BURZUM

The Ways of Yore

2014 - Byelobog Productions

A CURA DI
FEDERICO PIZZILEO
04/04/2017
TEMPO DI LETTURA:
7

Introduzione Recensione

25 anni. Un intero quarto di secolo ormai è trascorso. Ben venticinque anni orsono, nel Marzo del 1992, veniva dato alla luce il primo full-length del Lupo di Bergen: "Burzum", grazie al quale (insieme ad altri lavori usciti nello stesso anno, come "Wrath of the Tyrant", "Diabolical Fullmoon Mysticism" e "A Blaze in the Northen Sky") la Norvegia venne accreditata come foriera massima di quell'orda di gruppi, individui ed associazioni che presero parte alla scena del black metal come la conosciamo oggi (sebbene anche varie realtà intraprendevano i loro percorsi  in altre latitudini del globo). Ma, perché c'è sempre un "ma", il tempo passa. Con esso, le persone invecchiano, cambiano, c'è chi sceglie strade diverse e chi persiste sulla scia iniziale, c'è chi lascia questo mondo (per entrarne in un altro) e chi continua a godersi la sua vita sebbene gli acciacchi dell'età inizino a farsi sentire. Nonostante tutto, una certezza è sempre lì, tatuata sui fili del tempo: le emozioni provate, l'arte, la musica e le idee, non cesseranno mai di esistere. Ecco, per quanto riguarda Varg Vikernes ed il suo progetto Burzum, funziona un po' così; in ben venticinque anni sono cambiate una miriade di cose: si è passati dalle oscurità recondite ed abissali dei primi album "Burzum", "Aske", "Det Som Engang Var" e "Hvis Lyset Tar Oss", per proseguire voracemente con pubblicazioni come il sempiterno "Filosofem" ed i più eterei "Dauði Baldrs" ed "Hliðskjálf" (questi ultimi due registrati proprio tra le mura carcerarie, ndr), passando, dopo ben 17 anni, ad un secondo periodo di splendore in cui egli convogliava le sue energie e le sue idee in pubblicazioni come "Belus", "Fallen", "Umkiptar" per poi passare a creazioni più trascendenti come per quanto riguarda "Sôl austan, Mâni vestan" e, infine, nell'ultimo lavoro eclettico che chiude (attualmente) la cerchia discografica dell'artista norvegese: "The Ways of Yore" (trad. Le vie di un tempo). Insomma, Varg Vikernes ha sempre dimostrato di non appartenere al suo tempo e questo gli ha sempre permesso di sviluppare un certo metodo critico ed individualista nella sua musica, proprio quell'individualismo che ha segnato i dogmi della fiamma nera, le cui origini si riflettono nella successiva evoluzione. Dunque, vien da sé che discorrere di un disco come quest'ultimo non è affatto semplice grazie (o a causa) della sua - sempre più decisa - figura poliedrica e multiforme. Ebbene, ancora una volta ad un anno di distanza dall'uscita dell'ultimo lavoro, il 2 giugno 2014 veniva dato alla luce, sotto l'ala protettiva della già conosciuta "Byelobog Productions" (etichetta ufficiale di Burzum), l'undicesimo (o dodicesimo, se si tiene conto dell'ep "Aske") atto del progetto. Inquadrato da una cornice dorata caratterizzata da piccole svastiche, che in questo contesto possono risultare facilmente opinabili in quanto figura dalla duplice accezione (quella maligna di una visione piuttosto nazista e quella storica ed antropologica relativa ad una visione del simbolo come segno paradigmatico solare che si ritrova presso molte popolazioni dalla preistoria fino in età storica, variamente interpretato nel quadro del simbolismo vitale) e da un layout affidato a Dan Capp, possiamo ammirare una meravigliosa incisione con colori freddi del francese Gustave Dorè: "Viviana e Merlino",  in onore dell'opera di Alfred Tennyson "Idilli del Re" (ndr, una incisione appartenente alla stessa "collana" venne utilizzata dal gruppo norvegese Dimmu Borgir nel loro album di debutto intitolato "For All Tid", annata 1994). Nella rappresentazione, Merlino e la Dama del Lago riposano sotto una quercia nella foresta del Broceliande, ma la storia è tutt'altro che idilliaca, in quanto proprio quel tronco di quercia cavo sarà il luogo in cui Merlino dormirà per sempre. Per comprendere appieno l'intera vicenda, bisogna innanzitutto discostarsi dalla visione di Merlino come il bonaccione di cui abbiamo sempre sentito parlare; si narra che Merlino nacque da una donna e dal Diavolo in persona e rappresenti un po' quell'accezione opportunista dell'uomo. Bardo, incantatore, fedele consigliere del Re Uther Pendragon e di Artù, Merlino è quell'individuo che cerca di forgiare questi ultimi due per detenere il potere ma cade nel tranello dell'amore. Proprio Vivien che, a differenze delle altre donne del ciclo arturiano, risulta non essere un'icona passiva ma una donna viva (come suggerisce il suo stesso nome, del resto), sfrutta questa debolezza di Merlino per riuscire a dileggiarlo ed a rubargli i poteri magici con l'intento di costruirsi un castello su di un lago (assimilando la nomea di Donna del Lago, anche se in molte tracce letterarie di parla di due figure distinte). Ivi ella crescerà un neonato, il cui nome sarà Lancillotto, morendovi di vecchiaia con quella magia che non rese abbastanza fedeltà al suo primo portatore dopo aver donato la spada Excalibur ad Artù . Pertanto, partiamo subito in questo - per ora - ultimo viaggio fuoriuscito dalla mente dell'artista di Bergen.

God from the Machine

Apriamo il racconto con God from the Machine (trad. Deus ex machina/ salvezza mediante l'intercessione degli dei). Un suono di campana ci richiama all'attenzione; subito si staglia il pizzico di corde appartenenti a qualche arpa e poi il battito delle dita sulla pelle di un tamburo. Sembrano suoni primitivi, primordiali che, senza troppe interferenze ed aggiunte, danno impulso ai muscoli del corpo ed alla mente.. come se fossero note di creazione. Chiudiamo gli occhi. Cosa vedete? Un cerchio di persone intorno ad un focolare gestito da uno sciamano? Ecco, probabilmente è anche questo ciò che il Nostro ha voluto mostrarci. Con un titolo del genere, un titolo che si rifà all'antico personaggio della tragedia greca, una divinità per l'appunto, che giunge sulla scena per risolvere controversie e problemi in cui le sole leggi di causa-effetto non possono agire, l'immaginazione ha libero arbitrio. Immaginate, ad occhi chiusi, di essere ad un rituale sciamanico, il fumo dell'incenso che si spande e crea forme arrotondate dirigendosi verso il cielo; le faville del focolare che si librano in aria per poi cadere dolcemente sul terreno, spegnendosi; il suono dei campanacci di cui è adornato lo sciamano per riuscire a far da tramite con una divinità, ed il suo cadenzato danzare senza freni intorno a quel fuoco rigeneratore. Più il brano va' avanti e più l'incedere del tappeto sonoro si fa più allegro, donando il ritmo con l'ausilio delle corde di ciò che apparentemente sembra un'arpa. Il muoversi in modo armonioso e spoglio di freni ci porta a voler toccare con mano la concretezza delle note di questo ensemble strumentale di carattere popolare e primevo. Note provenienti dalle viscere della Terra, generate da mani guidate dalla stessa divinità che - si suppone - stia discendendo in nostro aiuto, in una visione piuttosto tragica dell'esistenza umana, vissuta, però, con una speranza.

The Portal

Il rito druidico ha quindi effetto e ci permette di aprire la seconda traccia, intitolata The Portal (trad. Il portale). Il carattere celtico delle prime note permette l'articolazione di quanto ci aveva portato ad immaginare in precedenza; con l'ausilio di uno strumento a corde, il cui suono pizzicato pungente risulta comunque armonioso, cadenzando l'intera ballata popolare intorno al focolare, immersi nella fitta boscaglia e sotto un megalitico dolmen creato da gloriosi massi. Ecco che l'incedere dei toni di una piccola campana ci richiama all'attenzione di quanto è posto d'innanzi ai nostri occhi. Prontamente subentra il ritmo concitato di un tamburello che accompagna l'intero incedere dei passi del druido fino al centro del megalite ed - imperterriti - i popolani continuano la loro danza propiziatoria tutt'intorno alla struttura. E' primavera, la natura si risveglia, gli alberi rinvigoriscono, gli animali sgattaiolano fuori dalle loro tane ed il profumo dell'erba bagnata dalla rugiada di qualche ora prima, permea l'intera area di piacevoli emozioni. Se solo si potesse tornare indietro a vivere semplici, in pace con gli Dei e con la Natura, tutto tornerebbe alla sua vera essenza. Ebbene, prima di conoscere il Tutto, bisogna abbracciare l'Essenza nel Vuoto. Inquadriamo dunque questo brano ritualistico degno delle migliori ballate medievali. La melodia espressa racconta di tempi lontani, appartenenti alla Tradizione popolana ed alle credenze ed ai riti riversati poi nelle varie saghe letterarie, una fra tutti, il ciclo arturiano. Ad arrotondare il componimento subentra nell'ensemble melodico già ampiamente radicato, una melopea creata ad hoc con l'ausilio di un sintetizzatore quando, nell'immediato, si percepisce con sottigliezza di ascolto, il verso di una strolaga comune. Segno di quella natura che in presenza di una tale energia sviluppata e canalizzata dalla musica, dalla danza e dal druido, riesce ad aprire il portale tra ciò che è il passato e ciò che è il presente, ciò che è l'Inverno e ciò che è la Primavera. 

Heill Óðinn

Giunge quindi l'ora di intonare un canto per facilitare la discesa della divinità, questa volta ci rivolgiamo ad Odino con il terzo brano del lotto: Heill Óðinn  (trad. Ave o' Odino). Di carattere minimale, reiterato ed incantevole (con accezione di "incanto"), questa invocazione al Allfaðr si manifesta con la caratteristica principale di essere il primo brano in cui riusciamo ad udire la voce del Nostro che si destreggia con altisonanti omaggi e vocalizzi di carattere folk del tutto diversi rispetto a quelli molto più "metallici" (passatemi il termine) e - comunque - ruggenti ascoltati nel precedente Umskiptar. "Heill Óðinn, sæl Óðinn", che tradotto significa "Ave o' Odino, salute a te o' Odino", è un periodo che si ripete all'infinito, fino allo spasmo, per tutto il brano, accompagnato da note prettamente dileguanti ed utili a sottolineare la cadenza della pronuncia del Lupo di Bergen. Dunque Varg si fa druido, sciamano, si pone come  colui che si "abbassa" d'innanzi al fuoco ed al cumulo di pietre megalitiche per invocare (e non evocare) il saggio Odino, padre degli Asir e primo Erilaz (conoscitore e maestro runico). Quando le popolazioni continuano ad incitare la sua discesa con la danza e la condivisione dell'idromele, egli si prostra come goðar o sacerdote tramite il quale il famoso "deus" fornirà le sue risposte; ma prima di tutto questo, Varg si pone come semplicemente se stesso, un semplice essere umano, infimo nella sua natura di Uomo, che omaggia con canti, cori, danze ed echi di tamburelli e chitarra le sue divinità. Ecco cos'è questo brano: un episodio individuale e collettivo allo stesso tempo poiché voce di tutti coloro che credono nella tradizione europea, nella tradizione e negli Dei di quelle popolazioni germaniche le quali ci vennero presentate come "barbare" dall'interpretatio romana.

Lady in the Lake

Seguiamo il quarto episodio del platter, che prende in nome di Lady in the Lake (trad. Donna nel Lago) . Accolti da una nota di sintetizzatore che sancisce l'inizio, proviamo ad immergerci nelle lande sempiterne raccontate nella materia di Britannia (meglio conosciuto come "ciclo arturiano"). Immediatamente un climax di un binomio di note continua ad espandersi nelle nostre orecchie e come presi per mano, immaginiamo di camminare sul terriccio umido vicino ad un lago; guardandosi attorno, siam circondati da una fitta boscaglia,  tra le cui reti di tronchi si alza, imminente, una leggera foschia che copre la vista ad un palmo della mano. Uscendo lentamente, come se spinti da un desiderio profondo, da quella macchia di tronchi e verde, il fato ci pone d'innanzi un lago su la cui superficie si specchiano i cumulonembi che danzano leggiadri nel cielo. Improvvisamente un synth si espande nel retroscena sonoro donando alla possibile visualizzazione un leggero filo magico. La Natura si presenta magica, intrisa di una particolare energia che permette, persino al più freddo degli uomini, di esserne affascinato, catturato da una visione decisamente reboante. Come pervasi da una continua sete di bellezza, rimaniamo incantati da cotanta abbondanza presente su quel territorio, il cui mirare viene sostenuto dal ripetersi di quell'ensemble sonoro così minimale. Ancora poco tempo ci viene concesso prima che, all'improvviso, la bruma, si dissipi permettendoci di scorgere al centro di quello specchio d'acqua la figura di una donna, intenta a rinfrescarsi, svestita di ogni accessorio e superfluo. Dunque, quello che fino ad ora pareva essere un brano strumentale, cambia assetto in seguito all'introduzione del Nostro. Con voce altisonante, leggermente ovattata, egli pronuncia parole che descrivono la particolarità di quel momento: "venne dal lago, in tutta la sua bellezza e vivacità " il cui passo viene scandito dalla nota riverberata della tastiera. Passo dopo passo s'avvicina ed ancor con più facilità riusciamo ad intendere chi ella è: l' "eccelsa strega viene dal basso". Dunque si tratta di Vivien, chiamata anche Nimue, colei che spodestò dei suoi poteri il potente Merlino.  E' dunque questo il luogo in cui ella dimora, dunque la visione rimane lì, pietrificata sulla sua figura che dolcemente, incantevolmente avanza verso di noi, dal basso di quel lago, in tutto il suo splendore.. e così il brano segue una ripetizione a tratti fino allo spasmo ma non eccessiva, concludendosi allo scoccare del quarantesimo secondo del quarto minuto. 

The coming of Ettins

Un suono leggero ed ampolloso apre le porte di The coming of Ettins (trad. L'arrivo degli Ettins).  Vien facile dire come, insieme al brano precedente, anche questo ricordi molto il penultimo lavoro del Conte, con la differenza che, in questa sede, troviamo - in aggiunta - linee vocali enfatizzate. Due note ridondanti ed ecco che si staglia nel sottofondo del tappeto sonoro una voce profonda, sulfurea, che dichiara parole non facilmente intendibili. Al termine della dichiarazione, si dipana nell'aria la marcata melodia espansa che abbiamo già avuto modo di incontrare in "Sol Austan, Mani Vestan". Il suo ruolo introduttivo, canalizzante e avvolgente di un'aria mistica e atemporale dell'ensemble, ci catapulta, con l'aiuto di note quiete ed acute che lavorano parallelamente creando una armonia rasserenante, nell'introduzione del Nostro. Improvvisamente si staglia la voce di Varg che con enfasi ed incalzante intonazione, elargisce il testo del brano che improvvisamente inizia a prendere forma, a modularsi, mostrandone il significato. La visione che ci viene prostrata davanti è una visione simil-apocalittica, eppure rigeneratrice. Importante nella comprensione è la visione delle popolazione germaniche riguardo alla fine del Tutto; non esiste fine, non esiste inizio, bensì esiste un ciclo continuo di morte e rinascita. Dal cielo, dalle stelle, cadde un masso ghiacciato il quale si sciolse al contatto con la Terra, sgocciolando cuori di pietra che si trasformarono in orrori abominevoli. Si narra che all'origine di tutte le cose che oggigiorno ci circondano, vi sia il sacrificio che i figli di Bor - Odino, Vili e Ve' - fecero del gigante ghiacciato e primordiale Ymir; dal suo cranio nacque il cielo e dunque è facilmente deducibile il significato di questa prima parte del testo: dal cielo, dunque dal cranio di Ymir - il gigante primordiale - cadde il masso ghiacciato dalle cui gocce vennero, a loro volta, alla luce le creature abominevoli che presero il nome di Ettin - se si parla della trasformazione inglese del nome originale in Old Norse jötunn, la cui magia e la cui interminabile bramosia consumarono velocemente la Terra, finche' giunsero le tre divinità: WôdhanaR, ThunaR and FraujaR (i nomi si rifanno alle iscrizioni in Old Norse dei rispettivi Odino, Thor e Freyr) ponendo fine a quel disastro gettando quegli orrori negli Abissi. Molti Ettins rimasero, freddi e morti ma allo stesso tempo vivi e sognanti, in attesa, nei luoghi più oscuri e profondi del Mondo. Ebbene, possiamo ben inquadrare le figure dei Giganti come le rappresentazioni maligne che vivono in terra; ben bisogna precisare la loro natura: essi sono i primi esseri mai creati e detengono, per tanto, il dono della conoscenza.. dunque sarà per questo che essi sono stati sempre "rispediti negli angoli più reconditi"? Non sempre è dato saperlo ma, mentre ci poniamo questioni che non a tutti competono, la melodia reiterata e ripresa ciclicamente come sottofondo alle parole del Nostro, inizia piano a piano a sfumare chiudendo il brano con questo interessante dubbio. 

The Reckoning of Man

Sebbene il titolo originale fosse "Thule3" ed il secondo titolo provvisorio era diventato "The Reckoning of Mimir", il nome ultimo e quello con cui tutti conosciamo questo brano che, a detta dello stesso autore, fu il primo registrato per questo platter, è The Reckoning of Man (trad. La resa dei conti dell'Uomo).  Una melodia malinconica, proposta dal sintetizzatore, ci introduce alla resa dei conti; leggeri rintocchi di cristallo acuiscono l'atmosfera ammantandola di una dissolvenza particolare. Stringiamo le palpebre ed accostiamoci a questo ennesimo episodio.. in aiuto ci viene la voce cavernosa del Conte che prende le parti del viandante che per lungo ed in largo viaggiò durante il corso della sua esistenza e, voracemente, la fine o la morte - come dir si voglia - lo divora. Modello dell'essere Umano, ecco che ci racconta: "Ricordo quel Sole splendente che infonde fiducia, le foreste ghiacciate e le foglie cadute ed ancora ricordo la collina cava che regnava sotto al cielo. Ricordo le fredde e strette grotte, i lunghi cunicoli quieti ed i grandi laghi che - sotterranei - scorrevano. Ricordo i fiochi abissi della Terra, la lucida signora nella luce e la sua sacra strofa";  la dolce sinfonia il cui fiume sonoro viene cavalcato da amari ricordi, si protrae incessante in sottofondo, incorniciando a dovere questo ultimo testamento. "Ricordo la bestia luminosa nella sua nave, l'alto Troll che le racconta storia ed il dolce miele nella cavità tormentata; ricordo la parola d'ordine protetta, il rassicurante simbolo segreto e gli antichi oggetti dell'Óðal" prosegue dunque il lascito del viandante, tra le storie tramandate oralmente al ricordo imperituro dei suoi antenati e della propria Stirpe (per l'appunto, Óðal rappresenta il retaggio).. ed infine "ricordo le rune rosse sulla roccia, l'incantesimo del vedere esser cantato e del bel cunicolo l'ardita apertura", ebbene le memorie di atti stregonici tradizionalmente appartenenti alle proprie genti e stirpi, alla propria cultura, concludendo ricordando come, dopo il Destino degli Dei - il Ragnar?k - tutto ritornerà privo di alcun dolore, con la rinascita dello splendente Baldr e con lui l'Uomo. Sicché, ecco la deposizione ultima dell'Umanità, accompagnata da una lenta e cadenzata atmosfera surreale, espansa e minuziosa la quale sfuma gradevolmente chiudendo il brano. 

Heill Freyja

Intoniamo insieme un secondo canto celebrativo e propiziatorio, questa volta per colei che venne donata come ostaggio dalla stirpe dei Vanir a quella degli Æsir: Freyja, chiamata anche Vanadis. Heill Freyja (trad. Ave o' Freyja) è il secondo episodio evocativo, che si presenta come collegabile ai primi del lotto. Un battito di tamburo, poi le dita scorrono ferme sulle corde di crine di cavallo della lira; ancora due battiti e le corde echeggiano come in una caverna.. all'improvviso il Nostro elargisce con un canto monosillabico intonato e coadiuvato da un secondo elemento il quale, una volta che arriva il momento di intonare l'invocazione, fa da sotto strato sonoro. "Ave o' Freyja, Salute a te, Freyja" è il corpus del canto; immaginate di presenziare ad un rituale sacrificale, chiamato Blót, ivi, attraverso lo spargimento del sangue e della consegna del bestiame, si danza e si inneggia alla divinità per propiziare il raccolto delle terre. Freyja era, non a caso, una delle divinità più importanti per i rituali di autunno ed inverno le cui usanze (ndr. vedi la presenza del maiale nei natali norvegesi) si ripercuoto ancora oggi. Dunque pensate di essere un goði, il sacerdote che presenzia il rituale, ed immaginate, soprattutto, di offrire il fluido alla Dea mentre ogni partecipante si ubriaca dolcemente pregando per Freyja e per i propri antenati, fino a avere la possibilità di percepirli.

The Ways of Yore

Beviamo dunque e presenziamo al rituale, proprio come The Ways of Yore (trad. Le vie di un tempo).  Eccoci all'ascolto dell'ottavo brano, nonché title track, la cui partenza è sancita da un climax di note espanse realizzate ad hoc dal nostro tramite l'ausilio della tastiera. Pochi secondi dopo parte una roboante plettrata che sembra essere stata riprodotta nella caverna dell'Orso, lo speco degli antecessori . L'accuratezza della cadenza ritmica portata avanti dal plettro, quindi dal suono grave e distorto ma che si diffonde accompagnato da un riverbero, accompagnato dalla nota di tastiera risonante, ci guidano verso quella decina di secondi dopo il primo minuti in cui all'ensemble sonoro si aggiunge il battito di un tamburo in lontananza e l'intonazione di alcune note su un basso. Questo ricco insieme crea un'atmosfera distorta e caratterizzata da numerose dimensioni; il suono lontano, quello vicino, passando da quello più chiaro a quello meno codificabile ammantano l'aria di una particolare formalità ritualistica che compie il suo dovere volendoci trasmettere quanto di più lontano ed anche vicino possa arrivarci. Dal riverbero spaziale di alcuni strumenti, verso il suono più concreto e "vicino" di altro. L'intero complesso crea dunque il tappeto sonoro sul quale, nell'imminenza, il Nostro arringa parole vergini, senza troppe difficoltà. E' giunto il momento di immergerci nel suo mondo, trasportati dal vento del ritmo musicale; in uno spazio astratto e siderale giungiamo, tutto ciò che osserviamo sono "luci nel lago, tremolanti fantasmi, danzatori nel profondo, meraviglioso bianco mondo, che ritorna, che risorge".  Il lago primordiale sulla cui superficie si rispecchiano le luci del Mondo e sulle sue sponde tremolanti fantasmi che sembrano essere i defunti duranti gli anni ed i secoli, danzano nel profondo della loro esistenza. Le vie di un tempo si aggrappano dunque ad un ciclo continuo che rende, come in un'azione alchemica, il nero in bianco e dunque, il ritorno del meraviglioso bianco mondo, di quello incorrotto e primitivo, di quello di un tempo, è destinato a ritornare ed a risorgere e così per sempre. Come ci suggerisci, consapevolmente o meno, il lupo di Bergen, con la reiterazione della composizione fino al termine del brano stesso. 

Ek Fellr (I am Falling)

Continuiamo il cammino con Ek Fellr (I am Falling) (trad. Sto cadendo).   In effettivo, è necessario - per dove professionale -  dire che questa è l'originale title-track "Fallen" dell'omonimo album la cui recensione la potete trovare nella discografia del Conte a piè pagina. Realizzata a Tromsø nel 2007, sebbene alcune parti già furono ideate a Trondheim negli anni '90, non fu mai contenuta in alcun album prima di questo.  Concretamente, l'intero brano si propone un po' sulla scia folk ed invocativa che abbiamo già avuto modo di assaporare nei brani precedenti. La lirica semplice e minimale contraddistingue anche questa volta questo brano il cui ritmo viene, in modo schematico, cadenzato grazie all'ausilio di una chitarra acustica la quale impregna, con due semplici note, l'intero tappeto sonoro di un particolare alone grigio e malinconico. La misura e la cadenza dell'emissione sonora del Nostro fa il resto, riuscendosi a destreggiare tra un recitato molto enfatizzato ed un canto diplofonico che incornicia il complesso armonico, in un continuo ripetersi del titolo "Ek fellr" con l'aggiunta di "heilt niðr" (tradotto in "fino in fondo") in conclusione di brano. Ebbene, di primo acchito sembra essere un brano spoglio di qualsiasi significato intrinseco o anteposto ma, se si scava affondo, anche grazie agli aiuti che lo stesso Varg ci elargisce, riusciamo a trarre persino da un brano così "semplice", una foriera di contenuti. Di fatti, il tema principale è la rinascita - simbolica - di WôdhanaR, dal tumulo, dopo esser sceso giù nel grembo di Erþô, la Dea della Terra. La storia narra che in realtà si trattasse di un giovane ragazzo che, fingendo di essere WôdhanaR, si travestì assumendone le sembianze, per far accesso al regno dei morti ed incontrare la Dea Kelio da cui riuscire ad estrapolare tutti i segreti (oggi conosciamo questo rituale come Halloween - o "notte degli spiriti" - in cui i tutti si vestono come morti avere accesso al mondo appunto dei morti). Infine, scegliendo di rimanere morto, tra i morti, scelse di portarsi nella propria bara, tutto il necessario, diventando il primo vero uomo morto e conquistando il nome di "Onore". Non ancora rinato, egli dimora nella tomba della Terra di Mezzo, in mezzo agli altri otto mondi, fino a Yule (conosciuto dopo la cristianizzazione con il nome di Natale) in cui può, finalmente, rinascere e ritornare nel mondo dei vivi. Tradizione vuole che, in questo giorno, la sua tomba venga aperta dalla più bella fanciulla e tutti gli elfi (spiriti dei morti) fanno il loro ritorno. Così i popolani riesumano tutto gli oggetti utilizzati nelle vite precedenti come dono agli elfi che sono diventati, ora, loro stessi?diventando, al termine, esseri divini (del resto a Natale nasce un "essere divino").  Dunque eccoci di fronte alle tradizioni pagane alla base della nostra cultura e del nostro retaggio da cui non possiamo fuggire, sebbene avvelenati da credenze fittizie. 

Hall of the Fallen

E' il tempo di Hall of the Fallen (trad. La sala dei caduti)  con cui salpiamo in luoghi circumterrestri. Di fatti, fin da subito si dilata un climax di note spaziali che ci lanciano in un orbita spaziale non appartenente alla nostra dimensione. Ci immergiamo ancora, in una estensione di Miðgarðr (il nostro mondo).. nell'imminente si stagliano delle cadenzate e piccole, leggere, note della sei corde che misurano la cadenza dell'esposizione vocale data dalla voce ovattata e a tratti sussurrata del Nostro, il quale ci aiuta ad immergerci in prima persona nella situazione, quasi come se fosse un monologo: "Appeso all'Albero della Vita. Ferito. Sanguinante. Dalla sala degli Dei io cado". Subito un synth iperboreo, a tratti riconducibile ai lavori dei Tangerine Dream, cresce oscurando il suono di partenza ma prestandosi comunque alle corde della chitarra che continuano a cadere ritmicamente nella scena sonora.  Il ritmo a tratti triste ed a tratti degno di qualche film sullo spazio iperboreo degli anni '70, incede fino al ritorno della voce flebile che pronuncia: "Il legame è stato sciolto. Non posso reggermi, né parlare. Non posso strisciare, né chiaramente pensare. Ricomincio di nuovo. E di nuovo. E di nuovo". Improvvisamente veniamo abbracciati da un tremolo picking  ricreato con il synthetizer di rara fattura, particolare, astrale, con un riverbero che ammanta di aria mistica e tenace l'ensemble melodico per buona parte della composizione, o - per lo meno - fino a quando non ritorna imperante la calma; con essa "Il legame è stato sciolto. L'albero è caduto. La vita di un Dio, ritorna. Di nuovo. ".. ed apriamo dunque la seconda parte del brano, se così vogliam parlare. "Non vi è morte per il degno d'onore. Non vi è fine per il degno d'onore.  Solo eterna rinascita.". Sembra di essere immersi in uno spazio cosmico, rasserenante ed al tempo stesso impetuoso in cui riusciamo solo a mirare l'infinità e la profondità dell'esistenza e della vita nella morte. Ebbene, è chiaro l'intento del brano, che si conclude - poi - con quel synth tremolato che fa venire i brividi. Altro non può essere che un omaggio al Valh?ll ("Val", "morto in battaglia", e "h?ll", da cui deriva il termine germanico moderno "halle", sala, entrata, padiglione), la grande sala formata da 540 porte, muri fatti di lance dei guerrieri più valorosi, tetto fatto di scudi di oro e panche ricoperte di armature. In esso i guerrieri più valorosi entrano a corte trasportati dalle valkyrjur ed in cui vengono accolti dal dio Bragi, consigliere di Óðinn e conoscitore della sapienza poetica donatagli dall'Idromele. Ivi, i guerrieri, festeggiano, danzano e ballano in un convivio, ogni giorno, per poi combattere gli uni contro gli altri, morire e rinascere il giorno dopo, in un ciclo infinito di morte e rinascita onorevole.

Autumn Leaves

Iniziamo ad avvicinarci al termine del platter con il trittico di brani strumentali. Il primo a porsi d'innanzi è Autumn Leaves (trad. Foglie autunnali). Sapete, quando si parla di ambient, molto spesso è molto facile ascoltare senza alcuna particolare attenzione, infondo non si tratta di inquadrare, contestualizzare o decriptare parole.. eppure, quando si parla di musica ambient di singolari autori, artisti - come in questo caso di Burzum - il mero ascolto "superficiale" non basta. No, la musica prodotta dalle mani di suddetti individui, supera il confine del semplice ascolto, concentrandosi, di più, sulle sensazioni, emozioni e sentimenti riversati dallo/dagli stesso/stessi nel brano stesso. Un po' come per gruppi come Arktau Eos, Aghast e Zoät·Aon, il caso prende anche in questione questo brano (come tutti gli altri del Conte); caratterizzato da una melodia allegra-andante, non presenta particolari malinconie all'ascolto. Con un preciso ritorno, verso il termine del brano stesso, di quel synth tremolato e con il riverbero che abbiamo avuto modo di accogliere nella composizione precedente. Qui si parla di foglie autunnali, della caduta delle stesse e l'ensemble sonoro altro non è che un sottofondo al rituale di caduta che precede la rinascita in primavera, passando per il buio e gelido periodo invernale. Ecco, la Natura, nella sua immensa forza e istintività, ci dona sempre le massime delucidazioni riguardo alle domande che l'Uomo antico, come - poi - l'Uomo moderno, si è sempre posto. Alla morte segue la vita, alla vita segue la morte; alla caduta delle foglie segue il rigoglioso fiorire dei rami. Gli eventi si susseguono e così la vita, in un tumultuoso circolo di dissoluzione ed incremento. Una composizione perfetta, incredibile, che solo chi ha capacità di ascoltare perfino i silenzi, ha la possibilità di percepire l'immensa energia che Varg Vikernes ha rilasciato in essa. 

Emptiness

Proseguiamo con Emptiness (trad. Vuoto). Molti tra i più accorti, avranno notato la similarità del titolo del brano con quello di "Tohmet" (trad. Vuoto) del suo precedente (capo)lavoro "Hvis Lyset Tar Oss" (di cui abbiamo ampliamente trattato in antecedenza). No, nessuno si sta sbagliando, tanto meno il Nostro, il quale ha voluto riproporre - come vedremo anche per il prossimo brano - un estratto da uno dei suoi lavori precedenti, adattandolo in maniera molto più "pulita" alle possibilità strumentistiche del presente e, alla sua esperienza ed alle sue idee. Ideato nell'autunno del 1992,dopo ben 25 anni, ecco che ritorna sotto un'altra veste, molto più spigliata, spaziale e cadenzata grazie all'ausilio di pad, sintetizzatore e piatti della drum machine che prendono le parti delle leggere toccate delle pelli nel brano originale. Una magniloquente traccia che, a parere soggettivo di chi scrive, non rende abbastanza quanto la prima, originale. Ma, del resto, questo fu uno dei primi brani che posero le basi per quello che diventò il progetto Burzum negli anni successivi. Rimane pur sempre un brano atmosferico e malinconico ma anche contaminato dal tipo di musica e di tecniche/strumenti a cui il Nostro ci ha abituato dopo gli anni di prigionia, impregnati - sicuramente- da una qualità sonora dieci volte migliore ma senza quella particolare sensazione dismessa presente nei suoi primi album. 

To Hel and back again

Chiudiamo il sipario con un secondo ed ultimo riarrangiamento di un estratto da uno dei lavori precedenti, in particolare "Til Hel og Tilbaken Igjen" da "Fallen". La composizione riarrangiata, chiamata in questa sede To Hel and back again (trad. Fino all'Hel e ritorno), risulta molto più arrotondata ed ampollosa della sua versione originale grazie all'utilizzo, ripetuto, del sintetizzatore e di quegli effetti espansi e spaziali caratteristici del suo "secondo periodo". Pregna di un alone enigmatico, avventuroso e - simultaneamente - proveniente dall'iperuranio, ci accompagna come colonna sonora verso il viaggio nel regno della figlia di Loki, di colei che regna nell'Helheim: Hel. Passiamo dunque il ponte Gjallarbrú, che sovrasta il fiume sotterraneo Gjöll per trovare il portone dietro il quale si espande, immenso, il suo regno sotto i nostri occhi. Un viaggio pericoloso nelle proprie paure, nel proprio subconscio. Aria tetra, pesante ed un sole freddo regnano incontrastati in questo territorio e, mentre in sottofondo, nella parte basse del tappeto sonoro, continua a ripetersi la melodia cadenzata e battente che tiene il passo del nostro incedere, subentra un'armonia che si espande, con un riverbero, come le piccole, leggere onde che si espandono al tocco di una goccia sulla superficie del mare. Chiudendo con uno sfumare dell'insieme proprio come accade alle increspature generate da una minuscola goccia d'acqua, le quali si mischiano, lontane ormai dal centro, con il tumulto del mare. 

Conclusioni

Siamo giunti alle conclusioni, alla chiusura del sipario. Come detto ad inizio, venticinque anni passarono prima della pubblicazione di questo ultimo lavoro da parte del Conte. Terminato l'ascolto di "The Ways of Yore", la scelta del titolo e dell'insieme tutto non risulta totalmente estraneo. Come un tempo, egli ha voluto riproporre, sia in chiave invocativa, sia in chiave storico-diacronica che in chiave personale, quanto gli è caro; partendo dagli ultimi due brani, appartenenti - il primo - al suo primo periodo pre-carcere ed - il secondo - al post-carcere, passando per brani come "Lady in the Lake" che riprendono il ciclo arturiano, proprio come l'immagine di copertina, dunque la tradizione, il proprio retaggio, finendo poi con i brani invocativi, ritualistici come "Heill Freyja", "Heill Óðinn" con cui siamo ritornati, involontariamente, alle radici europee del politeismo e dei rituali. In venticinque anni sono cambiate davvero tantissime cose, sebbene gli anni di attività dell'artista incominciano anche prima, parlando del progetto. Non possiamo non dire che Varg Vikernes si sia attenuto ad un solo ed unico mantra: libertà. Senza alcuna corruzione della sua opera, senza pressioni da parte dei mass media, del vil denaro o quant'altro, egli ha perseguito la sua voglia di fare musica in modo puro, incontaminato, a prescindere dal risultato che, oggettivamente o soggettivamente, può piacere o meno. A prescindere dai fatti di cronaca che lo hanno "decorato" con una corona (di spine, a seconda dei casi), come sempre ci atteniamo alla visione artistica dell'insieme, pur conoscendo i fatti. Senza dimenticare gli immensi spunti ha lasciato grazie alla sua musica, che spaziano dal carattere storico al politico, dal personale al sociale e così via. Se vogliamo siamo cresciuti  con lui ascoltando la sua musica, siamo nati dal mero, oscuro sporco della fiamma nera giungendo infine ai suoi tempi d'oro, vivendo con lui gli anni di prigionia e continuando a prestare orecchio a quanto aveva bisogno di dire e di raccontare con le restanti pubblicazioni. Senza infamia e senza lode, non si può che portar rispetto ad un artista di tale caratura che nulla ha da invidiare a chi, corrotto dai soldi, è riuscito ad arrivare più in alto di lui. Infondo, ricordiamo che tutto è iniziato (il Black Metal compreso) come "undead", come un genere morto-non morto, senza alcuna volontà di spopolare, di rendersi "popolari", tutt'altro. Tutto è iniziato per i soli che potevano capire, e così è tutt'ora, solo che - appunto - non tutti possono capire. Heil Burzum

1) God from the Machine
2) The Portal
3) Heill Óðinn
4) Lady in the Lake
5) The coming of Ettins
6) The Reckoning of Man
7) Heill Freyja
8) The Ways of Yore
9) Ek Fellr (I am Falling)
10) Hall of the Fallen
11) Autumn Leaves
12) Emptiness
13) To Hel and back again
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