artistico da parte dei Korn presupponeva senza ombra di dubbio quanto il movimento intero si ritrovasse immerso in una grossa crisi. Crisi che si percepiva quasi in una maniera altisonante: non siamo più nel 1997, quando vi era la stretta necessità di spronare le masse giovanili al cambiamento; quella rabbia di fondo che contraddistingueva i testi ormai se ne stava andando in una maniera così rapida tanto da essere sfuggita di mano anche agli stessi gruppi. Ma in tutto questo vortice di situazioni e complicazioni, una delle band punta della scena stava tentando, sebbene in linee molto morbide, di riacquistare quella potenza natia che li aveva folgorati quando erano solo che ragazzini. Sono passati ben tre anni da quel bel disco che fu l'omonimo ("Deftones", 2003), platter che assicurò al combo americano una fama incontrastata, arricchita anche da quella solidità di fondo dal punto di vista della line-up. Una compagine estremamente permanente nonostante il passare degli anni. I Nostri, in questi funesti anni, non se la passano certamente alla grande, anzi. Si trovavano stravolti anche dal punto di vista manageriale dato che da Terry Date passarono a ben due produttori: Shaun Lopez, singer dei concittadini Far e Bob Ezrin, nome noto per aver collaborato coi Pink Floyd (produttore di un concept epocale come "The Wall" e il suo zampino è presente anche nell'ultimo disco ufficiale dei britannici, "The Endless River" del 2014). Tutti questi cambiamenti "logistici" stavano a confermare che ormai i tempi di "White Pony"e di "Around The Fur" erano solo un lontanissimo miraggio, anche se le capacità dei nostri di destreggiarsi attraverso prove sempre di ottimo livello erano sempre vivide e calde. I Deftones sono un caso veramente unico, sin dall'inizio sono sempre stati furbi come volpi nel plasmare un sound che abbracciava all'interno delle sue corde migliaia di influenze, sempre gestite con tanta maestria. Insomma, i Nostri californiani erano ovviamente tanto abituati a stare sotto pressione anche se in questo specifico caso proprio le elevate responsabilità che comportava questa situazione andarono a minare la resa artistico/musicale finale. "Saturday Night Wrist", oltre ad essere l'ultimo album in studio registrato con il bassista Chi Cheng (coinvolto in un serio incidente automobilistico nel 2008 che lo ridusse dapprima in coma e successivamente lo portò alla morte cinque anni più tardi) è una prova che ancora oggi desta incognite da parte sia dei fans che degli addetti ai lavori. Un platter da prendere con le dovute accortezze, poiché siamo totalmente consapevoli del clima rovente in cui quest'ultimo si colloca. Meglio non perderci in ulteriori indugi, dato che non vediamo l'ora di immergerci in questa nuova proposta di Chino & co. Partiamo quindi alla scoperta di questo disco così discusso, indubbiamente erede di una scena in sé stravolta e cominciante ad accusare i colpi della fugacità del tempo, di come questo possa creare e nel giro di poco distruggere senza alcuna pietà. Buona lettura!

Hole in the heart
Un suono compresso e distorto, quasi a disegnare il momento delicato in cui siamo sottoposti... e già siamo immersi dentro la traccia di apertura, nonché primo singolo di questo "Saturday Night Wrist". Infatti, già semplicemente scandendo le tre parole che abbiamo di fronte, capiamo quanto "Hole in the heart" (buco nel cuore) stia forse a rappresentare metaforicamente l'intero panorama apocalittico in cui ci stiamo addentrando. Il periodo è difficile e non è certo una novità: a detta dello stesso frontman, difatti, questo primo singolo rifletteva l'intera amarezza nel comporre questo disco. Ricordiamoci che questo momento storico era per il genere veramente astruso, bastava un minimo problema e subito si rompeva quella tranquillità (seppur già debole in sé) creatasi con tanta fatica ed anni di sacrifici. L'intruglio di note iniziale a cui abbiamo accennato pocanzi viene potenziato dall'innesto improvviso del groove tentacolare di Abe Cunnigham, che colora il tutto grazie alla sua degna articolazione. E esattamente verso la metà del primo minuto, diamo il ben ritornato al nostro Chino che riesce come un ghepardo ad inalberarsi tra i riff ricolmi di pathos. È giusto ricordare come la voce del nostro frontmen, rispetto agli anni passati, abbia acquistato ancora più espressività soprattutto grazie ai suoi Team Sleep (side-project del 2005 che lo vedeva alle prese con un sound ricco di sfumature post-rock e dream pop). La melodia agli inizi ricopre delicatamente ogni nota, le quali sono dolci carezze che non possono non creare un giusto carico emotivo. Emotività che è accompagnata stranamente dall'ascia di Stephen Carpenter, la quale nella sua brillantezza esecutiva non distoglie il nostro udito nei confronti delle vocals attrattive di Chino. "Hole in the heart", grazie alla predominanza di un guitar working meno tagliente del solito, procede nella maniera giusta verso un binario già prestabilito. Ma ad un tratto, ecco il colpo di scena: un cambio improvviso di tempo orchestrato da un drumming pesante smorza il resto e in questo tifone Chino non poteva non sfruttare al massimo le sue astute corde vocali, lanciandosi in un urlo bello pesante il quale introduce successivamente un gioco strumentale, responsabile della chiusura di questa prima traccia.

Rapture
La successiva "Rapture" (Rapimento) inizia a colorare l'atmosfera di questo "Saturday Night Wrist" grazie ad un ritmo incalzante ben scandito dalle pelli, decisamente ferrato, che crea i solchi per la voce di Moreno, la quale si evolve al limite di uno screaming non tanto esagerato bensì ampiamente "quadrato" nella sua compostezza. La quantità di note espressivamente decadenti ci fa intendere quanto il solco lirico non sia poi molto diverso dalla precedente track, anzi: il pathos, che abbiamo già cercato di percepire in "Hole In The Earth", come vedremo, ci accompagnerà in tutti i tre minuti scarsi del pezzo. Un altro brano che dunque pone alle sue basi una sorta di "smarrimento" e di confusione generale, cercando di venire a capo di una situazione complicata. Siamo come "rapiti" da qualcuno o qualcosa, non riusciamo nemmeno a capire per bene cosa ci abbia privati della libertà; in balia di una tempesta, di un vento capace di spazzare via tutto e tutti. Confusione e amarezza si aggrovigliano formulando un complesso nodo emozionale che come una molla ci fa sobbalza, sia fisicamente sia nella nostra mente. Se nei primi minuti assistiamo ad un notevole e marcato lavoro di riffing, il quale non ha grossi problemi ad incastonarsi alla perfezione con il restante comparto tecnico, il brano cambia passo verso la fine del ventesimo secondo. La voce di Chino si avvicina alle nostre orecchie, come se ci volesse dire qualcosa che lo sta smuovendo internamente, vuole disperatamente il nostro aiuto. La chitarra in questi frangenti dà più spazio ai colpi potenti di Cunnigham e ai timidi accordi di basso di Chi Cheng, il cui lavoro alla seconda ascia è favorito grazie ad una produzione più "secca" rispetto alle precedenti release della band. Dopo questo breve intermezzo leggermente melodico, il clima serrato degli inizi torna all'attacco, l'anima battagliera dei Deftones è alla rivalsa: le urla impestate e equilibrate di Chino rompono tutto e tutti, e ovviamente la chitarra di Carpenter aumenta di tono scaricando riff su riff incisivi e letali per correre dietro a quell'ugola tanto preziosa. Dopo una breve ripresa marcatamente melodica verso la via del secondo minuto, il sound dei nostri, divenuto ormai un marchio di qualità di origine protetta, torna a sopraffarci con una calda coperta ricamata con riff e i virtuosismi alla tastiera di Frank Delgado, ormai divenuto perno centrale per la resa stilistica dei nostri californiani.

Beware
A detta del chitarrista dei Deftones, Stephen Carpenter: il nostro disco in principio non doveva chiamarsi "Saturday Night Wrist" ma Beware The Water. E proprio tale riga è il perno centrale della terza traccia collezionata dai nostri, intitolata appunto "Beware" (diffidare). Quest'ultimo può essere tranquillamente definito come il pezzo migliore del disco, non solo per la potenza che lo contraddistingue, ma anche per la forte orecchiabilità con cui è stati concepito; inutile negarlo, un espediente che ai fini discografici conta, ed anche molto. Due pizzicate di chitarra appena accennate danno il via al pezzo, sin dagli inizi - come i Nostri ci hanno oramai abituato - il mare si presenta tranquillo, la voce calda di Chino è meravigliosamente accompagnata dalle tastiere di Delgado, le quali come sempre riescono nell'intento di rendere ancora più epico e trascendentale il sound dei californiani. Non si può non sottolineare un inizio strepitoso del nostro performer, la cui morbidezza, che si sopraeleva in ogni nota scagliata, rasenta la meraviglia per le orecchie di noi impavidi ascoltatori. La serenità dei primi secondi viene leggermente interrotta con un cambio dei toni di chitarra, la distorsione sembra sopraffare il bel clima distensivo da poco formatosi: un leggero crescendo condisce di vocals e basso, facendo modo di farci raggiungere il fatidico momento del chorus, in cui la voce del frontman esplode letteralmente, incidendo acuti meravigliosi a cui si raccordano strascichi ansimanti, che oramai fanno parte del suo ampio bagaglio tonale. Dopo una ripresa dei toni iniziali, verso la metà del secondo minuto, il riffing di Carpenter aumenta di colore tant'è che diventa un tutt'uno con le urla ansimanti di Chino, le quali si scatenano all'impazzata nel ripetersi del magnetico ritornello. Questa è l'ultima testimonianza vocale del nostro, dato che il finale si presenta alle nostre orecchie altamente corrosivo. Il cuore ritmico dei Deftones di pochi anni prima sembra ripetersi. Basso, chitarra e soprattutto ampi colpi di cassa rendono la conclusione di "Beware" veramente appetitosa. Dunque "stiamo attenti". Diffidiamo, così come il titolo originale del disco ci invitava a fare. E non è un caso che i Deftones abbiano scelto esattamente l'acqua, come elemento maggiormente "dubbioso". Pensiamoci: l'acqua, il mare, le onde... un panorama bellissimo quanto insidioso. Non sappiamo cosa nascondano le profondità marine o lacustri, non potremo mai saperlo con certezza. In acqua possiamo star bene quanto male, possiamo divertirci quanto rischiare di affogare. Bella e all'apparenza fragile, spietata quando serve. Insomma, "diffidare". Non prendere mai nulla "per buono", anzi anteporre la propria diffidenza per cercare di salvarsi la vita, migliorando un possibile quanto nero futuro.

Cherry Waves
Ampi respiri di rimembranza psichedelica arricchiti da una batteria appena accennata scandiscono le prime dolci note della traccia numero quattro del tanto chiacchierato quinto album in studio dei nostri. Cunnigham, dopo aver iniziato solo a graffiare il suo pellame, pone le basi ritmiche affinché Chino entri in scena con una eleganza sopraffina. "Cherry Waves" (Oceano di ciliegie) tratta presumibilmente di sentimenti a sfondo amoroso, e di Deftones sono riusciti con maestria ad attingere da un sound prettamente ispirato al Goth Rock degli anni ottanta. Proprio il nostro il nostro frontman ci spiega il motivo che di fatti lo ha definitivamente mosso nello scrivere questa traccia, in un'intervista rilasciata pochi giorni dopo la release del disco. "This is a story about being in the middle of the ocean with someone saying, 'If you were to sink underneath the waves, then I'd swim after you. Would you do the same for me?.It's seeing how far the trust goes" (Questa storia narra dell'essere immersi nel mezzo dell'oceano, con qualcuno che ti dice: 'Se dovessi affondare sotto le onde, allora mi piacerebbe nuotare dopo di te - per salvarti -. Faresti lo stesso per me?' Proprio per vedere fino a che punto la fiducia reciproca può spingersi). Chino, in queste due righe, ha detto espressamente cosa vuole far capire con questa traccia: la fiducia in amore la cosa più importante, il fidarsi dell'altro, accettando tutti i difetti di questo mondo perché assolutamente non limitanti od inficianti, è alla base di tutto. Tornando alla peculiarità del sound, notiamo che agli inizi Chino e la sua leggiadria vengono interrotte al termine del primo minuto quando, grazie ad un riff deciso di Carpenter, il nostro spara un acuto dei suoi appiattendo il sound angelico che si stava formando. Quel "Would you?/Would you?(Vorresti?Vorresti?)" ti entra necessariamente sottopelle. I toni ritmici iniziali riprendono quota, le due asce equlibrate si aggrovigliano alla perfezione trasformandosi in un tutt'uno con le pelli che da qui in poi aumenteranno di elasticità. Il chorus ammaliante dà una nuova forza al brano, ma un cambio di tempo inaspettato provoca un'accelerazione di marcia improvvisa e decisiva: la sei corde di Carpenter diventa più aggressiva assieme al basso di Chi Cheng, ottimo nello stargli dietro. Moreno rimane astuto come una volpe a non calare vocalmente, riuscendo ottimamente ad innestare dei vocalizzi coerenti nei toni vocali, sia in pulito che negli scream che proseguono fino alla conclusione (da considerarsi come un flashback degli inizi). "Cherry Waves" si presenta un pezzo ben riuscito, in cui emerge per l'ennesima volta la qualità dei nostri di creare sinfonie e melodie di gran gusto.

Mein
Se "Hole In The Heart" era stata una scelta eccellente come primo singolo, il secondo non è certamente da meno. "Mein" (mio, in tedesco) fu rilasciata il 13 Marzo 2007 e vede tra le sue file, in veste non solo di seconda voce, ma anche in sede di scrittura come un valente autore, un amico di Chino, Serj Tankian; frontman di una band fondamentale per il metal alternativo, i System Of A Down. Come disse Serj in un'intervista per Reddit (pochi giorni dopo la release del singolo), quando ricevette dai Deftones la proposta di collaborare assieme, non ci pensò neanche due volte e subito, due secondi dopo, accettò la richiesta dei nu-metallers californiani, forti della grande amicizia che c'era (e ancora c'è) tra di loro e il cantante/polistrumentista armeno-americano. Due frontman e due stili vocali certamente diversi, ma in fondo si può notare una similitudine soprattutto dal punto di vista attitudinale. "Mein" parte col botto, come un treno, con la batteria di Cunnigham capace di pestare peggio di un fabbro al lavoro con martello ed incudine; e proprio in questo frangente Chino si aggancia magistralmente, diventando complice del sound terremotante appena creatosi, scandendo come frecce note eloquenti e sublimi. Le corde di Carpenter, nonostante la copertura provocata dalla voce serrata di Chino, riescono comunque ad essere incisive nella loro quadratura sempre ottimale. La traccia rasenta una leggera monotonia nei suoni, le armonie vocali del nostro sono abbastanza piatte aggravate dal fatto che sono presenti pochi cambi di ritmo. Ma quando meno ce lo aspettiamo, ecco fuoriuscire il coniglio dal cilindro dei Deftones: Tankian interviene spudoratamente dando una nuova linfa al pezzo, un nuovo schema ritmico reso tale primariamente grazie al suo cantato tipico basso, che lo ha reso uno dei migliori frontman ad inizio degli anni 2000. Dopo questo intervento di Serj, Chino riprende il timone vocale chiudendo questa traccia dopo alcune note potenti, finali di Serj che sicuramente alzano il livello conclusivo. "Mein" rimane una traccia molto orecchiabile e godibile, dove sicuramente non notiamo venature ritmiche di colossale importanza. Anche se, nella sua semplicità, risulta per noi ascoltatori una track ben riuscita.

U, U, D, D, L, R, L, R, A, B, Select, Start
I Deftones non potevano non inserire una traccia rigorosamente strumentale dalla durata di quattro minuti abbondanti, per alleggerire la pesantezza che a tratti assume questa prima parte del disco. Ritmiche decadenti cingolate dagli strumenti poco accelerati ma comunque incisivi nella loro compostezza. Colpi di un suoni assimilabili ad una campana danno il via a questa stranissima traccia, come già ben percettibile dal titolo stesso. "U, U, D, D, L, R, L, R, A, B, Select, Start", il titolo di questa traccia, fa riferimento diretto al "Codice Konami", un codice segreto frequentemente utilizzato in terra giapponese in molti videogiochi della nota industria videoludica, ma anche in giochi non Konami. La traccia (l'unica nella storia dei nostri ad essere solamente strumentale) corre spedita, non tocca punti né di virtuosismo né tanto meno ci presenta chissà quali grandi passaggi chitarristici (ricordiamo che alla chitarra solista abbiamo il nostro Chino), mentre la batteria punta soltanto alla creazione di una giusta atmosfera a cui si riallacceranno gli altri brani di "Saturday Night Wrist".

Xerces Blue
La prima farfalla dichiarata estinta è stata la "Xerces Blue", che un tempo svolazzava per i cieli della baia di San Francisco (California). L'ultimo esemplare è stato segnalato nel 1941 ed ora ne restano solamente alcuni, "spillati" in qualche museo. Da allora, sono state tante le specie che hanno seguito il destino dell'insetto californiano, e dagli anni '40 in poi questo sfortunato essere ha iniziato quasi a simboleggiare la fine di un qualcosa, di un ciclo iniziato. "Xerces", settimo tassello del disco, si orienta su queste tematiche: Chino con questa similitudine aveva l'intenzione di rappresentare allegoricamente la morte in tutte le sue forme e ciò che ne consegue. Il piano, nei primi secondi di questo pezzo, domina assieme al pellame toccato con una gran dolcezza da Abe Cunnigham. Dolcezza proposta anche dalle vocals di Chino, soffuse e delicate, che quasi scherzano gioiosamente con le linee di basso di Chi Cheng che finalmente assumono toni decisamente potenti tanto da tessere deliziose situazioni ricolme di una forse eccessiva vaporosità. Eppure, in tutto questo marasma, Carpenter fa sempre la sua strabiliante figura, il suo ruolo di accompagnatore ai vocalizzi del nostro Chino è sempre di un certo rilievo. "Xerces" pecca forse per la decisa monotonia nel ritmo, ma comunque si tratta di una scelta decisa e condivisa, dato che erano e sono tutt'oggi chiare come la luce del sole - in fase soprattutto di scrittura - le influenze dello shoegaze, le quali si fanno sentire molto rendendo l'insieme altamente monocorde, sia per quel che riguarda l'impasto dei riff sia per il suono generale, sia per quel che concerne le armonie le quali assumono caratteri "sognanti" a cui i Deftones (a lume di memoria) sono devoti da anni. Nei suoi tre minuti e passa, "Xerces" ci fa notare poi un Frank Delgado veramente attivo e decisamente molto preso in considerazione, quasi a rappresentare la mera importanza del sound tastieristico nel turbinio sonoro proposto dai nostri quattro californiani.

Rats! Rats! Rats!
Intitolare un pezzo "Rats! Rats! Rats!" (Topi! Topi! Topi!)? Esattamente cosi, i titoli dei nostri sono sempre stati un'arma a doppio taglio, criptici e allo stesso tempo assolutamente "intelligenti" da un punto di vista interpretativo. Sin da "Adrenaline", è come se i Deftones volessero lasciare tabula rasa agli scalpitanti ascoltatori, curiosi nel conoscere gli intenti semantici di ogni traccia ma al contempo invitati a "far da soli", arrivandoci con la logica e soprattutto con la fantasia, due qualità in questo senso costrette ad andare a braccetto, benché sostanzialmente "antitetiche" alcune volte. Per intendere al meglio questo brano, con un titolo veramente particolare, c'è un aneddoto riguardante Stephen Carpenter, autore di questo pezzo. Il chitarrista impiegò mesi per dedicarsi alla stesura di questo brano, il quale prendeva spunto da un articolo, letto dallo stesso Stephen, riguardante la pazzia dell'attrice americana Frances Farmer, già nota in brani come "Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle" dei Nirvana. Il pezzo è ricolmo di aggressività sin da subito, agli inizi nemmeno uno spazio melodico venne espresso nell'eclettico sound. Riff precisi accompagnati da una batteria abbastanza pesante nei colpi di gran cassa fanno da contorno alle urla tanto demoniache quanto "rappate" di Chino, le quali i primi secondi affondano come coltellate tese a "bisticciare" con un rendimento sonoro che un po' fa storcere il naso. Dopo le prime strofe rigurgitate con estrema forza, una plettrata decisa di Carpenter introduce delle vocals che ora rasentano la morbidezza, dotate di estensioni angeliche che ormai sono solite per il nostro vocalist. Dopo questa breve parentesi il nuvolone sulfureo degli inizi riprende aggressivamente, e fa sì che l'intero comparto tecnico aumenti di ferocia. Questa forza è riflettuta verso gli strascichi finali del secondo minuto: note sparate al millimetro immerse in una nuova aurea cavernosa, il basso riacquista molta più incisività assieme al pellame gestito ottimamente dal sempre buono Cunnigham.

Pink Cellphone
Per dimostrare il fatto che Deftones non siano una band statica, bensì un'eclettica quanto astrusa compaginel scattante e mai banale, i nostri ci regalano una traccia che definire come semplicemente inusuale sarebbe un eufemismo; a dire poco. Alle vocals, come guest, abbiamo una singer classe 1981, Annie Summer Hardy, cantautrice e frontgirl di una buona realtà indie/alternative in attivo dal 2003, i losangelini Gian Drag, ai tempi ancora in fase di rodaggio. Questa track, "Pink Cellphone" (Cellulare Rosa) ci appare come una commistione intelligente di elettronica con un pizzico di sano groove. Spalmato lungo la durata di circa cinque minuti, questo pezzo prettamente di memoria Depechemodiana colpisce per l'ottimo clima di collaborazione creatosi tra le due voci, tese ad intrecciarsi in una maniera calde e avvolgente nonostante la freddezza spasmodica dei sintetizzatori. Stranamente, questo pezzo/esperimento ci è parso come un autentico preavviso per quel che accadrà con i Crosses (uno dei più importanti side project di Chino, dove il nostro metteva in pratica tutta la sua passione sfegatata per il gruppo di Dave Gahan). In conclusione, è un pezzo che ha la funzione di porsi come intermezzo, leggermente anonimo nella sua struttura nonostante il coraggio nel proporlo è da sottolineare al cento per cento. Non ci troviamo certo dinnanzi a chissà che capolavoro, il ritmo rimane più o meno lo stesso, sottolineando la forte "ripetitività" di fondo tipica di un'elettronica di largo consumo. Niente esperimenti nell'esperimento, insomma, ma taznt'è. "Pink Cellphone" è un brano che alla fine funziona e ci svela un lato particolarmente coraggioso dei nostri, intenti a lasciare a dir poco il segno a suon di trovate sui generis, quasi sfidando l'ascoltatore medio del Metal, da sempre assai restio ad avvicinarsi a suoni di tipo elettronico o comunque troppo "artefatto". Eppure, qualcosa stava cambiando, nell'aria; i Rammstein stavano prepotentemente venendo fuori così come molti altri gruppi prevalentemente "elettronici"... rifarsi a sonorità più "synth" non era quindi una blasfemia così marcata, all'epoca di uscita di questo platter.

Combat
Arriva quindi il turno di "Combat" (combattere), un titolo aggressivo e fuori le righe, spregiudicato e diretto verso la casta politica capitanata da George W. Bush. Presidente passato alla storia per diversi motivi, fra i quali un'aggressiva politica interventista nei riguardi della questione mediorientale. Gli anni della guerra in Iraq, dei contenziosi fra U.S.A. e Saddam Hussein, le armi chimiche o di distruzione di massa mai trovate; una faccenda "politica" insomma, un brano in cui i Deftones dimostravano una pasta insolita, dato che i nostri non hanno mai praticamente dimostrato di essere interessati a certi temi, nemmeno nei precedenti lavori. È una sorta di invito da parte di Chino a reagire nei confronti di quella classe dirigente. Difatti i primi secondi sono contorniati da voci confuse che sembrerebbero riprodurre un discorso dell'allora presidente degli Stati Uniti. "Combat" è una critica che i nostri compiono nei confronti di quel governo che in quel periodo, come già detto, non era propriamente ben visto da nessuno. Dopo un minuto e venti di caos inquietante dove si nota un crescendo "silenzioso", il pezzo incomincia ben ritmato con i colpi di batteria che fanno da colonna sonora. Tra un colpi di pelli e un altro si insinua con una leggera difficolta che poi verrà scacciata definitivamente Carpenter, e piano piano il clima comincia a surriscaldarsi, grazie alle eteree effusioni rappate di Chino. Il quale come sempre (e forse qui maggiormente) riesce a gestire le sue enormi capacita tonali, grazie ad una rapidità nel passare da note rap a lunghi modulazioni, le quali si oppongono agli screampur sempre presenti (sebbene a tratti in questo caso) nel registro del nostro. Combat è una traccia molto fluida, scorre molto bene anche grazie ad una distorsione meno effettata del solito che rende il sound generale molto appetibile. Il brano prosegue tra piccoli intervalli strumentali e la voce di Chino, protagonista assoluto in questa decima track del disco.

Kimdracula
La terra sui cui viviamo, su cui sono poste le nostre speranze e le incertezze, i nostri affidamenti e paure è la nostra più grande risorsa. "Kimdracula" si orienta proprio su questi propositi, su quanto l'uomo abbia infierito su questo pianeta tanto verde quando meraviglioso. La canzone parla di come noi (la nostra società) segua ambizioni cieche che hanno macchiato e oserei dire bruciato la terra con le sue ripercussioni. Tuttavia il nostro pianeta ci dimostrerà quanto siamo stati ciechi e incuranti con esso, mostrandoci quanto l'uomo con le proprie mani sappia essere crudele. Il penultimo pezzo del platter graffia le nostre orecchie grazie ad un intro di salsa alternativa, che si dimostra solito e abbastanza utile per gli agganci vocali di Chino, che strizza l'occhio a noi ascoltatori con un acuto veramente ben fatto. In avanti il pezzo si dimostra in alcune parti melodico e in altre verrà colorato da un riffing di base molto persistente. I really wish these snakes were your arms/ I, I really wish you'd make up your mind (Vorrei davvero che questi serpenti fossero le tue braccia/ Io, vorrei davvero che ti decidessi), dove i serpenti (secondo l'ottica di Moreno/Carpenter) incarnano le azioni velenose compiute da esseri umani come la deforestazione, la guerra, la violenza, l'odio ecc. Tuttavia queste caratteristiche costituiscono la natura stessa di ciò che significa essere umani, quindi sono irrevocabilmente complementari alla nostra specie, come le nostre braccia: dispensabili e allo stesso tempo essenzialmente necessari. Le ritmiche presenti in "Kimdracula" si dimostrano ben salde e quadrate mano mano che la track prosegue, grazie soprattutto anche al chorus che ha effetti benevoli, poiché arricchito da Chino e la sua potenza, che ci accompagna nei secondi finali in questo penultimo atto del quinto album in studio dei californiani.

Riviere
Il piatto finale proposto è una traccia inquadrata in uno sfondo atmosferico, in cui riecheggia la voce delicata di Chino il quale assorbe le linee delicatissime di basso con la chitarra di Carpenter, appena pizzicata. Proprio il nostro chitarrista verso la fine del primo minuto esatto ampia la distorsione del tutto dando brio a questa "Riviere". Quest'ultimatratta delle paure del nostro frontman, una sorta di autoanalisi personale. Chino, in una maniera quasi angelica, continua a sprigionare note al velluto. Sin da qui "Riviere", ultima traccia di "Saturday Night Wrist", assume contorni più "aggressivi" e alternativi, grazie ad un impasto di riff più deciso, creando cosi nelle nostre menti un flashback dei Deftones di un decennio fa; proprio quando i californiani, giovani e scapestrati, si affacciavano al mondo musicale. Verso la fine del terzo minuto abbondante interviene un effettata sterzata iniziata dalla chitarra, provocando cosi un ritorno alle ritmiche iniziali, che con la delicatezza dello scroscio di un fiume si aggancia vaporosamente alle vocals di Chino, le quali soffuse calano il sipario. Insomma un viaggio all'interno dell'introspezione del Nostro, mai troppo abituato a comporre liriche di facile comprensione. Un brano che dunque parla di lui in prima persona, ma potrebbe tranquillamente parlare di chiunque possa rivedersi in questo spaccato di vita, in questa piccola parentesi della quale Moreno ha voluto renderci partecipi. Personale e non, un comparto lirico adeguato a chiunque sappia cogliere, con sensibilità e capacità, ogni sfumatura presente nell'animo del cantante e del proprio, un viaggio introspettivo da compiere armati di pazienza e fortezza d'animo. Possiamo quindi sopravvivere alla sfida con noi stessi, guardandoci, non riconoscendoci e comprendendoci al contempo, stupendoci.

Conclusioni
C'è da dire che, arrivati alla fine di questa nuova avventura, quel che c'è da lodare è sicuramente la forte consapevolezza che questo platter trasuda. Una consapevolezza da inquadrare in più parti, un concetto che cercherò di spiegarvi meglio proprio ora, in fase di conclusione. Partiamo dal principio: i Deftones, quando marchiarono a fuoco il quinto tassello della propria carriera con la pubblicazione di questo incerto "Saturday Night Wrist", erano altamente consapevoli del peso che si portavano addosso, del circuito mediatico in cui si erano immessi; in quel periodo, la pressione di giornali e riviste specializzate stava diventando un tormento per questi ragazzi, certamente infastiditi dal clima di tensione instauratosi ma dotati di schiene e spalle decisamente più robuste della norma. Il nu metal, come già abbiamo spiegato nell'introduzione, era a rischio. Vittima di un parziale crack di credibilità, l'intero movimento doveva essere salvato dai suoi alfieri più illustri; proprio ai nostri quattro californiani era stata assegnata una mansione veramente ardua, ossia quella di dare ancora una chance all'intero carrozzone, dato che le concorrenti di prestigio erano in una fase oscura. Il sound protagonista nel qui presente platter raccoglie le esperienze del combo californiano, arricchite negli anni trascorsi in tour mietendo successi in tutto il mondo... aggiungiamo poi il fatto che non mancano nuove idee, cosa sempre gradita. In questo senso la consapevolezza di ciò ha portato alla luce una mutuazione continua del proprio stile, in una forma ancora marchiata da novità adatte a pochi e per questo matura (complici anche gli stimoli dovuti ai side project come i Team Sleep). Basti pensare a pezzi ben riusciti e caratteristici ("Hole In The Heart", "Kimdracula", "Cherry Waves" o "Beware") o a tracks come "Pink Cellphone", in cui domina letteralmente il sintetizzatore, tralasciando totalmente il sound classico e adottando un sound innovativo e altamente sperimentale. Questo per dire che la vena nel sorprendere, i nostri Deftones, l'hanno sempre avuta nonostante la consapevolezza di essere un gruppo già rodato nelle sue fondamenta, come sound e come band. Maturità sempre ben presente anche nella fase nell'accettazione delle critiche che ricevevano ad ogni minimo passo falso, come giusto che sia dato che comunque in quell'anno i nostri avevano raggiunto un traguardo di popolarità veramente di gran calibro. "Saturday Night Wrist" non è "White Pony" e di questo siamo più che sicuri, ma gli statunitensi volevano esattamente questo, ossia lasciare andare la penna sul foglio e far parlare solo l'ispirazione. Il fatto di ripetersi, in continuazione, gli risultava decisamente opprimente e ossessivo, parliamo sempre artisti di un certo livello: bisogna sempre riuscire maneggiare con intelligenza la vena artistica e trovare un qualcosa di nuovo, non per forza una cosa potentemente innovativo od eclatante. Pezzi con un buon tiro arricchiti da un ovvio fiuto commerciale come abbiamo detto pocanzi ce ne sono, anche se proprio in virtù della voglia di risultare commerciali, qualitativamente parliamo comunque di una release con tanti punti di artificiosità e tentennamenti da parte dei Deftones. La voce di Chino risulta sempre ben calibrata, ma a volte in alcuni cenni si sente "litigare" con una produzione ed un missaggio non all'altezza, che un po' danneggiano le meravigliose atmosfere che comunque i Deftones, in tutti i casi di questo mondo, riescono a creare. Quest'album, qualora venga inquadrato da un punto di vista puramente realizzativo, lascia qualche pezzo nell'incertezza; mentre, se lo si vede nelle intenzioni, risulta un lavoro buono. "Saturday Night Wrist", nel bene e nel male, rappresenta un punto fondamentale, punto in cui i nostri sapranno come rimboccarsi le maniche e ripartire.

2) Rapture
3) Beware
4) Cherry Waves
5) Mein
6) U, U, D, D, L, R, L, R, A, B, Select, Start
7) Xerces Blue
8) Rats! Rats! Rats!
9) Pink Cellphone
10) Combat
11) Kimdracula
12) Riviere


