DEFTONES
Diamond Eyes
2010 - Reprise Records

GIANCARLO PACELLI
09/02/2018











Introduzione Recensione
L'arte ha bisogno di slanci, di ispirazione e di una fulgida concentrazione da parte di chi ha deciso di dedicare il suo tempo ed il suo amore ad un qualsiasi settore che tanga esattamente questo modo di vivere l'esistenza. La musica non è una eccezione, anzi: da diversi punti di vista è una delle declinazioni artistiche che più ha bisogno di alimentazione, di un sicuro e netto amalgama di idee, per evitare di trasformarla come una foglia in autunno, la quale crolla inesorabilmente sotto i colpi del gelo. Ancor di più se parliamo di un settore musicale o di un genere specifico. Siamo nel 2010, era di tanti cambiamenti: il metal aveva perso la sua più grande voce, il folletto italo-americano Ronnie James Dio. Situazione che era stata, in un certo senso, un pretesto per una nuova e solida unità nella comunità musicale (la quale non si vedeva dalla morte di un altro simbolo, il chitarrista dei Pantera Dimebag Darrell, avvenuta ben sei anni prima). Dall'altro canto, le band storiche incominciavano tornare in carreggiata con dischi convincenti (basti pensare alle uscite di ottimo livello di Iron Maiden, Overkill, Accept, Exodus, Armored Saint, Raven etc), mentre altre dovevano fare i conti con problemi di vario tipo, come quelli di equilibrio nelle loro line-up. In questo enorme calderone inseriamo dunque i Deftones, che dopo anni di densi successi, nonostante un "Saturday Night Wrist" non eccezionale, per la prima volta nella loro carriera dovevano fronteggiare problemi di formazione. La band di Sacramento doveva pensare seriamente a chi mettere al posto dell'amatissimo bassista Chi Cheng, che nella notte del 5 Ottobre 2008 si ritrovò coinvolto, assieme alla moglie, in un serio incidente stradale, tragedia che lo portò prima in coma e poi verso una silenziosa morte ben cinque anni dopo, nel 2013. Prima del terribile evento, la formazione americana era già pronta per dare alla luce "Eros" (con la collaborazione dall'ex produttore Terry Date), il successore di "Saturday Night Wrist", che un po' doveva rappresentare ipoteticamente una rinascita. Chino Moreno e company rimasero ovviamente distrutti da questa notizia, tuttavia si limitarono a rimandare la pubblicazione; al posto di cedere le armi per sempre, decisero con una caparbietà pazzesca di continuare un percorso, che tra tantissimi alti e pochi bassi, li aveva spediti ne top dell'alternative metal mondiale. Ed eccoci qui: le idee, nell'irrealizzato "Eros", erano già state impostate, segno che tutto avrebbe continuati a funzionare a dovere. Il gruppo aveva reclutato al posto di Chi Cheng un buon Sergio Vega, conosciuto per la sua esperienza con i post-hardcores newyorchesi Quisksand; promettente ed abile al basso, tecnicamente mostrava linee simili all'ex bassista. Con la formazione completa ora i seminali nu-metallers potevano dedicarsi al cento per cento alla stesura di questo "Diamond Eyes". Un barbagianni enorme, raffigurato nel curato artwork, rappresenta un po' la voglia di reagire psicologicamente, era il momento giusto per dimostrare al mondo che i Deftones erano una band tosta e grintosa. Certo, perdere un amico e un punto fondamentale sia in fase della resa musicale che in fase in songwriting era stata una mazzata incredibile, ma come vedremo tutto l'impasto musicale avrà il suo ben da dire, ogni nota sparata nel consueto stile "deftonsiano" è una reazione a questo momento, non semplice per la band. Quindi, in poche parole... cosa è questo "Diamond Eyes"? È un platter roccioso e dinamico, costruito su un sound che si discosta nettamente dal precedente lavoro di ben otto anni prima. Lo stesso frontman Chino Moreno disegnò questa nuova uscita come un "nuovo White Pony". In un certo senso il poliedrico musicista voleva recuperare quel nucleo di idee assai ispirate le quali portarono il gruppo nei vertici del metal mondiale nei primi anni 2000, voleva innescare all'interno della sua band una fiducia rinnovata. Quattro anni erano passati dal precedente lavoro, tanti anni che erano stati importanti anche per capire anche a chi affidarsi per il delicato ruolo di produttore, personalità importante e decisiva per missaggio e per la supervisione tecnica. La scelta cadde su Nick Raskulinecz, noto per i sui lavori con realtà come Stone Sour, Alice In Chains e Foo Fighters, personalità abbastanza conosciuta nel mondo alternativo. Tale scelta fu influenzata anche dalla nuova etichetta, la "Reprise Records", che così in poco decise il futuro tecnico e manageriale dei nostri. Il sound complessivo risulterà compatto e "secco", le chitarre saranno ponderate al millimetro generando una sorta di ritorno al passato. Una dimostrazione di deciso senso battagliero: difatti, con questa proposta, la band voleva costruire un qualcosa di innovativo (nei limiti del genere ovviamente), non dimenticando i fasti e le lezioni del non lontanissimo passato. Una fusione tra vecchio e nuovo colorato da una stimolante voglia di fare musica, che nonostante un catastrofico evento, non era decisa a scendere di intensità. I Deftones, quindi senza indugi, ci hanno proposto un nuovo bel piatto da annusare e assaporare. Con questi buoni propositi, non mi resta che augurarvi buona lettura.

Diamond Eyes
La navicella spaziale Deftones carbura sin dai primi scalpiti con la title track e primo singolo, "Diamond Eyes" (Occhi di diamante). Oscura e misantropica e silente nei sinistri dieci secondi, finché un vigoroso riff della sette corde di Stephen Carpenter distrugge l'atmosfera melanconica introducendo le corde vocali del nostro singer, Chino Moreno (che sin da questo pezzo si destreggerà grandiosamente alla ritmica), ampiamente melodiche in questi primi fraseggi. Melodia che non eccede in furiosi scream ma che rimane ampiamente tarata fino al chorus, elegante e potente, in cui lavena sensibile della nostra voce fuoriesce del tutto. "Time will see us realign/ Diamonds rain across the sky /Shower me into the same realm" (Il tempo ci vedrà riallineare /I diamanti piovono attraverso il cielo /Bagnami nel tuo stesso luogo): cosa è il tempo, se non un'immagine perpetua e perenne, la quale rimane inossidabile nel cerchio della nostra storia? E' proprio questo il motivo per il quale, alcune volte, dobbiamo lasciare che faccia il suo percorso, senza star troppo a pregarlo. Un tempo che fugge e che alcune volte sembra crudele, ma che riesce comunque a donare qualcosa di importante, a chi dimostri di meritarlo davvero. Due persone, in questo caso, aspettano solo il momento giusto per ritrovarsi: sarà allora che una pioggia di diamanti bagnerà i due, e solo se saranno meritevoli potranno goderne contemporaneamente. Allo scoccare di queste note ampiamente affascinanti viene sfoderata addirittura una dolcezza quasi sorprendente, anche se siamo in un certo senso abituati a queste effusioni, che qui ci appaiono inconsuete e quasi soavi. I toni di batteria /basso e chitarra vengono ampiamente abbassati per far sì che la scena venga "rubata" da Moreno, in tutta la sua eleganza. Tuonante nelle ritmiche, un po' a rappresentare la funesta audacia di Crono che divora tutto,il pezzo procede molto veloce e compatto nei suoi tondi tre minuti. Dopo la fragorosa ripetizione del ritornello, catartico e avvolgente, l'atmosfera muta del tutto: le chitarre graffiano ancora di più, e permettono ad una modulazione canora allucinante; difatti passiamo dal cantato preciso e melodico degli inizi ad uno stile rappato, che per pochi secondi ci fa ritornare alla mente il giovane Chino degli esordi. Dopo questa breve parentesi "amarcord", le corde delle due chitarre continuano a vibrare accogliendo di nuovo le vocals a cui noi siamo abituati. La batteria è calzante e quadrata, pesta nelle parti "vuote" tra un riff e un altro mentre il basso della new entry Sergio Vega è sì ispirato ma ancora abbastanza nascosto nel marasma sonoro. Il refrain ritorna impetuosamente nei battiti susseguito da un continuo e martellante gioco di corde, che concludono il tutto. Secondo molti proprio il riff finale che cala il sipario in questa title track, è «uno dei più aggressivi mai scritti dalla band». Un buon modo per iniziare questo nuovo viaggio sonoro, no?

Royal
Con la title track subito abbiamo inteso con quale strutture ritmiche i nostri ci vogliono sorprendere, un miscuglio sonoro roboante e compatto. Con il passare dei minuti, come vedremo, questa potenza di fondo non verrà scalfita di un millimetro: la prossima "Royal" (Reale) sovviene sotto i nostri radar nei primi secondi mostrando una velocità chirurgica e devastante, si mostra ben più aggressiva della precedente track sin dalle prime battute strumentali. Il cantato in bilico tra un melodico e uno scream, abbraccia i riff potenti e tagliagola delle due chitarre. Una sorta di ipnosi ci prende la mano, le chitarre sono talmente ben impastate che creano una strana atmosfera. Moreno, nei suoi intenti lirici, non ha mai nascosto che questa song avesse ripercussione di natura amorosa: "CalculateI'll embrace/Hold on, come with me now (Run away outer space with me/Once and for all"(Calcola che ti abbraccerò/Resisti, vieni via con me adesso/Scappa nello spazio profondo con me/Una volta per tutte): nessuna vicissitudine impedirà all'amore di trionfare, nonostante la vita ci offra ostacoli molto ostici abbiamo sempre vicino a noi un persona da abbracciare, che ci rincuora e ci illumina il cammino. Anzi, è proprio quando manca che noi dobbiamo impegnarci rigorosamente a trovare quel piccolo "tesoro" che risulta essere ampiamente vitale. In questi frangenti le vocals non scendono di intensità: anzi, alla fine del primo minuto, il cantato sfiora effusioni molto lontane da effetti distorsivi, che rasentano un melodico pieno. La batteria è intelligente, cosi come il basso di Sergio Vega che finalmente è uno dei protagonisti: si notano ad un kilometro di distanza che le sue corde sono ben delineate e messe in rilievo. In particolare, le sue quattro corde in questi frangenti introducono la seconda sezione ritmica del brano che ripropone gli stessi giochi degli inizi. Il drumming è possente, infiammante e avvolgente ricorda un po' le linee che Cunnigham sfoderava nei primi anni 2000. Infatti sobbalza subito alla nostra attenzione la voglia di concedere momenti che alternino parti melodiche ad altre ben più quadrate ed accelerate, i quali appuntano portano l'immagine dei Deftones "vecchi", quelli di "White Pony". Nella cascata di riff taglienti e fill di batteria precisi, i nostri ci regalano anche momenti strumentali veramente di rilievo, dal secondo minuto in abbondante in poi c'è una dominazione di chitarra/basso/batteria colorata anche da un timido assolo, che viene nascosto dal resto. Finito questo interludio, Chino ritorna più agguerrito che mai, graffiando i nostri padiglioni auricolari con vocals cavernose, circondate dai toni ritmici degli inizi, che ci accompagnano verso la fine di questa potentissima traccia.

CMND/CTRL
Dopo le ritmiche incessanti dei primi due pezzi stiamo già scatenando il nostro collo in esercizi di headbanging che dimostrano il ritorno dei Deftones come un continuo martellamento musicale. Il clima possente e incessante viene sfoderato anche nella prossima "CMND/CTRL" (comando/controllo). Viene questa volta cantato l'eterno conflitto di una sorta di yin e yang che si oppongono, due opposti dotati di particolari caratteristiche... anche se, l'uno senza l'altro, non può semplicemente esistere. Un titolo insolito e provocatorio per un brano musicale che sembrerebbe illuminare tutte le idee che Chino Moreno aveva nei confronti delle case discografiche, viste come delle piovre che sfruttavano a fini di lucro i propri artisti, e i protagonisti sembrano essere nel bene e nel male, proprio chi propone (artista) e chi produce (etichetta). La violenza è parecchia ma tarata: in pochi secondi il brano acquista una velocità impressionante, con chitarre pesanti intervallate da un cantato filiforme del nostro performer, fino a che quest'ultimo concede sprazzi melodici di alto livello. In pochi secondi, è come se avessimo assistito ad un brano di parecchi minuti, ma siamo solo agli inizi. La pesantezza pone alla scena principale a Moreno, che si impossessa di tutto, vocalmente sparando versi al vetriolo: "Straight out of your mind/You see I'm well aware/You're out of your mind/It's straight" (Proprio fuori di testa/Vedi, lo so bene/Sei fuori di testa/proprio così), parole che volente o nolente si tatuano nel cervello. Il refrain termina e la vena melodica scende, la poliritmia si impossessa dell'inconsueta traccia mostrando un impatto strumentale ancora più caparbio: la chitarra di Carpenter, nonostante sia accompagnata dalla ritmica di Chino, ha il totale controllo nell'architettura del riffing di fondo. Il refrain passa in fretta e i nostri ci concedono un intermezzo strumentale sempre bello furbo e dinamico, con riff spietati, fino a che la voce riprende il timone per accompagnarci negli sgoccioli finali. Un sussulto emozionante ed un brano che nei suoi minuti è un piccolo gioiello nella discografia del gruppo di Sacramento.

You've seen a butcher
Ogni album di ogni gusto musicale ha un brano simbolo, che un po' rappresenta gli stilemi che quel gruppo o quel musicista vuole far arrivare al pubblico. L'impatto live di "You've seen a butcher" (Hai visto un macellaio) non ha eguali, e può essere tranquillamente paragonato agli altri pezzi simbolo del nostro amato gruppo. I silenzi sono i protagonisti iniziali, sono accompagnati da pochi accenni di chitarra, i quali si amalgamano con il contesto atmosferico creatosi. Come si sa, la musica segue il passo del significato del brano, infatti la cupezza di questa track segue questa linea proprio perché questa traccia tratta dei piani di un uomo di uccidere una donna per soddisfare i suoi desideri sadici. Il misticismo delle ritmiche serrate degli inizi sono finalmente messe da parte a partire dall'impatto dell'impetuoso drumming di Abe Cunnigham, che rompe il "silenzio". Una serie di riff griffati, assimilabili alle lame affilate possedute dal protagonista, con lineamenti melodici accolgono l'esordio delle vocals qui soffuse e leggere le quali impattano con leggerezza con gli accordi della chitarra principale. Il cantato (quasi parlato) di Chino si lascia andare con ampie e ventate linee vocali attraverso il raggiungimento di note alte che cambiano la faccia al nostro quarto pezzo. Le chitarre lavorano all'unisono accogliendo di muovo Moreno che impasta vocalizzi leggermente differenti rispetto ai secondi precedenti. La batteria è incredibilmente ponderata, sembra quasi allacciarsi all'intento lirico dei nostri, abbraccia uno stile che è un misto tra tocchi goliardici ad altri belli pesanti, con un notevole utilizzo del doppio pedale. Verso il ventesimo secondo del secondo minuto, l'ascia da guerra principale disegna il motivo iniziale e riproponendo la seziona ritmica dell'esordio del pezzo, raggiungiamo il momento in cui Moreno si libera con un urlo angelico, il quale nella sua tonalità non perde qualità; il nostro sfodera le sue ampissime qualità rendendosi protagonista alla chiusura del brano, accompagnato dal resto della band. Abbiamo dunque "visto il macellaio", un pazzo sadico che raggiungerà i suoi propositi di morte e violenza, uccidendo una povera malcapitata, giusto per saziare la sua fame di sangue e sofferenza.

Beauty School
La rivista americana "Time" ha elogiato Chino per essere stato uno dei più astratti e intelligenti scrittori di canzoni negli ultimi tempi, e non è difficile capire il perché. La traccia successiva, "Beauty School" (Scuola di bellezza) è attorniata da grossi punti interrogativi, sembrerebbe che questa canzone abbia a che fare con una persona che tolga la maschera pubblica che indossa nel quotidiano e riveli chi è veramente. Il mostrarsi così come siamo non è cosa da tutti: nel nostro piccolo cerchiamo sempre di nascondere le nostre normali debolezze, ma è bene ribadire che nel percorso della nostra vita è sempre ottimale camminare a testa alta, dimostrando di non temere nessun giudizio altri. Un dolce tocco di chitarra, protagonista sin dai primi secondi, appena pizzicato, introduce quindi questa "Beauty School", traccia numero cinque del nostro platter. La chitarra si rende, come abbiamo detto, assolutamente attrice principale, dimostrandosi fondamentale per introdurre Chino che attraverso un cantato luminoso e vaporoso subito ci sganascia note dolcissime, ampiamente scandite dalla batteria scalpitante di Cunnigham. La stagnazione melodica è sontuosamente intervallata nel refrain del nostro singer, ampio e catartico, che si eleva luminosamente verso note efficacemente alte. Il brano è abbastanza sconquassato dal chorus, ma dopo vari secondi il clima serrato e quadrato della prima parte prende il sopravvento: l'atmosfera viene ripresa dalla chitarra che ripropone il gioco interessante che abbiamo già appezzato nella precedente sezione strumentale. Moreno ha ormai le corde vocali collaudate al massimo, il suo ghigno da frontman riprende la scena nel cuore centrale di "Beauty School", la quale è portabandiera di tematiche che già coloravano il songwriting dei giovani californiani anni fa. Il refrain, conclusosi magistralmente, pone una nuova marcia al pezzo rendendolo molto più lento nelle strutture ritmiche, in cui Chino aumenta il suo denso carico melodico. Dall'altro canto il comparto strumentale, adagiatosi sinuosamente su di una produzione ottima, si pone di diritto come una delle situazioni visibilmente più belle di questa traccia.

Prince
"Prince" (Principe) si apre in un contesto ampiamente rarefatto e psichedelico in cui gli strumenti dei nostri, capitanati dalle tastiere di Frank Delgado, fluttuano nell'aria, in un silenzio di tomba. Siamo lontani dall'aggressività degli altri brani, ma dopo pochi secondi la nostra cara voce esce dal nulla incominciando a donarci note molto saporite. Il basso di Sergio Vega è ampiamente messo in rilievo e sembra adattissimo in questo contesto, costruito su pochi accenni di Carpenter, assimilabile ad una giornata di sole tranquilla. Il clima di arroventa quando l'inclinazione delle chitarre aumenta a dismisura, allacciandosi agli innalzamenti delle vocals di Chino, che abbandonano la morbidezza degli inizi per abbracciare tonalità più "aggressive". Il principe protagonista di questo brano incarna i problemi che affliggono l'umanità, ampiamente rilevanti e messi in luce da parole al vetriolo; e nessun tentativo, seppur animato da scopi positivi, può cambiare questo triste destino: "Anyway you decide you try/but you die" (Anche se vuoi decidere di provarci/tu muori). Il mondo che proviene da questa narrazione è una landa dominata dalla negligenza e dall'ignoranza, e sta a noi di migliorare questa situazione, al fine di rendere il nostro mondo un posto migliore. Di tracce disperate e riflessive i nostri non ne possono fare a meno, il loro sfondo tragico ha un sapore quasi intellettuale: ci fa riflettere, pensare, meditare. Al termine del refrain, tutto procede come prima, anche se la chitarra ritmica di Moreno e quella principale di Carpenter eccedono in distorsioni più pungenti e fragorose. Il brano ritorna nelle percezioni del chorus, ma a differenza di quello precedente c'è un ritmo leggermente più incalzante. I vocalizzi del nostro, nello scoccare abbondante della metà del primo minuto, si trasformano in urla acide e corrosive, le quali sputano note al veleno perfettamente allacciate alla potenza delle chitarre. In tutto questo mare di percezioni sonore non possono mancare gli agonizzanti rallentamenti, che un po' rimembrano strutture ritmiche ben lontane dal pacchetto musicale proposto dai nostri nu-metallers, il doom. Tutto questo in pochi funesti secondi, dato che in me che non si dica ripiombiamo nel classico tono, iniziato da un grande Cunnigham dietro le pelli, di questa amorfa "Prince". Il finale è un protrarsi di epicità maligna con le vocals agguerrite di Chino che litigano con un comparto strumentale il quale si innalza a gran livelli, marchiando a fuoco il finale di questo breve ma incisiva track.

Rocket States
Un ragazzo e una ragazza immersi in sgargianti colori, dal rosso squillante ad un acceso arancione, abbastanza arrabbiati l'uno con l'altro, e una chitarra luminosa che gratta a fondo introducendo "Rocket States" (Stati di razzi). Questa song è stata corredata con un video alquanto enigmatico: parla di una relazione violenta tra un ragazzo e una ragazza, e questo legame praticamente è divenuto nel tempo pesante e insopportabile. Se la chitarra sin dagli inizi si propone come "attaccante offensivo", la batteria di Cunnigham non sta in secondo piano, anzi si dimostra indemoniata e cattiva in ogni fill e in ogni passaggio. Il ritmo terremotante accoglie Chino, che con la sua consueta melodia spezza i ritmi belli incandescenti che allo scoccare del trentesimo secondo aumentano di spessore, Carpenter e la sua ascia instaurano riff su riff al veleno, in cui Chino esplode con la sua voce, per poi trasportarci al chorus. Il quale è il cuore pulsante della track, il frangente che più ci aiuta ad intenderla al meglio. Il ritornello è praticamente solo una rappresentazione di dispositivi violenti che infliggono dolore, sparati a mo' di successione per mostrare a questa ragazza cosa gli potrebbe accadere: "Guns. Razors. Knives" (pistole, rasoi, coltelli), minacce al veleno capostipiti di una relazione malata. Una relazione così non potrebbe mai funzionare, e gli scream inferociti di Chino sembrerebbero alludere a ciò. Le urla agghiaccianti del frontman rimangono impresse nella mente, sono perspicaci e impressionanti nel narrare lo stato d'animo della situazione. Il refrain non fa altro che accelerare i toni, riproponendo il riffing di pochi secondi fa: dopo che esso si conclude, abbiamo ancora i dolori per le botte ricevute in un ipotetico pogo. Il respiro si fa affannoso e fatichiamo a riprenderci ma dopo tutte queste sgaloppate sonore, finalmente ci aspetta un breve interludio strumentale, in cui tutto lo scheletro tecnico prende il timone fino a che il chorus viene di nuovo sganasciato contro di noi. "Rocket States" fu non solo il terzo singolo di lancio del disco ma fu anche un successo multimediale, dopo pochissimi giorni, ed è ad oggi una dei brani più conosciuti e canticchiati dell'intera discografia dei nostri.

Sextape
"Floating on the water ever changing picture/Hours out from land/In tune with all our dreams" (Galleggiando sull'acqua in continuo cambiamento/Tante ore fuori dalla terra /Dentro l'acqua con tutti i tuoi sogni): con queste calde e decise parole, luccicanti come diamanti rari, inizia l'ottavo pezzo dell'album. "Sextape" è incentrato sul tema del ricordo, un ricordo non tanto lontano, fatto di colori e sensazioni. Un tuffo nel passato con la voglia di riparare un qualcosa che sembra essersi rotto, come una relazione sentimentale con la donna desiderata. Il pezzo pone alle nostre orecchie delle sane reminiscenze con "Digital Bath", track tratta da "White Pony". La chitarra è abbastanza accennata e basta così per architettare le giuste armonie iniziali in cui si incastona a meraviglia lo spirito melodico di un ispiratissimo Chino Moreno. Non dobbiamo attendere molto prima che il resto della band sia dia da fare: difatti, dopo circa venti secondi, udiamo anche dei colpetti di Cunnigham, leggeri come l'aria che respiriamo. Dopo un cantato assai cristallino, ecco che il nostro aumenta di caratura, e con lui Carpenter che disegna un riff di filigrana abbastanza deciso: il pezzo decolla, come la sensazione di rimorso che però si trasforma in una fulgida e concreta speranza. Il chorus roseo e delicato, "Tonight, Tonight/Tonight, Tonight..I/The sound of the waves collide" (Stanotte, stanotte/Stanotte, stanotte.. Io../Il suono delle onde che si scontrano) non può non stamparsi nella nostra anima e nelle nostre coscienza, disegnando nel nostro cuore l'immagine di un oceano blu e profondo, nel quale poterci abbandonare, per partire alla ricerca del tempo perduto e scoprire chi veramente siamo. Chi conti sul serio nelle nostre vite, chi abbia fatto la differenza, chi voler rincontrare in quella sterminata massa d'acqua cristallina. Le onde ci condurranno laddove la conoscenza e la saggezza dimorano, laddove ritroveremo, finalmente, chi abbiamo sempre desiderato avere al nostro fianco. Le parti alte di Moreno sono fragorose e perfette, d'altro canto le corde vocali del nostro non temono assolutamente nulla. Attrattivo e allo stesso tempo etereo, cosi questo ottavo brano si presenta alle nostre preparate orecchie.

Risk
Secondo voi, un pezzo dedicato a Chi Cheng (il quale, ricordiamo, era in stato di coma in seguito ad un incidente stradale) poteva mai sfuggire? Ovviamente no, un pezzo per l'ex bassista in fin di vita non poteva assolutamente mancare, palesandosi nella tracklist con il nome di "Risk" (Rischio). Una traccia triste in cui una vena decadente e malinconica cerca di descrivere lo stato d'animo dei nostri dopo il tragico l'accaduto. Esistono infatti registrazioni durante le prove di questo brano in cui Chino esclama a gran voce:"This song is for our brother Chi" (Questo è un brano per nostro fratello Chi!). In ogni nota di "Risk" soggiace una sorta di potente rammarico, la perdita del bassista aveva messo a dura prova la base della band. Nei tre minuti e mezzo del pezzo, sin dal primo gran riff d'esordio, siamo travolti da tanta potenza, una sorta di sfogo dovuto ai tanti problemi emotivi che i nostri hanno affrontato. Carpenter, come detto, macina all'istante, un intro monocorde e bestiale, in cui si insinuano prima la batteria e le tastiere di Delgado, poi la voce suadente e repressa di Chino che dopo vari salti mortali tra una nota e l'altra, si lascia andare in un crescendo incisivo: "You can't talk/I'm anxious/I'm off the walls/I'm right here just/Come outside" (Non puoi parlare/Sono ansioso/Sono fuori/Sono qua giusto ora/Vieni fuori), le parole scandite nel chorus sono un centrifugato di tristezza: Chino è confuso ("will find a way/I'm confused - Troverò un modo/sono confuso") e vorrebbe parlare con l'ex bassista, magari fuori da quel labirinto di ospedale, ma Chi non risponde, è in coma. Le ritmiche calano il poker diventando devastanti, soprattutto dopo il refrain soavemente grigio a cui abbiamo assistito, Moreno riprende il comando donando a Risk tanta ma tanta armonia vocale, la quale sembra andare molto d'accordo con la pesante accordatura delle chitarre. Quest'ultime irrompono ancora di più allo scoccare del secondo minuto: le vocals scompaiono per qualche secondo, l'intercalare poliedrico della potente sezione strumentale la fa da padrone, ma dopo alcuni istanti ritorna Chino, con vocalizzi abbastanza filtrati, i quali marcano ancor di più la marcia semantica della traccia. Tra un riffone e un altro le atmosfere oniriche e digitali del ritornello ci prendono la mano, accompagnandoci negli ultimi battiti finali. Non poteva non uscire pezzo migliore per ricordare un amico e un gran musicista.

976-EVIL
Un tappeto sono squisitamente ammaestrato, con chitarre squillanti e alternative è ciò che andremo ad ascoltare nella seguente traccia, "976-EVIL", che mostra una faccia meno possente e più leggera dei nostri. Il titolo sembrerebbe essere ancora una volta riferito alla tragedia di Chi Cheng, ma al contempo rimanda alla memoria ad un film estremamente seguito nell'America dei giovani Deftones, "976-EVIL" del 1988, diretto da Robert Engund (lo storico interprete dell'indimenticabile Freddy Krueger). Un film passato "in sordina" a livello mondiale ma per il popolo statunitense divenuto un piccolo cult ottantiano. La storia di un ragazzo, Hoax, ossessionato dai normali problemi della prima adolescenza: il difficile rapporto con le ragazze, gli atti di bullismo subiti, i problemi di comunicazione con i genitori. Finché, un giorno, Hoax entra in contatto con un numero misterioso, accompagnato da un annuncio promettente la realizzazione di ogni tipo di desiderio. Che sia il Diavolo stesso, ad aver lasciato "appositamente" il suo numero su di un giornale? L'introduzione del brano sa molto di salsa alternativa, le chitarre leggere sono impastate con l'abbondante utilizzo delle tastiere, in modo tale che il nostro approccio al brano venga reso quanto più leggiadro possibile. Agli inizi, un'aura di brillantezza ci pervade, fino a che tutto viene amplificato dolcemente con l'entrata eterea di Chino, il quale pone in noi un chiaro senso di beatitudine celeste. I colpi dietro le pelli di Cunnigham, all'inizio precisi e millimetrati, subiscono una chiara accelerazione verso lo scoccare del primo minuto, e con loro le vocals, le quali impennano di caratura e di impronta regalandoci dei momenti veramente lodevoli. Il chorus, più breve del previsto,reintroduce le nostre attenzioni alla seconda sezione del brano, in cui vengono ripresi gli stessi punti iniziali: se all'inizio della seconda parte abbiamo assaporato però le medesime cadenze di prima, al susseguirsi di questa sezione notiamo un'impostazione del sound che si fa più puntigliosa, permettendo a Chino di dare sfogo alle sue note qualità canore, le quali soffrendo un po' nel finale, donandoci secondi di buona musica. In conclusione, questa "976-Evil" risulta un pezzo leggero ed orecchiabile, lontano dallo spirito heavy che contraddistingue i nostri da sempre.

This Place Is Death
Un suono assimilabile ad un organo quasi clericale si impone direttamente nei primi frangenti di "This Place Is Death" (Questo luogo di morte), dando uno smalto quasi innovativo alla proposta musicale dei Deftones. Nei primi secondi udiamo grossi flussi distorti, i quali si avvezzano a trasformarsi in una sorta di trampolino di lancio per l'acuto di Chino, che si incastra con il riffing pesante di fondo. La batteria nonostante qualche incertezza e qualche posizionamento in secondo piano riesce comunque a graffiare, facendo sentire la sua presenza anche all'ascoltatore più distratto. I primi spunti di questo brano seguono la classica impostazione dei Deftones, ma la novità esecutiva si materializza intorno al primo minuto, in cui la voce del frontman rimane per molti e decisivi secondi impostata su un cantato parlato abbastanza filtrato, il quale riesce a scandire ogni parola, in maniera estremamente efficace nonché suggestiva. La traccia, nonostante la minacciosità del titolo, parla del rapporto con noi stessi, con la nostra personalità; la quale è il nostro biglietto da visita in qualunque istante della nostra vita. Certo che non sempre risultiamo avere un rapporto ottimo con la nostra personalità, anzi... a volte ci sentiamo imbottigliati in situazioni che vorremo fossero diverse: ma proprio in quell'esatto istante dobbiamo sfoderare con forza il nostro "io". L'intensità del bano comincia a carburare dopo che il filtrato a cui abbiamo assistito muta in un incastonato di tanta melodia, e risulta facile catalogare questo pezzo come docile e pacato, da inserirsi direttamente nel calderone delle ballad, peculiarità musicale a cui i nostri sono molto affini. Tra buoni acuti e improvvise impennate di batteria il pezzo procede in maniera buona; la seconda sezione ritmica si mostra come un flashback, le stesse impostazione sono riprese regalandoci i secondi finali colorati dall'ottima voce di Chino, che non può non stamparsi in mente.

Bonus Tracks iTunes: Ghosts
Il disco non si conclude con "This Place Is Death": nell'edizione digitale rilasciata su Itunes, i Deftones hanno collezionato tre cover/chicche veramente particolari. La prima di queste è una cover del gruppo post-punk/art pop Japan, guidati dall'impronta vocale di David Sylvian, noto al mondo musicale anche per i suoi lavori solisti con il mastermind dei King Crimson Robert Fripp. Sebbene nella versione alternativa di "Ghosts" (Fantasmi) dei Deftones venga effettivamente aumentata la distorsione di fondo, il pezzo ricalca molto l'aura psichedelica dell'originale. L'intro impetuoso e sintetizzato raccoglie gli spruzzi vocali di Chino, che riesce magistralmente a replicare i cenni di ugola di Sylvian. Il resto della band è in mano al synth di Frank Delgado, il delegato ufficiale, e la base ritmica che si cela dietro questa cover non fa certo mistero della sua esistenza: Cunnigham colora lo sfondo grazie ai suoi piatti mentre Vega sfoggia grande personalità, grazie al basso distorto nei fraseggi, risultante esso gustoso e ricercato. La passione per l'elettronica e per i Depeche Mode di Chino, in un certo senso, trovano casa in questi quattro minuti, la sua voce è più filtrata del solito e riesce proprio per questo motivo ad immedesimarsi in ogni colpo di sintetizzatore e tastiera, disimpegnandosi a stordire l'incauto ascoltatore, sfoderando anche matrici pop che in fondo sono presenti nelle corde poliedriche del nostro performer. Impacchettare una cover di una band distante musicalmente kilometri era complicato, il gesto di proporla da parte dei Deftones è tutto da applaudire e possiamo incoronare questo rifacimento come molto riuscito. Il testo non viene stravolto di una virgola, continuando come nella versione originale a narrare di quanto sia dura, molte volte, convivere con i fantasmi del passato. Pensieri assillanti e preoccupazioni, ansie, paranoie: tutto quanto possa recarci fastidio, legato alla nostra vita ed alla nostra personalità, sembra prendere vita, tormentandoci in maniera asfissiante, sino a condurci alla totale follia. Proprio quando tutto è tranquillo e stiamo per addormentarci, ecco che i fantasmi giungono; e non c'è modo di mandarli via, se non quello di aspettare l'alba, in piedi.

Do You Believe
La seconda traccia/cover aggiuntiva è invece presa dal repertorio di un gruppo pop rock/indie svedese, i The Cardigans, band che ha raggiunto un discreto successo soprattutto a metà anni '90, quando i nostri Deftones stavano lentamente prendendo forma. "Do You Believe" (Ci credi?) parte in maniera molto distorta, ampiamente stilizzata secondi i canoni della band di Sacramento, anche se ovviamente le reminiscenze pop si fanno sentire, anzi; il cantato di Chino a tratti ricorda molto l'ugola della leader della band svedese, Nina Persson. Il drumming è pesante e intenso e Carpenter fa la sua ottima figura, dando uno sfondo heavy, rompendo anche le matrici pop del brano disegnate dalle tastiere e campionamenti di Delgado. Moreno concede anche la sua impronta, dando ogni tanto una coltellata con uno scream feroce, dicendo apertamente che lo stile Deftones è sempre parte integrante del loro sound, anche se si sta arrangiando una cover. Il testo di "Do You Believe" lascia intendere che a volte l'amore non sia abbastanza. Questa canzone tratta difatti di tradimento, nonché dello stato d'animo del tradito. Non è un mistero quanto le persone, in qualche modo, ti tradiscano, ti lascino, poi tornano anni dopo, e sembrano essersi trasformate, tutte felici e meravigliose, come se il loro nuovo amore e la loro vita li abbiano riscattati per i loro tradimenti passati. Sta a noi, a quel punto, crederci o meno, alla loro buona fede Il brano procede impetuosamente, anzi quasi dimentichiamo che si sta parlando di una cover, la mano dei nostri è pesante ed evidente. Come "Ghosts", anche la seconda cover offre nei suoi rotondi tre minuti una buona, buonissima prova.

Caress
Abbiamo toccato con mano con queste due cover, due mondi musicali differenti e la terza traccia, che chiude definitivamente il platter, "Caress" (Carezza), non è da meno. Il gruppo che ora i Deftones prendono artisticamente di mira sono i californiani post-hardcores Drive Like Jehu, compagine che con i suoi 2 album in studio ha avuto un discreto successo negli states. Stilisticamente l'intro ricalca molto l'originale: plettrate infernali, linee di basso al veleno e una batteria che in un saliscendi decisivo colora i primi secondi. Devastante nei primi istanti, la traccia si presenta come la colonna sonora di un pogo senza fine. Chino e la sua vena più hard-core provoca il devasto più totale e gli strumenti (anzi, più che strumenti armi da fuoco) sono utilizzati al massimo delle loro potenzialità. Rapida e ogni riff tagliagola si cela dietro un'energia senza freni, e ogni momento in cui Chino sembra smorzare questa violenza è invece il secondo esatto per aumentare la potenza canora. Sergio Vega, ricordando molto bene le sue origini musicali, dona un grande brio al brano, come si può ben notare verso la fine del pezzo, in cui il suo basso si sopraeleva agli altri strumenti concludendo il tutto. Questa cover forse era quella più stilisticamente complicata da rifare ma in generale i nostri hanno compiuto una gran bella figura. Non è ben chiaro di cosa parli il testo, abbastanza criptico nel suo essere, molto ironico e carico di situazioni ai limiti del paradossale. Il ritornello potrebbe lasciare intendere che la protagonista, una certa Gracie, venga "punita" per i suoi eccessi dal punto di vista sessuale. A furia di avere rapporti occasionali con chiunque e senza la minima preoccupazione, ecco che la donna si ritrova gravida, condannata a crescere un figlio indesiderato, giunto come "punizione".

Conclusioni
In sede di conclusione, mi sia concesso un suggerimento "postumo" che mi sentirei di dare ai Deftones, qualora per un qualsiasi caso mi ritrovassi a parlare loro, in una circostanza di colloquiale tranquillità: ragazzi, detto fuori dai denti, sarebbe stato meglio se aveste intitolato questo disco "Tiger Eyes"... per la grinta, per la voglia di andare avanti nonostante la tragedia di Chi, per la capacità di rialzarsi, per la rabbia (dimostrata con i fatti) con cui avete letteralmente smontato ogni eventuale critica vi era stata rivolta all'alba del 2010. Non ci girerò troppo intorno, è bene mettere subito in chiaro il fatto che "Diamond Eyes" sia un disco in conclusione riuscitissimo, ogni pezzo del mosaico combacia ottimamente armonizzandosi con tutto il resto. La band non viveva di certo un buon periodo: dopo il cambio di produzione che comunque provocò un senso di smarrimento, c'era da aggiungere la nota perdita dell'ex basso Chi Cheng, colui che era stato decisivo soprattutto dal punto di vista compositivo. A differenza del meno eclatante "Saturday Night Wrist", l'apparato produttivo è decisamente migliorato in ogni sua forma: le chitarre e il basso sono altamente distinguibili e ponderate, e ogni pecca sonora del precedente lavoro in studio era stata perfezionata. Un buonissimo risultato da questo punto di vista e questa benevola situazione ci fa rendere ancora di più partecipi in ogni brano del disco, volutamente diretto e suonato interamente senza l'utilizzo di Pro Tools, in quanto il gruppo ha provato e riprovato finché ogni singolo pezzo non fosse riuscito alla perfezione, registrando in presa diretta. Brani che nonostante qualche passetto falso riescono a caricarsi di potenza e trascinarsi di dosso liriche potenti e emozionanti; del resto i Deftones sono sempre stati dei piccoli maestri in questo, cioè nel narrare storie strettamente collegate con qualunque stato d'animo che può caratterizzare un semplice essere umano. Assodato che il liricismo è mirato e a volte anche nostalgico (come abbiamo visto leggendo alcuni testi scritti per Chi Cheng), quindi questo aspetto risulta come un appiglio fondamentale a cui i nostri si aggrappano. E l'apparato musicale? Assolutamente razionale, con una prova ampiamente professionale dei nostri. Chino Moreno e il suo charme da musicista poliedrico (ricordiamo che qui ricopre il ruolo di chitarra ritmico) sono il portabandiera, il marchio inconfondibile del Deftones-Sound. Tutto passa per il suo carisma, quelle capacità che lo accompagnano sin dalla giovinezza, dall'altra parte non si può non sottolineare e lodare il talento e il groove di Stephen Carpenter, il geometra e la mente musicale dietro tutto. Assieme ai due "mastermind" lodiamo l'ottimo e tentacolare AbeCunnigham e la new- entry al basso Sergio Vega, che in pochi mesi passò dal suonare in piccoli palchi newyorchesi a grossi festival di tutto il globo. Nonostante alcuni normalissimi dubbi come attitudine e come capacità di ambientamento, il suo lavoro è sicuramente una delle cose che più si ricorderanno di "Diamond Eyes". Gli anni passano per tutti come è giusto che sia, ma nel 2010 un gruppo capostipite di un genere, che stava ormai evaporando dai radar metallici, riusciva ancora tenere bada ai detrattori, aveva ancora gli attributi nel dimostrare che con serietà e attaccamento musicale si poteva fare veramente di tutto. I paragoni col passato che tanto risultavano pesanti alla nostra compagine, dopo questo disco, scemarono leggermente: la band aveva dimostrato di avere ancora tanto da dire e non bisognava dunque appellarsi a lavori sì epocali, ma che ormai erano stati superati. I Deftones passano anche da qui, da "Diamond Eyes", un lavoro che riserva nel suo cuore gran bei momenti che confermano la carovana Deftones come una delle band alternative metal più decisive di sempre.

2) Royal
3) CMND/CTRL
4) You've seen a butcher
5) Beauty School
6) Prince
7) Rocket States
8) Sextape
9) Risk
10) 976-EVIL
11) This Place Is Death
12) Bonus Tracks iTunes: Ghosts
13) Do You Believe
14) Caress


