CELTIC FROST

Into The Pandemonium

1987 - Noise Records

A CURA DI
MARCO PALMACCI
16/02/2015
TEMPO DI LETTURA:
10

Recensione

"Basta produrre dei Capolavori, bisogna Essere dei Capolavori". Citazione a posteriori del grande Carmelo Bene, che ben si conforma al lavoro svolto da Tom G. Warrior in quel lontano 1987. Il Guerriero era ormai al centro dell'attenzione di molti metalheads grazie ad una carriera stabile e consolidata, costellata da grandi album come il tellurico full-length "To Mega Therion", ispiratore di non poche band ed in grado di conquistare (quasi "dominare") le menti dei metallari dell'epoca, giovani in primis. Menti e cuori di personaggi in seguito divenuti importanti e significativi come Oystein "Euronymous" Aarseth, per intenderci, che con i suoi Mayhem si ispirò proprio alla primordiale aggressività e all'ossianica oscurità dei Celtic Frost per iniziare a comporre la sua musica. Il trio "Morbid Tales", "Emperor's Return" ed il già citato "To Mega Therion" aveva quindi gettato ottime basi per la nascita e lo sviluppo di quel che in seguito sarebbe stato il Black Metal, autentica rivoluzione musicale e culturale dalla prorompente carica dissacratoria e pessimista: basta con le motociclette, con i capelli lunghi al vento, con la birra e le donne; avanti con la notte, Satana, l'Oscurità, quanto di più abietto (e celato nell'ombra) esistesse nell'animo umano. Un nuovo modo di intendere la musica e la vita, dunque, adottando come simboli di questa "contro-cultura" effigi da sempre ritenute negative ed inquietanti, come Demoni, cieli grigi, croci rovesciate. Qualcosa, però, stava cambiando: la mente di Tom era in subbuglio, i suoi compagni faticavano a star dietro alle sue trovate. Mille ne pensava, un milione ne faceva. Il suo contributo (e CHE contributo) alla nascita di quel nuovo genere era stato dato, dunque dinnanzi ai suoi occhi si pareva imperterrito un bivio: realizzare un album sulla scia dei precedenti e riscuotere un discreto successo, per poi esaurire le idee e ritrovarsi privo di stimoli nel giro di qualche anno; oppure, sconvolgere il pubblico decidendo di comporre qualche cosa di.. assurdo, di ancor più oscuro, di inarrivabile. Un qualcosa capace di destabilizzare, dividere e far discutere. Che se ne parli male, purché se ne parli. Dunque, il Capolavoro che Tom Warrior si avvia a creare divenendo egli stesso un capolavoro, non tarda ad arrivare. Radunate per bene le idee e messa da parte la paura di "non piacere", il Guerriero decide di donare alla Storia, nel 1987, un qualcosa che fosse frutto delle sue più recondite fantasie e sensazioni, un lavoro indecifrabile e profondamente mutuato attraverso la sua esperienza di vita e musicale, un disco che già dal titolo ci fa capire quanto sia dannatamente (e splendidamente) labirintico ed a tratti destabilizzante. "Into The Pandemonium" ("All'Interno del Pandemonio") vide la luce negli "Horus Sound Studio" di Hannover, sempre sotto l'ala della "Noise Record", e si presentò nella Scena dell'epoca come una sorta di  "cugino esuberante", una scheggia impazzita, un lavoro creato ad hoc per suscitare polemiche, discussioni e forse addirittura sdegno, perché no. Proviamo a delineare una breve panoramica della scena "estrema" dell'epoca, per renderci meglio conto: siamo, come già detto, nel 1987, ed il mondo ha già accolto a braccia aperte capolavori come "Master Of Puppets" dei Metallica e "Reign in Blood" degli Slayer (usciti entrambi un anno prima), capisaldi per le varie tipologie di metal che si svilupperanno in seguito negli anni '90, senza scordarsi di "Deathcrush" dei già citati Mayhem, che invece giungeva proprio nel 1987 a far sentire la sua tetra voce. La lista è ancora ben lungi dall'essere conclusa: "Peace Sells.. but who's Buying?" dei sempiterni Megadeth fu un altro grande protagonista di quegli anni di fuoco, seguito dal ruvido "Retaliation" dei Carnivore. Ce n'era per tutti i gusti, chi più ne aveva poteva solamente aggiungere. Il thrash speed heavy dei Metallica, il thrash allo stato puro dei Megadeth, l'aggressività senza quartiere degli Slayer, il nichilismo sonoro dei Mayhem, il punk metal dei Carnivore. Difficile sfondare in un panorama così ricco e competitivo.. eppure, Tom Warrior ebbe più di un qualcosa da dire; e lo fece. Prendiamo rapidamente in esame tutti i dischi sino ad ora citati.. qual è il loro minimo comun denominatore? Senza dubbio, una sorta di linearità di intenti ed un progetto ben preciso alle spalle, nonché dinnanzi agli occhi di chi si apprestava a comporre tali lavori. Proprio da questo elemento, i Celtic Frost sembrano discostarsi enormemente (abbracciando senza dubbio quella che fu la grande lezione del Progressive Rock), innestando nella loro musica elementi che differenziarono abbastanza marcatamente "Into The Pandemonium" sia dai suoi "colleghi" sia dai lavori stessi della band, quelli precedenti. Violini, recital di poesie francesi, corni, timpani sinfonici, cori "à la Bee Gees" (esatto, avete letto bene), cover di brani più propriamente da radio o discoteca.. elementi timidamente (e molto limitatamente) presenti in "To Mega Therion" ma qui esagerati ed esasperati, divenuti vera e propria colonna portante del "Pandemonio". Un disco che sembra il frutto di più musicisti chiamati a comporre contemporaneamente, tanto è variegato e tanto racchiude in esso stilemi ed esperienze così diverse fra di loro ed (apparentemente) inconciliabili. Il Capolavoro di una mente, quella di Warrior, che è tutt'oggi un Capolavoro. "Into the Pandemonium" si presentò a tutto campo come una sfida fra Tom e G., entrambi Fischer all'anagrafe, entrambi Warrior per il pubblico. Una sfida che il frontman dei Celtic Frost decide di intraprendere contro se stesso, mostrando al mondo che egli non ha paura di fare ciò che vuole e sente, in un impeto di Crowleyiana presa di coscienza dei propri mezzi e capacità. Un Superuomo, un Titano pronto a sfidare tutto e tutti, utilizzando anche un po' di sano sarcasmo che male non ha mai fatto, anzi. Se saputo usare a dovere, questo si rivela un simbolo di profonda cultura ed intelligenza. Anche in questa occasione, come già avvenuto per il precedente disco, "Into the Pandemonium" utilizza un quadro famoso come artwork: in precedenza Giger ed il suo "Satan, I", in questa occasione invece viene scelto "L'Inferno" ("Hell") di Hieronymus Bosch, realizzato nel 1504 e facente parte di un trittico (intitolato "Trittico del Giardino delle Delizie") sempre ad opera dello stesso pittore. L'Inferno, dunque. E cosa ci dovrebbe essere, più caotico dell'Inferno? Pronti, or dunque, ad immergerci in questa tela multicolore dove il caos regna sovrano e nulla è come sembra? Allacciamo le cinture, potremmo cadere da un momento all'altro e sarà meglio trovarsi ben saldi al sedile, quando la velocità aumenterà all'improvviso..  let's Play!

Ad aprire le danze è la scanzonata "Mexican Radio", brano non originale dei Celtic Frost, composto nel 1983 e lanciato come singolo dal gruppo new wave americano Wall of Voodoo, capitanato dall'allora frontman Stan Ridgway. Il gruppo era caratterizzato da un accattivante utilizzo dell'elettronica nella loro musica, il che li rendeva una band prettamente avvezza alla sperimentazione, dati anche i numerosi innesti che erano soliti inglobare all'interno della loro proposta musicale (addirittura venature definite "Spaghetti Western", in quanto le composizioni del maestro Morricone avevano esercitato un notevole ascendente su di loro), mai banale e sempre molto coinvolgente. Un gruppo di tutto rispetto, ma certamente agli antipodi di quel che i Celtic Frost erano in quegli anni. Il brano originale, spensierato e molto catchy, radiofonico ed easy listening (nonché tendente ad un ritmo quasi country) non dovrebbe per forza di cose dover avere molto a che fare con un gruppo come quello di Tom Warrior: è bene ricordare, in tal proposito, cosa furono veramente capaci di sprigionare i Celtic Frost con la loro musica, e ricordiamolo citando direttamente le parole di chi ne ha beneficiato più di tutti, ovvero Fenriz, assieme a Nocturno Culto membro degli importantissimi Darkthrone, fra gli intoccabili della scena black metal norvegese e non solo. Fenriz disse proprio, in un'intervista, che quello che lo fece maggiormente riflettere non fu tanto quello che Tom Warrior suonava, ma il modo in cui lo suonava. I riff non erano certo ultra - tecnici, ma a detta del blackster, "sembrava che fossero carichi di tutte le disgrazie del mondo", per quanto suonavano oscuri, malinconici, rabbiosi. Dunque, conoscendo (e bene) lo stile dei Celtic Frost, sicuramente potrebbe spaventarci e non poco questo brano dance - new wave, totalmente re interpretato per suonare nemmeno come un pezzo del Gelo Celtico. La chitarra di Tom Warrior mantiene certo grado di pesantezza nel suo sound ma si tinge di Rock 'n' Roll, divenendo più sorniona, irriverente, giocando con le note e ricamando riff su riff, i quali andranno a comporre un brano.. allegro. Un aggettivo che mai avremmo potuto accostare al combo svizzero ma che, in fin dei conti, ci troviamo costretti ad utilizzare. Tutto il brano è costruito per divertire, i cori sono accattivanti e ad un certo punto possiamo addirittura udire una simpatica e buffa voce effettata (minuto 2:14). Un brano che coinvolge, addirittura ballabile, che sprizza energia e positività. Mettiamo da parte i vari "Dawn of Megiddo" ed accogliamo "Mexican Radio", cover eccezionalmente fuorviante e spiazzante, che non solo non fornisce indicazioni su qual effettivamente è il vero sound dei Celtic Frost (solamente gli "UH!" di Tom, sparsi qui e là, possono richiamare i tempi passati) ma che addirittura, in chi si ritroverebbe ad ascoltare questo disco senza conoscere i precedenti di questa band, potrebbe far nascere effettivamente idee "sbagliate" sul conto del combo elvetico. L'andatura Rock 'n' Roll, la chitarra splendidamente pesante ma tendente ad un "ruffianesimo" tipico del pop metal più cotonato, la voce di Tom certamente aggressiva ma non più di troppo.. elementi che mai avremmo creduto di trovare in un disco degli elvetici, eppure eccoli qua. Di certo un inizio che fa discutere, spiazzare, ed anche arrabbiare, perché no, soprattutto chi non avrebbe mai voluto udire tutto questo. Coloro che però hanno colto il chiaro elemento ironico alla base di questa operazione e la sua notevole carica intellettuale, non possono fare a meno di alzarsi ed applaudire divertiti. "Mexican Radio" è un inizio col botto, che travolge e si lascia ascoltare. C'è chi avrà spento lo stereo immediatamente, chi andrà avanti, comunque non è un elemento che lascerà privi di argomentazioni pro - contro o comunque indifferenti, tutt'altro. Il testo, poi, non ha a che fare con nessuna delle tematiche affrontate dal Gelo Celtico sino ad ora. "Mexican Radio", difatti, sembra proporci delle lyrics assai ironiche o comunque votate ad una sorta di umorismo prettamente no sense. Il tutto è abbastanza difficile da decifrare, sembra quasi di trovarci dinnanzi al racconto di un sogno decisamente contorto; il protagonista sembra essere capitato, per sbaglio, su una stazione radio messicana, e tenta di capire tutto ciò che gli speaker o i DJ vogliano eventualmente comunicare, non comprendendo però nulla a causa del divario linguistico che separa gli U.S.A dal Messico. Egli non demorde e resta comunque sintonizzato su quella stazione, forse anche per pigrizia (ammette di sonnecchiare tranquillamente nel suo letto). Immagina così di trovarsi proprio in Messico, e di sentire letteralmente sulla sua pelle il clima afoso e misterioso di quei territori, oltre a fare cose assurde come mangiare un'iguana arrosto. Il tutto mentre si trova a Tijuana, nota località messicana ("..in bed i slumber, hear the rhythm of the music / Hear the talking of the DJ, can't understand, what's he say? I'm on the Mexican radio! / I understand just a little, no comprende: it's a riddle! / Wish I was in Tijuana, eating barbecued iguana / I feel a hot wind on my shoulder and the touch of a world that's older" - "Dormo tranquillo nel mio letto, sento il ritmo della musica e sento parlare il DJ.. ma non lo capisco, cosa dice? Sono sintonizzato su una radio messicana! / Riesco a capire qualche cosa.. "no comprendo": è un enigma!! / Mi sarebbe piaciuto essere a Tijuana, a mangiare una iguana cotta sul barbecue.. / Sento un vento caldo sulla mia spalla, ed il tocco di un mondo antico"). Dopo questo divertissement, torniamo vicinissimi (ma non troppo) ad uno stile più consono ai Celtic Frost con l'arrivo della seconda traccia, "Mesmerized", che riporta in auge un certo sound malinconico e monolitico già ascoltato in diverse opere del terzetto svizzero. L'andatura rock 'n' roll scompare per riportare prepotentemente in partita un incedere oscuro, sicuramente vicino alle tradizione estrema ma reso estremamente più Goth e "barocco" da alcuni accorgimenti sonori per nulla male. Parliamo di Goth anzitutto per il modo di cantare di Tom Warrior, che sembra in preda quasi ad un coinvolgimento "estatico": la sua voce è languida, passionale e carica di pathos, ma per gli standard del Goth comunque esagerata, forse eccessivamente "teatrale", se vogliamo osare con i termini. Un Tom dunque istrionico, "gigioneggiante", che non si preoccupa di apparire grottesco e di recitare una parte non consona al suo "personaggio". Come un poeta maledetto, il nostro Warrior si abbandona allo Spleen e declama i suoi versi oscuri, come se fosse in trance mistica o comunque "posseduto" dal sacro spirito dell'Arte. L'elemento "barocco" è, invece, dovuto alla voglia di esagerare il contesto inserendo sonorità atte a rendere il tutto ancor più di impatto ed "intenso". Una chitarra acustica udibile durante tutto il pezzo viene usata come rifinitura a riff di chitarra elettrica certamente aggressivi, ma comunque dilatati da un tempo più cadenzato e preciso anziché veloce e forsennato come ai tempi di "Circle of the Tyrants". La batteria di St. Mark è precisa e il drummer dimostra di sapersi ben adattare ai vari cambi di stile, mentre il basso di Ain (musicista di molto cresciuto dagli esordi) si dimostra l'ennesima garanzia, presente più che mai, eccellente rifinitore ma comunque assai possente, a livello di corposità del sound. Non sono pochi i momenti in cui Martin riesce, difatti, a darci un saggio della sua rinnovata ed evoluta abilità. L'efficacia della sezione ritmica porta dunque Tom a potersi sbizzarrire senza problemi, accelerando e decelerando, facendo rombare la sua chitarra ma comunque stando sempre attento a non uscire da questi canoni "goticheggianti", canoni resi forti anche dalla presenza della splendida voce di Claudia Maria Mokri, già udita in "To Mega Therion". I suoi cori, uniti ad un cantato particolare, ci catapultano dunque in una nuova dimensione. Se il tutto fosse stato velocizzato e la voce di Tom fosse stata roca, ruvida ed aggressiva, ci saremmo sicuramente ritrovati dinnanzi ad un classico brano dei Celtic Frost.. cosa che, però, non è avvenuta. Dunque, il nuovo volto della band comincia decisamente a prendere forma e pur infarcendo, il Guerriero, i suoi riff di rimandi thrash, il tutto non sembra decollare nella classica direzione. Ennesimo episodio assai spiazzante, non c'è da dire, come spiazzanti sono le lyrics del brano in questione. Decifrarle è ancor più difficile che nel caso di "Mexican Radio": "Mesmerized" sembra difatti non presentare un nesso logico o una soluzione di continuità nella successione delle parole e delle immagini, a dir poco, queste ultime, giustapposte e non concatenate. In linea di massima, sembra quasi di trovarsi dinnanzi ad un carme, o ad una sorta di invocazione - evocazione compiuta da un giovane amante, intento a palesare un'indefinita figura femminile, assai vacua e vaga, non corporea, fluttuante. Un fantasma? Una Dea? Una Succube? Non possiamo ammetterlo con certezza, comunque la Donna "non donna" in questione sembra essere dotata di poteri magici, nonché dell'innata capacità di calamitare su di se l'attenzione, dato che il protagonista del testo sembra in sua totale balia, pur non riuscendo egli stesso a capacitarsi di cosa gli stia effettivamente succedendo. La figura assume connotati ancor più misteriosi verso il finale del brano, momento in cui ella viene dapprima paragonata ad una Vestale, antica sacerdotessa romana consacrata alla dea Vesta: obbligo di queste figure era quello di onorare la dea alla quale la loro vita veniva votata, rimanendo per sempre vergini. La purezza e l'innocenza della figura cantata in "Mesmerized" viene dunque fortemente rimarcata, come viene sottolineato il fatto che la ragazza fosse stata benvoluta dal Padre, quando era ancora in vita. Forse, dunque, ci troviamo dinnanzi ai sospiri di un giovane amante, che ricorda la sua Cara passata a miglior vita in maniera repentina, una ragazza pura, una figlia esemplare, una donna che durante la notte torna a far visita al suo uomo, pur essendo confinata ai limiti che una vita da spettro le impone ("You, who like the moon at night, haunted my mortal heart? You who made this ancient walls shine like divine marble? / Mesmerized, as love inflamed the night? / You, loved by your father, innocent as a vestal - dove" - "Tu.. che come la Luna, di note, possiedi il mio cuore mortale.. tu che rendi questi antichi muri splendenti come marmo divino / Sono ipnotizzato.. mentre l'amore infiamma la notte.. / Tu, amata da tuo padre, innocente come una vestale, come una colomba"). La tonante batteria di Reed St. Mark presto doppiata dalla ruggente chitarra di Tom Warrior cambiano decisamente rotta, dando il via al terzo brano del lotto, la tirata e ben più tradizionalista "Inner Sanctum", che beneficiando anche del roboante basso di Ain può presentarsi a tutto campo come la "classica" hit dei Celtic Frost dei tempi d'oro. La sezione ritmica domina ampiamente tutta la primissima parte del brano, momento in cui la chitarra del Guerriero si limita a scandire un riff ben preciso e ridondante, pesante quanto basta per farci ritornare indietro di svariati anni. In seguito il tutto diviene maggiormente più cadenzato, la chitarra assume un tono diverso, come se stesse per portarci in una nuova ed oscura dimensione di brutalità sonora. Detto - fatto, il sempiterno "UH!" di Tom Warrior fa in modo che la sua ascia scandisca un nuovo riff, a mo' di conto alla rovescia, un conto alla rovescia che ci catapulta in un'overdose di velocità, ampiamente annunciata dal rapido percuotere di tamburi di St. Mark. Il contesto torna maggiormente "à la Celtic Frost", possiamo apprezzare appieno un brano - carro armato che si lancia a velocità folle tingendosi prontamente di nero; la "rabbia" mista a "tristezza oscura" degli esordi sono tornate, i riff ricamati da Tom Warrior sprizzano misantropia sonora da ogni nota emessa, la sua voce torna roca e tagliente, "stregonesca", mentre i suoi colleghi, dal canto loro, cercano in ogni modo (riuscendovi) di amplificare un contesto che giova di questa ritmica così imperiosa e priva di "educazione". Altro cambio di rotta verso il minuto 2:18, un battere di charleston presenta un momento più cadenzato, in cui tutti i componenti del gruppo sembrano infarcire la loro musica di toni più sentenziosi e diretti. Una cadenza accattivante ma comunque dura, cattiva e per nulla "rilassante", anzi, una circostanza che serve solamente a presentare la nuova bordata di velocità che arriverà subito dopo, annunciata nuovamente da quell' "UH!" che mai ci stancheremo di udire, vero e proprio marchio di fabbrica del modus operandi del Guerriero. Un ottimo momento solista offertoci proprio da quest'ultimo, inoltre ci accompagna picchiando sino alla fine del brano, in cui la velocità e l'aggressività tornano nuovamente a farsi sentire prepotenti, per non lasciare prigionieri e fare in modo che tutti i fan della vecchia scuola rimangano sino ad ora soddisfatti e proseguano, senza abbandonarlo, l'ascolto di quest'album così impegnativo. Dopo due brani come "Mexican Radio" e "Mesmerized", questa "Inner Sanctum" sembra infatti comparire quasi per tranquillizzare lo "zoccolo duro", a ragione sicuramente spaventato da un inizio non propriamente tipico del gruppo che questi fan accaniti credevano, illudendosi, di conoscere appieno. Un'operazione "nostalgia"? La volontà di non celare troppo le proprie radici? Forse entrambe le varianti giungono ad essere accettabili, in ogni caso il brano è ben fatto ed assolutamente coinvolgente, da promuovere a pieni voti. Anche testualmente parlando ci muoviamo su linee ormai consolidate e ben definite. Le parole di "Inner Sanctum" (letteralmente Sancta Sanctorum, luogo di sepoltura sacro) vertono infatti su di un cieco e cupo pessimismo, una visione della vita vista come un perpetuo dolore privo di gioie o momenti felici. Il protagonista afferma di non trovare sollievo nemmeno durante la notte, egli non è beato dalla calma che il sonno dovrebbe portargli, ed afferma di essere totalmente incapace di sognare o di provare un attimo di tranquillità. E' una persona ossessionata da ricordi pesanti, difficili da scacciare, che lo tormentano ventiquattro ore su ventiquattro senza abbandonarlo mai, nemmeno per un secondo. L'unica soluzione è dunque la morte, paradossalmente vista ed equiparata ad un calmo mare mai battuto da tempeste o venti devastanti. In chiusura di brano, difatti, si parla proprio di questo: di una sorta di "paradiso" verso il quale la Morte conduce chiunque si trovi nelle condizioni del protagonista. Quando la nera falce avrà riscosso l'anima dell'uomo, egli potrà finalmente dirsi felice, perso nel nulla, dato che molto probabilmente non è contemplata nemmeno l'esistenza di un Dio, dopo la Morte. Saremo soli, in balia del niente. Un Niente non visto in maniera negativa, però, ma anzi accolto con gioia come un consolatore, il cessatore di un travaglio altrimenti noto come vita. ("Sleep brings no joy to me, remembrance never dies, my soul is given to misery? / My only wish is to forget in the sleep of death, Death is my joy.. / And what's the future, a sea beneath the cloudless sun. A mighty, glorious, dazzling sea, stretching into infinity? My inner sanctum, R.I.P" - "Il sonno non mi dona gioia, i ricordi non muoiono mai, la mia anima è destinata alla miseria.. / Il mio unico desiderio è quello di dimenticare, grazie al sonno eterno della Morte. La Morte è la mia Gioia.. / E qual è il futuro? Un mare sotto un cielo privo di nuvole. Un possente, glorioso, abbagliante mare, che si estende verso l'infinito.. il mio Sepolcro, Riposo In Pace"). Arrivati a questo punto, potremmo aspettarci realmente di tutto. Come se fossimo dinnanzi ad un bivio, le ipotesi da contemplare sono due. Un nuovo pezzo sui generis o un brano più legato al passato della band? La scelta propende per la prima ipotesi, e dunque ri-approdiamo su territori decisamente sperimentali, grazie all'arrivo della traccia numero quattro, "Sorrows of the Moon", che riprende a piene mani da "Mesmerized", per quel che riguarda i toni languidi e melanconici e la complessiva struttura del brano. Ad aprire le danze un riff roccioso, incalzante e diretto, ben sorretto da una sezione ritmica per nulla timida, anzi. Il basso di Ain si lascia ascoltare e la batteria di St. Mark non si lascia sfuggire un colpo, il tutto è funzionale a rendere la chitarra di Warrior ancor più incisiva e diretta, una potenza ritmica che sorregge appieno la capacità espressiva del chitarrista del gruppo, in questo brano particolarmente bravo ad alternare il suo normale stile ad uno ben più mesto e venato di tristezza, lento e doomeggiante, che di sicuro avrà ispirato non poche band tipicamente Depressive Black Metal. Dopo un inizio che lasciava presagire un qualcosa di aggressivo, infatti, tutto cambia come se si cadesse in un baratro dominato dal pessimismo e dalla rassegnazione. Un timido e sommesso arpeggio (ad opera del chitarrista Andreas Dobler, special guest del brano) scandisce tempi ben più dilatati, sui quali l'elettrica di Warrior si adagia narrandoci la tristezza, in tutte le sue forme. La voce del Guerriero torna languida ed istrionica, ancor più plateale ed "esagerata" che in "Mesmerized", intenta a declamare quelli che, a conti fatti, sembrano i versi di una poesia. Tom non sembra nemmeno cantare, in questo frangente: sembra stia veramente recitando, come se ci trovassimo a teatro, durante la rappresentazione di una tragedia greca, con tanto di cori atti a rendere, con i loro vocalizzi, il contesto ancor più drammatico. L'elettrica torna a farsi sentire a fasi alterne, ma è Dobler il vero valore aggiunto del pezzo. E' lui che permette a Warrior di poter declamare i versi maledetti, come sono Ain e St. Mark a cesellare il tutto (e finemente) grazie ad un apporto magistrale. Se in "Inner Sanctum" avevamo potuto udire la loro "normale" furia, in questa situazione li troviamo maggiormente più precisi e calmi. Poliedrici ed adatti ad ogni circostanza, dei musicisti completi ed assai validi, degni di condividere la scena con un talento come Tom Warrior. Il finale del brano, come già detto, anticipa e di netto quello che sarà poi il trionfo di un certo tipo di Black Metal, basato su un modo di concepire la musica meno brutale e maggiormente più introspettivo. La cosiddetta seconda ondata, che ai Celtic Frost doveva e deve molto, qualsiasi sia il periodo preso in esame della band svizzera. Sperimentale o meno che sia il periodo che si decida di analizzare. Le liriche, questa volta, non sono originali: risultano essere, difatti, una traduzione in inglese della ben nota poesia di Charles Baudelaire, "Tristezze della Luna", celeberrima composizione facente parte dell'opera "I Fiori Del Male", pubblicata per la prima volta nel 1857. Una poesia delicata e di rara bellezza, che sicuramente non stona all'interno di un contesto "estremo" come quello dei Celtic Frost. Spiegata sinteticamente, l'idea di Poesia che Baudelaire teorizzava veniva difatti esplicata splendidamente nel titolo della raccolta "I Fiori del Male", appunto. La Poesia, di per se arte nobile, è come un fiore candido ed innocente, che si ritrova a sbocciare però dal Male, ovvero da una realtà cruda, barbara, fatta di tristezza e malinconia. La Poesia sorge da questo estremo background, dunque non è strano che un'opera come "Tristezze della Luna" trovi ampio spazio in un contesto squisitamente tetro e "malvagio" come un disco dei Celtic Frost, band da sempre attenta ai lati più celati e terribili dell'esistenza, quali la depressione e la totale perdita di sogni. Nello specifico, "Tristezze.." altro non è che il resoconto dell'attività poetica: una poesia che paragona la Luna, astro diafano fonte di ispirazione per generazioni di poeti, ad una bellissima donna assopita, che ogni tanto lascia cadere una lacrima - perla, che solo il poeta può scorgere e che solo egli potrà serbare nel suo cuore, in modo tale che il Sole (rappresentante della gente comune) non la veda; quest'ultimo non capirebbe, e la romantica attività della donna ne risulterebbe svilita e mal compresa, privata del suo spessore umano ed artistico. Una Luna che incanta, che fa riflettere, che spinge chiunque sappia osservarla a comprendere quante siano in realtà le sfaccettature dell'umana esistenza, di come questa non possa ridursi ad un cumulo di leggi matematiche e geometriche. Giungiamo al giro di boa con l'avvento della quinta traccia, "Babylon Fell (Jade Serpent)" la quale presenta un inizio ben più dinamico ed aggressivo della precedente traccia, non a torto, dato che i Celtic Frost, furbissimi, decidono ancora una volta di recuperare stilemi più consoni alla tradizione descritta sin da "Morbid Tales" e perfettamente concretizzata in "To Mega Therion". Pur senza l'oppressivo trascinarsi cupo e melanconico di brani come "Dawn of Megiddo", giusto per citarne uno, il brano si presenta comunque come la classica "decelerazione" tinta di doom dei Celtic Frost, i quali sono intenti, in questa prima parte di brano, a puntare sull'aggressività della straniante lentezza piuttosto che sugli assalti sonori senza quartiere. Al solito, la chitarra di Warrior è sporca quanto basta ed espressiva / aggressiva quanto serve, riesce a ricamare riff cadenzati e ben ritmati, perfettamente sorretti ancora una volta da St. Mark ed Ain, macchine del ritmo instancabili. Il cantato di Tom, inoltre, abbandona nuovamente i toni istrionici uditi in precedenza, per concentrarsi su di uno stile maggiormente crudo e luciferino, il classico stile "à la Warrior". Piccole accelerazioni sono udibili verso il minuto 1:06, ma il tutto rientra presto per conformarsi agli standard maggiormente cadenzati udibili sin dall'inizio, con un Guerriero intento a declamare il titolo del brano; un nuovo "UH!" che fan ben sperare.. e subito cambiamo drasticamente rotta,  ritrovandoci dinnanzi ad un -seppur breve- momento "Mesmerized" / "Sorrows of the Moon". Ecco che il cantato di Warrior torna melanconico e teatrale e che il contesto musicale si ri-tinge di gotico, il tutto verso il minuto 1:50. Torna persino la splendida ed ammaliante voce della sirena Claudia Maria Mokri, intenta con i suoi vocalizzi a fornire a Tom un sottofondo adeguato al suo struggersi. Finito il momento "sui generis" udiamo un'espressione solista di un Warrior sugli scudi, espressione finemente cesellata dal basso di Ain, preziosissimo in sede di ritmica quanto in quella di rifinitura. Il brano si avvia verso la fine riprendendo gli stilemi iniziali, concludendosi senza troppe sorprese e lasciandoci comunque piacevolmente colpiti (anche per via di un nuovo "UH!", questa volta posto verso il finale). L'intervallo "gotico" nessuno se lo sarebbe mai aspettato, il tutto ben si amalgama ad un contesto "estremo" che fa di chitarre frastornanti e ritmiche roboanti il suo marchio di fabbrica. Un momento tipicamente Celtic Frost intervallato al nuovo che avanza, benissimo così. Come nel caso di "Mesmerized", anche in questo particolare frangente ci troviamo dinnanzi a liriche assai criptiche non perfettamente comprensibili. Il titolo, in questo caso, è comunque molto d'aiuto: sembra, infatti, che la parola "Babilonia" venga inteso nel senso biblico del termine. Come ben ricordiamo, nella Bibbia "Babilonia" altro non è che la personificazione di ogni male, perversione e malvagità; la città la cui società ha sfidato le leggi divine, che ha adorato un uomo (il loro Re, Nabucodonosor) come il Dio che invece sarebbe dovuto essere onorato e rispettato. La città culla del vizio e della lascività, il cui nome in seguito indicherà "la Grande Meretrice" che, nell'Apocalisse di San Giovanni, cavalcherà la bestia a sette teste, soggiogando i potenti del mondo, spingendoli a governare in maniera iniqua, dispotica e disonesta. Il testo sembra narrare la sua caduta, profetizzata sempre nella Bibbia. Una volta che la Grande Meretrice verrà sconfitta, allora il Mondo potrà finalmente vivere in pace e serenità. Il testo sembra quindi narrare di questa eventualità, alternando visioni più consone ad una descrizione della città / meretrice ancora nel pieno delle sue forze ("Lights have faded, euphoria is dead, past and present, exalt of the weird / Distraction and envy, Babylon fell, festal perishing, Babylon fell / Tears drift in the shadows sleep, turn innocence into excess? Fragments of a dying world and destiny lies beneath" - "Le luci muoiono pian piano, l'euforia è morta, passato e presente, esaltazione della stranezza / Distrazione ed invidia, Babilonia cade, la festa è finita, Babilonia cade / Le lacrime scivolano nel sonno delle ombre, l'innocenza si tramuta in eccessi? frammenti di un mondo morente, il Destino si avvicina"). Può dunque avere inizio la seconda parte di questo spiazzante LP; una seconda parte aperta dalla sesta traccia, "Caress Into Oblivion (Jade Serpent II)", aperta da un'inquietante arpeggio notevolmente effettato, un modo di suonare che sicuramente avrà suscitato notevole ascendente sugli Immortal, se ci soffermiamo ad ascoltare unicamente le note emesse dallo strumento di Warrior, il quale sembra proprio anticipare lo stile che Abbath e Demonaz adotteranno in diversi frangenti delle loro canzoni. Se ascoltiamo questa intro in toto, invece, ci accorgiamo di una presenza assai particolare.. ovvero, quella di una voce intenta a declamare una strana sorta di nenia dal gusto arabeggiante, quasi ci trovassimo immersi in una carovana di tuareg, impegnati in un lungo viaggio; nel mentre, questi tristi vocalizzi vengono emessi, per ricordare una tradizione arcana e perduta fra i mille misteri dell'oriente. La chitarra accompagna i vocalizzi (sembra quasi una sorta di "scat" più che una sequenza di parole "vere") ed il brano continua così per qualche secondo, finché i toni non ritornano più aggressivi e tutti gli strumenti tornano a scatenarsi. Warrior pesta duro, ricamando un riff dal denso sapore doom, comunque rimanendo fedele allo stile canoro di brani come "Mesmerized": dapprima, un rantolo lascivo e voluttuoso, in seguito la solita verve languida e quasi annoiata. Tutto cambia, Ain e St. Mark accelerano e di conseguenza anche il Guerriero, che torna al suo modo di cantare aggressivo e ruvido, abbandonando lo stilema languido e "timoroso" sfoggiato pocanzi. I tamburi di St. Mark rimbombano e la velocità "cala", si ritorna a "doomeggiare" ma Tom non abbandona il cantato pungente ed acido. Un nuovo rantolo voluttuoso, l'andatura Doom non demorde e finalmente, dopo tanti "ooh.." ritorna poderoso il marchio di fabbrica di casa Warrior, quell' "UH!" che sancisce l'inizio di una nuova cavalcata sostenuta a velocità molto più avanzata. Notiamo poi il sopraggiungere di un assolo assai particolare, ove le note scorrono assai melodiche ma comunque velate di una sorta di "rugginosità", sporche e stridenti, eseguite molto velocemente ma non troppo da far sfociare il tutto in un assalto à la "Circle of the Tyrants", per intenderci. Momento velocità messo ancora una volta a tacere, ritorna il Doom e la cadenza oscura, di conseguenza i toni gigioneschi ed istrionici di Tom fanno di nuovo capolino. Il nostro recita come se si trovasse a teatro e non lesina una performance da agone tragico. Si ri-accelera nuovamente (mantenendo un'andatura molto Rock n Roll), Ain e St. Mark si dimostrano perfettamente avvezzi a questi cambi di tempo e, grazie al loro apporto, il Guerriero è capace camaleonticamente di cambiare pelle a suo più totale piacimento. Ritorna l'aggressività Doom, la sua voce si rifà infernale, il titolo viene scandito a ripetizione.. un ultimo "ooh.." accompagna il pezzo alla fine, che stavolta viene chiuso dal rimbombo di un gong (almeno così sembra) e dal ritorno della voce arabeggiante sentita in precedenza, che continua declamare mestamente, sfumando. Il testo è ancora una volta visionario ed a tratti privo di senso, in quanto sembra di trovarsi dinnanzi più ad una serie di giustapposizioni di immagini e sensazioni varie, piuttosto che di fronte ad un racconto coerente e ben strutturato. La vena pessimista e surrealista di Warrior in questo caso viene più che esaltata, anzi glorificata (se non portata a livelli di insuperabile parossismo) da tutta una sequela di "episodi" che sembrano racchiudere un minimo comun denominatore: un pessimismo di forgia cosmica. E' come se il protagonista delle lyrics fosse letteralmente stanco della vita e contemporaneamente arrabbiato per la caducità di quest'ultima (l'alternanza fra "languida noia" e "impeto" nella voce del Guerriero potrebbe essere un indizio a favore della tesi qui avanzata); arriva dunque a sfogarsi compiendo una sorta di riflessione capace di dipingere immagini oscillanti fra Dalì e Giger, se volessimo in qualche modo fornire degli exempla visivi. Una riflessione che, per l'appunto, si traduce con la resa in italiano del titolo: "Caress into Oblivion", "una carezza nell'oblio". Quasi, come dire: la felicità è un attimo nel mezzo di un perpetuo dolore. Una tesi dunque al limiti del Leopardiano, tanto più che assistiamo ad una sorta di "condanna" circa gli affanni dei quali l'uomo volutamente si fa carico per riuscire a sfuggire alla noia ed al tedio. I piaceri, la volontà d'essere eternati circa grandi imprese.. tutto è inutile, tutto è solamente un rimandare la fine inequivocabile ("Le ali della lussuria, la tentazione, la fama.. Templi di Prodezze, lasceranno l'uomo fra le rovine.. una carezza nell'oblio).  Altre frasi come "il mio cuore, rozzo ed ormai decaduto.."  circa le condizioni del protagonista, ed altri passi più generali circa la vita, come "cade la luce, false carezze, mondani accattoni, Costume della Morte" sembrano dunque avallare le tesi proposte in questa sede. Arrivati alla settima traccia, occorre fissare dei paletti ed avvisare, per dovere di cronaca, i Metalheads più intransigenti. Quanti di voi hanno pregiudizi nei riguardi della musica elettronica? Spero nessuno, perché la strumentale "One in Their Pride" (creata a quattro mani con Jan Nemec, produttore e programmatore) è, esattamente.. un gran bel brano elettronico, concepito mediante drum machine e mediante l'accostamento di suoni provenienti da strumenti (un violino e la chitarra elettrica), questi ultimi affiancati da vari synth e produttori di effetti vari. Per quanto i toni languidi di Tom, per quanto "Mexican Radio", per quanto la messa in musica di una poesia di Baudelaire.. per quanto tutto questo ci avesse "messo in guardia" circa l'originalità di questo disco, è proprio arrivati qui, amici lettori, che ne abbiamo la prova definitiva: "Into The Pandemonium" è un album concepito e generato per suscitare polemiche e concedere ai musicisti un divertimento quasi "Palazzesco" ("il poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente, non lo state ad insolentire, lasciatelo divertire!"). E proprio come il buon Aldo, anche Tom è conscio di quanto la figura del Vate, in Arte, sia ormai sorpassata ed inutile. I Celtic Frost vogliono divertirsi, sbizzarrirsi, inventarsi un qualcosa che li soddisfi appieno ma lasci noi attoniti e spaesati. Non devono spiegazioni a nessuno, non devono giustificarsi, non devono rendere conto nemmeno al loro pubblico. Questo è il progresso, questa è l'Arte, questo è l'abbattimento totale delle frontiere. Un monito perentorio: "questo è quel che noi vogliamo fare, se vi piace bene, altrimenti.. faremo a meno di voi!". Una strumentale elettronica in un album  destinato ad essere il successore di un capolavoro del black - thrash metal. Chi se lo sarebbe mai aspettato? Eppure, eccolo qui, "One in Their Pride", in tutto il suo splendore. La Drum Machine si introduce mediante precisi colpi, quasi marziali, e subito dopo si lascia ad andare ad un ritmo accattivante e coinvolgente, quasi "da discoteca"; un andamento che fa venir quasi voglia di ballare, se non fosse per più di qualche accorgimento che rende il contesto comunque "nero" ed inquietante, un Inferno / Pandemonio che comunque ci fa riconoscere la mano dei nostri Celtic Frost. Udiamo difatti un sottofondo quasi "ventoso", un suono ripetuto all'infinito che quasi riproduce il sibilo del vento, voci confuse che sembrano parlare tramite delle radiotrasmittenti (quasi fossero degli agenti di polizia impegnati a comunicare concitatamente fra di loro), note "elettroniche" a tratti "industrial" che provengono fuori ogni tanto come scintille impazziti, un bell'accompagnamento di basso ed un tocco di violino che ogni tanto si presenta e subito sparisce. Il tutto unito alla chitarra elettrica che ogni tanto spunta fuori cercando di emergere, ma venendo subito soffocata dagli elementi "futuristici". Un pezzo assai evocativo, che senza il ritmo accattivante della drum machine potrebbe effettivamente farci pensare ad un qualcosa di confuso ed inquietante. Tratti che comunque emergono, anche se la presenza di questa "batteria" è atta a rendere il tutto non tanto "pauroso" quanto grottesco. Come se ci trovassimo immersi in un sogno strambo, privo di significato, senza né capo né coda. Una sorta di pavor notturno nel quale ci sentiamo bloccati all'interno di una dannata festa onirica, ove volti grotteschi e voci confuse ci circondano, non lasciandoci in pace nemmeno per un secondo. Cerchiamo di svegliarci ma è tutto inutile, più tentiamo più il sonno sembra non spezzarsi.. finché non udiamo il finale, in cui una voce sembra ripetersi quasi volesse ipnotizzarci e subito l'incantesimo si spezza. Ci ritroviamo nel nostro letto, svegli ed in un bagno di sudore. Tutti avrebbero potuto campionare una voce inquietante e farle ripetere in loop un qualcosa di "strano", magari con dei rumori inquietanti in sottofondo. I Celtic Frost osano, e ci propongono un qualcosa di STRANO. Uno "strano non strano", nel senso che comunque è, nonostante il brusco cambio di stile, un pezzo dei Celtic Frost a tutti gli effetti. Indole ribelle, accorgimenti sonori che lo tingono di "nero", un brano "estremo", comunque, per la sua particolarità. Cosa volere di più? Cambiamo totalmente prospettiva con il sopraggiungere dell'ottavo pezzo, "I Won't Dance", aperto da un riff simil - Thrash Metal. Una partenza comunque non "irresistibile", nel senso, non Thrash al 100%, in quanto possiamo udire una sorta di andatura " 'n' roll" in quella che è la struttura dei riff scanditi da Tom. Difatti, seppur "estremo", il contesto risulta sin da subito molto orecchiabile e coinvolgente, quasi si stesse cercando di riprendere il modus operandi della drum machine udita in precedenza. Dunque, il normale stile del Gelo Celtico unito ad una volontà di risultare scanzonati ed orecchiabili: siamo lontani dalla magniloquenza di "Mesmerized", ritorniamo più sui lidi propri di "Mexican Radio", anche se il brano tutto non risulta "troppo" easy listening. Il Thrash 'n' Roll al quale i nostri danno vita non è certo da condannare, anzi, la chitarra di Tom ci delizia proponendoci diversi accorgimenti per nulla disprezzabili (note lunghe di chitarra assai melodiche e "tremolanti" unite a dei riff molto più massicci), Ain e St. Mark si dimostrano anch'essi perfettamente all'altezza del compito. Tutto sembra procedere per un verso, questa volta, "normale".. ma. MA, volutamente in maiuscolo. Avete dimenticato che album stiamo ascoltando? Ebbene, se la voce di Tom sino ad ora non è stata (troppo) istrionica ma comunque "giusta" pur nel suo carattere "clean", diviene più aggressiva verso il secondo 00:53, in cui torna "ruvida come sempre" e.. viene supportata da un coro assai particolare. Molto particolare, terribilmente particolare. Un coro, una voce che avrebbe avuto miglior e maggior spazio in un disco come "Saturday Night Fever" piuttosto che in "Into The Pandemonium". Una voce femminile che rasenta.. anzi, che abbraccia quasi totalmente lo stile disco dance e dà vita ad un duetto con Tom, un duetto disarmante nella sua genialità. Dapprima, la voce di H.C 1922 (pseudonimo dell'artista coinvolta) sembra effettata in maniera tale che a cantare siano proprio i tre di "Stayin' Alive", con Tom che si fa sentire più "arrabbiato", stile che il Guerriero mantiene anche nel ritornello, in cui la voce (molto bella, per altro) della donna diviene più chiara e meno effettata. Piuttosto che l'Headbanging, verrebbe da indicare cielo e terra con gli indici, buttando il chiodo ed indossando una bella camicia a collo alto, aperta sul davanti. Il ritornello è orecchiabilissimo, entra in testa e non sfugge, nemmeno dinnanzi alla nostra riluttanza iniziale. La voce di H.C ci dà poi il colpo di grazia, il tutto stagliato su una chitarra assai più "sorniona" di quanto udito in inizio pezzo. Solo un assolo assai più "metallico" del tutto ci prende per la collottola e ci riporta in un atmosfera di borchie, pelle e catene. Warrior riesce nuovamente ad offrirci una grande performance, assieme ai suoi degni compagni St. Mark (bravissimo a mantenere uno stile molto più variabile e cadenzato, lontano dal suo "normale" fatto di "pestaggi" senza quartiere) ed Ain, che si calano senza problemi in un contesto particolare quanto, comunque, gradevole. "I Won't Dance".. "io non voglio ballare". Ed invece, qui si balla, paradossalmente! Una prova spiazzante, forse uno dei singoli "di punta" del disco, in grado di catalizzare su di se l'attenzione e perché no, magari conquistarsi qualche passaggio in televisione. Un falso motivo da hit parade, in quanto ai nostri non era mai interessato finire in TV, quasi una parodia realizzata per sbeffeggiare chi, invece, pur di conquistarsi una copertina metterebbe all'asta la sua dignità. Per dire: "le cose che voi fate seriamente, noi le facciamo quando ci va di scherzare. Ed anche meglio di come le fate voi". Tanto di cappello ad un brano incredibilmente ben riuscito, che si conclude con la ripetizione del ritornello, il quale sfuma pian piano. A discapito della struttura del brano, le lyrics tornano ad essere nuovamente molto criptiche, ed addirittura quasi Lovecraftiane, per certi versi. Difatti, il protagonista di questo testo sembra immerso in una sorta di "viaggio" in un mondo dai connotati spiritual-onirici, un mondo parallelo al nostro, forse sperduto nello spazio, in cui egli entra in contatto  con gli Antichi ("elders"), misteriose entità denominate proprio nello stesso modo con il quale o scrittore H.P. Lovecraft appunto era solito riferirsi alle sue mitologiche e fantastiche creature. All'interno di questo viaggio succedono le cose più disparate: il protagonista sembra perso in un marasma ed una confusione più unici che rari, non sembra ben capire che cosa accade e soprattutto si rifiuta categoricamente di prendere parte ad una danza (il titolo del brano, già tradotto, è eloquente in questi termini). Come giustificare, però, la presenza del ballo? Andiamo per gradi: dapprima il Nostro si rende conto d'essere stato catapultato in un nuovo mondo, che egli definisce deviato ("un'avventura in questo mondo perverso, il mio corpo sotto i cieli") e si ritrova faccia a faccia con queste entità, alle quali domanda sarcasticamente se esse credono nell'umanità, in quanto l'uomo inverte i ruoli: finge, canzonando gli Antichi, di non essere stato rapito da questi, ma di esser stato lui a volerli contattare, in una sorta di ribaltamento della comune situazione "terrestre rapito da alieno" ("Oh Dei, ditemi.. ci credevate, alla mia terrestre invocazione?"). Arriviamo dunque al tema del "ballo". Sempre secondo Lovecraft, il Demone Sultano (ovvero l'entità più potente di tutto il suo pantheon) è una creatura denominata Azathoth, un essere non essere che dimora al centro dell'universo, seduto su un trono (proprio nel testo vengono citati anche dei "Thrones of Fake Life", ovvero "Troni di Vite fasulle"), bestemmiando e mormorando. La sua capacità cerebrale venne a diminuire dopo un brusco avvenimento, per cui il Dio Sultano si ritrova in uno stato di incoscienza, che gli altri Dei fanno in modo di non far cessare mai? Come? Ballando ininterrottamente per lui, suonando e danzando senza sosta. Se difatti Azathoth si svegliasse, il mondo come lo conosciamo finirebbe, dato che l'entità ordinerebbe la distruzione totale dell'universo. Il protagonista si rifiuta dunque di danzare, forse proprio per fare in modo che il Dio si risvegli, chi può dirlo. Un testo onirico ed a dir poco criptico, che non si svela e lascia molto all'immaginazione. Giungiamo di gran carriera al nono e penultimo brano della tracklist "ufficiale", "Rex Irae (Requiem)", track creata inizialmente come prima parte di un requiem suddiviso in tre parti, requiem del quale vedranno la luce unicamente due dei momenti ad esso collegati, questo episodio appunto ed il terzo, che apparirà nell'album "Monotheist" del 2006 (la seconda parte, invece, non vedrà mai la luce). L'incipit di questa "Rex Irae.." è a dir poco classicheggiante: ad aprire le danze, infatti, oltre alla tagliente chitarra di Tom Warrior che ben si presta a questo excursus di musica classica, udiamo i violini di Malgorzata Blaiejewska Woller ed Eva Cieslinsky, i quali arrivano a fendere l'aria con le loro note acute e melodiche. Timpani sinfonici scandiscono il tempo assieme alla batteria di St. Mark, mentre la possente (e seducente, incomparabilmente eterea) voce di Claudia Maria Mokri giunge alle nostre orecchie come il dannato canto di una sirena, una voce che riesce a ritagliarsi il suo spazio su di un andamento oscuro e ritmato, incedente, una specie di "ritorno" alle origini (l'effetto "rallenty" già udito in "To Mega Therion") mutuato però attraverso l'esperienza sperimentale di questo "Into the Pandemonium". Gli arricchimenti classici come la voce femminile ed il suono delle lunghe e solenni note emesse da corni francesi assai ben suonati (questi ultimi appannaggio totale di  Anton Schreibert) fanno si che il brano si tinga di profonda "drammaticità", quasi ci trovassimo dinnanzi ad un "Mesmerized" ancor più "carico" a livello di teatralità e di istrionismo musicale. La voce di Tom  torna difatti ad essere "lasciva" e declamatoria, in netto contrasto con quella di Claudia che invece risulta molto più squillante e decisa; paradossalmente, è lei a rendere omaggio alla "cattiveria" che udiamo di sottofondo, piuttosto che Tom. Un andamento dunque lineare, aggressivo e dotato di una ritmica costruita a mo' di marcia imperiale (bravissimo St. Mark a programmare i suoni delle percussioni a supporto del suo drum kit), ma cesellato finissimamente da questi accorgimenti sonori degni di uno sviluppatissimo orecchio musicale, quello del compositore principale della track, ovvero Tom Warrior (tutte le canzoni dal Lato B di "Into The Pandemonium" sono infatti suo totale appannaggio, escluse le prime cinque track, frutto di collaborazioni con Ain e St.Mark), che si dimostra un musicista esperto e capace a 360 gradi non solo "metallici". L'andamento risulta costante fino al minuto 3:32, minuto in cui notiamo un'improvvisa accelerazione. L'ambiente si surriscalda e diviene più pesante, a tratti Doom, il Guerriero si lascia andare ad un assolo molto ben eseguito e pesante al punto giusto, supportato da un'intera sezione di cordofoni messa a sua disposizione: la viola di Jurgen Paul Mann, il violoncello di Wulf Ebert, i violini già uditi, i timpani sinfonici che scandiscono il tempo in maniera ancora una volta imperialmente imponente.. tutto è messo a servizio dei Celtic Frost, autori in questo frangente di un vero e proprio capolavoro nel capolavoro. La voce di Warrior torna addirittura leggermente più aggressiva, salvo poi tramutarsi nuovamente in un qualcosa di più "delicato", dando vita ad un duetto da brivido con la Mokri, anch'essa più teatrale e meno squillante di quanto udito prima. Chitarra, basso e batteria continuano a mantenere un andamento Doomeggiante rimanendo fedeli al culto del "rallenty" aggressivo al quale i Celtic Frost ci hanno sempre abituati, i particolari vocalizzi - virtuosismi di Claudia si fanno sempre più potenti e variegati, le "apparizioni" ("toccata e fuga", è il caso di dirlo) dei violini e del violoncello rendono il tutto ancor più decadente e cupo. Un finale sfumato, un brano condotto alla fine pian piano, senza fretta, senza bruschi cambi di tempo o comunque "troncamenti" improvvisi. Menzione d'onore per il direttore Lothar Krist, "cervello" della mini orchestra che qui abbiamo avuto modo di ascoltare, nonché prezioso aiutante di Warrior nel lavoro di coordinamento fra le varie sezioni di strumenti. Per quanto riguarda il testo, ci troviamo nuovamente di fronte ad una complessità generale. Anzitutto, le lyrics sembrano essere organizzate a mo' di opera, appunto. Atti con il loro nome, all'inizio dei quali è chiaramente scritto il momento "topico" e particolare di tutto il Requiem. Abbiamo un'introduzione denominata semplicemente "Introduzione: L'Ira del Re", in cui notiamo che i personaggi dell'opera ("Re dell'Ira", interpretato da Tom e "La Voce del Sogno" interpretata da Claudia) hanno un breve dialogo, dai tratti comunque indecifrabili. Da questo capiamo che il Re in questione ha seguito le orme di suo padre, divenendo anch'egli un condottiero, come il genitore. Il resto dei versi paiono assai criptici, più espressioni metaforiche che messaggi concreti. Sembra quasi che, raccogliendo l'eredità del padre, il Re debba a tutti i costi dimostrare di essere all'altezza del leggendario sovrano precedente. Arriviamo così alla seconda parte, "Overture / Il Re dell'Ira", nella quale ci viene dato un indizio su chi sia, molto probabilmente, questo condottiero protagonista. Pur con qualche riserva, i diversi riferimenti al mondo orientale potrebbero farci pensare nientemeno che ad Alessandro Magno, personaggio famoso, poi, noto anche per i suoi scatti d'ira ("wrath", appunto), in uno dei quali arrivò persino ad uccidere uno dei suoi migliori amici. Alessandro che poi fu anche un "figlio d'arte", in quanto suo padre Filippo veniva visto come uno dei più grandi Re dell'antichità. Tutto sembrerebbe combaciare, anche perché i Celtic Frost fanno anche riferimento, nella quarta parte ("Ricordo, I") a Babilonia, annessa all'impero Alessandrino nel 331 a.c dopo la sconfitta del re persiano Dario ("Lì stanziamo, dinnanzi i portoni di Babilonia") e ad un'altra città, Persepoli, una delle cinque capitali dell'Impero Achemenide, sgominato da Alessandro nello stesso periodo della presa di Babilonia ("gustammo il vino di Persepoli"). Altri riferimenti "storici" potrebbero essere quelli ai bagordi orgiastici, piaceri ai quali Alessandro era solito lasciarsi andare ("percepisco il peso della lussuria?"). Per il resto, verso il quarto atto ("Ricordo, parte III") il conquistatore sembra tirare le somme delle sue scorribande ("Quest'ultima regione.. pianti orgiastici, lacrime e parole.. Rabbia e potenza.. oh dei, per voi! Prima del trono.. -la morte"), sino alla definitiva conclusione, nella quale si spendono nuovamente parole criptiche e di difficilissima interpretazione. Il riferimento alla giada ("jade") sembra creare un collegamento con altri due brani del lotto, "Babylon Fell" e "Caress the Oblivion", entrambi denominati con il sottotitolo "jade serpent", ovvero "il serpente di Giada". "Rex Irae" è quindi la conclusione di una storia sconclusionata e visionaria, costruita ammassando fra di loro immagini e sensazioni, in quel che sembra realmente la tela di un pittore surrealista. Concetti e messaggi ben noti all'autore, sconosciuti però ai più. Sta a noi arrovellare il Gulliver e capire (o meglio tentare di capire) cosa effettivamente si celi, dietro questi versi così impalpabili. Dopo un vero e proprio viaggio ai confini della realtà giungiamo dunque alla fine del Pandemonio, l'ultima traccia, una strumentale di nemmeno due minuti che esalta e rende ASSOLUTA protagonista la sezione orchestrale. Difficilissimo descrivere in poche parole un brano (seppur breve) come "Oriental Masquerade". E' un brano che gioca molto sulle suggestioni e sulla volontà di esprimere, suscitare e perché no, anche spiazzare; meglio, però, procedere per gradi. A darci il benvenuto è il corno di Anton Schreibert, che, imperiale come il suo corrispettivo "vichingo", suona note lunghe e minacciose, le quali si stagliano sulla precisa batteria di St. Mark, la quale batte un tempo semplice ma comunque possente e granitico, garantendo la massima stabilità a tutti gli strumentisti. I timpani sinfonici battono anch'essi a tempo ed in maniera sublimemente precisa; colpi potenti, puntuali e pungenti, che vano ad unirsi alle note dei fiati, le quali si fanno meno lunghe e più cadenzate anch'esse. Il pathos cresce, subentrano i cordofoni, i quali vanno a cesellare finemente il lavoro qui compiuto dalle percussioni e dal corno, rendendo il tutto più misterioso, melanconico e tragico. Una possente marcia tinta di nero ed ineluttabilità dai violini di Woller e della Cieslinsky, dalla viola di Mann, dal violoncello di Ebert, strumenti che con le loro melodie (pungenti quanto aculei) vanno ad arricchire meravigliosamente il sound tutto. Cresce la tensione, è chiaro che il tutto voglia portarci ad una seconda fase del brano, differente dalla prima, una fase che viene anticipata da un crescendo e poi da un improvviso stacco, che ci conduce all'interno di una "marcia" ancor più militareggiante, ma non troppo Certo preciso e marziale, ma non eccessivamente. Un qualcosa di "grasso e grosso", sornione, quasi scanzonato, parossistico, grottesco, allucinante, degno di un incubo. Un incedere inquietante e malvagio, la perfetta colonna sonora di una festa dei folli alla quale siamo nostro malgrado invitati. Proviamo a chiudere gli occhi, ripetendo a mente il titolo del brano, nella nostra testa. La Mascherata Orientale.. La Mascherata Orientale.. La Mascherata Orientale.. ecco che le ombre prendono forma, il suono degli strumenti, crudele ed evocativo, tinge sulla tavolozza del nostro cervello ogni tipo di stranezza. Nere figure ammantate di porpora, danze esotiche, maschere grottesche e volti deformati. Tutti sembrano danzare, il vino scorre a fiumi, l'ebbrezza è ormai la padrona della festa. Un divertimento orgiastico, degno di un baccanale, una festa in cui non vi sono regole e dove tutti sono invitati, una celebrazione ove solo i più folli potranno primeggiare. Quelle crudeli espressioni, quelle facce stravolte, le urla, i fremiti.. questa è la festa alla quale i Celtic Frost hanno deciso di invitarci, creando un brano dal sapore classico, a tratti barocco, volutamente esagerato e, seppur semplice nella sua struttura, capace di evocare immagini su immagini, mettendo in moto la nostra fantasia, facendoci capire, infine, qual è il vero spirito di questo Pandemonio musicale. Una festa dei folli, appunto. Sia lodata, dunque, la follia!


Bonus Track: notiamo come nella versione canadese ed americana di "Into The Pandemonium" la track "Sorrows of the Moon" sia sostituita con la sua "corrispettiva" francese, "Tristesses de la Lune", assai dissimile per concepimento e struttura. Le liriche rimangono invariate, nuovamente viene citata la poesia di Baudelaire già analizzata in "Sorrows.." appunto, solo che, in questa occasione, si opta per un vero e proprio recital, in cui è la divina voce di Manu Moan ad essere padrona della scena, accompagnata sempre dalla sezione orchestrale già incontrata nel corso delle altre dieci tracks. Gli esecutori non cambiano, unica differenza sta appunto nella voce, sempre femminile ma in questo caso affidata alla Moan e non a Claudia Maria Mokri. L'inizio della track è a dir poco travolgente: i cordofoni si fanno sentire, delicati e per nulla "inquietanti" come in "Rex Irae" o in "Oriental Masquerade", anzi assai posati e mesti, quasi ci trovassimo ad assistere ad una sorta di celebrazione solenne che i nostri stanno opportunamente degnando della loro presenza. La tensione è palpabile, il suono dei violini, del violoncello e della viola fusi assieme crea uno splendido climax nel quale è impossibile non perdersi o comunque adagiarsi, lascivamente, persi e tentati dalla splendida ugola della Moan, la quale declama i versi di Baudelaire con trasporto quasi erotico, scatenando di pari passo depressione e sensualità. I corni fanno il resto, la chitarra di Tom sporca quel tanto che basta ed i cori impreziosiscono il brano fra una strofa e l'altra. Un momento anomalo quanto "One in Their Pride": dall'elettronica alle poesie, gli elementi sorpresa fioccano che è un piacere e non smettono mai di sorprenderci. Di sicuro non ci si annoia, quanti metallari, loro malgrado (non per stereotipare, ma conoscendo gli amanti dello speed-thrash-black di allora..) si saranno scoperti poeti e.. "romantici", ascoltando questo brano, posto all'interno del disco di una band allora (ed anche oggi) fra le assolute regine dell'estremo? Proiettiamoci nel 1987, immaginiamoci nella nostra cameretta tappezzata di poster dei Venom e dei Judas Priest, osserviamo la nostra collezione di vinili rigorosamente thrash o speed, o proto - black. "Reign in Blood" e "Carnivore" fanno capolino dalle mensole assieme a "Welcome to Hell" e "Pleasure to Kill", gli fanno eco "Filth Hounds of Hades", "Eternal Devastation" ed "In The Sign of Evil".. e noi siamo lì, intenti ad ascoltare una leggiadra fanciulla nell'atto di declamare versi di Baudelaire, rivolti alla luna e agli amori mancati! Qualcosa non quadra, vero? E' proprio questo, l'obbiettivo dei Frost.. spiazzarci. Catapultarci in situazioni inusuali nelle quali ci troviamo, arriviamo a porci mille domande ma.. per qualche strana ragione, molti di noi non riescono ad allontanarsi. Sarà il magnetismo esercitato dalla Moan? La genialità di Tom Warrior? Chi può dirlo, oggettivamente si può solo affermare che certe trovate hanno SICURAMENTE fatto la fortuna di un'intera scena avant-garde moderna.

Con quest'ultima analisi, si chiude ufficialmente questo bizzarro ed al contempo monumentale viaggio intrapreso all'interno del pazzo mondo di Warrior e soci. E' bene, prima di enunciare le solite riflessioni, lasciare la parola ai nostri protagonisti, per comprendere ancora meglio lo spirito con il quale questo disco è stato concepito e realizzato. "si può parlare di molti altri sentimenti, non solo di rabbia e distruzione" (cit. Martin Eric Ain); "Non conta sapere se stiamo suonando Glam Rock o Hardcore Underground, è la nascita e lo sviluppo di un'idea che contano" (cit. Reed St. Mark); "Non mi importa se siamo la band più dura del pianeta, o la più leggera, o la più commerciale, o la più fasulla. Vogliamo provare ad essere differenti, a proporre qualcosa di nuovo" (cit. Tom Warrior). Parole precise e concrete, frutto delle menti geniali di tre musicisti che, come una rischiosissima partita di poker, hanno giocato tutti i loro averi in un'unica puntata, scommettendo la loro dignità e la loro considerazione presso le legioni di fan che osannanti sventolavano in faccia al mondo la loro copia di "To Mega Therion". "Into The Pandemonium", semplicemente.. NON E'. E non essendo, risulta paradossalmente Essere. Un'opera d'Arte pura, senza contaminazioni, lontana dalle logiche commerciali e soprattutto dal "già sentito". I Celtic Frost potevano tranquillamente andare sul sicuro e proporre un altro disco di possente black - thrash, salvando la faccia ed intascando un bel po' di soldi. Rischiare di perdere con un disco carico di elementi sinfonici, ELETTRONICI (bestemmia massima, per l'epoca, mescolare il mondo "elettro / disco" con quello "metal", fazioni in quegli anni a dir poco in guerra fra di loro), così all'avanguardia, così spiazzante e disarmante.. beh, sono rischi che solo un grande Artista può decidere di correre. Perché il mondo musicale, purtroppo, è sempre stato dominato in larga parte da un branco di squali pronto a sbranarti senza pietà. E Tom, sin dai tempi degli Hellhammer, lo sapeva fin troppo bene. Come molti hanno sottolineato nel corso della storia del Metal (gli Anvil, o Jason Newsted) molto spesso un musicista è in grado di infliggersi danni fisici e morali, pur di poter suonare la sua musica. Rinunciando a contratti multimilionari, intraprendendo una vita al limite del frenetico, e molto altro ancora. Perché, lo si fa? Perché certo, con i dischi ci si guadagna, e con i concerti pure. C'è qualcosa che trascende tutto questo, però, ed è la volontà di veder nascere un qualcosa di proprio. Di vederlo crescere, plasmarlo, educarlo, dirigerlo verso determinati traguardi, assecondando la nostra musa ispiratrice. "Castrarsi", ovvero limitarsi in nome delle logiche di mercato o "di ideologia" (il purismo ad ogni costo) può risultare deleterio, per un artista. Può farlo sentire schiavo, insoddisfatto, limitato da logiche che egli non condivide.. perché, allora, buttare ed ingoiare bocconi amari solo per rendere felice qualche produttore? "Into the Pandemonium" è la testimonianza lampante di come si possa vivere pur senza piegarsi al business. L'Arte non la si intrappola, grazie alla presenza nella storia di un album così sappiamo per certo che qualora decidessimo finalmente di slegarci dal concetto di "Arte Serva" di un qualsiasi padrone (anche dello stesso pubblico pagante!), QUESTO sarebbe il risultato. Un lavoro non da hit parade, non da vendite multimilionarie.. ma un lavoro nostro, dignitoso, creato dal nostro estro, dalla nostra genialità in qualche modo concretizzata a suon di note, pulsante di vitalità. Non uno zombie - fotocopia.. una vera e propria creatura viva e ben in salute, in grado di farsi notare con prepotenza e grazia allo stesso tempo. Si può arrivare molto, molto in alto, assecondando la volontà. I Celtic Frost lo avevano capito, e benché i nuovi brani non fossero stati apprezzati subitamente.. i nostri tre erano comunque lì, a braccia conserte, ad aspettare. Poco a poco, sono arrivati tutti, a fargli i complimenti. Anche chi li denigrava e li osteggiava. Perché si sa, "la critica è mobile qual piuma al vento", e dopo una vita passata ad ascoltare sempre le stesse cose, chiunque arriva a desiderare di più. Segretamente o platealmente, non importa. Fatto sta che "Into The Pandemonium" è proprio lì, su quel vassoio, pronto ad essere gustato. Sta a noi decidere se farci vedere o meno, mentre lo ascoltiamo e gioiamo di quelle soluzioni pazze ed estrose. Un consiglio: non restate troppo a lungo chiusi in uno sgabuzzino, dopo un po' l'aria comincia a diventare irrespirabile. Apprezzate questo disco, consigliatelo ai vostri amici, fatelo conoscere ed ammettetelo.. nonostante la vostra t-shirt dei Deicide, state disperatamente struggendovi dietro i violini ed i versi di Baudelaire. O forse state canticchiando allegri il ritornello di "I Won't Dance"?

1) Mexican Radio
(Wall of Voodoo cover)
2) Mesmerized
3) Inner Sanctum
4) Sorrows of the Moon
5) Babylon Fell (Jade Serpent)
6) Caress into Oblivion (Jade Serpent II)
7) One In Their Pride (instrumental)
8) I Won't Dance
9) Rex Irae (Requiem)
10) Oriental Masquerade (instrumental)

Bonus Track:

4) Tristesses de la Lune
(Canadian and American Version)

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