DEFTONES
Gore
2016 - Reprise Records

GIANCARLO PACELLI
27/04/2018











Introduzione Recensione
Tanti anni di carriera alle spalle, milioni di dischi venduti con un continuo e costante rinnovamento del sound. Pochi cali e tanti picchi esecutivi che li hanno incoronati come una formazione di primo livello nel metal mondiale. La ruvidezza di "Adrenaline" è cresciuta nella morbidezza alternativa di "Around The Fur" che ha generato la freschezza di un vero e proprio capolavoro di fine secolo, "White Pony". Poi un momento di stasi, di pause e di un leggero tentennamento che ha raggiunto il massimo dolore alla soglia delle registrazioni di "Saturday Night Wrist" con la progressiva perdita di Chi Cheng, bassista e co-fondatore dei Nostri. Reclutato in corsa il buon Sergio Vega, la band ci ha regalato due grandi release come "Diamond Eyes" e "Koi No Yokan", che racchiudono l'essenza artistica post anni 2000 dei californiani di Sacramento. In poche parole abbiamo narrato le vicende dei Deftones, che giunti nel 2016, dopo ben 3 anni di pausa, annunciarono tramite la loro ascia Stephen Carpenter, di avere l'intenzione di tornare a comporre brani. Una notizia buona che è sempre ben allacciata ad alcuni ovvi timori, i quali vedevano il combo guidato da Chino abbastanza privo di idee, limitato in un corredo musicale come l'alternative metal, che ovviamente nel nuovo millennio non traeva ancora tanto interesse, escludendo ovviamente la fan base storica della band, che nel bene e nel male l'ha sempre supportata. Ecco, il genere, parola che con i Deftones ha avuto sempre molta difficoltà nell'essere definita. Perché? Beh, prima di tutto dalle capacità dei musicisti, forti di non schematizzarsi troppo nei confini del cosidetto nu-metal e di andare oltre. Chino è sempre stato un istrione, una biscia che negli ultimi anni si è evoluto sempre di più, muovendosi sinuosamente dal post rock dei Palms fino al rock-elettronico dei Crosses passando per altri side project come i Team Sleep. Questa particolarità di avere tra le manie gestire tante influenze ha reso i californiani una band senza eguali, capace di spaziare praticamente in ogni dove, raggiungendo sempre traguardi più che invidiabili. Mescolare in maniera omogenea tanti generi diversi, arrivando a presentare un mix vincente capace di attirare verso la propria proposta tante persone per gusti e senso artistico differenti: questa, la peculiarità definitiva dei Deftones, forse il gruppo più estroverso mai esistito all'interno della corrente musicale presa in esame. Una voglia di rinascere perpetua, sempre alimentata da un fuoco ispiratore ben aizzato ed ardente, scoppiettante. Aggiungiamo poi che siamo immersi in un era come quella degli anni 10 del nuovo secolo, epoca in cui la stessa divulgazione della materia musicale ha subito cosi tanti cambiamenti tanto da intaccare anche l'attitudine delle band nel proporre il sound fino ad ora sempre evoluto e costantemente ornato di elementi spiazzanti nonché innovativi e decisamente fuori da ogni schema. Una crescita mandata avanti di pari passo con il camaleontico adattarsi all'habitat naturale dei nativi di Sacramento... i quali, forse, avevano deciso per l'optare di soluzioni che giustamente non avrebbero dovuto rinvigorire un passato ben noto a chiunque, che mai era appassito od aveva dato segni di cedimento. Si poteva quindi tirare un sospiro di sollievo e dar vita ad un disco che suonasse Deftones al 100%, senza l'ansia di doversi confermare o di dover shockare l'auditorio ad ogni costo. Tutto corre in fretta, gli ascoltatori sono cambiati, tutti sono informati e abbastanza pronti nel giudicare eventuali passi falsi. "Gore" quindi si innesta in un clima tranquillo in un senso preciso, dato che la band in questione non ha bisogno di chissà quale disco per dimostrare la sua qualità. Forse "Gore" nella sua interezza si lascia divorare da soluzioni, che come vedremo, lo macchieranno di un'insiemistica di fattori che lo renderanno quasi prevedibile. La produzione è potente, marcata nei basilari aspetti, forse pure troppo dato che alzerà il livello strumentale e lo indirizzerà verso lidi che permetteranno il crearsi di un sound compatto , ricordando i ritmi di Diamond Eyes. La band ovviamente prima di intraprendere l'iter produttivo era pimpante e consapevole che lo studio è sempre un momento sacro per un gruppo, ed è giustissimo cosi, ma noteremo anche una difficoltà quasi normale dato che parliamo pur sempre di ultra-quarantenni che non cercano chissà quale astruso arcano per andare avanti verso nuove soluzioni, ma che vogliono solamente mantenere alta la reputazione dando ai fans ciò che vogliono. Ci riusciranno? Bene non ci resta altro che entrare nei pezzi che la band ha preparato per noi. Buona lettura.

Prayers/Triangles
Iniziamo con una track che la band di Sacramento ha scelto come singolo di lancio di questo lavoro, "Prayers/Triangles" (Preghiere/ Triangoli). Un clima distorto ampiamente tastieristico e plastificato nel timbro dei vecchi tempi, si impone subito. Le chitarre (Chino come in altri lavori si occuperà in alcune track della chitarra ritmica) impongono il sound del brano verso un terreno assai melodico, che come vedremo tra un po', muterà leggermente aspetto nel chorus. Il brano in sé per sé mostra parecchie incertezze al fine di definirlo secondo un punto di vista preciso, una caratteristica che differenzia i Deftones dalle altre band del genere. Dal significato religioso (triangolo starebbe a rappresentare la trinità cristiana) passando per quello sentimentale, tema molto caro dei nostri sin dal 1996. Una situazione particolare in cui c'è un terzo incomodo in una relazione con apparenti problemi di stabilità emotiva, e i nostri songwriters giocano su temi come gelosia e paura di perdere per sempre la persona amata. Tema difficile che un po' contrasta con l'andamento delle asce che si adattano a tonalità monocordi molto lontane dall'aggressività, fino ovviamente al ritornello in cui Carpenter colorisce il suo atteggiamento al plettro. Chino appena entra sul ring pone un'impronta differente, che da un "parlato" si trasforma in uno scream accennato con ampie rimembranze di dischi come "Diamond Eyes". Terminato il chorus le medesime strutture iniziali prendono il sopravvento. Scoccato il secondo minuto Chino impone nelle sue vocals più atmosfera e malignità, per poi traboccare nel ritornello che come abbiamo capito è il momento più riuscito di questo brano, ovviamente importante perché il singolo di lancio rappresenta le intenzioni di una band. "Prayers/Triangles" presenta forse un impasto non eccessivamente eccellente, ma in fondo è un buon brano, principalmente dal vivo, dato che presenta momenti che nella riproposizione live diventano realmente trascinanti.

Acid Hologram
Abbandonati i ritmi di "Prayers/Triangles" ci addentriamo subito nel secondo brano offerto dai nostri nel loro "Gore", "Acid Hologram" (Ologramma acido). L'impatto delle chitarre con il loro altisonante riverbero è ben gestito dai nostri, abili nel condurre questa serie di distorsioni verso un canale esecutivo buono. La batteria è timida, riesce con un giusto appiglio prima ad agganciarsi alle chitarre e poi ai vocalizzi di Chino, i quali si dimostrano ampiamente melodici, con piccoli accenni ad un particolare scream. La capacità di muoversi tra diversi ceppi vocali è come sempre un asso nella manica dei Deftones, e nonostante qualche imprecisione Chino ondulando alla sua maniera corregge tutto portando verso un lido sicuro. Un brano pesante nelle sue linee liriche, tocca argomenti come il dimostrarsi ciò che non si è in una relazione sentimentale, cosa ampiamente sconnessa se si vuole proseguire verso una pacifica e rigorosa storia d'amore. L'ologramma acido appunto, una maschera, anzi un vero e proprio fantoccio che nel tempo si dimostra nella sua vera e propria forma. Moreno con il suo timbro cadenzato vuole esprimerci tutto ciò, e il suo tono quasi parlato ci sovviene direttamente nelle orecchie. La sezione è potente e dominante, risulta addolcita solo, come abbiamo accennato pocanzi, dall'attitudine di Moreno, che tra un momento e un altro riesce a trascinarci nel terreno a cui noi siamo ormai assai abituati. La linearità del brano viene scossa da un rallentamento verso la fine del primo minuto: Moreno tra un assolo compresso si pone in uno stile molto rappato, per poi ritornare alla modalità con cui ha incominciato ad addolcire il brano. Incursioni di tastiere e altri strumenti alternativi aumentano di colore il brano, che precipita in situazione molto distorte per poi essere tagliato in due dal nette influenze postrock, che in questa "Acid Hologram", risultano ampiamente messe in luce nel marasma del sound.

Doomed User
Un riffone sguaiato subito ci mette sull' "attenti" trasportandoci nel pieno delle note pesanti che finalmente l'ascia di Stephen Carpenter ci offre. Un'impronta dannatamente heavy è la base dei primi sgoccioli di questa "Doomed User". Il titolo può riferirsi a varie cose in base al contesto della frase, e si può tradurre soprattutto come: "Tossicodipendente destinato all'insuccesso". Di certo non una frase spensierata e vuota di significato, come sempre la band ci mette sul piatto temi assai delicati, ci offre un degno spunto su cui riflettere. Il brano ricalca una sorta di "sfortuna" che ti perseguita all'impazzata. In particolare quel "Play Yourlself" (presente nella prima parte della canzone e scandita magistralmente da Moreno) è un'espressione in slang americano assai recente, indicante in poche parole il fregarsi da solo, con le tue proprie mani. Una sorta di autopunizione per chiunque segua solo il successo dimenticandosi di valori primordiali assai più importanti. Il ruggito delle chitarre muove l'intero brano, nonostante Chino ci delizia con vocalizzi penetranti e poetici a volte anche molto furiosi, che ci gettano in faccia una serie di pesanti parole che sono perfette nel descrivere la situazione narrativa in cui siamo impantanati. Le corde di Carpenter coprono il basso di Sergio Vega, che in un certo senso funge da portante solo nella pavimentazione sonora pre-chorus, in cui il clima si raffredda e Moreno (che si allaccia alle tastiere soffuse di Delgado) pone una marcia differente. Dopo il ritornello l'inferno di batteria e chitarre continua imperterrito a stamparci di dosso riff su riff che non possono non rimanere nella nostra mente per un bel po' di tempo. Se vi aspettate una classica ripresa dei toni iniziali nel proseguire del brano vi sbagliate, perchè una notevole sterzata completamente strumentale, domina per una decina di secondi prima che un Chino ampiamente collaudato in versione melodica ci conduce verso le ultime plettrate di Stephen, molto trascinanti ed evocative. Un bel brano quindi, che si discosta leggermente dalla apparente semplicità delle prime due track e dimostra che i nostri sanno ancora picchiare duro.

Geometric Headress
Un ritmo abbastanza incalzante prende possesso delle prime offuscate tonalità di "Geometric Headress" (Copricapo Geometrico). Un inno all'incorruttibilità e alla potenza della donna che è in grado di muovere gli oceani con la su grazia, una femminilità di fondo che si trasforma in decisa capacità seduttrice si scatena in seguito alle note di questa traccia, terremotanti e abbastanza tirate. Le chitarre iniziano subito ad imprimere la loro impronta nel sound, si presentano un filo confusionarie all'inizio ma con l'entrata di Chino, che ci delizia a suon di scream infernali, riescono a raggiungere una sorta di stabilità in ogni semplice plettrata. Le scale della coppia Carpenter/Moreno cambiano marcia dopo una manciata di secondi appena Moreno stesso muta la sua faccia vocale, mostrando il suo notissimo lato melodico che negli anni si è perfezionato sempre di più. I pattern della batteria di Abe Cunnigham e il basso di Sergio Vega sono ottimi nell'inseguire i vocalizzi, dato che non sono molto veloci per quanto riguarda la velocità esecutiva. Conclusasi la parte melodica torna lo scream/rapping di Chino, il vocalist si mostra come un camaleonte dato che muta aspetto con una peculiarità impressionante: lo stile del nostro frontaman su questo è unico nel panorama nu/alternative metal e anche se qui mostra alcune piccolissime incertezze c'è da dire che ha sempre il suo fascino in ogni parte del brano. Questo modo di cantare forse nasconde e intende dire che anche la mente umana è abilmente capace di cambiare forma e aspetto, la nostra psiche non è mai la stessa anche se ci sembra tale. La parte in scream/melodica si pone come un blocco che viene ripetuto altre volte nel brano, presentandolo come abbastanza orecchiabile e non eccessivamente complicato, le stesse chitarre si adattano in tonalità abbastanza monotone che ne aumentano la facilità di assimilazione, ma questo non significa che la band si sia abborbidita anzi. "Geometric Headress" si mostra come una track sicuramente non straordinaria ma a conti fatti nasconde spunti ritmici quantomeno interessanti.

Hearts/Wires
Dopo la conclusione della non eccezionale "Geometric Headress", il livello viene un tantino innalzato nella successiva "Hearts/Wires" (Fili del cuore) dato che questa si pone in un maniera differente sin dagli inizi. Un'introduzione dal sapore alla Tool graffia in una maniera particolare, impossessandosi del pezzo e dopo una serie di bellissime tastiere intonate da una fuliggine post-rock, riusciamo meglio ad intercettare l'intento di questa track. Come abbiamo detto l'opener strumentale è accattivante, quasi penetrante se vogliamo nelle sue strutture, riesce a farci immedesimare nel contesto lirico che i Deftones hanno voluto porre sulle note di questa song. Un'aria soffusa di malinconia mista a arrendevolezza è percettibile, è la conseguenza di un amore che viene strappato all'improvviso e uno degli amanti non si rende nemmeno conto della situazione creatasi. I fili trasparenti che legano i due cuori sono stati tragicamente spezzati, non si sa da chi o sa cosa: nessuno ci dice il motivo, ma al quartetto interessa farci arrivare un messaggio. L'amore è un gas volatile e una volta che se ne va lascia cicatrici che solo il tempo ha la facoltà di rimarginare. Le tematiche non sono di certo nuove ma il piglio descrittivo è divenuto ancor più analitico e introspettivo. Ecco introspettiva è la peculiarità con cui la voce di Chino inizia delicatamente a scalfire l'impasto ritmico delle due chitarre, ferme e quadrate in pochi ma efficaci giri di note. Le tastiere giocano un ruolo importante e sono basilari soprattutto nel chorus quando lasciano spazio ad una potente distorsione dell'ascia di Stephen Carpenter,la quale è fulminea nel far aumentare la tonalità del brano. Chino da buon vocalist si adatta e muta atteggiamento con accenni pesanti a scream. A ritornello compiuto Moreno torna a sbrodolare morbidezza ben assistito dalla batteria di Cunnigham che escludendo la parte centrale del chorus, non è cosi pesante. Le vocals tornano ad accarezzarci verso il finale, in cui le chitarre diventano ancor più poetiche e sognanti nonostante il tema delicato che toccano. Piccoli accenni a scream con parti decisamente "urlate" pongono il punto conclusivo di questa traccia, senza alcun dubbio una delle più ricordate e amate dell'intero "Gore".

Pittura Infamante
La "Pittura Infamante" è stata una forma di punizione usata dai comuni medievali italiani contro i trasgressori della legge. La pittura, ritraente in maniera desolante e canzonatoria una persona, veniva esposta in un luogo pubblico della città e, di solito, vi era aggiunta una didascalia con il nome della vittima sottoposta alla pena. Ovviamente tra i soggetti sottoposti a tale pubblico sberleffo vi erano criminali, ladri e traditori, i quali venivano posti alla vergogna comune, stratagemma considerato come una vera e propria forma di punizione. Voi direte: cosa c'entrano i Deftones con i metodi punitivi dell'Italia Medievale? Beh, il nostro quartetto come sempre è abile con i riferimenti e le allegorie e con questo brano intitolato proprio "Pittura Infamante" vuole simbolicamente rappresentare una situazione in cui è sottointesa una punizione, non fisica ma spirituale. Certamente qui gli americani hanno sperimentato un arguto modo di scrittura, ben differente se vogliamo da altre tematiche "classiche" di casa Deftones. Il brano inizia con una leggera distorsione di fondo, molto godibile che accoglie in pochi secondi la leggiadra delle vocals di Chino. Le chitarre rasentano una situazione abbastanza mediocre, cosa che non fa la voce, la quale è in grado di spiccare in altisonanti picchi tonali interessanti. La nostra "pittura" naviga in acque tranquille, forse pure troppo, in cui basso e batteria corrono spedite in un terreno abbastanza sicuro. Il groove nonostante il pezzo sia soffice e ben circolante nei toni ritmici che in un modo o nell'altro colorano il brano,col passare dei secondi va scemando. Le vocals di Moreno sono sempre perfette, riescono ad aggiustare tutto, si agganciano molto bene in ogni giro di accordi, che in "Pittura Infamante" sono abbastanza si leggermente banali ma il marchio di qualità di Carpenter se vogliamo è sempre di un certo livello.

Xenon
La genesi della prossima traccia, "Xenon", presenta una storia che coinvolge direttamente il nostro frontman Chino Moreno. Un 'operazione che sa di sentimenti nostalgici dato che la traccia rimanda ad un famoso videogioco a cui molti ragazzi cresciuti negli anni '80 sono devoti. Xenon in realtà tornò nella mente del nostro performer dopo una sosta fatta in Germania (a Colonia), in vacanza. All'improvviso gli apparve, a mo' di pensiero istantaneo e fugace rimandante alle nostre infanzie, un'immagine proprio di questo Xenon; preso forse da una forte nostalgia decise di comporre un pezzo con forte allusioni a questo videogioco che per il Moreno "ragazzino" fu molto importante. Non a caso l'intro è preso proprio da quel videogame, il classico loop elettronico che fece felici tanti ragazzi di quegli anni. Dopo la conclusione di quest'ultimo la otto corde di Stephen Carpenter si adagia nell'impasto del sound scandagliando tutto il resto. Interessanti sono le geometrie che la chitarra crea, è ottima per far si che Chino possa finalmente debuttare in questa Xenon. Leggere e sinuose si mostrano le vocals che non eccedono nel classico scream, ma persistono per un bel po di tempo secondo una medesima linea melodica. Tutto il resto si pone più che bene soprattutto il pellame di Cunnigham che si mostra ben incalzante in ogni nota scaraventata sia dalla ritmica di Moreno sia dalla principale di Carpenter. Sembra quasi che un flusso di nostalgia stia divorando le sensazioni del nostro singer, le vocals infatti sono penetranti e ossessive e al contempo eleganti e ricche di charme. Non ci sono momenti eccessivamente "aggressivi", il comparto strumentale conserva una sua rilevante attitudine nei tre minuti abbondanti del brano, e come negli altri brani sono presenti cambi di tempo caratteristici. Xenon continua imperterrita e corre in un selciato sonoro sicuro, in cui la voce del nostro frontman, armonizzata dalle belle tastiere di Sergio Vega, domina letteralmente i minuti scarsi restanti. Giunti alla settima traccia questa "Xenon" la possiamo definire come il classico pezzo "cuscinetto" che però ci ha mostrato alcune cose buone.

(L)MRL
La morte non è mai stato un tema centrale nel panorama stilistico dei Deftones ma il tragico fatto della morte dell'ex bassista Chi Cheng ha colpito profondamente la band. Come se lo spirito di Chi vivesse non più in carne ed ossa ma nelle parole sentite del principale songwriter Chino. Una diretta ed esplicita voglia di farlo tornare protagonista nelle loriche è presente in "(L)MRL", acronimo che nel linguaggio di Internet significa "Lets Meet in Real Life" (incontriamoci nella vita reale). Ecco il riferimento a Chi la cui presenza, che sembra volteggiare nell'aria sin dai primi sintetizzati secondi, è ben esplicita: Chino desidera con tutto il cuore ritrovare il vecchio amico, compagno di lunghe avventure. La disperazione nelle linee vocali è ben palpabile appena Moreno entra nel vivo del brano, rompendo l'aura ben impastata con una chitarra acustica. Le tastiere si dimostrano fondamentali, sinuose ed eleganti e prima di eventuali distorsioni si dimostrano ben compatibili col cantato leggiadro di Chino. Carpenter doma la lead fino a farla "strillare" creando uno squarcio decisivo e permettendo il classico aumento di tonalità del singer, per poi ritornare in una situazione di stasi. Non tocchiamo lidi aggressivi, (L)MRL corre spedita nei suoi cinque minuti in un terreno melodico ben sicuro in cui spicca ovviamente la caratteristica del nostro. La voce non solo è elegante, ma nasconde dietro di se anche un mondo di sofferenza, che sembra essere compressa in una gabbia, e in ogni tentativo di note alte Chino la fa uscire, disegnando linee melodiche degne di nota. Il clima da tranquillo si pone più aggressivo con chitarre ben impantanate in accordature pesanti e stilisticamente più consono per il sound dei nostri. Moreno negli sgoccioli finali modula la sua voce, facendola diventare fumosa e tagliente, perfetta per sputare tutta la sofferenza che ancora è annidata nel suo cuore.

Gore
"La parola a quattro lettere è una delle cose principali che mi ha attirato. Ovviamente la parola stessa è in qualche modo provocatoria. E ti dà ... l'immagine principale è molto grafica. Ma ovviamente giustapponendo che con l'artwork vero e proprio c'è qualcosa che rappresenta quel ying e yang di ciò che facciamo come band. Ma sì, è stato difficile prendere questa decisione, perché ogni volta che provi a dare un nome a un disco, con una sola parola, o con una frase o qualsiasi altra cosa, sono ovviamente ... vuoi che ogni canzone si regga da sola. Non vuoi sentire i primi 30 secondi di un disco e senti "ok ho sentito tutto, so che cosa succederà dopo." Quindi, solo per metterlo in una scatola e avere un nome è decisamente difficile. Ma non lo so, mi piace. Penso che in qualche modo ti faccia pensare un po 'e ti chieda' cosa c'è dentro?" Così Chino spiegava in un'intervista per il lancio del disco il significato della parola "Gore", significato che si ripercuote nella title track che gonfia il nostro lavoro, giunto ormai alla terzultima composizione. Gore si apre con un sano gusto bassistico e alternativo in cui subito la voce di Chino si muove abilmente tra le note che si mostrano decisamente delicate. Non facciamo nemmeno a finire di dire ciò che un tuono di chitarre altisonante vanno a coprire addirittura i pesantissimi scream del nostro Moreno. Un muro sonoro veramente di grande incisione che trova una pausa nella parte che precede il chorus: quest'ultimo è colorato solo da una chiara violenza ritmica che presenta però piccole crepe in cui la melodia si impossessa sia della voce che del tono di chitarre/basso. Moreno sembra essere ritornato ai tempi d'oro scartavetrandoci le nostre orecchie con precisi e netti vocalizzi, i quali ondeggiano tra le diverse note di Carpenter. Stephen si muove soavemente nel sacro impianto sonoro che caratterizza i toni della title track, e per non farsi mancare niente infarcisce nei minuti finali rigorosi breakdown ben sorretti dalle pelli e dal basso di Vega, ponendo fine a questa traccia che si dimostra ottima in ogni suo guizzo.

Phantom Bride
Quando una persona a cui teniamo si allontana da noi per un qualsiasi motivo, un senso di vuoto pervade l'animo: non siamo più gli stessi dato che un pezzo di noi se n'è andato chissà dove. Dalla persona amata all'amico fraterno, il buio che ci provoca qualsiasi scomparsa è pesante. Uno stato al limite del depressivo che non fa altro che espandersi anche verso a persone magari estranee alla faccenda. Non sei più tu. Immerso in luogo oscuro che non si desidererebbe mai sperimentare, il dolore prosciuga. Una sensazione di sano timore è la protagonista di "Phantom Bride" (Sposa fantasma) e già il titolo spiega tutto. La perdita di una persona viene canalizzata nella figura fresca e bianca di una giovane sposa che in un modo o nell'altro scompare nel nulla trascinando dietro di sé tanta malinconia. Malinconia che sembra pervadere l'intro del brano, sorretto da una dolce chitarra che si presta alle vocals di Chino. Le pelli sono costanti come il basso ben presente di Vega, e subiti il bellissimo chorus interviene nel brano rendendo tutto ancora tutto più magico e sofferente. "You spend your life trapped in this void/Where you will stay always" (Passi la tua vita intrappolata in questo vuoto / dove resterete sempre), ecco come nel ritornello è spiegato tutto l'intento della song, in cui c'è quel vuoto oscuro che ti ghermisce, facendoti finire sotto le sue grinfie. Sorretto da chitarre che aumentano l'intensità uditiva, il coro nel ritornello è semplicemente magnifico, e rimane forse una delle punte più alte dell'intero Gore. L'impianto melodico è straordinario, rimanda veramente a quei Deftones affamati di comporre di alcuni anni prima, ci stiamo quasi scordando che stiamo avendo a che fare non più con una giovane band ma ormai con ultra-quarantenni. "Phantom Bride" procede con diversi scatti emotivi che raggiungono il culmine con una novità assoluta: la presenza di un assolo. Come sappiamo a Carpenter e a Moreno non è mai interessato infarcire il sound con giochi solisti di chitarra, ma in questo penultimo brano hanno fatto un eccezione. A comporre l'assolo non è un chitarrista qualsiasi ma un ex eroe della grunge era, Jerry Cantrell (Alice In Chains). Cantrell impone il suo stile in una maniera ampiamente incisiva e al posto di fermarsi continua imperterrito nei minuti rimanenti del brano fino a che l'ultimo briciolo di ritornello viene esclamato dal nostro cantante. Chitarre pesanti e degnamente intervallate da squisiti assoli pongono un dignitoso finale ad uno dei brani più fortunati di tutto il lavoro.

Rubicon
Ricco di un riverbero tuonante, "Rubicon" (Rubicone) si apre e si scaraventa con molta forza nel nostro "Gore", ormai quasi giunto alla conclusione. Come Caio Giulio Cesare nel 49 a.c superava il Rubicone, fiume di confine fra Roma e la Gallia Cisalpina, i Deftones gettano alle nostre percezioni un messaggio tanto semplice quando grande: non mollare mai e seguire sempre la propria strada costellata da obiettivi. In un mondo frenetico come il nostro ogni elemento ci condiziona sulle nostre scelte, sta a noi avere la stessa caparbietà di Cesare di quando attraversò il Rubicone, senza nessun permesso di terzi ma mostrando grinta e forza nel perseguire diversi punti abbattendo gli ostacoli negativi. Non a caso "Rubicon" è agli inizi abbastanza massacrante nei suoni proprio a simboleggiare la forza nel prendere decisioni, che deve essere appunto sempre netta e decisa. Questa violenza iniziale è messa leggermente a tacere dopo che Moreno entra in gioco: il suo cantato, ben impastato con il blocco ritmico strumentale, si adagia molto bene sfiorando all'inizio agognati scream, alleggeriti poi da vocals che si fanno melodiche. Pesantezza mista a melodia, breakdown che si mescolano con i vocalizzi del nostro ben accentuati, che toccano il massimo nella loro classica fase melodica. I tempi sono molto rapidi, e questo si capisce bene dalla velocità della batteria di Cunnigham, che si pone egregiamente, seguendo gli strascichi degli altri strumenti. Rubicon mostra tante accelerazioni quanti rallentamenti, magistralmente coperti da Chino, che con una serie di urli alternati a momenti altamente morbidi ci mette sempre in guardia. E in tutto ciò le tastiere fanno la loro figura dato che riescono ad inserirsi nel contesto sonoro che tocca diverse sfumature, nonostante un apparente andamento monocorde di chitarra e batteria. Rubicon non po' non concludersi in una maniera potente e trascinante con il duo chitarra/batteria che la fa da padrone. Sembra che con questa grinta finale ci stiamo preparando per un altro brano, ma invece no. A conti fatti questa Rubicon è un pezzo più che buono per porre il punto esclamativo in questo lavoro.

Conclusioni
Valutare un disco come "Gore" è come decretare un giudizio complessivo di una grande carriera, è come tirare le somme dopo tanti anni di dischi e concerti. Giudicare una band ormai matura non è di certo semplice e in questi casi non necessitiamo di chissà quale lavoro per avere qualche opinione in più. I Deftones, come abbiamo detto in precedenza, sapevano di aver dato praticamente tutto in un genere come il metal alternativo, abbastanza chiuso in chiari paletti musicali; anzi proprio i quattro di Sacramento, tra le tante band dell'ondata nu-metal, sono stati tra le più innovative, tra le più astute in fase di scrittura. Non è semplice alternative metal ma è un connubio di tante idee musicali e di pratiche influenze. Non parliamo di un genere aperto e dinamico come il progressive o l'avant-garde, ma abbiamo sott'occhio una corrente musicale che ha bisogno di un estro particolarmente tarato al fine di risultare assai appetibile alle orecchie degli ascoltatori di un anno come il 2016, in cui gran parte della musica era stata scritta. Il combo americano di sicuro ha smontato tutti, detrattori compresi che li additavano di essere una formazione oramai vuota, con poche idee. Invece di idee in questo "Gore" ci sono, e a dirla tutta sono anche state posizionate a dovere nei vari brani che abbiamo perlustrato a fondo. La sezione ritmica, forte di una produzione pulitissima, trabocca in ogni punto e forse ha marchiato decisamente a fondo l'andamento di ogni strumento, in alcune parti però proprio questa caratteristica banalizza leggermente le atmosfere che le due asce colorano, ma parliamo di un pelo nell'uovo dato che complessivamente, anche nelle parti meno "ingegnose", tutto procede bene. I pezzi sono ben impostati, forse è presente qualche riempimento di troppo (per esempio in brani come Pittura Infamante o Xenon) , ma in fondo tutto circola secondo le geometrie ritmiche a cui siamo ormai abituati, soprattutto dagli ultimi due convincenti lavori ( Diamond Eyes e Koi No Yokan) che avevano mostrato una nuova via compositiva. I testi racchiudono il lato emotivo di ogni membro, in cui spicca Chino Moreno, che forte delle sue esperienze extra Deftones è decisamente cresciuto dal punto di vista della scrittura dei tesi. Testi che oramai abbracciano tematiche delicate e continuano il percorso già tracciato dopo Diamons Eyes, in cui il combo aveva mostrato un alto livello di composizione . Come abbiamo detto brani straordinari e convincenti ce ne sono: basti pensare ai momenti che abbiamo vissuto in tracce come Phantom Bride o Heart/Wires in cui l'anima post-rock estremamente raffinata dei californiani esce fuori quasi violentemente, stravolgendo le nostre percezioni in merito. D'altro canto però non si può non accennare ad un calo presente nell'ossatura centrale del platter, in cui brani risultano più filler che pezzi decisi di un disco musicale. Ma pochi brani non possono ovviamente intaccare l'intera aura che il maturo"Gore" ci offre. Trovare band con una tale continuità musicale in un panorama ampiamente ramificato come l'heavy metal è estremamente raro, e un disco cosi' per una band ultra-ventennale va più che bene. All'inizio ci chiedevano se i nostri avrebbero passato anche questo test? Beh la risposta che possiamo dare è un bel si, dato che Stephen, Chino, Abe e Sergio hanno mostrato per l'ennesima volta di essere musicisti completi e dinamici. "Gore" in conclusione merita senz'altro un ascolto, che siate stati o meno fan dei Deftones in maniera accanita. Che non sia una "conclusione", questo platter, tutti ce lo auguriamo... attendendo pazientemente che i Nostri tornino a farsi vedere, facendoci ancora notare la loro presenza, che oggi più che mai servirebbe ad un panorama oramai reso troppo statico dalla mancanza di idee o semplicemente di coraggio nell'esprimerle.

2) Acid Hologram
3) Doomed User
4) Geometric Headress
5) Hearts/Wires
6) Pittura Infamante
7) Xenon
8) (L)MRL
9) Gore
10) Phantom Bride
11) Rubicon


