Cirith Ungol
Servants of Chaos
2001 - Metal Blade Records
CRISTIANO MORGIA
10/01/2018
Introduzione recensione
L'intervallo di tempo tra il 1991 e il 2011 è davvero ampio: un ventennio. Nel '91 era uscito "Paradise Lost" l'ultimo album dei Cirith Ungol prima dello scioglimento dell'anno seguente. Nel 2011 esce per Metal Blade questa raccolta intitolata "Servants Of Chaos". Certamente nel 2011 i Cirith Ungol non erano più una band che si sforzava di sfondare e di raggiungere grandi fette di pubblico, anzi, a dirla tutta non erano neanche più una band, visto lo scioglimento. Nel 2011, quindi, erano un pezzo di Storia, una band di culto proveniente da un passato misterioso e lontano che aveva coperto di gloria tantissime band ma che, al contrario, non era stato così magnanimo con altre: tra le quali i Cirith Ungol stessi. La band americana è oggigiorno considerata come una delle più importanti e fondamentali per la nascita e lo sviluppo dell'Epic Metal, ed è sicuramente così, ma è anche vero che negli anni '80 faticò non poco a trovarsi uno spazio, tant'è che la sua discografia è formata da soli quattro album spalmati in 10 anni circa. La carriera dei Nostri si apre con il seminale e acerbo "Frost And Fire" (1981), ma trova subito, con il successivo "King Of The Dead" (1984), il suo punto più alto ed iconico con un album che è tutt'ora considerato come una vera e propria pietra miliare del genere. I successivi "One Foot In Hell" (1986) e lo stesso "Paradise Lost" ci mostrano invece una band in grado di scrivere canzoni grandiose ma che, allo stesso tempo, sembra essere anche alla ricerca di un modo per accontentare più fan possibili, inserendo, per esempio, canzoni più veloci o suoni decisamente più adatti ad una band Metal e quindi meno retrò e meno legati ai Black Sabbath. Questo però non è bastato a far cadere la band in una profonda crisi che l'avrebbe dapprima resa orfana degli storici Jerry Fogle e Michael Flint - rispettivamente chitarra e basso - e che in seguito l'avrebbe portata direttamente verso lo scioglimento, certamente influenzato anche dalla poca fiducia che la Restless Records ebbe per "Paradise Lost" e dal periodo buio che il Metal di stampo classico stava cominciando a vivere ad inizio anni '90. Dopo tutto questo tempo però, ecco che nel 2011 sugli scaffali si comincia nuovamente a leggere quel nome elfico marchiato a fuoco, accompagnato dai famosi ed iconici scheletri preganti. Purtroppo però non si tratta di un album di inediti e quindi di un ritorno sulla scena della band, bensì di una semplice raccolta che però potrebbe soddisfare soprattutto i palati più curiosi e affamati di chicche nascoste. Dico chicche nascoste perché questa compilation, divisa in 2 CD con ben 31 tracce, è ricca di brani effettivamente mai sentiti, o per lo meno mai presentati su album: brani magari arrangiati ma poi abbandonati per far spazio ad altri pezzi o versioni con un missaggio diverso di pezzi già conosciuti. Insomma, una raccolta molto interessante per chi apprezza questo genere di prodotti, ma anche per chi ama così tanto questa band che è curiosissimo di ascoltare anche canzoni acerbe e mai perfezionate che però portano lo stesso la firma degli Ungol, permettendo quindi alla mente di tornare indietro di svariati anni ed immaginarsi la band alle prese con una registrazione di un disco, tra chiacchierate e prove in studio. Compiamo anche noi questo salto indietro quindi.
Hype Performance
Il CD1 è aperto da "Hype Performance", canzone che da subito dimostra il suo carattere da demo, sia per la produzione sporca sia per lo stile stesso della band: il sound infatti è ancora molto Hard Rock. Qui e là, soprattutto nei riff (all'epoca di questa canzone forse ancora c'era Greg Lindstrom), si sente un retrogusto proto-Metal, ma è ancora molto acerbo e viene sommerso dall'acidità del tutto. La voce di Baker anche risulta ancora inesperta e per niente matura ancora alla ricerca della sua dimensione, ma già molto particolare in realtà. Già dai primi secondi, comunque, un elemento salta all'orecchio dell'ascoltatore, c'è infatti uno strumento che non è propriamente tipico della band: le tastiere. Esse avvolgono il brano per tutta la sua durata, dandogli un tocco psichedelico e quasi estraniante, ma raggiungono il loro apice espressivo verso metà brano, quando troviamo un assolo molto interessante e davvero molto seventies. Dopodiché il riff principale ritorna, accompagnato dalla voce di Baker e dalla batteria già selvaggia ed inarrestabile di Garven, con il suo incedere ossessivo e acido, facendo presagire quale sarebbe stato il percorso intrapreso da questi guerrieri dell'Epic. Il brano in sé è troppo diverso dallo stile con cui i Cirith Ungol sono conosciuti, ed infatti, molto probabilmente, avrebbe stonato in tutti gli album della band, salvo forse il primo e seminale "Frost And Fire"; tuttavia è comunque un interessante scorcio sul passato della band, così come ce ne saranno molti altri a seguire.
Last Laugh
Come secondo brano abbiamo "Last Laugh" (L'Ultima Risata), con il suo incedere rockeggiante e acido, soprattutto per quanto riguarda la voce di Baker. La produzione è molto sporca e basilare, spesso i suoni si mischiano tra loro creando un effetto abbastanza fastidioso. Ciò però non toglie che il brano sia godibile, specialmente nel ritornello, dove Baker suona davvero maligno e ghignante. Una menzione va anche al lavoro solistico della chitarra, che sforna degli assoli molto interessanti, anche se sempre un po' sporchi e caotici purtroppo. Verso metà la traccia trova anche un rallentamento in cui l'acidume lascia spazio alla quiete e ad accordi leggeri e soffusi che permettono a Baker stesso di cantare in modo più tranquillo e meno declamatorio. È un breve momento però, in quanto subito la batteria di Garven spezza la quiete e dà il via alla chitarra di Fogle che può quindi lasciarsi andare ad un assolo davvero ben fatto che ha anche il pregio di non suonare troppo sporco. Dopodiché Baker torna su lidi a lui più consoni e continua a ricordarci fino alla fine del pezzo che sarà lui ad avere l'ultima risata!
Frost And Fire
La terza traccia è decisamente più famosa, in quanto è "Frost And Fire" (Ghiaccio E Fuoco), il grande classico risalente all'omonimo debutto dell'81. Qui però siamo alle prese con una versione demo che risale addirittura al 1979! Il riff principale è subito riconoscibile e ci far venir voglia di impugnare un'eventuale Stormbringer, mentre, anche qui, le tastiere psichedeliche rendono il tutto quasi spaziale. Un assoluto protagonista è senza dubbio il basso di Flint, che si rende protagonista con le sue linee di basso non ancora mature ma che sarebbero migliorate con il tempo. Le ritmiche sono incalzanti e frizzanti, rallentano soltanto quando emerge il riff principale e quando abbiamo il ritornello che, aiutato dalle tastiere sembra quasi suonare più energico rispetto alla versione che conosciamo tutti, anche se molto probabilmente meno Metal. Un altro rallentamento importante lo si trova verso metà canzone e serve soprattutto, come ci si potrebbe aspettare, per spianare il campo a Jerry Fogle e la sua chitarra sempre in stato di grazia e sempre pronta a sfornare assoli infiammati, anzi, assoli di fuoco e ghiaccio. Nella ripresa il brano riparte proponendo parte della prima famosa strofa: "The tales that speak of frost and fire/ Tales of all the souls that fell/ Words that burn and words that chill us/ Like laughter kinding in the heart of Hell" La nostra cavalcate spada alla mano tra lande desolate prosegue senza intoppi, d'altronde chi oserebbe pararsi davanti a noi? Tanto più perché dietro di noi risuona l'acuta e maligna voce del solito Baker, che con una produzione più sporca pare essere ancora più stridulo e spaventoso.
Eyes
"Eyes" (Occhi) si apre con un riff piuttosto grave, coadiuvato in questo dal basso, che ricorda molto le soluzioni tipiche e conosciute della band. Anche l'andamento ricorda molto il classico stile della band, lo stile delle canzoni che poi sarebbero effettivamente finite sui CD, per parlarci chiaramente, in quanto la batteria scandisce un ritmo abbastanza cadenzato e guardingo, in cui le tastiere non suonano più psichedeliche e piene d'energia come nelle tracce precedenti, bensì fanno da riempimento e creano spessore, rendendo il brano alquanto misterioso. Il riff è molto interessante e molto "rockeggiante", così come lo sono le linee vocali di Baker, le quali sembrano esprimersi in versi quasi d'amore, o per lo meno indirizzati ad una persona che ha gli occhi brillanti come le stelle. Tutto sembra proseguire su questa linea, ma improvvisamente, a metà canzone, tutto si incupisce e le tastiere sembrano prendere il sopravvento, dapprima con delle linee avvolgenti e misteriose, dappoi lasciandosi andare ad un assolo folle e pesantemente distorto che rompe l'apparente quiete che si era creata fino a quel punto. Giusto per confermare il fatto che i Cirith Ungol devono essere cupi, misteriosi ed immaginifici, anche quando si tratta di una canzone dai toni apparentemente più leggeri. Toni che, comunque, non tardano a tornare dopo l'estasi tastieristica, donando nuovamente le redini del tutto a Baker e alle sue dichiarazioni che ci accompagnano verso la fine di una delle chicche più interessanti di questa raccolta.
Better Off Dead
Si prosegue con un'altra demo che poi sarebbe finita, con una versione definitiva ovviamente, sul debutto: "Better Off Dead" (Meglio Morto). Pure qui l'atmosfera che si respira è tipicamente Rock, grazie soprattutto alle chitarre che, tra riff e assoli avvolgenti, sorreggono tutta l'impalcatura del brano. Il basso di Flint è particolarmente grave e cupo e dà profondità proprio ai riff, rendendoli non molto dissimili da certe soluzioni dei Black Sabbath, soprattutto nel ritornello che è molto diverso da quello che gli Ungol avrebbero proposto da "King?" in poi, sia per stile sia per tematiche. Il testo, cantato da un Tim Baker "filtrato", parla di una persona che è stata tradita più volte nonostante le siano state fatte molte promesse; insomma, un testo quasi esistenziale che poco ha a che vedere con l'epos di certi altri brani: "Some people say that lightning never strikes twice/ But I've been hit more than once in my life/ I've been taken in so many times/ A thousand promises, a thousand lies". Tuttavia, un testo (e una canzone) che ci fa vedere una band ancora alla ricerca del proprio stile e della propria immagine, una fotografia interessante a dire la verità. Dopo la seconda ripetizione del ritornello il brano accelera trascinato da un riff davvero "sabbathiano" e molto più vicino a soluzioni proto-Metal che poi avrebbero preso il sopravvento negli anni '80. In questa accelerazione spicca soprattutto il gran bel lavoro della chitarra solistica, protagonista di un assolo davvero molto ispirato e coinvolgente. Il lavoro della 6-corde comunque non termina qui e continua anche negli ultimi momenti del brano, dialogando con un Tim Baker che, come canta egli stesso nel ritornello rockeggiante, preferirebbe essere morto a volte. Ed è proprio su quest'affermazione che si chiude la canzone.
100 mph
Stavolta invece la canzone "grezza" che andiamo ad ascoltare sarebbe finito su un album molto più tardo, ovvero su quel "One Foot?" del 1986 che avrebbe dovuto eguagliare il capolavoro "King?" La canzone in questione è la veloce "100 mph" (100 miglia all'ora), un brano che all'epoca dell'uscita del suo album voleva sicuramente strizzare l'occhio agli ascoltatori più attaccati a soluzioni veloci, piuttosto che a brani monolitici e dal piglio quasi Doom. Il titolo parla forte e chiaro in effetti. Questa versione demo è, per forza di cose, ancora da rifinire e con qualche angolo da smussare, ma per questo forse suona lievemente più aggressiva e tagliente della versione finale. Già dall'inizio veniamo travolti da una cavalcata abbastanza inusuale per lo stile della band, in cui non mancano versi autoreferenziali tipici di quelle band Metal che credono e amano quello che fanno. La batteria aumenta il tiro proprio quando sta per entrare in gioco la semplice ma efficace prima parte del ritornello che recita eloquentemente: "Coming like a hurricane a hundred miles an hour/ We don't stop for nothing cause we've got the power". Ormai siamo nel vortice, il Metal arriva a 100 miglia all'ora e ci travolge con la sua potenza: il basso di Flint sembra sentirsi meglio che nella versione finale, così come la batteria di Garven risuona selvaggia ed inarrestabile, quasi barbarica e senza freni. Forse Baker non è particolarmente ispirato, ma d'altronde questa è ancora una versione da rifinire, ogni difetto ed imperfezione sarebbero spariti nella versione dell'86, al di là del particolare stile canoro del cantante, che può piacere o meno. In ogni caso, Fogle invece è in stato di grazia, come sempre verrebbe da dire, ed impreziosisce la traccia con assoli che la fanno sembrare ancora più veloce ed energica, come nel caso dell'assolo finale. Una perfetta colonna sonora per un eventuale viaggio in moto, magari a 100 miglia all'ora?
I'm Alive
"I'm Alive" (Sono Vivo) è un altro titolo ben conosciuto dai fan della band, essendo questo uno dei brani più famosi usciti da "Frost And Fire". Questa versione demo non è poi così diversa dalla sua versione definitiva, e già dall'inizio riconosciamo ogni elemento, tutto è al posto giusto, soprattutto il folle assolo introduttivo di Fogle, che è davvero più vivo che mai. Anche la parte rallentata è al suo posto, e proprio lì entra in gioco Tim Baker, qui nelle vesti di un non meglio specificato personaggio fantastico dai trascorsi gloriosi e memorabili (uno dei primi esempi della passione della band per certe tematiche): "?I have been a king invincible/ I've been the poorest of the poor/ I've pulled the mighty from their thrones/ And laughed at Death's own door". Dopo questa prima strofa calma il ritornello può esplodere in tutta la sua vitalità sorretto da una ritrovata batteria e chitarra ritmica. Baker grida a tutti di essere vivo e noi riusciamo a percepire tutta la sua energia. La parte calma e più lenta ritorna però, quasi a stemperare l'entusiasmo del cantante, con una strofa che nuovamente ci porta all'interno della mente del protagonista del pezzo e ci fa vedere il suo passato tormentato e avventuroso. Un passato che però ora dà forza e ricorda al protagonista che dopotutto è vivo! Ed è a questo punto che ritroviamo il refrain seguito da un assolo dalle forti tinte Rock che ci fa immaginare un guerriero fermo su una roccia, con la spada al cielo mentre si appresta ad iniziare nuove avventure. D'altronde è vivo. L'ultima strofa è leggermente più triste, per quanto riguarda le liriche, poiché vediamo ancora nel passato del protagonista e vediamo come sia costellato anche di brutte esperienze e tradimenti? Niente che però non si possa superare, anzi, finché si ha forza di andare avanti si ha vita. Puntuale quindi arriva il ritornello che viene proprio per sottolineare questo fatto ancora un'ultima volta prima dell'imminente chiusura del brano.
Bite The Worm
Si prosegue con "Bite The Worm" (Mordi Il Verme), con la quale torniamo ad ascoltare un pezzo del tutto inedito e che non è riuscito a finire su nessun album. Strano però, visto che le atmosfere oscure e sinistre qui ci sono tutte. Il riff è, come al solito, a metà tra Hard Rock e proto-Metal, e suona ossessivamente nel suo incedere sporco, cadenzato e minaccioso. La voce filtrata di Baker completa il quadretto, rendendo il tutto ancora più sinistro e strisciante. Almeno per poco più di un minuto, in quanto a quell'altezza parte un'accelerazione interessante guidata da un notevole assolo di chitarra che è davvero un peccato non aver potuto ascoltare in una versione definitiva e registrata meglio. Esso è veloce e fluido, tagliente ma nello stesso tempo preciso e sinuoso, ma soprattutto è piuttosto lungo: la lunghezza degli assoli è una cosa che è andata diminuendo con gli ultimi due album della band, soprattutto nell'ultimo, dove neanche c'era Jerry Fogle. In ogni caso, con la fine dell'assolo troviamo anche la fine dell'accelerazione, ed il brano ritorna su ritmiche piuttosto cadenzate in cui la voce filtrata di Baker può inserirsi agevolmente, pure se per poco tempo. Anche stavolta, infatti, il momento dura poco e la traccia cambia nuovamente faccia, affidandosi ad una progressione di riff che chiaramente è costruita per essere una coda. E così è, la progressione ci porta direttamente alla fine di un pezzo che se perfezionato avrebbe potuto essere molto più accattivante, qui in effetti sembra tutto svolgersi repentinamente e un po' casualmente, salvo il gran bell'assolo che da solo regge tutto il brano.
The Twitch
Con "The Twitch" (Lo Spasmo) si apre la lunga serie di canzoni strumentali che ci accompagneranno fino alla fine del CD 1. L'introduzione di questa è particolarmente ruvida e, grazie anche ad una produzione molto grezza e sporca, sembra assurdamente strizzare l'occhio a sonorità Metal più dure che sarebbero arrivate molto più in là rispetto al '78/'79, soprattutto grazie ai riff che rispondono alla chitarra solista: sembra quasi di sentire certe soluzioni che sarebbero state adattate dal Thrash Metal. È solo un attimo però, perché poi Fogle si libera da ogni freno e si lascia andare ad uno dei suoi soliti assoli lunghi e a doppia traccia in cui non manca neanche l'apporto ritmico del buon Lindstrom. Il tutto è ovviamente dalla colorita ed inarrestabile batteria di Robert Garven, il quale tiene un tempo abbastanza veloce per tutta la durata del breve brano.
Maybe That's Why
La traccia che segue è la strumentale e abbastanza conosciuta "Maybe That's Why" (Forse Ecco Il Perché). Dico conosciuta perché è un'altra canzone che poi sarebbe finita nel debutto. Paradossalmente questa versione demo sembra prodotta meglio della versione finale, soprattutto per quanto riguarda i leggiadri ed eterei sustain di chitarra che possiamo apprezzare già dall'inizio. Questi ultimi rendono il pezzo molto rilassante e molto lontano quindi dalle atmosfere lugubri e cimiteriali tipici della band; gli altri riff e accordi di chitarra, inoltre, seguono questa linea e non sono mai troppo forti o invadenti, preferendo restare quasi in seconda linea per favorire il lavoro della chitarra solista. Lavoro che emerge appieno a partire da metà canzone, dove, con sempre i sustain in sottofondo, la 6-corde solista si lascia andare ad un assolo molto sanguigno e sentito ma sempre in linea con l'atmosfera rilassata ed onirica che pervade il tutto. La traccia, lunga più di 6 minuti, prosegue poi senza troppe sorprese, proponendo le stesse alternanze e gli stessi accordi, ma proponendo sempre interessantissime sezioni solistiche, le quali raggiungono forse l'apice ad un minuto dalla canzone, dove davvero abbiamo un momento sognante come pochi in cui il suono delle chitarre sembra uscire direttamente dall'anima dei musicisti per portarci verso l'alto? Purtroppo però ci portano anche verso la fine, alla quale però diamo quasi il benvenuto, visto che un finale così è di quanto meglio si potesse avere.
I'll Met In Lankhmar
"I'll Met In Lankhmar" (Ci Incontreremo A Lankhmar) invece mostra tutto l'amore che la band aveva per la Sword & Sorcery citando nel titolo una città fittizia situata nel mondo di Nehwon ed inventata da uno scrittore americano di tale genere: Fritz Leiber, che poi altri non che colui che ha coniato proprio quel termine che ormai ha superato la prova del tempo. Anche questa traccia però è una strumentale, e quindi non possiamo vedere riferimenti alla sua opera se non nel titolo stesso, dato che non abbiamo un testo su cui fare affidamento. Dopo "Maybe That's Why" questa sembra di molto inferiore, ma in realtà non è un granché già di per sé, in quanto sembra un canzone quasi incompleta, come se servisse da base per un completamento che poi non è mai arrivato. D'altronde si tratta comunque di demo, quindi chissà, magari in principio non doveva essere una strumentale. Fatto sta che tutto poggia su un riff abbastanza semplice che si ripeta per tutta la durata del pezzo, coadiuvato dalla solita e onnipresente (e notevole) chitarra solista di Jerry Fogle, il quale, come il riff principale, accompagna il brano fino alla fine con note e scale molto veloci.
Return To Lankhmar
Non è ancora tempo di lasciare Nehwon e Lankhmar però, perché con la strumentale seguente siamo ancora nella città inventata da Leiber. "Return To Lankhmar" (Ritorno A Lankhmar) si apre con dei sintetizzatori atmosferici che danno un tocco quasi Progressive al brano, impreziositi inoltre da un pregevole assolo di chitarra che sembra viaggiare e volare indisturbato tra le case della città in questione. Dopo non molto entra anche il basso di Flint in gioco, pulsante e quasi ossessivo nel suo incedere pulsante. A questo punto l'assolo si fa ancora più interessante e veloce, mentre i sintetizzatori/tastiere sembrano suonare ancora più eterei ed ariosi. Verso i due minuti, però, la quiete viene lievemente disturbata (si fa per dire) da un riff più duro di quanto e tagliente rispetto ai suoni che lo circondano, ma non tanto da contrastare l'atmosfera generale, anche perché le tastiere continuano a risuonare in sottofondo. Anzi, dopo non molto tornano ad essere padrone del pezzo insieme alla 6-corde che abbandona gli accordi più serrati per farsi liquida e dedita a nuovo assolo molto sentito, lungo ed emozionante. La sensazione di essere davanti ad un pezzo Prog Rock si fa sempre più presente, ed è incredibile, soprattutto se si conosce bene la band americana; ma è anche vero che certe atmosfere create da certi gruppi Prog non mancano nell'Epic Metal. L'assolo si allontana sempre di più e ci lascia in mano ai ritrovati riff, i quali, a loro volta, vanno a chiudere uno dei pezzi migliori di questa raccolta, soprattutto se parliamo di inediti. Sono sicuro che se fosse finito su un album avrebbe avuto ancora più successo: su "King?" non avrebbe sfigurato per niente (magari perfezionato e levigato) per esempio, magari al posto di "Toccata in DM", che trovo un po' più noiosa a dire la verità.
Darkness Weaves
"Darkness Weaves" (L'Oscurità Tesse) è la traccia più lunga del CD1 con i suoi 8 minuti e 10 secondi. All'inizio non sembra proporre molto di nuovo: l'ennesima strumentale in cui i riff duri si alternano alle scale solistiche più sanguigne e libere. In realtà dopo più di un minuto anche qui troviamo i sintetizzatori, i quali prendono le redini del pezzo rilegando le chitarre in sottofondo. La linea dei sintetizzatori è spaziale, sembra davvero di trovarci nell'oscurità del cosmo, circondati dal nulla. O, e questo potrebbe piacere di più agli Ungol, all'interno di una grotta profondissima, anch'essa oscura ovviamente, in cui il Male tesse le sue trame non visto da nessuno e pronto ad emergere per distruggere tutto e tutti (un tema molto caro alla band). Percepiamo questo soprattutto quando i sintetizzatori cominciano a farsi meno ariosi e atmosferici per farsi, invece, rumorosi, dissonanti e quasi cacofonici; un momento davvero psichedelico che mostra quanto la band fosse legata a certi stilemi dei primi anni '70. Dopodiché la chitarra fa nuovamente il suo ingresso accostando i sintetizzatori ora con riff ora con le solite scale solistiche stralunate ed immaginifiche, le quali si lasciano andare, anch'esse, a "rumorismi" folli, pure se per poco. Verso la fine però tutto torna al posto proprio: le melodie chitarristiche sono meno assurde e quasi più caute e prevedibili. Un momento che, tuttavia, non dura molto, in quanto le stesse chitarre si intrecciano tra loro (un tipico assolo di Fogle, a doppia traccia) riportando il caos nel tutto, finché non vengono interrotte dai sintetizzatori che chiudono improvvisamente, e quasi inaspettatamente, un altro pezzo interessantissimo che avrebbe meritato una versione definitiva, anche se forse farlo uscire negli anni '80 sarebbe stata una mossa molto coraggiosa.
Witchdance
Si prosegue con la brevissima "Witchdance" (Danza Delle Streghe), la quale risulta, purtroppo, come un pezzo che non lascia davvero il segno. È infatti formato soltanto da un veloce e sporco assolo, quasi impreciso a tratti, che in realtà possiede scale apprezzabili, ma che in una versione demo, che tra l'altro supera a malapena i 60 secondi, è difficile goderne appieno. La cosa buona è che in quei pochi secondi riesce comunque a creare un'atmosfera malsana e di tensione che ben si sposa con il titolo e che potrebbe far venire in mente, portandoci verso scenari ed atmosfere care alla band, un gruppo di streghe che danzano scompostamente e maldestramente intorno ad un paiolo pieno di chissà quale intruglio. Intruglio che, visto lo stile stralunato dell'assolo, verrebbe da pensare essere stato bevuto anche da Fogle!
Feeding the Ants
Per "Feeding The Ants" (Nutrire Le Formiche) si potrebbe dire la stessa identica cosa della traccia precedente, con la sola differenza che qui abbiamo anche dei riff abbozzati e molto acerbi che danno manforte ad un assolo molto acuto e decisamente cacofonico che fa parecchia fatica a farsi apprezzare, soprattutto una volta che si conoscono le grandi qualità solistiche di un chitarrista come Fogle, in grado certamente di fare di meglio. Anche qui il titolo è l'elemento principale su cui appoggiarci per provare ad immaginarci qualcosa e qui anche c'è un che di malsano. Anzi, forse anche di più rispetto alla traccia precedente, in quanto nutrire le formiche non è proprio una tematiche che si addice ai Cirith Ungol, al contrario delle streghe. In ogni caso, sembra quasi di vedere i membri della band intenti a dar da mangiare (chissà in quale modo assurdo!) ad una colonia di formiche che cammina sotto i loro piedi.
Obsidian
A chiudere la prima parte dell'album troviamo "Obsidian" (Ossidiana), brano risalente al 1985 ma, come tanti altri, mai finito su nessun album. In apertura abbiamo un riff lento e cadenzato come da tradizione, che viene subito affiancato da una gran bella melodia chitarristica che è grave e sinuosa, dal retrogusto malinconico ed ipnotico. Gran parte del brano è proprio giocata su questo legame tra riff e assolo, il quale, molto spesso, si avvale anche delle sovraincisioni per risultare ancora più avvolgente. Dopo la metà troviamo anche le tastiere ad impreziosire il tutto e a seguire il percorso tracciato dalla chitarra di Fogle, in un modo che ricorda molto vagamente alcune modalità tipiche del Neoclassical Metal. Dopodiché la traccia ritorna sui lidi iniziali, accompagnandoci senza troppi scossoni o sorprese verso la fine. Sarebbe stato bello se questa traccia avesse avuto un testo e fosse stata perfezionata, dato che le melodie e gli assoli sono molto interessanti ma così solitari (senza neanche la batteria) danno l'aria di far parte di qualcosa di incompleto, anche se piuttosto piacevole.
Death of the Sun
Il CD2 si apre con la primissima versione di "Death Of The Sun" (Morte Del Sole), quella che prima di finire su "King?" era apparsa sulla compilation "Metal Massacre" (1982) insieme a "Hit The Lights" dei Metallica. In verità non cambia molto dalla versione definitiva, salvo l'essere più dura, sporca e leggermente più veloce. Il riff iniziale mette subito le cose in chiaro e fa anche vedere come la band stesse cercando di staccarsi da alcune soluzioni più Rock (ma senza abbandonarle del tutto) per gettarsi dentro ad uno stile più tagliente e aggressivo. Sicuramente la sgraziata e strillante voce di Baker rende giustizia a questo cambio di direzione, anzi, forse è proprio lei che guida tutto e si trasforma in un vero e proprio marchio di fabbrica, soprattutto quando arriva il momento del ritornello, il quale è lievemente più lento e cadenzato rispetto alle altre strofe: "We are coming to the end/ I see my life and I have sinned/ It's too late to change our ways/ For man has seen his final days". La parte centrale arriva quindi in un attimo ed è completamente affidata alla chitarra solista, la quale può qui sbizzarrirsi in una lunga serie di assoli che si rincorrono, si intrecciano e si sovrappongono senza tregua, rendendo il tutto ancora più eccitante e palpitante, mentre il Sole muore davanti ai nostri occhi e non possiamo fare niente. Dopo la lunga e notevole sezione solista Baker torna sugli scudi, e come un folle complottista strilla di nuovo che siamo giunti alla fine: l'Uomo è stato infine punito per aver peccato. Questo finale, comunque, suona molto più acido e grezzo rispetto alla versione definitiva.
Fire
La traccia seguente è la cover del pezzo "Fire" (Fuoco), originariamente dei Crazy World Of Arthur Brown e risalente addirittura agli anni '60. Questa cover sarebbe poi finita nell'ultimo album dei Cirith Ungol, ma quella che abbiamo ora davanti è una versione di poco precedente. Neanche qui in verità cambia molto: dopo le intimidatorie parole iniziali ("I am the God of Hell Fire and I'll bring you?") il pezzo si fa trascinare da un riff che suona 80's come poche altre cose suonate dagli Ungol; questo è molto interessante, giacché la band riesce a rendere propria una canzone che altrimenti avrebbe suonato decisamente fuori contesto con le sue sonorità hippy e solari. Qui invece tutto è più oscuro, lievemente sinistro ed incalzante. Il riff entra subito in testa e fa venire voglia di suonare la chitarra mentre ci si mette in qualche posa plastica, mentre la voce di Baker, a volte accompagnata dalle backing vocals, ci intimidisce con i suoi versi infuocati. Le melodie solistiche nel frattempo avvolgono il tutto, soprattutto nel finale, quando ci fanno cadere in un vortice folle ed inevitabile che poi ci riporta, dopo non molto, sui lidi sicuri protetti dal riff principale, il quale ha il compito di guidarci anche verso la fine di questa breve cover che poi sarebbe finita su "Paradise Lost".
Fallen Idols
Anche alcune tracce seguenti sono versioni demo o con un missaggio diverso di canzoni contenuto nell'ultimo album della band. La qui presente è l'epica "Fallen Idols" (Idoli Caduti). Chi conosce "Paradise Lost" sa bene come questa sia una delle migliori dell'album e una di quelle più emozionanti ed enfatiche, una di quelle in cui il lato Epic emerge con tutta la sua possanza e magniloquenza. Questo già dal melodico e monumentale riff iniziale (che deve qualcosa ai Judas Priest) che ci trasporta in un mondo, il nostro in realtà, sull'orlo del baratro mentre l'Apocalisse si appresta ad incombere. Il brano non può quindi essere frizzante ed arrembante, tutt'altro, è cadenzato e roccioso, senza rinunciare comunque ad un retrogusto di malinconica disfatta cosmica. La disfatta del regno dell'Uomo, già chiara da quando Adamo accettò la mela da Eva. Il ritornello non cambia le carte in tavola mentre ripete semplicemente, ed ossessivamente, il titolo stesso della canzone, coadiuvato da cori non troppo invadenti che ne aumentano il pathos. Gli idoli sono caduti, quei falsi profeti che, come si legge nella seconda strofa, sono serviti all'Uomo per lungo tempo come ancora di salvezza, ma che ora è giunta la fine si rivelano per ciò che sono, ovvero avventati e? caduti: "False prophets spread their cursed rule across the poisoned land/ Why must we always choose to put our fate in reckless hands?" La velocità della traccia non accenna a cambiare e resta ferma su ritmi cadenzati che non fanno che renderla più epica col passare dei minuti. In ogni caso, il missaggio qui è quasi identico a quello della versione definitiva, si sente una leggere differenza negli assoli forse e nei cori, che qui risultano lievemente meno profondi ed avvolgenti. Poco male però, la canzone non perde niente in epicità, e resta sommessamente grandiosa fino alla fine, dove possiamo apprezzare anche un bel lavoro di Jim Barraza, il chitarrista subentrato allo storico Jerry Fogle.
Chaos Rising
Il capolavoro "Chaos Rising" (L'Ascesa Del Caos) è aperto da uno strano ed impercettibile dialogo che subito ci fa alzare il sopracciglio. Lo sgomento cresce quando sentiamo una netta differenza rispetto all'originale anche nell'introduzione. Là dove c'era un riff e poi una parte soffusa guidata dalla calda (un esperimento ben riuscito) ed evocativa voce di Baker, restano soltanto arpeggi e ancora la voce di Baker, che però in questo caso risulta un po' lasciata in disparte non proprio ben amalgamata. Il cantante infatti sembra quasi sussurrare i versi iniziali, quasi in falsetto a dir la verità; ovviamente non è un problema in sé, ma perde molto di quella cupezza e triste epicità che c'è nella versione che conosciamo tutti. Con l'entrata del riff e della batteria le cose sembrano tornare sui lidi conosciuti, ma c'è ancora qualcosina che stona: Baker non sembra ispirato come nella versione originale. In ogni caso, la canzone riesce ancora a portarci nel giardino dell'Eden, dove possiamo vedere Satana che si appresta ad ingannare Adamo ed Eva offrendo alla seconda il frutto proibito. Ad un certo punto Barraza emerge dai tempi cadenzati con un riff solitario e molto eccitante che annuncia un'accelerazione che in effetti arriva. Ciò che non arriva è però il corale ritornello che faceva da colonna portante nell'altra versione, e un po' dispiace, in quanto era davvero ottimo e innalzava la canzone su livelli molto alti. Al suo posto troviamo le melodie della chitarra di Barraza, ma non è proprio la stessa cosa, anzi, sentiamo proprio che c'è un buco, un qualcosa di mancante. Per fortuna c'è sempre la versione di "Paradise Lost" per rifarsi le orecchie. A dire il vero il lavoro di Barraza non è per niente male, come si può evincere dai suoi assoli che precedono la parte finale. Satana ha ormai attuato il suo piano e non c'è niente da fare: l'angelo caduto si è preso la sua vendetta contro Dio agendo sulle sue creature predilette.
Fallen Idols (demo version)
Si prosegue con la versione demo di "Fallen Idols" (Idoli Caduti), che in realtà è quasi identica sia a quella già presente qui, sia a quella contenuta nell'album del 1991. Anzi, è proprio identica, l'unica cosa a suonare leggermente differente è proprio la qualità del sound, che qui è, per forza di cose, più sporco. Una cosa che emerge bene dal sound, però, è la chitarra di Barraza, va detto. In ogni caso, gioverà ripetere che questa traccia è una delle migliori di "Paradise Lost" e una delle migliori mai composte dalla band. Una canzone facente parte del trittico finale che andava proprio a chiudere quell'album. Una manciata di tre canzoni davvero fenomenali in cui la band aveva preso spunto dal poema epico "Paradise Lost" di John Milton, inserendo quindi tematiche bibliche, soprattutto inerenti alla ribellione di Satana e ad Adamo ed Eva; ma anche spunti apocalittici, come in questo stesso pezzo. A dirla tutta un qualcosa di diverso c'è: qui manca il ritornello corale che aveva reso grande ed epica la versione definitiva. Qui è la chitarra a proporre la linea melodica di quel ritornello, ma noi che lo sappiamo sentiamo sempre che manca qualcosina. Poco male però, alla fin fine sappiamo anche che è una versione demo e che doveva essere ancora migliorata, come poi lo sarebbe effettivamente stata.
Paradise Lost
?Il pezzo che segue è la title-track (Paradiso Perduto) dell'ultimo album dei Cirith Ungol. Come si evince dal titolo è una di quelle presenti nel famoso trittico finale, e quindi una delle migliori di quell'album. Ovviamente la versione qui presente non è quella dell'album, ma una con un missaggio differente, forse ancora una volta una versione demo. I suoni infatti sono lievemente più spenti e meno marcati, un po' più distanti e soprattutto evanescenti per quanto riguarda invece l'aspetto vocale. Tuttavia la traccia riesce ad essere sempre abbastanza incisiva, grazie ai suoi riff muscolosi ed incisivi che procedono accompagnati dalla batteria di Garven che suona potente ed inarrestabile. Si capisce subito il tema biblico del pezzo grazie all'eloquente prima strofa: "Underneath the new born sun/ Man and beast rejoice as one?". L'Uomo è stato da poco creato da Dio e vive in pace insieme agli animali, nel giardino dell'Eden. Come ben si sa l'idillio non durerà per sempre e Adamo ed Eva verranno cacciati, perdendo dunque il Paradiso? Il ritornello è straziante proprio per questo, anche se è di molto inferiore a quello della versione del '91 e soprattutto meno marcato. Infatti nella nostra mente quello che risuona è proprio quello del 1991. Anche qui comunque va sottolineato il gran lavoro di Barraza alla chitarra, che in alcuni frangenti riesce davvero a non far rimpiangere Jerry Fogle, sia per i riff che sforna, ma anche per gli assoli che sono sempre di buon gusto e che accompagnano il brano fino alla fine, dove forse riescono ad essere ancora più presenti: si inseriscono tra i riff, la batteria e la voce di Baker come il serpente si era inserito tra le fronde degli alberi per offrire la mela ad Eva.
Join the Legion
"Join The Legion" (Unisciti Alla Legione) soffre lo stesso discorso della produzione che si è fatto con le tracce precedenti: stilisticamente la traccia è quasi uguale alla versione definitiva, ma anche qui il suono è un po' più ovattato e meno limpido. Tuttavia il riff iniziale non perde di incisività e ci porta direttamente in uno scenario interamente simbolico in cui in mezzo alle strade si vedono cadaveri di metallari uccisi dal Metal debole e senza spina dorsale rifilatogli dagli "sciacalli". Chi conosce bene la scena Metal di inizio anni '90 sa bene a cosa gli Ungol si riferiscano: con quei versi descrivono un momento di crisi per il Metal classico in cui le case discografiche (i cosiddetti sciacalli) si avventano sulle mode del momento lasciando i metallari con prodotti scadenti; ma non tutto è perduto, in quanto i credenti tengono ancora alto l'onore del genere. Sotto il ritornello il ritmo rallenta di poco, di meno rispetto alla versione definitiva, e Baker incita l'ascoltatore, pur senza ripetere il titolo del pezzo (come accade nella versione del '91, invece). Questo in realtà le fa perdere un po' di mordente e un po' di quel gusto da inno. In ogni caso, la canzone procede guidata dal riff classico e dalla batteria precisa ma potente di Garven, mentre Baker continua ad incitare l'ascoltatore e tutti i metallari, invita tutti ad unirsi "under the banner of Ungol" con le lame alzate al cielo e con in bocca i versi di questo stesso brano. La voce del cantante però è un po' sommersa dagli altri strumenti e non risulta incisiva appieno. Incisiva invece risulta la 6-corde di Barraza, che nel finale si lascia andare ad un assolo molto ben fatto che profuma di anni '80 e risveglia i metallari riversi sulle strade e caccia via gli sciacalli.
Before the Lash
Ora abbiamo quello che forse è il pezzo peggiore di "Paradise Lost", ovvero "Before The Lash" (Sotto La Frusta). Neanche il missaggio lievemente differente l'aiuta, e anzi, la bassa qualità del suono rende il brano ancora meno incisivo e caotico. L'andamento è maligno e non troppo veloce, il riff non è neanche male, ma manca un punto focale, un qualcosa che riesca a tenere le fila del tutto. Non è di certo la prima canzone degli Ungol senza un ritornello, eppure in altre occasioni c'erano molti più appigli, come per esempio le linee vocali di Baker, su cui fare riferimento. Qui invece neanche Baker riesce ad essere troppo incisivo: segue la melodia del riff senza inserirvi niente di particolare o che possa colpire l'attenzione, insomma, risulta un po' monotono. Stavolta neanche Barraza sembra essere in forma, visto che pure lui si limita a svolgere il suo compito senza apportare un qualche elemento che riesca a migliorare il pezzo. L'unica cosa positiva è che forse la traccia riesce, almeno un pochino, a creare un'atmosfera maligna ed opprimente (tramite la ripetizione dello stesso ritmo e delle stesse linee melodiche) che ci fa venire in mente l'Inferno, che poi è proprio il luogo descritto dalle liriche: "Iron dreams of human jackals and our final fate is cast/ To slave in endless fire as you cringe before the lash?"
Atom Smasher (live version)
Se la prima parte del CD2 era dedicata a "Paradise Lost", la seconda è quasi completamente dedicata a "King?", ma con canzoni dal vivo. Questa nuova sezione è infatti aperta dal pubblico festante che acclama la band, la quale, seguendo le direttive di Tim Baker, dà il via a "Atom Smasher - Live" (Acceleratore Di Particelle). L'inizio è subito galvanizzante, con il riff sostenuto dalle mai banali linee di basso di Flint e dalla selvaggia batteria di Garven. Tutta la band dà il benvenuto al pubblico e lo getta in un futuro distopico che ricorda molto da vicino, ed esplicitamente il brave new world di Aldous Huxley: "Welcome to the brave new world/ The Future's here or haven't you heard?..." La voce di Baker è davvero in forma e squillante, con le sue tipiche impennate verso note alte e sgraziate, come si evince dal rallentato ritornello, in cui sembra essere descritta un'esplosione atomica, oppure un misterioso eroe chiamato proprio Atom Smasher. Il meglio di sé però la band lo dà nella sezione solistica, nella lunga sezione solistica, dove Jerry Fogle può dilettarsi con la sua chitarra e proporre al pubblico (un po' silenzioso) note infuocate e radioattive con cui saziarsi. Un momento davvero bello che dopo un po' trova anche il plauso dei fan. Il brano comunque prosegue supportato dal riff rockeggiante e dalla solidissima sezione ritmica, mentre il solito Baker ci parla ancora di distruzioni epocali, provocate molto probabilmente proprio dalla figura misteriosa del titolo, che porteranno l'Uomo ad un nuovo inizio.
Master of The Pit (live version)
È ancora il pubblico festante ad introdurci ad un nuovo pezzo, e questa volta il pubblico sembra attenderlo davvero con fervore, in quanto si tratta della celebre e ottima "Master Of The Pit - Live" (Padrone Della Fossa). Non appena il basso di Flint comincia a farsi strada, però, e la chitarra di Fogle sembra posseduta e sforna un assolo da antologia, il pubblico si quieta e lascia che siano proprio gli strumenti della band gli unici a potersi sentire. Un religioso silenzio. L'atmosfera dell'introduzione viene disturbata dall'ottimo riff che segue e dall'entrata in campo dell'inimitabile voce di Baker, il quale, come quasi sempre, ci narra di scenari Fantasy in cui il Male, qui nascosto in una fossa, si prepari ad emergere dall'oscurità per prendere il controllo di tutto ciò che sta alla luce del Sole. La prestazione dei 4 musicisti è davvero precisa e ci permette di immaginare tutto ciò, impreziosendo il brano con un'aura cupa e sinistra che solo gli Ungol sanno creare. Questo anche perché le ritmiche non sono mai veloci o nervose, anzi, sono sempre lente e monolitiche, dandoci il tempo di immagazzinarle e di lasciarsi trascinare lentamente ma inesorabilmente dentro a quella stessa fossa dove il Male attende. Fogle poi sembra accompagnare la nostra discesa con la sua 6-corde sempre pronta a sfornare assoli immaginifici e sanguigni, come quello che possiamo apprezzare a fine brano, dove è anche presente una lieve accelerazione che sembra voler simboleggiare la nostra sempre più veloce caduta verso l'abisso. Gli avvertimenti puntuali di Baker non sono bastati. Noi cadiamo, i riff ci sommergono, la batteria chiude le porte sopra di noi. Il Male è pronto a nutrirsi di noi per emergere.
King of the Dead (live version)
Salutato dagli applausi Tim Baker annuncia agli astanti l'esecuzione di uno dei loro pezzi più celebri: "King Of The Dead - Live" (Il Re Dei Morti). Il basso di Flint è cupo e pulsante, lento ed inesorabile? Si avvicina sempre di più come un'ombra minacciosa mentre la batteria di Garven ne scandisce la cadenza. Su questo tessuto oscuro e maledetto si inserisce l'immaginifica e stralunata chitarra di Fogle con le sue veloci scale, le quali ci portano sempre di più tra le braccia del Re. Possiamo solo immaginare l'atmosfera che si poteva respirare dal vivo, magari con evanescenti luci verdastre che mostravano e nascondevano i membri della band. L'assolo di Fogle sembra non finire più, come se cercasse in realtà di fuggire dalle braccia morte del Re, ma infine è proprio lì che finiremo. Baker, con la sua voce altalenante e accompagnato da ritmi tipicamente Doom, ci descrive proprio la resurrezione di questa figura antica e maledetta, una figura che a quanto pare è stata risvegliata da qualcuno? Un qualcuno che per questo verrà punito, e non ringraziato, dal risvegliato stesso. Il Re ha di nuovo la corona in testa, egli è il Re dei Morti! Il ritornello rende il tutto ancora più malsano e sinistro, aiutato in seguito dalla solita 6-corde di Fogle. Il pubblico è sicuramente rapito dalla performance dei quattro, e sicuramente cade vittima del fascino del Re caduto e ora redivivo. Una volta tornato in vita di certo non si limiterà ad oziare o a godersi il nuovo momento, no, tornerà a fare ciò che aveva fatto in vita, ovvero regnare con violenza: "The sword descends, the blood shall fall like rain/ Its rising tide will cleanse your world of pain/ His grip will rob the living of their breath/ For as he ruled in life, he rules in death". Verso il finale i musicisti danno il via ad un'accelerazione che dà una certa linfa vitale al tutto, così come viene data al Re dei Morti. Il pubblico non può che applaudire l'esibizione malignamente perfetta degli Ungol.
Last Laugh (live version)
"Last Laugh - Live" (L'Ultima Risata) suona molto più rockeggiante rispetto al pezzo precedente, grazie anche ad un riff deciso che mette subito in chiaro le cose. L'atmosfera live ci fa immaginare la giovane band in qualche piccolo club mentre cerca di farsi conoscere a suon di assoli, come quelli che Fogle libera dalla sua 6-corde più volte nel corso dei minuti, o grazie alla voce di Baker, che qui sembra davvero ghignare mentre grida che sarà lui ad avere l'ultima risata. Prima di metà pezzo troviamo anche un rallentamento in cui i ritmi si quietano e si fanno decisamente più rilassati, vagamente (molto vagamente) da ballata, ma non c'è tempo per queste smancerie! Ecco infatti che Jerry Fogle si lascia andare ad un assolo indemoniato e pregno di energia che, grazie all'atmosfera del bootleg, sembra suonare ancora più selvaggio ed infuocato. A questo punto, alla fine dell'assolo, ritroviamo il riff principale, e la batteria torna a scandire ritmiche né veloci né lente, ma abbastanza energiche ed eccitanti con il loro piglio sempre tendente verso il Rock. Sembra quasi che il rallentamento e l'assolo abbiano permesso alla band di riposarsi e ripartire con più forza di prima: Baker infatti canta quasi più sgraziatamente di prima, malvagiamente, mentre ancora una volta dice agli astanti che sarà lui ad avere l'ultima risata. Un pezzo molto interessante che è meglio live piuttosto che nella versione ascoltata all'inizio del CD2.
Cirith Ungol (live version)
L'ultimo pezzo dal vivo è "Cirith Ungol - Live" (Cirith Ungol), che poi è il brano che porta il nome della band ed uno dei più famosi di "King?" Cirith Ungol (pronunciato "Kirith Ungol") è il cosiddetto Passo Del Ragno ne "Il Signore Degli Anelli", ed è il sinistro e pericoloso luogo dove, guarda caso, si nasconde il famelico ragno Shelob. Insomma, non proprio un luogo sicuro e piacevole, ma di certo un luogo perfetto su cui scrivere una canzone e da cui prendere ispirazione per dare il nome alla propria band. Non a caso anche il brano è cupo e pesante, in pieno stile Cirith Ungol, ed è introdotto da gravi riff "sabbathiani" che vengono subito affiancati dal basso di Flint e da un assolo di Fogle. Dopo quest'introduzione plumbea lo stesso Fogle sforna un riff più veloce e tagliente, il quale dà il via vero e proprio al brano, su cui poi si staglia la barbarica batteria di Garven che scandisce un ritmo non veloce, ma sicuramente più roccioso ed incalzante rispetto a quello dei primi secondi. In un attimo la band ci trascina ai confini di Mordor, Baker sembra aver preso il posto di Sauron mentre ci osserva e gode nel vederci intrappolati ed in balìa dell'oscurità: proviamo a nasconderci e a scappare, ma non c'è niente da fare? L'assolo di Fogle sembra voler sottolineare ora la nostra impotenza ora l'avvicinarsi di Shelob, la quale non vede l'ora di catturarci e coprirci di ragnatele. Baker continua con la sua straziante voce e le sue linee vocali dalla facile presa e facilmente ricordabili, continua a descrivere la nostra condizione: "?Screaming in anguish, there you'll lie/ In Cirith Ungol, Tower of Fire". Non c'è un ritornello, sono proprio le linee vocali e le ritmiche a fare da perno al tutto. La parte strumentale infatti è molto importante per la band, e lo si capisce benissimo grazie all'infinita coda della canzone: sembra sempre che tutto stia per finire, ma sono solo falsi finali che fanno da trampolino a nuove progressioni che però si trascineranno a loro volta verso un'apparente nuovo finale. C'è anche posto per un breve assolo di batteria! All'improvviso però, quasi inaspettatamente, il vero finale arriva e Tim Baker saluta il pubblico applaudente.
Secret Agent Man
Ad un passo dalla fine di questa lunghissima raccolta troviamo la cover di un vecchio brano del 1966 di Johnny Rivers: "Secret Agent Man" (Agente Segreto). La canzone ha tutta l'aria di essere stata scritta negli anni '60, e la band non fa il minimo sforzo per "metallizzarla" (niente a che vedere con "Fire" di "Paradise Lost"), anzi, anche la cover sembra provenire da quel decennio: l'atmosfera è rilassata e soft, le ritmiche calme ed innocue. Fortunatamente l'assolo sembra dare un pizzico di rozzezza, ma è solo un attimo, in quanto si torna subito alle soluzioni di inizio brano che ci accompagneranno fino agli ultimi secondi. Questa non è l'ultima traccia della raccolta ma è sicuramente l'ultima canzone, in quanto alla fine non abbiamo proprio un brano
Ferrari 308QV
L'ultima traccia infatti è intitolata "Ferrari 308QV" e altro non è che il rumore, un bel rumore, della Ferrari nominata nel titolo. Un modello prodotto dalla casa italiana dal 1975 al 1985. La registrazione dell'auto in corsa dura poco più di 20 secondi ed è alquanto inutile a dir la verità, per ovvi motivi. Anzi fa anche strano che una raccolta piena di chicche venga poi chiusa dal rombo di un motore, che se ci pensiamo, non fa neanche parte dell'immaginario legato ai Cirith Ungol, fatto di spade, Re, eroi e luoghi fantastici. Potremmo, però, quasi vederlo come un ultimo rombo di vitalità ed energia, in quanto per un'ultima volta il nome della band sarebbe tornato sul mercato nonostante lo scioglimento. Forse il rumore di una cavalcata o di una battaglia sarebbe stato più in tema con l'immaginario legato all'Epic Metal, e pure alla band, ma anche il rombo di una macchina potentissima potrebbe rappresentare bene il concetto appena descritto. Un vecchio gioiellino che si concede un'ultima corsa.
Conclusioni
Così dunque, dopo ben 31 tracce, si chiude "Servants Of Chaos". Due CD fatti apposta per gli affezionati e i più curiosi, due CD in cui possiamo ascoltare canzoni che non ebbero la fortuna di finire su un album e che ci mostrano un lato dei Cirith Ungol sconosciuto e a volte davvero lontano da quello che conosciamo tutti. Basti pensare alle tracce strumentali piene di suoni psichedelici e che strizzano l'occhio a certe sonorità Progressive Rock addirittura, tracce che sono quasi come un documento storico che ci mostra la band in una fase ancora embrionale in cui era ancora in cerca della giusta via da percorrere. Le tracce di questo tipo sono senza dubbio le più interessanti, insieme ai live, anche perché è come fossero degli inediti; di certo sono più interessanti delle versioni demo o dei missaggi alternativi, che davvero possono stuzzicare soltanto i più curiosi. Chissà cosa sarebbero successo se la band avesse avuto il tempo e la possibilità di esplorare al meglio le sue potenzialità, magari alla fine avrebbero fatto confluire quel lato Prog anche nelle produzioni successive. Purtroppo non lo sapremo mai, quindi ci restano queste testimonianze. Fatto sta che questa raccolta ha il merito di riportare sugli scaffali il nome di una band culto che era stata da tempo dimenticata, e che forse era, purtroppo, poco conosciuta già all'epoca della sua giovinezza. Un pregio non da poco, se si pensa che viviamo in tempi in cui internet può davvero fare la differenza. Nel 2011 forse non stava ancora ai livelli di espansione capillare che ha raggiunto negli ultimissimi anni, ma riportare sugli scaffali una band culto non è comunque un'operazione da poco, visto che le notizie poi circolano, il nome della band comincia ad essere pronunciato di nuovo, così come i titoli degli album e delle canzoni? Per questo infatti una raccolta è la giusta mossa. È anche vero che i Cirith Ungol si erano già sciolti nel '92 e non avrebbero potuto pubblicare nessun nuovo album, quindi una raccolta che abbracci tutta la carriera della band (e anche prima) è un ottimo modo per farsi conoscere anche da chi non ha mai sentito parlare della suddetta band. Soprattutto in questo periodo in cui l'Epic sembra riaffacciarsi sul panorama Metal, con band vecchie e nuove. Senza dubbio vedere nuovamente il nome di una band culto in un negozio deve far molto piacere, anche per le nuove leve che vogliono seguire l'esempio, non solo per i fan. Le giovani band Epic potrebbero quasi sentirsi incoraggiate ed invogliate dal fatto che lo stendardo dei maestri non si è ancora stracciato del tutto ed è ancora conficcato saldamente nel terreno, un po' logoro magari, ma è ancora lì ad indicare la via. Secondo me non è un caso che la band poi si sia riunita qualche anno dopo l'uscita di "Servants Of Chaos". Molto probabilmente la raccolta non è direttamente responsabile della reunion del 2016, anche perché ci sarebbe del miracoloso, però possiamo vederla come testimone di tempi maturi per tale reunion, è come se preannunciasse qualcosa. Il cupo, abbandonato e smorto Passo del Ragno cominciava a ripopolarsi nuovamente? La band non ha comunque più pubblicato album di inediti dai tempi di "Paradise Lost", e probabilmente non lo farà più, però oggi è di nuovo in vita ed è riuscita addirittura a fare concerti nella vecchia Europa, chissà se non ci sia lo zampino anche di "Servants Of Chaos".
2) Last Laugh
3) Frost And Fire
4) Eyes
5) Better Off Dead
6) 100 mph
7) I'm Alive
8) Bite The Worm
9) The Twitch
10) Maybe That's Why
11) I'll Met In Lankhmar
12) Return To Lankhmar
13) Darkness Weaves
14) Witchdance
15) Feeding the Ants
16) Obsidian
17) Death of the Sun
18) Fire
19) Fallen Idols
20) Chaos Rising
21) Fallen Idols (demo version)
22) Paradise Lost
23) Join the Legion
24) Before the Lash
25) Atom Smasher (live version)
26) Master of The Pit (live version)
27) King of the Dead (live version)
28) Last Laugh (live version)
29) Cirith Ungol (live version)
30) Secret Agent Man
31) Ferrari 308QV