DARK TRANQUILLITY
Enter Suicidal Angels
1996 - Osmose Production

EMANUELE RIVIERA
27/07/2016











Introduzione Recensione
Nuovo episodio curato dal sottoscritto dedicato a ripercorrere con la dovuta attenzione ogni tappa dell'evoluzione discografica di una band fondamentale per il metal, inteso nella sua globalità, quale è certamente da ritenere la formazione svedese dei Dark Tranquillity. Esattamente un anno dopo rispetto al capolavoro planetario The Gallery, apice assoluto dell'intero movimento dedito al cosiddetto melodic death metal, essi diedero alla luce un mini cd composto di sole quattro tracce, per un totale di quindici minuti appena di musica, che sarà oggetto del presente articolo. Siamo, pertanto, nell'estate del 1996 quando il gruppo originario di Gothenburg decide di tornare in sala prove per le registrazioni del presente lavoro, antipasto invero non troppo gradito del proprio terzo full length, quel The Mind's I che, affinando e limando grandemente alcuni sconcertanti elementi di novità inseriti goffamente in questo ep, non verrà mai debitamente apprezzato da addetti ai lavori e fan della band. All'indomani di un successo transcontinentale senza precedenti e di non facile gestione Stanne e soci decisero, con una saggia mossa di marketing commerciale applicata alla musica, di rilasciare un piccolo cd avente funzione preparatoria rispetto all'imminente full length per fidelizzare ancora di più il proprio pubblico di fan adoranti con un lavoro che, negli intenti, avrebbe voluto, replicare quanto di mirabolante fatto intravvedere nel precedente lavoro edito in questo formato, (Of Chaos and Eternal Night). Emersi in maniera fragorosa dai meandri dell'underground e assurti, in un battito di ciglia, al ruolo di leader mondiali di un intero movimento musicale, i cinque giovani svedesi si trovano di fronte alla famigerata prova del nove. E' evidente che dopo un autentico boom come quello rappresentato dal precedente lp l'attesa per ogni lavoro dell'ensemble scandinava si fa spasmodica, le esigenze della piccola label produttrice francese Osmose Productions crescono in maniera esponenziale, i giudizi severi ed ipercritici di recensori ed addetti ai lavori si nascondono, sornioni, dietro l'angolo. Nuovi dettami stilistici sono stati lanciati nel precedente lavoro, un rivoluzionario modo di applicare il concetto di armonia all'universo estremo del metal ha catapultato, nello spazio di dodici mesi appena, i DT sotto le luci della ribalta internazionale. Tourneè sempre più entusiasmanti rigorosamente sold out in giro per il vecchio Continente, interviste, (con tanto di pubblicità gratuita spesso più che lusinghiera), rilasciate alle migliori testate specialistiche, un conto in banca che continua a puntare verso l'alto senza sosta sono gli elementi lieti che fanno da preambolo a questa ulteriore release firmata dai nostri beniamini. A tutto ciò fanno da contraltare una crescente ansia da prestazione che attanaglia nella sua morsa serrata il quintetto, una casa discografica che, pur impegnandosi a fondo con ogni risorsa a propria disposizione, appare ormai troppo piccola per contenere un simile successo stratosferico, e la necessità di dover già ammodernare il proprio sound con l'inserimento di nuovi e, come vedremo in seguito alquanto discutibili, elementi per non risultare cloni di sé stessi all'infinito. Va anche segnalato, in quanto episodio degno di nota, che, all'epoca dei fatti qui descritti, un altro gruppo fondamentale per il genere, gli AT The Gates capitanati dal formidabile frontman Tompa Lindberg, erano già andati incontro ad un primo scioglimento, incapaci di reggere pressioni sempre più incalzanti e travolti, pressoché inermi, dall'altrettanto fantasmagorico exploit ottenuto con il sensazionale Slaughter of The Soul, uscito parallelamente a The Gallery. Questo è il contesto generale, costituito da un incredibile mix di sensazioni contrastanti e di stati d'animo contrapposti, in cui le registrazioni di questo nuovo ep ebbero inizio nelle sale dell'ormai celeberrimo Studio Fredman in Gothenburg. La formazione, ovviamente, rimase immutata con Mikael Stanne a fare la parte del leone dietro il microfono, oltre ad essere autore unico dei testi composti, Niklas Sundin e Fredrik Johansson alla coppia di chitarre, Martin Henriksson al basso ed infine Anders Jivarp alla batteria. Confermato, altresì, il fido produttore ed addetto al missaggio, nonché proprietario degli studi svedesi, Fredrik Nordstrom in quello che si rivelò, fin da principio, un binomio assolutamente vincente. Il titolo scelto per tale pubblicazione fu Enter Suicidal Angels ed il lavoro, come già anticipato in testa a questo articolo, verte su quattro tracce complessive, tutte comprese tra i tre ed i cinque minuti di durata. Un titolo, nel solco della tradizione della band, certamente impegnativo e di grande impatto a cui viene abbinata l'elegante copertina realizzata ancora una volta dal virtuoso artista a tutto tondo Sundin. Egli immortala uno spoglio paesaggio boscoso tipicamente nordico scrutato, sullo sfondo, da un grande occhio umano, attento osservatore di ogni cosa e giudice severo sulla natura. Delicate e pure piuttosto insolite le tonalità scelte per realizzare l'artwork: vengono proposte, infatti, delicate gradazioni di un arancione che sfuma vero il rosa, pennellate che sembrano l'ideale per cogliere l'istante, quasi eterno nella sua fugacità temporale, del crepuscolo del sole, il tramonto dell'astro che ogni cosa illumina e tutto riscalda. Da un punto di vista musicale una precisazione iniziale è certamente doverosa. All'interno di un lavoro tutto sommato discreto verrà inserita, è bene che lo sappiate fin da questo momento, la peggior canzone mai composta dal gruppo, un pezzo assolutamente fuori da ogni schema e da ogni contesto metallico degno di questo nome e che inciderà grandemente sul giudizio finale che andremo ad apporre su questo lavoro. Ma non è ancora il momento di versare lacrime amare: andiamo, pertanto, a premere il tasto play del nostro lettore stereo per scoprire cosa hanno riservato per noi i cinque di Gothenburg all'interno di questo Enter Suicidal Angels.

Zodijackyl Light
L'ep si apre, dunque, con "Zodijackyl Light (Luce Zodiacale)", la quale è introdotta da un convincente riff di ispirazione thrash che conduce immediatamente verso l'alto il tiro della canzone stessa. Il sound si presenta, fin dalle primissime battute, diretto ed immediato, la struttura portante basilare nel suo sviluppo baldanzoso, il fare della band appare deciso e sicuro di sé. Il pezzo, veloce e ficcante al punto giusto, sarà, infatti, l'unico che verrà inserito nel successivo The Mind's I ed il solo a poter godere di una certa longevità in sede live, nel corso degli anni seguenti. A fini promozionali è stato, inoltre, realizzato, qualche settimana prima dell'uscita dell'ep stesso, un clip di lancio in perfetto stile anni novanta distribuito in formato vhs, (insieme alla traccia qui analizzata il video comprendeva anche la canzone Hedon, anch'essa poi inserita in The Mind's I). Le atmosfere caliginose, fumose ed i colori scelti per circoscrivere il tutto, (predominanza assoluta della stessa tonalità arancione già presentataci sulla copertina del cd), richiamano alla memoria l'indimenticabile video promozionale di Smells Like Teen Spirit dei Nirvana di un lustro prima. Non siamo, tuttavia, di fronte ad una deriva grunge dei Dark Tranquillity, la precisione e l'accuratezza nella scelta del modus operandi di questa prima traccia è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto alle sonorità sgraziate e rabberciate di Seattle e dintorni. Il lavoro dietro le pelli di Jivarp è potente e sostenuto e conduce le danze durante il primo minuto abbondante della canzone, alcune reminescenze addirittura ascrivibili agli alfieri del thrash metal più intransigente e violento quali gli americani Slayer ed i teutonici Kreator echeggiano, più o meno velatamente, nell'aria. Il vocalist opta per una impostazione tonale assai gutturale ed oscura, adoperando vocalizzi quasi lancinanti e straziati ancora saturi di contaminazioni di natura black (e su queste lunghezze d'onda, di fatto, resterà per tutta la durata dell'ep). Il primo cambio di passo significativo lo incontriamo al minuto 01:22 allorquando l'ago della bilancia si sposta verso le due chitarre, abili a rallentare i ritmi e a conferire la giusta dose di armonia alla porzione centrale del pezzo. Da segnalare, a questo proposito, gli incantevoli twin solos collocati poco prima dello scoccare del secondo minuto: la coppia Sundin - Johansson conferma la propria notevole perizia tecnica architettando melodie di gran pregio e striate da una elegante venatura prog, universo rispetto al quale la band ha sempre mostrato un certo interesse. La maestria del gruppo di alternare così abilmente sezioni incalzanti ad altre più ariose è innegabile, e questo brano di apertura non fa altro che confermarcelo, anche se il divario rispetto a quanto ascoltato solo dodici mesi prima si evidenzia in maniera evidente. Fa la sua comparsa, per qualche istante soltanto, in qualità di backing vocals Mikael Niklasson, nome sconosciuto al grande pubblico, (peraltro il suo contributo è talmente limitato che ci sembra quantomeno irrispettoso nei suoi confronti esprimere un qualsiasi giudizio sulle sue reali potenzialità canore, in questa sede ci limitiamo a dire che le uniche note biografiche ad egli inerenti reperite online iniziano e terminano con questa fugace comparsata). Nel finale fanno capolino alcuni inserimenti elettronici che già lasciano presagire la possibile svolta artistica che verrà intrapresa dalla band a partire dal successivo full length. La sezione lirica, ancora una volta di non facile interpretazione ed impregnata di un linguaggio arcaico desueto, (il cosiddetto"old english"), narra di un profondo senso di vuoto, un isolamento voluto rispetto ad un universo costellato da mille menzogne e da rapaci arrivisti di ogni sorta. Ecco che compare quel sentimento di misantropia comune a numerose altre band dedite al metallo estremo. Siamo in attesa di una chiamata che scaturisce dalla scintilla del peccato, attraverso l'arrivo di violente tempeste riusciamo a vedere il volto del caos cosmico da cui ogni cosa è scaturita, all'alba dei tempi. Tutto intorno a noi divampano fuochi immani che ardono incessanti: si avviluppano e si fondono l'un l'altra le fiamme del nostro oppressore, le fiamme del Creatore, le fiamme che armano la mano dell'assassino, il peccato si fa oscuro e vanifica completamente la speranza e l'amore. Io non voglio essere accecato da simili scenari, non desidero essere costretto a patire tali subdole sofferenze, resistenza sarà la parola d'ordine che guiderà i miei passi, banchetterò con i detriti delle guerre celesti. Il dramma prende, ciò nonostante, il sopravvento, la bestia che risiede nell'alto dei cieli dirige i miei nemici a cavallo attraverso le ampie volte siderali. Questa oscurità, che mette a nudo ogni possibile testimonianza di luce, non avrebbe dovuto esistere, la falsità e l'ipocrisia dell'essere umano hanno contribuito a generarla. Dolce e infinita è la nostra angoscia, senza soluzione di continuità, le articolazioni temporali non sono in grado di incatenare la bestia. In simili scenari governati da un caos cosmico primordiale la band si destreggia con bravura ed un discreto ordine: la sezione ritmica è ben bilanciata tra una prima parte dove a farla da padrone è la batteria, una sezione centrale in cui prendono il sopravvento le due chitarre ed un ultimo, breve, spezzone in cui si percepiscono inserimenti elettronici di tastiere e sintetizzatori. Il meglio di questo ep è, dunque, proposto nel primo brano, d'ora in avanti, infatti, si assisterà ad un, inizialmente lento ed infine repentino, calo della qualità complessiva del lavoro.

Razorfever
E' la volta, ora, di "Razorfever (Febbre da Rasoio)", più breve della opener track ed introdotta da una fugace, spettrale e davvero ottima intro di tastiera. Ben presto le chitarre fanno il loro dirompente ingresso sulle scene, accompagnate a dovere da un cantato massiccio ed impetuoso a firma del prode Stanne. Incontriamo riff che diverranno, con il trascorrere degli anni, veri e propri must del sound degli svedesi e che segneranno, gran parte della produzione artistica dei nostri a partire da Damage Done in poi. La batteria, pur furiosa nel suo pestaggio sonoro, torna a posizionarsi sullo sfondo e ad accompagnare le due sei corde, almeno in un primo momento, salvo poi farsi maggiormente sentire nel gustoso intermezzo centrale, anch'esso contaminato da arrangiamenti progressivi, meno riusciti che nel precedente brano. Sale in cattedra il singer della formazione grazie ad una interpretazione potente e grintosa, in pieno stile The Gallery, permeata ed arricchita da un grande alone di sofferenza e di strazio interiore. Inutile rimarcare che a giovarne è la personalità del brano, capace di reggersi su solide basi acustiche e strumentali. L'aurea di band rivoluzionaria è ben distante dai DT in questo caso, ma le melodie sono comunque accattivanti e ben si stagliano nell'orecchio dell'ascoltatore. Potremmo definire il sound come un ibrido tra l'heavy più canonico, (Iron Maiden sopra tutti), ed il melodic death più furioso e selvaggio, (la lezione dei già citati At The Gates insegna). Al minuto 02:11 si assiste ad un tentativo di ripristinare le atmosfere epiche e magiche contenute nel precedente lp grazie a cadenze più ragionate che sembrano, però, strizzare l'occhiolino più al futuro che non al glorioso, recente passato della band. Si avverte, netta, la sensazione che un cambiamento di rotta sostanziale è ormai prossimo, avveniristiche contaminazioni elettroniche stanno facendo la loro comparsa e se, ancora al momento esse non rappresentano una componente fondamentale per il sound dei Dark Tranquillity, è altrettanto innegabile che il quintetto svedese sembra provare una attrazione irresistibile per una simile tipologia di suoni artefatti, campionati. Un ottimo assolo a firma Sundin allontana, per ora, questa inquietante prospettiva e chiude le danze dopo tre minuti e quindici secondi esatti, accettabili nel loro sviluppo, anche se penalizzati da una produzione non certo ottimale e, probabilmente, impostata su tonalità eccessivamente basse e grevi. Interessante, ma non è certo una novità, la sezione lirica che fa da corredo ad una simile proposta musicale. Figlio della condizione originaria peccaminosa dell'uomo, il protagonista delle vicende qui narrate non prova rimorso alcuno, il suo è un viaggio senza possibilità di ritorno, la croce che grava sulle sue spalle, onerosa e pesante, è solamente sua e di nessun altro. La vita restituisce solo in minima parte ciò che toglie, soltanto un sorso del liquido vitale di cui ci priva, giorno dopo giorno. Le verità conosciute, gli assiomi che credevamo nostri appaiono distorti da una realtà fallace che altera la percezione dei valori. Nato figlio della disperazione, egli si mostra in tutta la sua ferocia, simile ad un angelo iracondo del male, desidera trovare riposo per la sua anima irrequieta. Il suo mondo può essere ripristinato solo recuperando un sorso dopo l'altro, la sua sete di giustizia e di verità dovrà essere placata con pazienza e dedizione assolute. Un universo dominato dall'individualismo più becero e da un pessimismo di fondo non facilmente spiegabile alla luce dei prodigiosi risultati ottenuti in sede di vendita con il precedente lavoro fanno da corollario alle vicende qui narrate, nella migliore, ma francamente anche stucchevole, tradizione death metal.

Shadowlit Facade
Un ulteriore, lieve, passo indietro è rappresentato dalla successiva "Shadowlit Facade (Facciata Illuminata Dall'Ombra)" che, almeno inizialmente, sembra muoversi su binari non troppo dissimili da quanto appena ascoltato in Razorfever. Il brano proposto in terza posizione all'interno della tracklist è quello che, pur non riuscendo nell'intento, sembra riportare maggiormente alla memoria l'epico capolavoro di un anno prima. Le chitarre disegnano una melodia ragionata, le scelte che la band opera sono certamente frutto di attente riflessioni e di impegnative sessioni di registrazioni in sala prove. L'atmosfera trasognante è romantica colpisce nel segno gli ascoltatori più sensibili e parrebbe essere l'ideale per un soave stacco acustico femminile in perfetto stile Dark Tranquillity che, tuttavia, non arriverà mai. Ciò che manca, rispetto al precedente brano, sono le accelerazioni improvvise dettate dalla furia della batteria che, viceversa, si limita a svolgere diligentemente il proprio compito di accompagnamento agli strumenti a corda. Il duetto tra il vocalist e la coppia di chitarre è l'elemento che, più di ogni altro, caratterizza lo sviluppo della traccia, non particolarmente intricata nella sua trama e, a lungo andare, abbastanza monocorde. Si tratta di una semi ballata piuttosto canonica in cui si sentono pure alcune lugubri e certamente ben eseguite linee di basso ma che, in definitiva, finisce con lo smarrirsi dopo pochi ascolti all'interno di una così corposa discografia come quella degli svedesi. Priva del carisma necessario per essere inserita nel precedente The Gallery, Shadowlit Facade appare, d'altro canto, pure troppo distante da quanto verrà inserito nel successivo The Minds'I e finirà, inevitabilmente, nel dimenticatoio in breve tempo. A fare da contraltare ad una sezione strumentale non particolarmente accattivante vi è, probabilmente, la miglior sezione lirica contenuta in questo ep. Come si evince facilmente dal titolo, la band gioca ancora una volta con le parole inserendo la contrapposizione tra due termini, apparentemente, contrapposti, (lo stesso moniker, del resto, rimanda all'eterna diatriba tra luce e tenebre), ed esprime il proprio disprezzo per le persone fasulle e doppiogiochiste, per coloro che fanno della facile dietrologia e non mantengono la parola data. L'abile penna di Stanne narra con sorprendente maturità, anche in questo caso, di verità troppo a lungo nascoste, di un opportunismo portato all'estremo e che conduce, in un vortice senza fondo, a distorcere anche i più basilari aspetti della vita quotidiana. Siamo costretti a costruirci un robusto scudo difensivo per resistere alle soggezioni esterne, noi stessi ricerchiamo la solitudine più assoluta. Le menzogne appaiono granitiche, simili ad un blocco di pietra monolitico: esse derivano dal degrado dell'essere umano e dalla disperazione dell'animo. Dobbiamo imparare che non tutto ciò che ci sembra buono e giusto all'apparenza lo sarà poi alla resa dei conti e per far ciò siamo spinti al limite massimo di sopportazione, attraverso un percorso ad ostacoli fatto di solitudine interiore e di privazioni emozionali. Tutto inutile, però, la nostra ricerca è destinata a non finire mai: ad ogni azione corrisponde una reazione, ancora non troviamo parole chiare e nitide per descrivere il nostro stato d'animo, in perenne mutamento. Viviamo in equilibrio precario, a metà strada tra l'euforia e la costernazione, il nostro viso può apparire, contemporaneamente, rabbuiato dalla più tetra oscurità ed illuminato dalla più raggiante luminosità, siamo esseri volubili e facilmente condizionabili, incapaci di indirizzare con decisione e senza indugi la nostra barra di comando tutta a dritta. Ep concluso e giudizio finale in arrivo? Sfortunatamente no, perché la band, (e più nel dettaglio lo stesso frontman Stanne), decide che sia arrivato il momento giusto per sperimentare qualcosa di assolutamente inedito, inconsueto e ci offre, ahinoi, il peggio della propria produzione musicale in oltre vent'anni di gloriosa ed onorata carriera.

Archetype
Un brano di cui risulta difficile persino parlarne, descrivere quanto andremo ad ascoltare nei successivi quattro minuti e trenta secondi è impresa ardua, anche perché siamo messi alla prova su di un terreno che non è il nostro, saremo costretti a misurarci con qualcosa che non ha nulla a che vedere con qualsiasi definizione di metal sia stata data nel corso degli anni, fosse anche la più lassista e permissiva possibile. "Archetype (Archetipo)" è un'accozzaglia di accordi artefatti e campionati di ispirazione techno-house in cui nulla, nemmeno una virgola, suona veramente genuino e schietto. Usciamo, controvoglia, dalle arene o dai circoli underground devoti al metallo pesante e veniamo scaraventati, con un profondo senso di nausea, in una affollata discoteca di metà anni novanta in cui suoni elettronici di pessimo gusto ed ancor meno sentimento si alternano ad improbabili e coloratissimi miscugli di drink alcolici e, non raramente, a sostanze stupefacenti di natura chimica in grado di alterare la percezione dei nostri sensi. Che sia forse questo l'unico modo possibile per digerire un simile scempio sonoro? Da sobri e a mente lucida non lo potremo mai sapere, certo è che la tentazione di premere il tasto stop senza nemmeno arrivare a conclusione del brano è davvero tanta. Un esperimento audace, alla band non è mai mancato il coraggio, ciò è innegabile, ma in questo caso ci si è spinti decisamente troppo in là, travalicando anche il più elastico limite della decenza. Un ascoltatore saltuario potrebbe persino domandarsi se si tratta davvero dello stesso gruppo che, appena dodici mesi prima, consegnò all'immortalità incredibili testimonianze sonore quali Punish My Heaven, Lethe o Edenspring o se ci sia un errore da qualche parte. Non si salva nulla dalla mediocrità generale di un simile contesto: pure la voce del nostro beniamino Stanne, che peraltro si limita ad una breve comparsata nella prima porzione del pezzo, è chiaramente filtrata in studio di registrazione e suona incredibilmente fredda, asettica dal contesto più che discreto che ci era stato presentato nelle precedenti tre tracce. Qualcuno, all'epoca, coniò la definizione di melodic death techno metal, ma francamente, pur apprezzando lo sforzo dei cinque svedesi di voler sperimentare senza sosta, non ci sentiamo in grado di sposare una simile definizione, semplicemente per il fatto che, qui, di metal non vi è proprio nulla. Peraltro non ritengo che la piccola etichetta francese Osmose Productions possa aver influenzato in qualche maniera il gruppo: l'epoca dei grandi colossi discografici multimilionari in grado di orientare in una piuttosto che in un'altra direzione le scelte artistiche da adottare non era ancora arrivata, perciò credo che questa Archetype sia farina esclusivamente del sacco dei DT e questo rappresenta, nella desolazione più completa, una piccola consolazione in quanto, se non altro, conferma la notevole dose di personalità ed il forte carisma di cui, da sempre, dispongono Mikael e compagni. Pur non ritenendomi un ascoltatore intransigente, ma anzi avendo una mentalità aperta ad innovazioni e avendo sempre guardato con interesse alle possibili contaminazioni del metal con altri generi, ciò che viene presentato, in questo frangente, merita nulla più se non l'oblio più totale dopo un solo ascolto. Ad ulteriore suffragio di quanto detto va aggiunto che, se è vero che la band dal successivo lp inizierà a considerare la componente elettronica un qualcosa di essenziale per arricchire la propria proposta musicale, è altrettanto vero che mai più, in futuro, ascolteremo simili storpiature e che l'uso di tastiere e sintetizzatori, pur crescendo con il trascorrere degli anni, mai arriverà ad essere la base primaria sopra cui intessere le trame sonore del gruppo.

Conclusioni
Una pubblicazione probabilmente trascurabile all'interno della massiccia discografia dei Dark Tranquillity, giunta a 12 mesi di distanza dall'epico album della consacrazione planetaria e avente la funzione di anticipare di pochi mesi il successivo lp, The Mind's I, già in cantiere da qualche tempo e le cui sessioni di registrazioni, iniziarono contemporaneamente a queste. Il recente, clamoroso e per certi versi inaspettato scioglimento dei "cugini" At The Gates, cui si è fatto riferimento in apertura di questo lavoro, all'indomani del colossale successo mondiale seguito a Slaughter Of The Soul, deve aver inciso non poco nell'animo sensibile di Stanne e soci che offrono una prestazione piuttosto scialba e in cui lasciano intravvedere una certa confusione di fondo su quale strada vogliano intraprendere all'indomani dell'altrettanto incontenibile boom planetario legato a The Gallery. Le prime tre tracce, nel complesso certamente discrete, sono ancora legate a doppio filo con il recente, glorioso, passato, (pur rimanendo ben distanti da simili picchi compositivi), l'ultima improponibile song proposta ci proietta, decisamente in maniera troppo audace, nel terzo millennio incombente "grazie" all'inserimento di non meglio precisate sonorità di matrice dance psichedeliche. Alla luce di una simile diatriba l'ep risulta diviso in due parti, indi per cui pure il responso finale deve essere necessariamente ottenuto facendo una media complessiva tra le prime tre tracce, gradevoli nel loro incedere e che si lasciano ascoltare senza difficoltà e l'ultimo, quanto mai azzardato, brano avulso da ogni logica "umanamente" comprensibile, e pure realizzato in maniera fin troppo raffazzonata. La palma di best song va, certamente, a Zodijackyl Light, cattiva ed incalzante, in virtù di riuscite contaminazioni di stampo thrash ed impreziosita da una convincente prestazione vocale da parte di Mikael Stanne, (per il resto pure lui abbastanza giù di tono nelle rimanenti canzoni). La sezione strumentale è ben bilanciata nelle sue diverse componenti: trovano un discreto spazio di manovra, infatti, sia la potente batteria di Jivarp, sia il greve basso di Henriksson. Le due chitarre svolgono diligentemente e precisamente il lavoro principale ma appaiono meno coinvolgenti che in altre circostanze, Sundin, in ogni caso, regala sporadici assoli di assoluto pregio e conferma il suo ruolo centrale all'interno di una formazione così ricca di talento. Sull'esito finale del prodotto incide pure una produzione non certo ottimale che penalizza piuttosto pesantemente i suoni amplificandone esageratamente alcuni e mortificandone fino all'eccesso altri: Osmose Productions avendo a disposizione risorse economiche illimitate dimostra tutti i suoi limiti strutturali, pur impegnandosi a fondo e con assoluta dedizione alla causa dei padri fondatori del melodic death metal. Il passaggio alla ben più blasonata e ricca Century Media è, ormai dietro l'angolo e verrà ufficializzato immediatamente dopo la pubblicazione di The Mind's I. L'ep in questione non fece segnare grandi numeri in sede di vendita ed è andato, progressivamente, sparendo dal mercato: utili per completare in maniera dettagliata e maniacale la discografia dei nostri, in questo frangente si sono rivelate un paio di ristampe postume, (una a firma Osmose del 2004 ed una sotto l'egida della agiata label di Dortmund dell'anno seguente), dello stesso The Mind's I in cui sono stati inseriti, nella non sempre comoda veste di bonus track i tre pezzi mancanti, (ricordiamo, ancora una volta che Zodijackyl Light venne inserita nell'album originale). Nel complesso forse uno dei punti più bassi mai toccati in carriera dai cinque di Gothenburg, una release di cui la stessa band non va particolarmente fiera e che non ci sentiamo, in cuor nostro, di premiare con la sufficienza in sede di responso conclusivo ma comunque di una certa qual importanza storica in funzione dei cambiamenti stilistici che la band apporterà di li in seguito. La formazione svedese, dopo il prodigioso ep inaugurale Of Chaos and Eternal Night, inizia un rapporto piuttosto tormentato con questo tipo di pubblicazioni, dimostrandosi decisamente più a suo agio sulla lunga distanza. Non è un caso se dovranno trascorrere altri otto anni per il successivo episodio distribuito su ep, il non trascendentale Lost To Apathy, che fece da apripista al discreto, successivo Character. A noi non resta che dimenticarci in fretta di Archetype e di tutte quelle tastiere fastidiose e ronzanti ed inserire, una volta di più nel nostro lettore stereo, la fidata versione non originale di The Gallery, elisir di lunga vita e rimedio salvifico contro ogni possibile storpiatura in chiave dance dell'autentico, genuino, originale melodic death metal made in Gothenburg.

2) Razorfever
3) Shadowlit Facade
4) Archetype


