BUCKETHEAD
Electric Sea
2012 - Metastation
VALENTINA FIETTA
28/02/2012
Recensione
Il 21 febbraio 2012 è uscito ”Electric Sea”, il trentacinquesimo album di un artista formidabile, Brian Caroll, che ci delizia da anni con la sua musica sotto il nome d’arte di "Buckethead”. Prima di addentrarci nelle anse di questa sua ultima creatura, è quantomeno doveroso dare una panoramica di questo leggendario chitarrista statunitense, e ad onor del caso, cercare di capire il modus operandi di un uomo tanto strano quanto geniale. Nasce in California nel 1969, ma della sua biografia si sa pochissimo. In effetti è risaputo che non ama assolutamente farsi intervistare o parlare della sua vita privata, e anche nelle sue esibizioni live è solito indossare un secchiello della KFC e una maschera totalmente bianca. Ad oggi l’ultima foto che ritrae il suo volto pare risalire al 1989. Da questa scelta dell’anonimato, possiamo trarre qualche riflessione: non siamo davanti al tipico artista fiero del suo successo o che cerca di ostentarlo, ma davanti a un’anima poco auto celebrativa e molto introspettiva. Questa propensione all’interiorizzazione assoluta di sé e del mondo la si ritrova in quasi tutti i suoi album, a volte espressa con melodie più morbide, a volte più vicine allo stile prog nelle sue frange più sperimentali e avant-garde. Se ci si chiede chi lo abbia “plasmato” nello stile, citiamo Paul Gilbert su tutti (da cui ha preso anche diverse lezioni), Shawn Lane, Yngwie Malmsteen, Bootsy Collins e Angus Young, Eddie Hazel, Randy Rhoads, Jimi Hendrix, Eddie Van Halen. (N.B. Questi chitarristi sono stati da lui citati durante un’intervista come i suoi principali ispiratori). Non mi soffermo a parlare di tutte le collaborazioni che BucketHead ha avuto nella sua incredibilmente lunga carriera solista, perché le citazioni sarebbero infinite, preferisco piuttosto concentrami su questo nuovo album “Electric Sea” appunto...Se un disco, una canzone, un melodia potesse esprimere e disegnare sulle spoglie pareti di una stanza una sensazione di pienezza ma allo stesso tempo di completo vuoto, voi la apprezzereste? Se la musica potesse evocare una tale atmosfera, la ascoltereste? E’ questa la domanda che farei a ciascun ascoltare che decidesse di sincronizzarsi con questo album.“Electric Sea” esce esattamente 10 anni dopo “Electric Tears” del 2002 e ne è la sequela logica, oltre che temporale. Analizzando infatti pezzo dopo pezzo, ci accorgiamo come ogni singolo elemento sia stato costruito seguendo una coerenza di fondo con l’album precedente: troviamo melodie a volte più delicate e malinconiche, a volte più allegre e suadenti ma tutte intrinsecamente pregne del pathos di un artista che non affida nulla al caso, che cerca le vibrazioni perfette nelle note perfette. E non è narcisismo musicale, è volontà di non sviscerare il proprio feel nel modo più coerente ed organico possibile, in modo che l’ascoltare sintonizzi subito la propria anima con la canzone. Scelta azzeccata quindi quella di utilizzare (come in Electric Tears) una calma chitarra acustica arricchita di dolci assoli di chitarra elettrica per l’intero disco. La prima track, quella che dà il titolo all’album è appunto “Electric Sea” mi fa tornare alla mente la precedente “All in the waiting”: partenza lenta, 6 minuti dolcemente arpeggiati, un dolce suono acustico da condividere con lo spazio naturale, che si respira in sottofondo per l’intero pezzo. Verso il 2^minuto il ritmo rallenta, il refrain si stoppa per dar voce a poche note, suadenti, delicate, che sembrano prendere coscienza dell’immensità di questo “Sea” di emozioni aleatorie, poi concretizzate con un assolo lento ma struggente che porta il brano dal 4.30 minuto fino alla chiusura. Impressionante come Buckethead drappeggi emozioni e ce le faccia immediatamente visualizzare. Cambio di direzione già nel secondo pezzo, “Beyond the Knowing”, ritmo più veloce e giro di chitarra più frizzante e sostenuto che si ripete per tutti i 3.54 minuti. Da notare che a partire dal 1.50 min l’intera melodia viene accelerata e si crea una sorta di vorticoso gioco di note che si inseguono continuamente senza approdare in alcun assolo principale o stacco fino alla fine. Forse il significato di questa scelta musicale (azzardo) lo dobbiamo cercare nel titolo della canzone, tradotto in “Al di sopra ciò che conosciamo”. Mi pare di percepire un messaggio: quando si cerca di spingersi oltre la semplice realtà, tutto è meno semplice e più denso di significati, tutto è incredibilmente veloce nel suo scorrere. Ma questa è la mia personalissima visione. Intro armonico e dolce per “Swomee Swan“, terza canzone che fa trasparire fin dall’inizio tutta la sua maturità. E’ uno dei brani infatti in cui l’impronta del rock sperimentale è più marcata, e la si nota nella ricerca di effetti soffusi, tappeti di delay ed echi, distorsioni docili, calde e morbide che riportano alla mente la precedente “Witches on the Health”. La fondamentale differenza però è che qui verso metà del brano si assiste ad un cambio di ritmo e di direzione dato da brevi assoli che danno al pezzo uno smalto di prog rock più vivace e brillante, più reale, che si scrolla quindi di dosso ogni incertezza. L’accordo finale lento ma pulito sembra confermare questa nuova concretezza. La quarta track del disco è “Point Doom” e forse è quella in cui l’accoppiata di chitarra acustica ed elettrica risulta meglio riuscita. Si può dividere il corpo centrale del brano in quattro parti. La prima arriva fino al minuto 1.55 ed è una sorta di introduzione alla storia immaginaria che inizierete a visualizzare quando mettete play. Qui Buckethead fa notare tutta la sua bravura nel tessere arpeggi di note bizzarri e via via più veloci, il risultato è una compagine di suoni quasi dissonanti all’orecchio che creano una notevole tensione emotiva. A partire dai due minuti in poi inizia la seconda parte, il vero viaggio: si sentono improvvisamente serrati i giri di chitarra (sembrano ricordare la colonna sonora di un film sul far west) che creano l’underground perfetto per la performance dell’altra chitarra vivace, grintosa, veloce. L’intera atmosfera è ricca di suoni che galappano, almeno quanto lo farà la vostra mente! Altro non fosse che dal 2.35 min in poi il pezzo si avvia alla terza parte: inizio con poche note, pochi accordi che disegnano, colorano con pennelli un mondo etereo ed estraneo alla realtà, per arrivare di nuovo a ricreare un ritmo accelerato, quasi confusionario, più drammatico, suonando sempre gli stessi accordi! Al 4.18 min la svolta, il decollo: da qui alla fine del pezzo Buckethead esegue un assolo impeccabile, concitato, pieno di animosità. Meritevole di apprezzamento l’uso della tecnica del bending che regala al pezzo energia musicale con un tocco aggressività grazie all'uso della distorsione. Che sia appunto in questo frangente il significato di “Point Doom” (traducibile come “momento della condanna/destino/castigo”)? A voi interpretare. Il quinto pezzo di questo Electric Sea è “El Indio”, che inizia con l’uso di effetti, delay, echi, riverberi che creano il perfetto sottofondo di una giungla lontana, misteriosa inaccessibile. A staccarsi da questo groviglio di note che perdura per l’intero brano, è la chitarra acustica che si staglia pulita e con arpeggi impalpabili, morbidi che distendono i pensieri. Dal quinto minuto alla fine invece il maestro Buckethead usando la sua Gibson Buckethead Signature Les Paul interpreta un interessante assolo che regala al pezzo quel brio e quel dinamismo che ancora non si erano notati prima. Assolutamente scorrevole ed ascoltabile. A seguire ascoltiamo invece “La Wally”, rivisitazione di una celebre opera drammaturgica composta nel 1892 per mano del maestro italiano Alfredo Catalani. Pochissime note sono usate per creare una trama intrinsecamente malinconica, cupa, opaca. Non cè spazio nè tempo in questi tre intensissimi minuti di assolo. Un pezzo notevole per profondità intellettuale, padronanza dei mezzi tecnici ed espressivi e bellezza artistica. Altro omaggio di Buckethead alla musica classica è la settima canzone “La Gavotte”, rivisitazione anche questa dell’opera illustre di Johann Sebastian Bach. Qui manca il duetto di chitarre e il tutto è affidato alla sola acustica, che crea una sorta di melodia simil-medievale, con arpeggi soavi e sapientemente concatenati tra loro, al primo ascolto fa ricordare un po’ la canzone “Angel Monster” presente in Electric Tears. La vera conclusione del pezzo deve essere considerata la canzone successiva “Bachethead”, che inizia con lo stesso refrain de “La Gavotte” (sempre di Bach) vivace e frizzante, con la differenza che aumenta la velocità man mano che la canzone avanza, donando al tutto un’allegria e una spensieratezza che mai ci aspetteremmo. Da notare che di norma il grado di complessità strutturale, la difficoltà tecnica del genere melodrammatico, lo hanno reso nel tempo appannaggio solo dei musicisti più dotati, e di fatto ne ha limitato la diffusione nel pubblico; quel che vale la pena invece rimarcare qui è come Buckethead, attingendo alle sue risorse di erudita della musica, riesca di fatto a mettere in contatto due mondi musicali diversi, quello classico e quello moderno, dimostrando come alcune melodie non abbiano tempo né spazio, ma siano davvero universali. La nona canzone è “Yokohama”, e dal titolo stesso capiamo come Buckethead voglia rendere omaggio alla omonima città giapponese, cercando con grande sensibilità di tessere una melodia cortese, note leggiadre ed evanescenti che spiccano il volo, portando la nostra stessa immaginazione a cercare porti quieti e silenziosi. Pezzo ascoltabilissimo ma che a mio avviso ha poco a che fare con questo album: è una canzone che scivola via senza imprimere dentro traccia come invece fanno le precedenti. Cambio di direzione di nuovo per la penultima canzone “Gateless Gate”. Si apre con un paio di accordi semplici ma di grande impatto emotivo, che perdurano per tutti i due minuti, e che preparano il nostro cuore ad essere traghettato verso il giusto Sea di malinconia, di sofferenza, di fatica, di disperazione. Qui l’artista riesce a trasporre (davvero in maniera efficace) in note musicali la vera essenza del titolo: non avere un cancello da aprire, non avere prospettive, sicuramente un pezzo dal frangente intimista profondo e per nulla scontato. A chiudere l’album è “The Homing Beacon”, che Buckethead pubblicamente ha dichiarato essere una dedica a Michael Jackson. Si tratta di un song-writing, che richiede pazienza e la volontà di coinvolgere tutta le note. Si tratta di piccole gemme musicali riempiono, avvolgono lo spazio e lo rendono lucente ma ricco di ombre. Pezzo dotato di una faccia molto triste e intimista, malinconica sicuramente, essendo il riflesso della vita di un artista come Jackson. Il refrain lento e quasi sconfortato, non giunge mai ad un vero decollo ed accompagna il brano fino alla chiusura. Qui si sente tutto il coinvolgimento dell’artista e la sua anima che fa vibrare le corde: non solo della chitarra, ma anche dell’anima di chi vi si appresta! In conclusione direi che mi trovo davanti l'ennesimo disco riuscito di Mr. Buckethead, che non tradisce le aspettative, ma che anzi rinnova la caratura di questo poliedrico artista. E' difficile naturalmente rappresentare un'emozione. Io rischierei di risultare eccessiva nel descrivere un brivido, una paura, una gioia, o una lacrima. Ma “Electric Sea” no. E’ semplicemente una corsa, una passeggiata o una discesa nell'emotività dell'animo. Un sorta di rinascita, di risveglio di pensieri a volte dolci a volte sconfortanti. Un album che si pone come ottima sequela di Electric Tears, con la differenza che qui non si ha a che fare con frangenti di sè, ma con l’intera immensità che ha dentro ciascuno di noi. Una domanda mi sorge spontanea: dovremo aspettare altri dieci anni per la terza parte?
1) Electric Sea
2) Beyond The Knowing
3) Swomee Swan
4) Point Doom
5) El Indio
6) La Wally
7) La Gavotte
8) Bachethead
9) Yokohama
10) Gateless Gate
11) The Homing Beacon