CIRITH UNGOL
Paradise Lost
1991 - Restless Records
CRISTIANO MORGIA
08/12/2017
Introduzione recensione
Il Paradiso Perduto: non solo l'opera magna di John Milton, risalente al 1667, ma ormai anche un'espressione proverbiale con cui si indica un periodo di splendore e serenità ormai andato e lontano nel tempo, alla stessa stregua di quando ci si riferisce all'età dell'oro. È, ovviamente, anche il quarto e ultimo album degli statunitensi Cirith Ungol, uscito addirittura nel 1991. Perché questa premessa? Perché il titolo dell'album sembra quanto mai indicativo del percorso musicale, e anche di vita, della band stessa. Se l'album precedente era intitolato "One Foot In Hell" (1986), il qui presente sembra la naturale continuazione di esso, presentandoci il paradiso al posto dell'inferno. Un paradiso che però è perduto, così come sono perdute le speranze della band di aprirsi al grande pubblico e al mercato, così come è perduta la qualità che era presente in "King Of The Dead", alla fine dei conti l'unico vero capolavoro della formazione. Ma andiamo con ordine. "One Foot?" aveva il pesante compito di seguire la scia del Re dei Morti e di permettere il salto di qualità definitivo in un periodo ricco di fermenti artistici in cui bastava poco per "perdere il treno". Il compito fu assolto in parte, in quanto, "One Foot?", era sì un bell'album con più di qualche gran pezzo, ma era anche un album che cominciava a mostrare il fianco e in cui si poteva vedere una band alle prese con qualche cambiamento stilistico; per esempio, c'erano molti pezzi più veloci e tipicamente N.W.O.B.H.M. , affiancati ad altri lenti e monolitici in pieno stile Cirith Ungol, nel tentativo di allargare il pubblico e far leva sulla voglia di velocità che andava per la maggiore a metà anni '80. Anche la produzione, pur essendo più che buona, non era all'altezza del precedente disco e mostrava, anche qui, il tentativo di ammodernarsi e di "metallizzarsi", mettendo un po' da parte le velleità seventies. In ogni caso, il risultato finale era comunque buonissimo ed alcune canzoni sono dei veri e propri classici della band. Questo però non impedì alla band di cadere in una crisi da cui non si sarebbe più ripresa. Per prima fu colpita la formazione, poiche' i membri storici - Jerry Fogle (chitarra) e Michael "Flint" Vujejia (basso) - lasciarono la band, privandola dell'apporto di due musicisti fondamentali per il sound dei nostri, venend comunque sostituiti da Jim Barraza (chitarra) e Vernon Green (basso). Il secondo colpo venne dalle case discografiche: i quattro infatti lasciarono i colossi della Metal Blade per affidarsi alla Restless Records, la quale, non molto fiduciosa nei confronti della band, distribuì l'album in pochissime copie, favorendone così l'insuccesso ed il conseguente scioglimento degli Ungol stessi. Ben si sa, tra l'altro, che gli anni '90 furono un periodo di crisi per il metal classico, mentre la sfiducia della Restless Records è ascrivibile proprio in questo contesto, in cui il metal degli anni '80 era sentito come datato e invendibile. Per quanto riguarda l'epic, un genere che aveva faticato ad uscire allo scoperto anche nei gloriosi '80s, persino i temerari Manowar si presentarono con il loro ambizioso "The Triumph Of Steel" ad inizio decennio (nel 1992), tuttavia con un epilogo ben differente, sia per la qualità dell'album, sia perché i Manowar stessi erano molto più famosi ed affermati degli Ungol. Anche per i Virgin Steele fu un periodo particolare e non proprio d'oro in cui uscì il criticato "Life Among The Ruins" (1993), ma anche per loro le sorti furono diverse, in quanto la band trovò, nella seconda metà del decennio, una nuova giovinezza che li avrebbe portati a sfornare veri e propri capolavori. I Manilla Road, altra band cardine e fondamentale, sarebbero stati addirittura fermi dal '92 al 2001. Dunque, il movimento Epic in generale non poteva certo dirsi sugli scudi; ad inizio anni '90, infatti, moltissime delle band che l'avevano plasmato erano o finite nel dimenticatoio o sciolte. Insomma davvero un periodo nero per far uscire un certo tipo di musica, senza contare che, generalmente i musicisti di questo genere non hanno molta voglia di adattarsi alle mode del momento. Tornando all'album, anche qui si può vedere come l'anima dei Cirith Ungol sia stirata da più poli e non sappia bene quale direzione prendere: troviamo infatti pezzi più smaccatamente hard rock, altri più heavy ed altri puramente epic, i quali, quest'ultimi, sono in realtà i migliori di tutto l'album e tra i migliori mai composti dalla band. Bello, successivamente, vedere come ancora una volta la copertina sia presa da un'illustrazione di Michael Whelan per un romanzo di Michael Moorcock, così da creare un bel legame con tutti gli album precedenti e anche un'estetica peculiare (di cui parlo più ampliamente nella recensione su "King?"). A questo punto non resta che addentrarci in "Paradise Lost" e vedere quanto ci sia di paradiso e quanto ci sia di perduto.
Join The Legion
Si parte subito con uno dei pezzi migliori e più famosi dell'album: "Join The Legion" (Unisciti Alla Legione). Il riff di Barraza parla chiaro ed è quanto di più classico ci si possa aspettare. Nonostante gli anni '80 siano già finiti i Cirith Ungol se ne fregano e vanno avanti per la loro strada cercando con questo pezzo dalle ritmiche medie e rocciose, un vero anthem. Tim Baker con la sua inconfondibile voce sembra usare il lessico militare per descrivere una situazione attuale in cui le case discografiche si avventano come sciacalli su qualsiasi profitto, dando in pasto ai metallari sconfitti, "metal" di scarsa qualità. In tutto questo, gli Ungol, come detto poc'anzi, se ne stanno fermi sulle loro convinzioni mostrando di essere ancora fedeli. Insomma, una strofa iniziale davvero bella che vale la pena leggere interamente: "Our comrades in arms lying dead in the streets/ From choking on metal that's spineless and weak/ The Jackals are gloating, with victory in hand/ But the last true believers rise up from the land". Il ritornello presenta un netto rallentamento in cui Baker, aiutato da mascoline backing vocals, sembra camminare per le strade chiamando i suoi fratelli alle armi e, ovviamente, ad unirsi alla legione. Tutto resta molto metaforico anche nella strofa seguente; le città sono devastate, il metal è in crisi e i metallari sembrano vagare senza guida tra le sue macerie, ma ecco che dall'orizzonte svetta lo stendardo dei Cirith Ungol, piantato per terra come punto di raduno per la legione, la quale ora è più agguerrita che mai e pronta a combattere: "Howling our metal we light up the world/ And the banner of Ungol is proudly unfurled/ Raising our legion, and now you belong/ And the point of the blade will be screaming our song". Puntualmente Baker rintona il semplice refrain, rendendo il raduno ancora più efficace. Un ennesimo rallentamento permette a Barraza di lasciarsi andare ad un assolo abbastanza espressivo e lievemente malinconico che è un po' in contrasto con l'atmosfera del pezzo. Fortunatamente però tutto ritorna alla normalità e ritorna anche il lato combattivo della band con l'ultima decisiva strofa in cui la legione è finalmente unita e pronta a conquistare tutto e tutti a suon di metal; l'assolo finale, infatti, è decisamente più vivace e virtuosistico del primo, proprio a sottolineare questa vitalità. Una partenza davvero buona con un pezzo apparentemente semplice ma in realtà pregno di significato.
The Troll
È invece un riff più retrò ad aprire "The Troll" (Il Troll), canzone in cui anche lo stile generale nasconde un retrogusto rock. Il ritmo è medio-veloce e particolarmente frizzante, sicuramente meno perentorio e serioso di quello della traccia precedente. La voce di Baker però è sempre la stessa e qui ci descrive una delle creature più caratteristiche del Fantasy e di certo folklore europeo, che altro non è quella del titolo: "Hides under a bridge/ Where he can t be seen/ Huddled under a bankside/ Staring into a stream/ Wanna cross this bridge/ Well better be aware/ There is a brown hairy troll/ Gonna give you a scare". Una particolare melodia di Barraza, quasi scanzonata, dà il via alla strofa successiva, la quale si inserisce senza colpo ferire sulle stesse ritmiche della strofa precedente e con linee vocali melodiche ma, nello stesso tempo, acide come solo Baker sa fare. Dopodiché, con la strofa successiva, le ritmiche rallentano lievemente e si fanno anche più cupe, permettendo al troll di uscire dal suo nascondiglio sotto il ponte per andare in giro a mettere paura ai poveri passanti. Il ritornello è semplicissimo e consiste nella ripetizione del titolo del pezzo, anche nell'album precedente veniva usata molto questa soluzione, ma con ben altri risultati. Non che questo ritornello sia brutto, però non lascia neanche molto il segno: è decente e minaccioso quanto basta ma non di più. La canzone sembra proseguire sullo stesso canovaccio, ma per fortuna Barraza, molto in forma, sforna un riff particolarmente interessante che viene poi seguito dalla batteria di Garven e quindi da ritmiche decisamente più heavy metal galoppanti ma non troppo che rendono il finale del brano più intrigante. Anche se c'è da dire che questo finale arriva abbastanza repentinamente e ci spiazza un po'. Questo è il primo di una lunga serie di brani che non suonano particolarmente ispirati, anzi, questo non è neanche così male alla fin fine, ce ne saranno di peggiori con il passare dei minuti.
Fire
La traccia che segue è addirittura una cover di un pezzo del 1968 originariamente dei The Crazy World Of Arthur Brown e si intitola "Fire" (Fuoco). È la perentoria e malefica voce di Tim Baker ad aprire le danze recitando: "I am the God of Hell Fire and I'll bring you ?" A questo breve verso poi si lega il riff principale, reso molto Heavy dalla chitarra di Barraza nonostante le lontane origini del brano, e immediatamente anche il ritornello, il quale si sposa alla perfezione con il suddetto riff. Le strofe seguenti si assestano su ritmiche anche qui non molto veloci, ma neanche lente, che rendono il tutto abbastanza "solare" ed accattivante. Cosa molto strana se si conosce bene lo stile della band. Le cose cambiano, infatti, verso metà canzone, dove abbiamo un lieve rallentamento che incupisce la canzone e riporta la band su lidi che conosciamo bene; anche se il riff principale spazza via ogni cupezza e fa riemergere il ritornello con il suo gusto Heavy tipicamente anni '80. Il testo però sembra particolarmente adatto agli Ungol, in quanto, pur essendo stato scritto in piena epoca hippy, trasuda una certa malignità ossessiva (soprattutto nel finale) che forse sta meglio con questo sound che non con quello originale: "Fire/ To destroy all you've done/ Fire/ To end all you've become/ Fire/ I'll take you to burn/ I'll see you burn". Insomma, questa sì che è una cover particolare, è abbastanza ben fatta, però la particolarità sta nel fatto che è una cover di un pezzo del '68 uscita nel '91 ma che suona come se fosse stata suonata negli anni '80. In ogni caso, il pezzo è abbastanza piacevole, soprattutto grazie al riff nel ritornello, però è pur sempre una cover.
Heaven Help Us
Si prosegue con i 6 minuti e oltre di "Heaven Help Us" (Che Il Cielo Ci Aiuti), altro pezzo scritto da un membro esterno alla band (il bassista Joe Malatesta) e altro pezzo a cavallo tra l'Hard Rock e il Metal. Il riff infatti ha un retrogusto che più si addice al primo genere, mentre la galoppata che parte con la prima strofa è tipicamente appartenente al secondo. In questa canzone, comunque, c'è una grandissima novità: Tim Baker abbandona il suo ululato sgraziato, ma espressivo come pochi e marchio di fabbrica della band, per mostrare un lato pulito e più nella norma della sua voce che non era mai uscito fuori prima d'ora. Anche le liriche sono alquanto sorprendenti e atipiche, in quanto non hanno a che fare con re caduti, Satana, l'Apocalisse o spade, bensì con il pianeta Terra ed il suo decadimento provocato dall'Uomo, più interessato al profitto che a qualunque altra cosa, come si legge bene nella seconda strofa: "All we see is the ground beneath our feet, never looking twice/ Take a look around the world at all the ignorant sacrifice/ Profit was the main thing on our agenda through all of the years/ never thought twice about a living thing or/ all of the future tears we'II cry". Il ritornello, molto semplice e lineare anche stavolta, è lievemente più cupo del resto e in sottofondo ci permette di riascoltare anche la tipica timbrica di Baker, intento qui ad avvertirci che non c'è rimasto più tempo per curarci della natura intorno a noi, soltanto il cielo può aiutarci ormai. La piacevole cavalcata prosegue sempre guidata dalla "nuova" voce di Baker e dai riff galoppanti che ci mostrano un futuro spaventosamente vicino fatto di inquinamento e rifiuti nucleari sparsi ovunque. Un futuro che ormai appare segnato? Tanto più perché, come apprendiamo dalla pessimistica strofa successiva, non interessa a nessuno: "No one seems to care, that our world is wasting away/ Someday we II be sorry and we'll have ourselves to blame/ No one wants to admit the fact that we live our lives in vain/ To die". Il pessimismo ora sembra prendere il sopravvento, ed infatti arriva anche il ritornello a confermarlo, seguito poi da un assolo squisitamente Metal che purtroppo termina troppo presto, lasciandoci con la sensazione che sarebbe potuto essere molto più accattivante. Dopodiché Tim Baker invoca l'aiuto dei cieli con note lunghe e distese, affermando anche di credere in Dio; un grido d'aiuto disperato per una situazione altrettanto disperata che pare potersi risolvere soltanto con un intervento divino. Da questo punto in poi la canzone è praticamente finita, non c'è più infatti nessun cambiamento, variazione o sorpresa e veniamo quindi trascinati, da riff e da ritmiche abbastanza veloci, verso il lungo finale, il quale però riesce a trovare spazio per un'ultima ripetizione del ritornello. Sentire Baker con questa voce fa uno strano effetto, molto strano anzi, visto che non sembra neanche la stessa band, e se ci pensiamo bene non è neanche stato scritto da un membro della band, però c'è da dire che il pezzo non è affatto male e si lascia ascoltare.
Before the Lash
"Before The Lash" (Sotto La Frusta) è molto probabilmente il punto più basso dell'album, essendo una canzone alquanto anonima e senza un punto focale che potrebbe renderla appetibile. L'inizio in realtà non è affatto male ed è all'insegna delle schitarrate rockeggianti di Barraza e dei suoi riff taglienti e cadenzati. Riff e ritmiche abbastanza cadenzate che proseguono anche con la prima strofa, non appena fa il suo ingresso Baker, il quale ancora una volta ha l'ingrato compito di narrarci la fine dell'umanità e delle forze maligne che non vedono l'ora che questo succeda e che in realtà ne sono proprio la causa: "In Hell's corrupt and sunken halls the rising shall begin/ The bane of man immortal - the parade of broken dead/ With greed our worldly master, so now pain will be our guide/ As the fallen ones await us all to welter by their side" Barraza lega abilmente le strofe una all'altra, ma tolto questo si ha la sensazione che la canzone prosegua seguendo lo stesso identico schema dall'inizio alla fine, ripetendo lo stesso riff e lo stesso ritmo all'infinito. Una caratteristica abbastanza comune della band in realtà, però era sempre stata sfruttata in modi migliori, magari piazzando un ritornello memorabile o linee vocali talmente ben fatte che potevano sopperire alla mancanza di un refrain. Qui invece non ci sono né linee vocali interessanti né un ritornello, lo sforzo maggiore lo compie il nuovo arrivato Barraza, che sembra il più in forma in questo frangente, tant'è che poco prima di metà brano sforna anche un assolo niente male che è il vero ed unico sussulto di questi quasi 5 minuti. Anche perché proprio dopo l'assolo la canzone riprende come l'avevamo lasciata: statica e monocorde come prima. Per fortuna le solite liriche immaginifiche della band riescono almeno a creare un'atmosfera degna del loro nome: "?Iron dreams of human jackals - our final fate is cast/ To slave in endless fire, as you cringe before the lash". Ormai non c'è niente da fare, l'umanità si prostra e rabbrividisce sotto i colpi sferzanti di fruste infuocate provenienti dagli abissi più profondi degli Inferi. Barraza sembra descrivere questo scenario terribile con la sua sei corde, salvo essere interrotto dal ritorno della strofa, la quale è, per fortuna verrebbe da dire, l'ultima, e va proprio a chiudere questo brano alquanto noioso e che purtroppo non lascia niente, se non la voglia di evitarlo.
Go It Alone
Segue poi "Go It Alone" (Lo Farò Da Solo), altro punto basso dell'album insieme alla traccia precedente. In questo caso però si fa davvero fatica a credere che la band che stiamo ascoltando siano i Cirith Ungol, e si fa fatica già dai primissimi istanti, quando un riff leggero, spensierato e figlio di certo Hard Rock all'acqua di rose emerge dalle casse dello stereo lasciandoci interdetti. Neanche quando Baker comincia a cantare la prima strofa le cose cambiano più di tanto, in quanto il cantante si adatta tranquillamente allo stile appena descritto suonando, a dir la verità, un po' fuori contesto con la sua voce sgraziata. Ci immaginiamo i Cirith Ungol con i capelli cotonati e gonfi, con pantaloni leopardati, eyeliner e ammiccamenti ad un'ipotetica telecamera. Il che, per una band che faceva musica epica e come se fosse uscita dall'Inferno, non è proprio positivo. Il ritornello, con un Baker palesemente fuori posto, conferma i dubbi e propone, come se non bastasse, un tema particolarmente abusato durante gli 80's, ovvero quello della rockstar sfortunata ma destinata a fare quello che vuole: "I was born with a six string in my hand/ I'll follow the dream to the end/ And I'll go it alone". La canzone prosegue con questa sorta di biografia Rock in cui il protagonista è deciso a tornare in strada con la sua chitarra per seguire il suo sogno di una vita. Sogno che egli seguirà anche da solo se necessario, nessuno dovrà o potrà ostacolargli la strada, come si evince dall'ultima strofa: "Don t need a crystal ball to show me where I'm going/ cause I'm making it right, making it right, right this time/ With or without you, I've got to live this dream/ Cause its once in a life, once in a life, my lifetime". L'assolo di Barraza, che precede proprio questi versi, è ovviamente veloce, distorto e solare come ci si aspetterebbe da un pezzo del genere, mentre la batteria di Garven suona innocua e addomesticata come mai lo era stata prima. Il finale del pezzo propone nuovamente il ritornello e delle varie ripetizioni che si susseguono fino al fade-out degli ultimissimi secondi che finalmente chiudono questo capitolo non così riuscito.
Chaos Rising
Le cose cambiano decisamente con il trittico finale, ispirato proprio al "Paradiso Perduto" di Milton, ovvero un pugno di canzoni che da solo riesce a cambiare le sorti di quest'album innalzando di molto un livello che sembrava invece destinato a calare sempre di più. La prima canzone delle tre è la monumentale e bellissima "Chaos Rising" (L'Ascesa Del Caos). Un brano capolavoro, davvero, il migliore dell'album, uno dei migliori della band e anche un canto del cigno dell'Epic. Già, perché con questa traccia finalmente torniamo su lidi propriamente Epic Metal, e con risultati strabilianti, intuibili già dalla lunga durata del pezzo. In apertura troviamo un ritmo medio-veloce condito da un riff che abbandona ogni velleità Rock per lasciarsi andare ad un sound metallico che qui ha ancora sa ancora molto di introduzione. In effetti, entriamo nel vivo non appena il riff stesso si ammutolisce e la batteria si ritira nell'oscurità; quando sono invece degli arpeggi atmosferici ed un assolo malinconico e grave a cullarci. Su questo tessuto si inserisce agilmente e con calma la voce di Tim Baker, il quale sforna nuovamente la sua timbrica più calda e triste per narrarci di avvenimenti apocalittici, del Male, del caos e della caduta di Satana stesso, pronto però a vendicarsi sull'Uomo, la creatura prediletta di Dio: "The doomed one's fallen armies sound the tolling of the bell/ While sin and death stand silent guard outside the Gates of Hell/ He slowly spreads his leather wings and soars above the land/ He strokes his pointed beard and casts an evil eye toward man". Già quest'inizio è da brividi, ma lo diventa ancora di più grazie ad un coro sommesso, sacrale e cupo, quasi come fosse cantato da angeli caduti, che segue la prima strofa e la spazza via così come Satana avrebbe sottilmente causato la cacciata dell'Uomo dall'Eden. Dopodiché riecco spuntare la chitarra elettrica di Barraza, e con essa anche la consueta voce di Baker. Ora la canzone è rocciosa, cadenzata, monolitica ed inarrestabile, così come il fato dell'Uomo che si presenta sotto forma di una mela offerta da un serpente? Il coro sacrale e malinconico ritorna a torreggiare su tutto, ma solo per fare da trampolino di lancio all'eccitante e solitario riff di Barraza che, a sua volta, preannuncia chiaramente un'accelerazione che puntualmente arriva proprio lì dove ce l'aspettavamo. Ovviamente il brano non decolla verso velocità vertiginose, ma accantona comunque i ritmi lenti dell'inizio, sembra che più vada avanti più voglia rappresentare l'inevitabile e tragica caduta dell'Uomo, una caduta che ormai ci ha reso tutti vittime dello stesso disegno? La chitarra di Barraza serpeggia tra le ultime due strofe senza remore, proponendo assoli e riff eccitanti che accompagnano Adamo ed Eva all'uscita del Paradiso Terrestre, ingannati da Satana ma anche dalla loro stessa fame e voglia di vivere senza regole, una voglia che darà invece il via ad un lunghissimo ed estenuante regno di disperazione: "Moving toward the evil song that fate will sadly sing/ How the pride of man has fallen, crowning lust their only king/ Heaven screams in anguish and the world cries out in pain/ Unleash the final terror - man begins his now doomed reign". Come la sei corde di Barraza anche il coro/ritornello non smette mai di accompagnarci, lo fa fino alla fine, ricordandoci, come un monito, di ciò che siamo e a cosa andiamo incontro, rendendo il brano sempre più epico ed enfatico, ma anche tragico e dannatamente efficace nella sua semplicità. Un vero e proprio inno fino agli ultimi istanti: sacrale e dannato nello stesso tempo.
Fallen Idols
L'altra grande canzone di questo trittico finale è "Fallen Idols" (Idoli Caduti), un altro brano puramente Epic Metal che ci trasporta ancora di più in un antico mondo biblico che possiede la chiave per capire il nostro destino di uomini mortali. Il riff principale è lento e cadenzato, piuttosto enfatico e sentito, malinconico e melodico, epico e grandioso? Somiglia molto a "The Hellion" dei Judas Priest in realtà, ma quella melodia è ormai così comune nel mondo del Metal che si potrebbe anche chiudere un occhio, tanto più perché qui i Cirith Ungol suonano molto più cupi e sommessi rispetto agli inglesi. Si continua su ritmiche sempre cadenzate e caute tipiche dell'Epic, le quali permettono a Baker di cominciare la sua solita narrazione, che in questo caso, nella prima strofa, è davvero curiosa, poiché riprende quasi interamente gli ultimi versi della traccia precedente, creando così un legame indissolubile tinto di zolfo e fiamme. Il ritornello è molto semplice e, proprio come in "Chaos Rising", si limita a ripetere il titolo del pezzo, ma lo fa con un'intensità tale da risultare vincente e ricco di pathos. L'Umanità ormai è segnata, dopo la cacciata l'attende un destino di disperazione, fame, dolore, angoscia, morte? Il tutto intervallato dalle parole di profeti che tentano di proporre una risposta, un modo per salvarci; le loro parole, tuttavia, non riusciranno a fermare l'inevitabile Apocalisse: "?Fingers poised on Armageddon, dare they make the fatal move/ And send this dying planet hurling headlong to the tomb". Il refrain sembra acquistare sempre più forza con il passare dei secondi, aiutato specialmente dal suo essere corale e da un Barraza davvero incisivo con la sua chitarra Heavy distorta e sempre presente: ora con note acute che mettono l'accento sul ritornello stesso, ora con brevi assoli, ora con il riff d'apertura. L'ultima strofa è sicuramente la più bella ed evocativa della canzone ed una delle migliori di tutto l'album, resa poi ancora più enfatica dalla graffiante voce di Baker: "Broken leaders mark the twisted path that mankind chose/ Final judgement is upon us, vengeance rains its fearful blows/ So we hurl our prayers toward heaven, surely they will heed the call/ But soulless skies just echo with the screams of mankind's fall". I leader della Terra non fanno altro che marcare ancora di più il nostro destino, il quale un giorno cadrà dai cieli insieme alle nostre preghiere inascoltate, le quali un giorno si trasformeranno in grida di dolore cosmico. Come recita il ritornello, gli idoli cadranno e sarà il caos, come preannunciato anche dalla canzone precedente? Il bellissimo riff si trascina, e ci trascina, lentamente e sinuosamente verso la fine del Mondo e verso la fine della traccia.
Paradise Lost
Giungiamo così all'ultima traccia dell'album, ovvero la title-track (Paradiso Perduto), che chiude il trittico epico, e l'album, in grande stile. Barraza abbandona la sontuosa e sinuosa malinconia della canzone precedente per un riff più tagliente e roccioso che viene poi aiutato dalla potente (finalmente) batteria di Garven e da una sinistra melodia chitarristica che avvolge il tutto. I ritmi sono tipicamente epic: cadenzati e massicci, quasi da marcia. Su questo tessuto può quindi inserirsi l'espressiva e acida voce di Baker, la quale anche stavolta riesce a toccare picchi di espressività unici nel loro genere, mentre davanti ai nostri occhi comincia nuovamente ad apparire l'Eden con le sue bellezze: "Underneath the new born sun/ Man and beast rejoice as one?" Una pace ed una quiete che però, come ben sappiamo e come viene raccontato anche in "Chaos Rising", verranno rotte dall'Uomo stesso, a sua volta ingannato da Satana. A questo punto il brano accelera lievemente, come per voler rappresentare sonoramente la rabbia di Dio e la cacciata di Adamo ed Eva, mentre ritroviamo anche la melodia sinistra di Barraza che sembra invece voler rappresentare il serpente mentre osserva ghignando le sue vittime. Nella seconda strofa questa nuova velocità viene mantenuta, ed il riff portante si adatta diventando più vario e meno statico. Anche in questa canzone viene ribadito il concetto della caduta dell'Uomo e della sua caducità, elementi con cui l'umanità deve fare i conti proprio partendo dal peccato originale, cercando in tutti i modi di salvarsi spesso distruggendo tutto ciò che le è intorno. Il ritornello è, come in molti altri casi, molto semplice e basilare, ma ciò non gli impedisce di risultare incisivo e quasi disperatamente arrabbiato, molto diverso quindi dalle soluzioni più sacrali degli altri pezzi del trittico. La canzone si fa sempre più trascinante ed incalzante, anche se resta salda su ritmiche medio-veloci; un'altra strofa apocalittica giunge e poi nuovamente il refrain, tanto per ribadire che ormai il paradiso è? perduto! L'assolo, se così si può definire, di Barraza è piuttosto semplice e si limita a ripetere ossessivamente quella melodia sinistra che ci accompagna dai primi istanti di vita della traccia, creando però un effetto appunto di ossessione che ben si sposa con l'atmosfera generale e con le tematiche. L'ultima strofa, come spesso succede con i Cirith Ungol, è la più enfatica ed eloquente di tutte, e ci fa fare un salto in avanti verso la fine dell'umanità, la quale, sotto un Sole annerito, riceve il suo giusto premio mentre il caos risuona ovunque. Interessante notare poi come contrasti volutamente con la prima strofa: "Underneath the blackened sun/ The final battle fought and won/ Mankind claims their just reward/ And chaos sounds the final chord". A questo punto Barraza si lascia andare ad un assolo vero e proprio, un po' breve in verità, ma ormai il brano, accompagnato dall'incessante ritornello, si avvia verso il termine, così come anche la band stessa si avviava verso lo scioglimento che sarebbe avvenuto l'anno dopo.
Conclusioni
Dunque, così si chiude l'ultimo album di una delle band più iconiche e sfortunate dell'Epic Metal. Un album che conferma questo status, in quanto, come abbiamo visto nell'introduzione, non basterà per salvare i Cirith Ungol da una sorte che sembrava già scritta, senza contare poi che lo stesso album fu distribuito in pochissime copie, affossando ancora di più gli sforzi dei nostri guerrieri. Se è vero poi che "Paradise Lost" è uscito in un periodo non proprio florido per il Metal classico, è anche vero che la sua qualità non sta ai massimi livelli: i tempi di "King Of The Dead" sono finiti da parecchio ormai. I Cirith Ungol vengono stirati verso più direzioni, ed è così che troviamo una canzoncina come "Go It Alone" che non si addice per niente al loro stile e pur suonando vagamente orecchiabile (con più di qualche sforzo) non si può far a meno di pensare che quelli non sono i veri Ungol, non sono gli stessi cantori di gesta di eroi Sword & Sorcery, non sono gli stessi che hanno scritto pezzi che sembrano essere usciti dalle viscere della terra. Stessa cosa per altre canzoni che, nonostante più in linea con uno stile consono ai Nostri, faticano a farsi apprezzare del tutto, risultando al massimo piacevoli o decenti. C'è l'interessante esperimento di "Heaven Help Us", con un Tim Baker "nuovo" e non più spaventoso e terribile; un esperimento abbastanza riuscito a dir la verità, in quanto la canzone si lascia ascoltare, anche se non è di certo tra le migliori della band e nemmeno dell'album. È così quindi che abbiamo a che fare con un album che si apre benissimo con la rocciosa e simbolica "Join The Legion", si chiude con un trittico di rara bellezza ma che ha al centro tracce trascurabili, soprattutto se messe a confronto con il trittico di chiusura. È proprio questo gruppetto finale a salvare l'album: le canzoni sono così ben fatte e così puramente Epic Metal che ci si chiede perché non usare la stessa creatività anche per il resto dell'album, invece di provare a scrivere materiale più easy listening. Abbiamo, infatti, ha che fare con alcune delle canzoni più bella mai scritte dalla band e, oserei dire, con alcune delle più belle di tutto l'Epic, "Chaos Rising" su tutte, un vero e proprio capolavoro sacrale e monumentale che da solo getta ombra su gran parte delle altre tracce. Insomma, si respira una certa aria di crisi, la quale era già possibile avvertire prima dell'uscita dell'album a causa dell'abbandono di due colonne portanti come Jerry Fogle e Michael "Flint" Vujejia, che non solo erano parte integrante della band in quanto membri storici, ma erano anche parte integrante del sound degli Ungol: Fogle con il suo stile chitarristico visionario, immaginifico e a metà tra l'Hard Rock ed il Metal; Flint con le sue pulsanti ed avvolgenti linee di basso che, purtroppo, già avevano cominciato a sparire con "One Foot In Hell". Qui quindi mancano questi elementi: il nuovo bassista è quasi irreperibile per esempio, ma in realtà il chitarrista Barraza sostituisce abbastanza bene lo storico Fogle, manca di quel tocco magico probabilmente, ma almeno prova a non restare nell'anonimato. Cosa che non si può dire di Robert Garven, ormai nascosto dietro alle pelli e non più audace e libero come un tempo. Insomma, la crisi era ormai tangibile, e quest'album ce la dimostra appieno, passando, come già detto, da canzoni assolutamente trascurabili a veri e propri inni che però non avrebbero salvato la band dall'imminente disfatta. E così, come Adamo ed Eva furono cacciati dall'Eden, i Cirith Ungol sembrano essere cacciati dal panorama Metal, non senza avere qualche responsabilità essi stessi, sia chiaro, d'altronde il calo avuto da "King?" è piuttosto evidente. Tuttavia bisogna assolutamente dare atto a questi guerrieri di non aver perso la voglia di combattere e di provare a farsi strada tra mille insidie, anche quando tutto era contro di loro, dimostrando così di essere dei veri e propri alfieri dell'Epic Metal, guadagnandosi il rispetto di tantissimi fan in giro per il mondo (forse più ora che allora). Poiché qui non si parla solo di un semplice genere musicale, bensì di un modo di vivere e di vedere le cose, e se soffrire, combattere fino alla fine e non arrendersi mai non è Epic Metal allora non so cosa lo sia.
2) The Troll
3) Fire
4) Heaven Help Us
5) Before the Lash
6) Go It Alone
7) Chaos Rising
8) Fallen Idols
9) Paradise Lost