CORONER

R.I.P.

1987 - Noise Records

A CURA DI
ANDREA MARTELLA
21/11/2017
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Zurigo, è in questa città capoluogo dell'omonimo cantone, che il nostro viaggio farà tappa. Una sosta molto importante, basilare per certi versi, tuttavia non rappresentativa del nostro punto di partenza; effettivamente, per comprendere appieno come il fabbro ferraio abbia forgiato a suon di martellate la porta dell'obitorio in cui opereranno i nostri, bisogna fare qualche passo indietro. Questa avventura, piena di pathos, inizia a metà degli anni settanta con quelli che possono essere considerati i progenitori del thrash metal, dalle cui canzoni molte bands otterranno un'immensa linfa creativa, verde come la bile vomitata in faccia al mondo. Basti pensare ai Black Sabbath con "Symptom of the Universe", piuttosto che i Judas Priest con "Exciter" o i Motörhead con "Overkill", le cui sonorità verranno poi considerate vere e proprie muse ispiratrici al pari dell'altra matrice benevolmente malsana e miscelata a si ben fatta pozione da gruppi come Discharge, Misfits, G.B.H. ed Exploited. Vien da se che questo breve preambolo ci trasporti qualche migliaio di chilometri più in là rispetto al capoluogo svizzero, raggiungendo le calde sponde della Bay Area statunitense, dal cui grembo l'umanità venne a conoscenza del significato d'un verbo: "to thrash", ovvero battere, percuotere...forse il nostro cervello, forse il nostro cuore, di sicuro la nostra anima. Ormai timbrato il biglietto per la giostra emozionale, lasciamoci alle spalle il furente calore californiano e giungiamo quindi in Europa, fra archi e frecce di elvetica memoria. Davanti le mura dell'antico borgo, è proprio nel toponimo romano Turicum (Zurigo), nome risalente alla denominazione celtica, che scopriamo invece le radici di un gruppo che assieme a Venom, Bathory, Hellhammer e Mercyful Fate, diedero inizio ad un'epopea che ancora oggi dipinge di nero la vastità del cielo, un genere tanto discusso quanto amato (il black metal); stiamo parlando proprio dei Celtic Frost...ma questo è un altro racconto. In ogni caso, piuttosto importante è proprio quest'ultima band poiché altrettanto importante è stata la spinta verso la creazione, nell'83, di un progetto speciale, capace di scrivere in maniera sempre innovativa ed avanguardistica pagine significative nella storia del thrash metal: i Coroner. Un nome, molto probabilmente, scelto per il suo uso nell'indicare il pubblico ufficiale incaricato dell'inchiesta nei casi di morte violenta e sospetta. In effetti è proprio da questo che i nostri inizieranno quell'importante incarico che ci immergerà in un mare oscuro, di non facile interpretazione, di  intricati enigmi: la morte. Tutto ebbe inizio quando il cantante Peter Attinger, i chitarristi Tommy Ritter e Oliver Anberg, il bassista Phil Pucztai ed il batterista Marky Edelmann (alias Marquis Marky) si incontrarono in giro durante i concerti dei Celtic Frost in qualità di road crew. Siamo, come già anticipato, in un periodo di forte ingravidamento da parte di padre metallo nei confronti di madre musica e, non a caso, in altre latitudini del globo, "Kill' Em All" dei Metallica e "Show No Mercy" degli Slayer (quest'ultimo ancora con forte tinte N.W.O.B.H.M) venivano partoriti a dimostrazione del fatto che il momento storico era pieno di grandi intuizioni, di voglia di fare e strafare, liberando le idee, talvolta cadendo nel tranello dall'intromissione del dio denaro...il quale, proprio in quegli anni, iniziava subito a porsi interrogativi sul genere estremo, ma soprattutto, sulle reali prospettive di lucro. Anche a New York, nel 1984, la scena è pronta a dir la sua: esce "Fistful of Metal" e "Feel the Fire" rispettivamente di Athrax ed Overkill, tornando poi a Los Angeles per veder nascere "Killing Is My Business...And Business Is Good"  dei Megadeth. Possiamo ben comprendere, senza dar troppo spazio alle opere monumentali appena citate, come le influenze erano molte, arrivavano da ogni dove ed erano anche di ottima caratura, ben congeniali nell'essere accolte dalle menti più intuitive. Proprio quest'ultime risiedevano nella nostra terra "rossocrociata". Siamo ormai sul finire del 1985, le pagine sono ancora bianche ed il pubblico ufficiale senza servizio alcuno. Purtroppo, in maniera inaspettata e senza motivazioni precise, la catena che unì i summenzionati ragazzi si spezzò: Attinger, Ritter, Anberg e Pucztai, lasciarono, ciononostante, Ron Broder (in arte Ron Royce) bassista e cantante nei Diamond, incontrò il chitarrista Tommy Vetterli alias Tommy T. Baron (assonanza forse non casuale con Tom G. Warrior, celebre frontman dei Celtic Frost). Il progetto sembra dunque prender forma e si sa: la dea bendata aiuta gli audaci; proprio per questo, grazie ad un concerto locale, Ron e Tommy riescono ad avvicinare Marky e a parlargli, dandosi un appuntamento successivamente, proprio come lo stesso Royce rilascerà in un'intervista: "Finalmente lo abbiamo incontrato ad un concerto e gli abbiamo parlato. Abbiamo capito fin da subito che anche lui cercava nuove opportunità. Era il 1° Aprile del 1985, quando tutti e tre ci siamo incontrati in una sala prove e per la prima volta abbiamo suonato insieme". I tre, mossi dalle stesse ambizioni, sotto il monicker già esistente portato in dotazione dal poliedrico batterista, incominciarono, a sipario alzato, ad indagare con fare sublime ed impeccabile la scena. La combo era al completo e quindi possiamo comprendere come nel 1986, il nostro trio svizzero iniziò ad alzare lo sguardo ed a scrutare con attenzione ciò che accadeva nel resto del mondo, la mente diabolica e geniale del nostro funzionario era pronta ad iniziare la propria opera forense. Non a caso passò poco tempo e i nostri entrarono in studio per comporre il celebre primo demo dal nome "Death Cult", dalle sonorità furenti heavy'n'speed leggermente lontane da quello che sarà, invece, il loro marchio di fabbrica...in ogni caso sempre energiche e battenti come il martello di un fabbro. A completare questa loro prima produzione che li garantì una certa attenzione da parte di varie etichette discografiche, e per dare la giusta importanza al tema portante dell'intera opera, presentano al mondo il demo con una copertina piena di teschi, creata dalle mani dello stesso Marky con un calco decisamente sporco, il tutto su nero sfondo, con tonalità profonde ed avvolgenti, fin dal primo momento, capace di un trasporto diretto verso la nera materia. Tra le fila del combo, ad onor del vero, nientemeno che Tom G. Warrior, cantante/chitarrista proprio dei Celtic Frost (amico di vecchia data di Marky), il quale, nonostante vivesse lontano dal trio, ebbe modo di ascoltare le ancor embrionali tracce, prestando servizio, grazie alla grande cultura e tecnica, la veste di scrittore delle liriche e di cantastorie, tra l'altro, aiutandoli anche nella pronuncia dell'inglese (come raccontato da Marquis), quasi a voler partecipare all'inizio di questo sporco lavoro. Inutile dire che le motivazioni di questa sua partecipazione furono diverse, tuttavia, le più significative sicuramente si presentavano come un aiuto sia per dare ovviamente più credibilità al trio ed al prodotto e sia per poter usufruire, in maniera galeotta, dei suoi agganci con la casa discografica berlinese Noise International, dimostrando inoltre cosa significasse lavorare in uno studio di produzione professionale. Pleonasticamente, si può dire come questo aggancio fu di lungimirante importanza, aprendo con la chiave forgiata dal fabbro ferraio, la porta dell'obitorio nel 1987. Proprio sotto la suddetta casa discografica, presso i Music Lab di Berlino il primo giugno del 1987, i nostri fecero uscire quello che diverrà il loro primo debutto ufficiale dal titolo "R.I.P." (N.d.R. Rest in Peace, "riposa in pace"), e di cui andrò a disquisire. Questa volta basta ancora poco per rapirci, subito la copertina ci porta nel loro mondo, nel culto enigmatico della morte, forse per esorcizzarla o forse proprio per analizzarla. Ci troviamo davanti ad un cimitero di colore arancione, uno scatto immortalato in maniera avviluppante ancora da Marky, mentre sul lato posteriore del platter, sono visibili tre lapidi che riportano i loro nomi. Giungiamo quindi compagni di viaggio, dopo mille e più chilometri, dopo accadimenti scolpiti nel tempo, alla risoluzione nei suoi elementi di quello che è il primo capitolo appena citato. Apriamo il cancello del sepolcreto, iniziando ad occuparci degli episodi narrati dal trio svizzero.

Intro

Il nostro sopraluogo nell'enigmatica oscura materia inizia con un Intro strumentale. Sulle prime, le note di un piano avvolte in un'atmosfera magica sempre crescente rende possibile vivere la sensazione di una pura levitazione seguita dal migrare dell'anima dal corpo. Risulta sconvolgente la percezione distorta del tempo, donataci da Royce e Baron, i quali, con il loro arrangiamento, ci trascinano quasi davanti alla nascita di un qualcosa. È come se vivessimo una sensazione contrastante rispetto al tema principale trattato nell'album, un insieme incantevole che diviene scudo, capace di proteggerci in questo intricato percorso. In questa estasiata condizione, le nostre orecchie possono lasciarsi trasportare dalla sublime sinfonia emanante tranquillità, pace dei sensi e in fondo anche...pace eterna, degna del plauso del maestro Caronte perché traghettante verso un'espressione dell'essere superiore, verso quel rintocco di campane che suonano la carica.

Reborn Through Hate

Subito la cavalcata si fa importante e Reborn Through Hate (trad. Rinato dall'Odio) compare con un riff epocale, grazie all'alfiere dalle sei corde - con tecnica di neoclassica matrice - che ci travolge in un tutt'uno con l'altrettanta abilità di Royce, in un saliscendi vertiginoso; il tutto, su ipnotizzanti scosse telluriche all'inizio, diventanti pesanti e paralleli binari dopo, grazie alla sapiente mano di Marky, pronto a completare il rito. I demoni dal volto gaio si materializzano assieme ai loro neri destrieri, la carica sgretola ogni speranza innalzata, la chiave forgiata tra le antiche mura ha compiuto il suo destino. Due rintocchi di "splash" e una nuova pagina creata sulla falsa riga della precedente, introduce l'ennesimo tagliente e congeniale ensemble. La voce filtrata di Ron si presenta con funerea aggressività proprio come se arrivasse direttamente dal punto del non ritorno, mentre la lirica citata dall'infernale messaggero, scritta da Marquis, porta con se il peso di chi vuole una condanna suprema. La visione dell'intero sistema, dunque, risulta come un ultimatum: "Per adesso sono andati ma torneranno...per cacciare la tua vita". Facilmente divengono deducibili i sagomati bersagli, colpevoli come l'altrettanta loro sporca anima. Seguitamente, la musica galoppa veloce e i classici dettami del thrash lasciano spazio ad una evoluzione dello stesso in chiave più articolata e percettibilmente avanti nel tempo; nel frattempo le gelide parole scorrono via come lava sulla pelle dissolvendo la carne, perché nell'attesa e nell'odio risulta sconvolgente l'ipotesi che la morte possa abbracciarti solo per gioco. Ecco che il veemente freddo richiamo del diabolico ambasciatore annuncia una lunga marcia verso il patibolo  ed accompagnate da fredde lacrime da copertina le povere figure scelte con cura per l'ultimo volo attendono in simbiosi con la squisita sequenza musicale puramente thrash. D'improvviso, la ritrovata esigenza di un riscatto impetuoso e solenne deflagra nel ritornello come un inno di ferocia celtica capace di chiamarti alle armi. Il pirotecnico incastrarsi di elementi decisivi, mosso dalla medesima potenza, ci avvicina ad un "solo" sprezzante del pericolo, il cui primo segmento sembra proprio chiamare all'attenzione non solo i fruitori di note ma gli spietati obiettivi di questa rivolta. Fintanto, la sequenza "solitaria" continua, sfornando con veloce capacità le doti già percettibili del nostro alfiere. La composizione dei nostri, ed i primordiali saliscendi, si ripresentano in pieno stile Coroner, mostrando le scale cromatiche verso l'oblio che  compaiono per essere salite. Sembra come se un ponte ancestrale ponesse fine all'insieme, con l'altrettanta mortalità decantata dai nostri. La nostra filastrocca, infine e senza alcuna pietà, rimarca il giro raggomitolando il filo. Il rito incomincia nuovamente, senza alcun rintocco ed il sistema emozionale, in continua evoluzione, apre la porta della consapevolezza; le medesime pesanti parole, la medesima potente musica, la percezione non lascia scampo al dubbio: tutto ciò che è stato fatto non avrà mai fine. Così il martello delle aggiudicazioni, accompagnato da due tocchi, emette la sua sentenza.

When Angels Die

Con ancor l'udibile eco dei destrieri purosangue, una ben più palpabile, sebbene iniziale, sensazione di lucida attesa mista a distensione ci proietta in When Angels Die (trad. Quando gli Angeli Muoiono) poiché questo primo insieme musicale, un po' lontano dalle radici del genere, funge quasi da intro della stessa canzone. Come se il cuore retto e purificatore delle bianche anime ed  il leggero e beatificato battere delle ali si ripetesse senza arbitrio, mostrando quanto l'innocenza possa essere cosa per pochi. Come in un congegno meccanico di perfetta natura, si palesa il marchio di fabbrica del nostro arcano funzionario, non lasciando scampo con il suo insieme musicale ed unendo i tre funamboli in un tornado di note rabbiose tipicamente thrashy, decise a trascinarti nel suo occhio. Questo vorticoso manifesto energetico, simile ad una parentesi nel tempo, tende la mano alla sempre più solenne voce del messaggero dal violaceo mantello Royce, il quale, con proverbiale rettitudine, annuncia l'imminente e nefasto incombere insieme a Vetterli, quest'ultimo capace di porre un significativo accento al termine di ogni strofa con taglienti e veloci scale simili a sferzanti frustate, in simbiosi proprio con la tragica visione del momento. Ecco che la purezza di uno sguardo innocente che domanda spiegazioni segue lo scroscio dell'inquinata pioggia che innaffia morte. I mastri intrattenitori eseguono perfettamente lo spartito dettato dall'apocalittica scena e le parole del ritornello giungono come un supplizio proprio a causa delle orribili visioni; i corpi mutilati ed i volti sfigurati dipingono, quindi, un Mondo caduto in disgrazia per mano dell'Uomo. Immobili ed inermi, catapultati nella funerea landa, veniamo accolti da un gregoriano e tetro coro, nati sempre dalla mente di Ron e Tommy solido ed immaginifico, come una cantilena che accoglie i fragili corpi nel limbo, in attesa dell'eterna guarigione. Proprio quest'amara dolcezza rimane intrappolata fra le note del seguente assolo, eseguito con estrema tecnica cara allo svedese Malmsteen e la velocità tipica del genere. Questa eterna condanna continua, ed anche in questa traccia il tutto si ripete come una formula scolpita nella roccia del tempo...ma, particolarmente in questo capitolo, sebbene non ricardato con precisione, si percepisce la sensazione di quale sia l'eterna sciagura narrata dal racconto ovvero: Chernobyl, olocausto chimico avvenuto nell'aprile del 1986 presso la centrale nucleare V.I. Lenin in quella che oggi chiamiamo Ucraina. Il messaggio strutturale risulta così di facile assimilazione ed anche la nostra oscura ed enigmatica protagonista non sembra trovar mai pace, comparendo nuovamente nelle parole di Royce e creando una visione dolorosa, assai facile da descrivere. Abbiamo, d'innanzi, gli occhi aperti dei bambini morti, che raccontano il malsano sacrificio, ed i venti della morte, che come eterni custodi, veglieranno nel tempo, galleggiando nel cielo. Immaginare, dunque, l'orrore passato (non solo) da fragili vittime, non è cosa semplice tuttavia. Le parole create da Marky e cantate da Ron bastano per rendere più che significativo il concetto, risultando essere un'immagine forte se collegata alla tragedia citata, ma anche una pesante condanna. Non è tanto la morte che genera scalpore, quanto la fotografia di un bambino che con stupore guarda il cielo ignaro di ciò che sta per accadere, connessa alla visione di piccoli corpi spenti, spenti come i loro occhi aperti. Questa esposizione, in ultimo, ci permette di pensare a quanto quegli stessi occhi aperti possano gridare ancora la voglia di sorridere, correre o più semplicemente vivere. Volate, dunque, angeli...

Intro (Nosferatu)

Sulla scia del summenzionato epocale abominio, attraverso le note, veniamo condotti  nel secondo episodio strumentale di questo platter: Intro (Nosferatu). Un luogo introspettivo perché oltre all'importanza plasmata dai misfatti causati dall'essere umano, porta con se la ben chiara possibilità di poter scrutare lo scenario in maniera neutrale, con occhio elevato. I tre annunciatori rapiscono l'essenza del nostro lato razionale, in cui è ancora percepibile il battito delle ali riecheggiare tra le leggere e classiche note arpeggiate da Tom in sequenza ipnotica. Ecco creato un pregiato tappeto ove poggiare un assolo diviso in due parti e dal notevole impatto emotivo. Grazie al neoclassico utilizzo della sei corde, nella prima parte del brano, scorre tutto in maniera molto piacevole all'ascolto e, in virtu' della sua ottima struttura, ci porta per mano nella seconda parte, la quale ha una matrice più heavy e rincara la dose con altrettanta capacità tecnica sulle celate ma pesanti vie battute dai misuratori del tempo Ron e Marquis. Risulta lampante come il nostro trio sembra che riesca a trovar la giusta pozione capace di annullare un ipotetico nero sortilegio, il quale, nel frattempo, accompagna la musica a suon di tuonanti palle di fuoco capaci di creare una nefasta e futuribile visione apocalittica. Il trasferimento arrangiato da Royce e Vetterli è quasi completo in questo lugubre sfondo, il quale funge proprio da anticamera per l'episodio successivo.

Nosferatu

A questo punto la mente risulta ben saldata al corpo, l'unione crea una titanica sfera che irradia lo spazio circostante di luce propria. Nosferatu è scintillante energia cosmica. Una traccia strumentale manifestata per la creazione del Tutto. Il cammino inizia con debordante autorità, un cadenzato passo intimidatorio creato con maestria dai nostri cavalieri, mentre la stessa sessione ritmica risulta come un unico assolo grazie alle sue dinamiche sia thrash che neoclassiche. Ormai il bagliore iniziale, creato sotto forma di musica, non rende più la vista cieca ma riesce ad evocare una forte emozione estetica che dipinge con sfumature radiose il quadro circostante. Con fare intimidatorio e artefatta destrezza, i colori mutano il loro tono, vengono scisse le regole primarie e marcate ancor più le variazioni del moto interiore, il quale si chiude a forziere conservando il furore. L'insieme energetico, come fosse in discesa, aumenta i suoi giri accelerando il suo vigore e cancellando l'indecisione, mentre l'astuzia del pizzicatore di corde tesse con longeva eleganza la prestigiosa trama. Come avvolta da superiori intenti, la benevole formula magica si scaglia trasudando potenza, mentre la prestigiosa tela tramata dalle colte mani si presta al suo scopo e la melodiosa ed infallibile seduzione creata dall'infinito assolo di Tom incontra gli inserimenti atmosferici costruiti da lui stesso e da Royce in un maestoso crescendo spirituale. Anche qui si ha voglia di ricoprire le precise orme battute in precedenza, senza sospensione morale, sgretolando le credenze e ultimando la mansione con fare supremo, requisito fondamentale di chi vuol consegnare ai posteri una epistolare conclusione. Il nero sortilegio del Nosferatu, racchiuso nell'oscurità, celato di tanto in tanto nei plurimi volti dell'essere umani, continua a vivere nella penombra, attento e lucido proprio come il principe dal notturno risveglio: il Conte Orlok. Quest'ultimo, come narrato in più racconti, capace di tramare nascosto tra le mura sulfuree del suo maniero nella lontana Transilvania ad egual immagine di quell'antico e disonesto sentimento che accomuna l'Uomo.

Suicide Command

Con grande ardore e con bellezza quasi insana, entra in scena Suicide Command (trad. Comando Suicida). Un seguire di note folli, in pieno stile battente e classiche del genere, che con forza rendono subito chiaro l'intento di scavare, con abile astuzia, ritmi incalzanti, grazie ai fidati complici Royce e Marky, che ci aprono le porte di questo episodio. L'alfiere Vetterli, non fa attendere la sua ira calcando la scena a suon di pesanti sferrate di chitarra dalle forti tinte Slayer, dritto verso le coscienze infangate dei subdoli individui, moltiplicando con accuratezza l'impatto per lasciar inciso il suo marchio. Quasi come un puntino nell'oscura vastità del cosmo, il componimento sembra trovar tregua calando le serrate file, quando un fresco intrecciarsi di potenti tessiture si ripresentano al Mondo e la trapassante voce del messaggero spirituale Ron conferma l'inizio del misfatto. Il pericoloso insieme di espressioni, portate alla luce dall'ambasciatore del sonno eterno, sottolinea quasi il disgusto per la vita, sempre in disputa con primitivi pensamenti, sempre in attesa della buona novella e sempre con il convincimento che l'eterno flagello dalle lunghe contese porta sempre con se un'unica mortale soluzione. Anche il ritornello spazza via ogni possibile dubbio, mentre la caccia continua e la ricerca ossessiva portano con se un valore assoluto: quando finalmente trovi il tuo obiettivo, ciò che ti accomuna ad esso può essere forse una preghiera ma di sicuro la morte. Le buone novelle, lor signori, giungono sempre accompagnate da mistica oscurità ed è cosi che il componimento regala al fruitore di note un nuovo assaggio della mai scontata abilità del pizzicatore di corde, il quale si veste di un incarico ormai conosciuto ai più e che, con furore supremo, piazza un altro momento "solitario" variegato come le sue capacità. Nuovamente, il trio cavalleresco solletica la nostra anima donandole un respiro d'attesa intervallato da un seguire di momenti di grande intuizione compositiva. Dunque il copione di Royce risalta per tecnica esecutiva e le pelli di Marky risuonano pulite e precise anche quando vestite da mitragliatrice. Su telai fucinati a dovere e con il loro stemma rampante inciso a fuoco, riprende il ciclo del suddetto trapasso a parole e con i fatti; il tutto si ripresenta su granitici binari, catapultandoci in quello che risulta un doppio finale, tuttavia lasciando prima un'ultima nota in maniera compulsiva e poi, al terzo charleston del direttore Marquis, riaprendo con una veloce pazza sequenza, quasi ad indicare il ciclo continuo degli eventi. La sottile linea tra creazione e distruzione, maneggiata con cura dall'egoismo dispotico dei tiranni padroni, prende parte ad una parentesi di quello che è il racconto intricato che la vita ci ha consegnato e ci consegnerà poiché, con attenta certezza, si estinguerà l'Uomo prima del suo atroce e delirante bramare.

Spiral Dream

Con il sole ormai da tempo nascosto al di là dell'orizzonte e la cera consumata di candele usurate, avvolgente come le mani del dio del sonno Hypnos, Spiral Dream (trad. Sogno a Spirale) inizia la sospensione più o meno completa della nostra volontà. Doverosa ed altresì importante, la menzione nei confronti di uno dei personaggi più influenti nella nascita del black e del thrash metal (due grandi filosofie di musica estrema), parliamo di Thomas Gabriel Fischer in arte Tom G. Warrior, anima creativa, fra gli altri, degli elvetici Celtic Frost, band rivoluzionaria ed ispiratrice per molti maestri arrivati in seguito. Il guerriero rossocrociato, arricchisce di trame dal gran valore la completezza del pacchetto, poiché autore della lirica, al contrario delle altre invece scritte da Marquis. Originariamente presente nel teschio forziere dal nome "Death Cult", demo ed impronta madre dei Coroner, il suddetto guerriero prestava la sua voce per l'interezza del componimento avendone scritto le altrettante liriche. Riproposta in questo primo lavoro completo, risultano evidenti i cambiamenti dovuti alle diverse ugole. Se nel demo abbiamo potuto apprezzare il carisma e la timbrica senza compromessi di Warrior, in codesta riproposizione, Ron riprende il suo personale approccio vocale utilizzando quel registro cosi azzeccato per la causa. Anche i passi, a tempo di musica, ripercorrono con giusto compiacimento le orme già lasciate dalla primordiale esecuzione, e vien da se che, parlando di quest'ultima, evidenzieremo una produzione primitiva ed essenziale, a differenza, nell'analisi qui presente incontreremo un manufatto completo, merito del già menzionato lavoro eseguito da Ron e Tommy, intrecciatori e tessitori ben "arrangiati". Prepotente con classe, la prima carica giunge alle orecchie con attenzione verso la trama iniziale del nostro alfiere, capace di fraternizzare con la ben nota via battuta da Marquis e Ron, in un assaggio avanguardistico molto thrash n' heavy. Sul percorso già tracciato in precedenza dal guerriero Tom, il nostro messaggero dal violaceo mantello si trova a suo agio, spalla a spalla reinterpreta la vicenda in maniera altrettanto convincente. Una storia molto probabilmente personale, un viaggio all'interno del proprio "io". Si percepisce una sensazione similare ad una sosta fra le diverse dimensioni dell'anima, dove le tenebre avvolgono la luce, dove non vi è risposta alle domande e dove la propria coscienza si può far dolcemente rapire dal figlio di Hypno: Morpheus. Le particolari tessiture date alla luce dal lungimirante pizzicatore di corde, rendono ammaliante l'esecuzione di quello che potrebbe essere considerato un ritornello, azzeccata unione d'intenti con le stesse sequenze dei signori che scandiscono il tempo con il loro quattro corde uno e doppia cassa l'altro, ne scaturisce un passaggio molto heavy, che potrebbe far pensare ai Maiden per il suo incedere galoppante con una lontana tinta black. Poggiata su queste dinamiche la narrazione continua senza trovar ascolto alcuno. Tra sogno e realtà, l'eterno personale conflitto permette di raggiungere pensamenti di sofisticata estrazione cosi da raggiungere il vertice più alto della conoscenza. La vana ricerca di una speranza negata dentro la vastità del conscio, al calare della nebbia, innesca la miccia che porta ad una inevitabile implosione della consapevolezza, lasciando che la ragione cessi d'esistere, dando apertura alla follia. Un successivo districarsi musicale, tipicamente thrash, ci introduce in una delle dimensioni preferite da Vetterli, l'alfiere, utilizzando una matrice molto più heavy. Il nostro marchia a fuoco il suo solitario spazio, regalandoci la sua sempre forte impronta neoclassica. Usciti da questo mistico luogo, la trama aggiunge una leggera suspense al confetto, mentre, in un'altra dimensione, le forze vengono raccolte per merito di un passaggio che inframezza le vecchie emozioni con le nuove. La fase REM è in pieno mandato quando il cerchio completa il suo giro, per poi ritornare al complesso iniziale terminando questo viaggio onirico.

R.I.P.

Il selciato lungo il nostro cammino, guardando a ritroso, non ha mai eclissato la sua reale mira poiché ha sempre rivelato, senza paura, le sue trappole mortali, consegnando all'impavido pubblico ufficiale, con sfrontato ghigno irrisorio, il tempo per portare a compimento la difficile risoluzione dell'enigma ormai nel pieno delle sue volontà. L'apertura dell'ottavo capitolo, mostra or dunque, il tono maestro di questa narrativa, con cui si apre la porta del nostro subconscio, recante la scritta: R.I.P.. L'iniziale parentesi, pizzicata a dovere da Vetterli, scandisce con giusta melodia uno stato d'animo fluttuante nello spazio e nel tempo grazie al suo arpeggio ammaliante. È una sorta di calma apparente in cui la consegna dei tre tessitori e la voce lontana e fredda di Royce ci raccontano un limbo dentro il quale un corpo, semi cosciente, prova a trovar risposta al quesito supremo, vestendosi di quiete e amletico dubbio, proprio per non contrastarne l'esito. Ciononostante, come la fisica insegna, la reazione uguale e contraria si manifesta con grande convinzione sempre in pieno stile Coroner e cosi che le pelli di Marquis incominciano la marcia con linee letali, mentre Ron fa di nuovo capire come la sua sapiente abilità risulti utile alle altrettante capacità dell'alfiere dalle sei corde. La trama imbastita dai cavalieri sulfurei, presenta un retaggio di matrice old school ed accompagna la missiva narrata dall'ambasciatore in maniera chiara, non nascondendo mai le loro lungimiranti e notevoli capacità, riuscendo a donare, al fruitore di note, la sensazione di appartenenza ad uno stile ben radicato che non dimentica le mai celate avanguardistiche capacità tecniche. Pian piano il protagonista, la cui voce è ben tradotta dall'ambasciata di Royce, prende coscienza del trapasso che sta per compiersi. L'odore circostante ed i colori mutanti della pelle dissolvono ogni dubbio, ed anche le poche parole del ritornello restituiscono, con consapevole rassegnazione, mente e corpo al nulla. Dopo il breve passaggio sul ponte dei pensieri, descritto in musica dallo stile inconfondibile dei nostri, la scena merita un nuovo assaggio del funambolico alfiere che, mai come in un soliloquio, si intreccia perfettamente con i compagni di ventura regalando un contesto furioso come l'anima di chi deve attendere il trapasso. Oramai il progetto è chiaro ed il limbo si può scorgere in lontananza, un ultimo ponte e quella che può sembrare una filastrocca torna ad essere declamata da Ron. L'odore circostante è sempre più forte ed i colori hanno un tono sempre più acceso, per cui risulta rilassante l'accettazione della morte...riposa in pace dunque.

Coma

L'avvincente saga del nostro funzionario, sul nero percorso che indirizza la vita, inciampa senza intento in grossi macigni disegnati nel destino e cosi che la razionalità dettata dal saggio emisfero custodito nella molle materia, viene talvolta eclissata da quei pesanti ostacoli che si frappongono al suo naturale bagliore, cadendo in Coma. E' cosi che i nostri cavalieri si vestono di risolutezza al cospetto dell'oscuro  panorama. Il loro iniziale incedere angusto e funereo, affida ad un facile sentimento la vicenda poi narrata. Le ritmiche quasi doom/thrash accompagnate da roboanti eterne campane, aprono or dunque il nefasto cancello delle anime perdute. Attraverso conclamati accenti neoclassici, tipici del nostro alfiere ed anche qui posti al termine di ogni frase e sulle lineari vie battute nel tempo dall'abilità di Royce e Marky, la dolorosa missiva che l'ambasciatore proclama ai posteri, riscrive un frenetico crollo nei meandri impenetrabili del proprio conscio, perso a vagabondare tra sfondi sconosciuti alla ricerca della via purificatrice. Su medesimi tratti musicali, la fredda e spettrale timbrica di Ron, assegna l'esposizione al suo lato introspettivo cosicché la scoperta del nostro malaugurato protagonista verso la propria fragile essenza, irradia la sua voglia di proferir parola e la sua condizione obbligatoria, legata a congegni meccanici, blinda nella dimensione sospesa la speranza. Proprio in questo stato di apparente apatia che la mente duellante con il corpo si libra nel vuoto. Nel ritornello l'ambasciatore può cosi esporre con naturalezza quella che pare essere un involontaria richiesta d'aiuto verso bibliche entità, nella speranza che il bambino della luna riporti la luce e doni l'eterna disposizione. Con gentile tempismo, l'apostrofo solitario che distanzia i diversi stati d'animo, calca nuovamente il meritato palco e l'alfiere Vetterli sforna chiarezze dal gusto thrash n' heavy, mentre il dipinto immaginato con diversi colori è completato dai toni profondi e spietati della clessidra del tempo Marky e dall'abile tecnica del battitore dell'anima Royce. Sembra che nessuna liturgia riesca a donar sollievo al nostro malcapitato. Tra costretti inserimenti chimici, l'epilogo trascendentale mostra a parole l'inesorabile rinsavire dell'anima dalla follia alla ragione, interrompendo il flusso dell'elettrico cuore illusorio per non impedirne la perenne liberazione. In pieno marasma emotivo, il componimento scandisce i flebili battiti vitali del dormiente. In definitiva, il finale palesemente interrotto risulta essere una perfetta similitudine verso quel gesto cosi semplice ma, in questi casi, altrettanto difficile.

Fried Alive

Thrash-inante come la radice stessa di questo genere, Fried Alive (Trad. Fritto Vivo) comincia la sua ascesa in pieno old school style, in cui i nostri cavalieri riescono a farci vivere un momento musicale lineare. A questo astuto incipit, un arpeggio, scandito dall'alfiere maestro, pone fine a quella che può essere apostrofata come una prefazione, rimbombante nella testa come un corno da battaglia. Suonata la carica, veniamo piacevolmente coperti da tessuti di alto livello artistico,  trovando Marky e Ron che segnano il tempo con velocità e maestria, mentre l'altrettanta tecnica del pizzicatore di corde, mescolando vari ingredienti con grande manipolazione, ci prepara all'ascolto della nuova parabola. La schiettezza con cui l'ambasciatore proclama la sua favella, ci espone d'innanzi al come descrive, con forti passaggi, gli ultimi istanti di un condannato a morte, tra ricordi ormai lontani ed una sola presente convinzione: rendere leggera la propria essenza per lasciare il bagno penale, come cenere spazzata dal vento. Sul medesimo piano concettuale e sulle medesime vie, ben solcate in pieno stile Coroner, il tardivo pensiero verso un'acerba esistenza accende l'esigenza verso un ultimo fisico contatto, una conclusiva stretta vitale convertita a rimedio naturale cosi da anestetizzare le paure più profonde. La spedita cadenza con cui il didascalico battitore di pelli segna il tratto, sul quel breve percorso lungo un miglio, fomenta la concitazione del momento, in ovvio legame con le vergini fibre lavorate minuziosamente da Tom e da Royce. Seduto su legno invecchiato dalla vergogna, l'eterna voglia di pace prepara alla morte, stupide premesse logorano la mente ed è cosi che, nel nome della legge, si da il via all'operazione, mentre, nel nome dello Stato, viene recitata la conseguente conclusione. Il ritornello narrato dal viscerale portavoce risulta penetrante come il summenzionato corno e la sentenza di morte risuona imperterrita nel tempo; cosicché gli accenti, musicalmente tramati, sono posti in maniera tale da rendere palese la rilevante condizione dello sventurato protagonista. Dopo una breve transazione complessa e ricca di cambi di tempo come le molteplici sensazioni del cuore, il ritrovato gioco solitario tuona la propria ira, sfoggiando intersezioni capaci di annientare il muro del pianto, parete vorticosa eretta per rivelare la dubbia purezza dell'essere umano. Attraverso l'utilizzo di colori variopinti piacevolmente abusati ma in toni diversi, il racconto torna su passi gia marcati e, servendosi di piani stilistici ormai conosciuti, chiude a doppia serrata l'involucro ferroso creando volontariamente quel fragoroso riecheggiare...ecco la sentenza di morte.

Intro (Totentanz)

Questo terzo episodio strumentale che introduce l'ultima traccia è: Intro (Totentanz). Un frammento quasi fedelmente riprodotto di quel grande capolavoro composto da Robert de Visée e presente nel suo "Livre de Guitarre, dedie au Roy", sotto il nome di "suite in D minor", del 1682. Nato circa nel 1650, oltre ad esserre stato un chitarrista, prestò servizio alla corte di Luigi XIV anche come liutaio e gambista tiorbista, iniziando ad insegnare la chitarra a Luigi XV nel 1719. Ancora oggi, le sue origini, rimangono avvolte nel mistero, ed e' forse per questo motivo che i Nostri elvetici scudieri possono aver scelto un'opera cosi profondamente mistica. Se associassimo il componimento al luogo ed al periodo in cui prese forma, vien da se la facile comprensione dei due stati d'animo che lo uniscono. I primi momenti, da Vetterli pizzicati con grande comodità, ci conducono pieni di magia a corte, assieme ad una condizione di allegra compostezza al cospetto di cotanta regalità. Un'elegante entrata in scena in punta di piedi pronta al primo ballo della serata che si accende di maestosità sul rosso tappeto arrangiato con accuratezza da Ron e Marquis. La gioia manifestata con sincerità, sveste il suo ruolo da protagonista in un secondo momento. Soprattuto quando la trama sembra aggiungere un velato e triste accento alla poesia qui messa in musica e non declamata. Ecco che i visi, ormai accorati, continuano il loro piroettare pronti al disegno successivo.

Totentanz

Capita sovente di origliare manufatti che, al loro concludersi, affievoliscono l'entusiasmo, talvolta coscienzioso e creato a dovere. In questa tumultuosa parentesi invece, il rovente sentimento palesatosi tra le disgraziate distese percorse, non cessa il suo incantevole sfogo, poiché la celebrazione presenta la sua ultima Totentanz (Trad. Danza della Morte). L'imperioso inizio non trova distratti i nostri paladini del tempo; Ron, Marky e Tom mettono in scena, con tetri passi tipicamente thrash, il gotico inceder, inaugurando cosi l'ultimo ammaliante piroettare dell'enigmatica ed oscura dama. Sul corvino andamento, Vetterli guida l'ultima danza con acuti guizzi ed in compagnia delle abili e profonde linee mostrate da Royce, l'ambasciatore dal violaceo mantello, il quale consegna ai posteri l'ultima esposizione, andando ad ultimare la prima fondamentale epopea del nostro pubblico ufficiale. Tuttavia non è stato possibile riesumare alcuna traccia della narrativa qui esposta dall'infernale messaggero e scritta da A. M. Siegrist, rimane celata nel mistero al pari del suo ideatore del quale non sembra esserci traccia alcuna. Il titolo di questo macabro brano, dalle connotazioni tecniche di difficilissima esecuzione, è stato persino ripreso e composto dopo una gestazione lunga 25 anni da Franz Liszt ed è inoltre facente parte della sequenza gregoriana del Dies Irae. Quste similitudini arricchiscono ancor più il lavoro dei nostri, dal momento che le pregiate coreografie che in questa danza volteggiano da terra, continuano nel loro intento quel disegno cominciato nel passato. Le dinamiche sono mostrate in maniera dirompente e con antica destrezza, i tre vulcanici coreografi miscelano lezioni dalle radici thrash con lungimiranti evoluzioni tecniche conducendoci facilmente dinanzi all'intercalare e con la consueta glaciale e sinistra timbrica propria del nostro portavoce. Proprio grazie a quest'ultimo, viene enfatizzato l'acme con l'ausilio della sola intestazione. Il passo che solitario da' lustro alla scena è anch'esso ricco di spunti. La variegata capacità creativa e la tecnica di neoclassica estrazione insita nell'alfiere dalle sei corde, permarrà ancora per molto tempo sulla bocca degli invitati, i quali potranno raccontare le sue grandi gesta nell'infinita landa del non ritorno.
Sui ben condotti iniziali stilemi la summenzionata celebrazione volge al termine e le ultime complicate evoluzioni, messe a proprio agio dalla fluttuante leggerezza del nostro trio, schiudono la porta del trapasso permettendo alle anime danzanti di mostrare il loro ultimo passo.

Outro

Estrapolato complesso pensiero, Outro puo' essere considerata una canzone a se stante e nonostante la brevissima durata, quarto episodio strumentale, colpisce con grande impeto per la sua maniacale cura. Nasce in "fade in", cioè: pian piano, con costanza, aumenta il suo volume sonoro presentandosi nel pieno delle sue facoltà, assieme all'innata diligenza compagna del nostro funzionario. L'effetto epico che ne consegue risulta grandioso e sulla scia ben costruita dal combo, un tenebroso coro monosillabico riempe come fosse una lirica, completando la parentesi temporale adattata con grande senso logico dai tre musicisti. Sulla falsa via tracciata in entrata, un altrettanta vincente tecnica, ovvero quella del "fade out", viene utilizzata per portare a compimento un'opera estremamente importante, come a dare una soluzione continuativa ad un discorso ancora pieno di motivazioni. Con grande perseveranza diminuisce il suo volume, mentre, con grande perizia, l'alfiere delle sei corde rende grazia al nostro udito con un travolgente assolo che non si nasconde dietro finte trame ma che dipinge con maligna valentia il moto perpetuo protagonista del racconto.

Conclusioni

Con certezza, signori avventurieri, potremmo dire che il mestiere con cui si è vestito di pregio il nostro pubblico ufficiale, non sia stato per niente privo d'infausti avvenimenti ed apocalittici scenari sottolineando, con accurata precisione elvetica, quale sia l'intricato percorso esemplare scelto, atto ad assorbire quella tetra linfa capace di rinvigorire il corpo e la mente. Il tragitto emozionale inaugurato in questo primo racconto, riscrive con caratteri maiuscoli un nuovo criterio compositivo grazie alle limpide capacità tecniche esibite, marchiando a fuoco, in questo modo, il loro stile inconfondibile. Gli inserimenti neoclassici propri del pizzicatore di corde, l'anima sensitiva ed altrettanto valente dell'ambasciatore dal violaceo mantello, in simbiosi con la sua stessa narrativa, insieme alle particolari doti nel governare il tempo del suo irreprensibile battitore, rendono, l'abito indossato dai Coroner, un'unione di stoffe d'alta qualità. Avviluppanti e trascinanti, gli episodi strumentali, capaci di riflessioni mai scontate, risultano costruzioni "arrangiate" con sapienza, ciononostante, l'azzeccato inserimento del Bourèe di Robert De Visée, eseguito con estrema cura, pone accenti di acuta natura all'intero manufatto. L'epocale richiamo alle armi della prima scelta "Reborn Through Hate", capace di dipingere nello spazio e nel tempo l'eterno "modus operandi" adottato - con cosi tanta efficacia - dal trio, insieme alle atroci memorie ben descritte dal volo degli angeli in "When Angels Die", accompagnano le infinite palpitazioni di "Nosferatu", pura energia cosmica ed inossidabile (e "solitaria") catena evolutiva. I primitivi e malsani richiami di "Suicide Command", rappresentano giochi non pienamente voluti dalla parte istintiva ed irrazionale della psiche e le rievocazioni di quel passato non troppo lontano ma embrionale insito in "Spiral Dream", traccia già lungimirante nell'Ep Death Cult ed "amica" perché' ripresenta la lirica del connazionale Tom G. Warrior, si collegano all'acronimo "R.I.P.", quel delicato riposare in pace che è cosi ben tradotto in musica dal combo. In questo modo, la lunga ed estenuante assenza della coscienza nel vertiginoso ed eterno viaggio articolato in "Coma", se non anche in quell'ultimo miglio, dal profumo bruciato, ben canalizzato in "Fried Alive", ci trascinano a palazzo tra le misteriose parole di Siegrist e l'ultima danza, il "Totentanz". In definitiva, l'unica falla in un lavoro definibile "opera", può essere riscontrata nella difficoltà, incontrata dai nostri, nella costruzione delle frasi in inglese non sempre corrette e di facile comprensione, anche per colpa - ad onor del vero - di una pronuncia non impeccabile. Tuttavia, non sarà certo questo l'elemento che oscurerà questo idillio. Possiamo dunque dire come l'enigmatica ed oscura materia, abile trasformista dagli infiniti volti e fonte ispiratrice per il pubblico ufficiale, poserà con fierezza per le molteplici tele ancora da ultimare che comporranno il mosaico dei Coroner. Infine, per ultimo ma non per importanza, ecco che -a mio avviso - "R.I.P." risulta essere il precursore di quello che oggi possiamo definire "technical thrash metal".

1) Intro
2) Reborn Through Hate
3) When Angels Die
4) Intro (Nosferatu)
5) Nosferatu
6) Suicide Command
7) Spiral Dream
8) R.I.P.
9) Coma
10) Fried Alive
11) Intro (Totentanz)
12) Totentanz
13) Outro
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