Bruno Cavicchini
Mood Balance
2013 - Videoradio Records
LORENZO MORTAI
24/03/2014
Recensione
Mettere in piedi un disco strumentale, per un musicista, è forse la sfida più ardua e al tempo stesso soddisfacente che possa capitargli. Se il musicista in questione infatti, riesce con il solo ausilio delle sue mani sul manico della chitarra, a farla parlare come se al microfono ci fosse davvero qualcuno, allora la sua stella brillerà decisamente più di altre, e il rispetto che gli altri musicisti avranno verso di lui sarà ampio e possente. Certo, non tutti sono adatti a scalare questa china vertiginosa, ma se da una parte abbiamo chitarristi blasonati e famosi che ci hanno costruito una carriera sopra (Satriani in primis), spulciando bene fra le pieghe della musica stessa, si scopre che anche nel nostro artisticamente malandato paese c’è chi ha intrapreso questa sfida, e lotta ogni giorno per farla emergere sempre più. Il protagonista di oggi infatti, che all’anagrafe risponde al nome di Bruno Cavicchini da Matera (ma poi trapiantato a Roma per inseguire il suo sogno), aveva un progetto ben saldo nella sua mente quando ha deciso di iniziare: riportare agli antichi fasti quell’Hard Rock settantino che è così caro al suo (e al mio) cuore, unendolo ad ampie partiture di Rock più moderno, al fine di creare una mistica creatura ricolma di suoni diversi. Il suo percorso non è stato affatto facile, pieno di momenti bui, ma anche grosse soddisfazioni (come la sua esibizione nel 2005 con lo storico batterista dei Deep Purple, Ian Paice), e la sua carriera ventennale come guerriero della chitarra è culminata nel 2013 (un anno dopo la pubblicazione del suo primo EP Overtones), quando ha preso finalmente vita il suo primo full lenght, nonché argomento di oggi, Mood Balance. Il sound di Bruno, come già accennato, è un dorato calice ricolmo di svariati rimandi al Rock anni 70, condito con suoni più moderni, ma anche sessioni tecniche che non appesantiscono troppo l’intera produzione, ma ci fanno semplicemente saggiare più in profondità le doti del nostro artista. Un platter dunque che va ascoltato con molta cura ed attenzione, evitando ingenuamente di fermarsi al primo ascolto, ad esso ne deve seguire un secondo e forse anche un terzo, solo allora le intricate note di Bruno non vi usciranno mai più dalla mente.
La scaletta parte quasi in sordina, in punta di piedi senza voler disturbare nessuno, con "Here and Beyond": la chitarra ritmica arpeggia leggera per i primi secondi, prima di lasciare il posto al nostro protagonista, che si cimenta da subito in lunghi e melanconici riff (che in parte riprendono lo stile lasciatoci da artisti come Satriani o Vai), fino a che la chitarra non va ad unirsi all’intera strumentazione, e ad alzare il tiro del pezzo stesso facendoci volare con la mente e con il corpo. Le sensazioni che si provano mentre si ascolta il brano sono molteplici; si passa da momenti in cui smaniosi attacchi di malinconia la fanno da padrone, ad altri invece in cui questi si fanno da parte, per farci gustare l’infinito di quel momento, quasi come se stessimo letteralmente aleggiando su terre sconfinate, portando la nostra mente a compiere viaggi stellati per raggiungere l’orizzonte. Pur essendo un chitarrista “votato” agli anni 70, in questo primo assaggio di Mood Balance, vediamo come Bruno sappia anche modernizzare il proprio sound, portandolo a metà fra gli anni 80 ed i giorni nostri; le scale dello strumento sono complesse, ma non troppo intricate, l’equilibrio che si crea è quasi perenne e privo di imperfezioni, ogni cosa è orchestrata con grande cura, frutto sicuramente di anni di duro e sudato lavoro. Se i primi minuti ci avevano fatto rilassare, veniamo bruscamente svegliati dal brano che segue, "Floating Moons"; gli stoppati che fugacemente si inseguono per il primo minuto della canzone danno all’intero brano quel ritmo sincopato e cadenzato che ci attira come una calamita, in cui ci pare quasi di vedere due corpi umani che si intrecciano fra loro, fino quasi a diventare una cosa sola. Dopo l’intro profondamente impregnato di anni 70 (si sente una mano Blackmoriana che aleggia), si passa al secondo momento del pezzo, quello che ci accompagna fino alla fine, un susseguirsi di energie positive che si scatenano nella nostra testa, è un qualcosa che letteralmente non riusciamo a spiegare, tanto è intangibile e nascosto dentro di noi, ma esso è li, pronto ad esplodere dentro il nostro petto e a farci assaporare l’energia del sole. Una delle qualità più mirabili di Bruno, è la sua capacità di costruire brani in cui chiunque trova almeno un passaggio che lo aggrada; ogni piccolo tassello viene posto in modo che possa anche essere estrapolato dall’intero brano, e assaporato soltanto per quello che è (nel caso di Floating Moon, ho amato pazzamente l’intro, così trascinante e acido al tempo stesso ), una capacità che ormai molti artisti hanno perso, risucchiati nel baratro della tecnica ad ogni costo. Avete presente Jeff Beck? Si dai, quel famoso chitarrista che, nella sua vita, non fa il chitarrista di professione, bensì il costruttore di Hot Rod (secondo lui ovviamente, in svariate interviste ha infatti dichiarato che la chitarra per lui è soltanto un secondo lavoro); ecco, se come me amate quel tipo di sound, quella carica che Beck riesce a tirare fuori nei suoi pezzi (che a tratti rasenta quasi la follia più completa), sicuramente vi innamorerete del terzo brano, "Duckman". Qui ci troviamo di fronte ad un grande pentolone che scoppietta sul fuoco, traboccante fino all’orlo di suoni diversi; troviamo sessioni pesantemente Funk (in linea con lo stile di Beck ), unite ad altre che portano il marchio Deep Purple e Led Zeppelin stampato sopra a caldo. L’intero brano sprigiona una sana dose di carica sessuale, mentre ci immaginiamo il protagonista del pezzo (questo uomo-anatra), che sgallettante e incurante delle conseguenze, vaga per la città ammiccando a qualsiasi soggetto di sesso femminile che gli si para davanti, smanioso di concludere la sua conquista. La leggerezza di questo personaggio la si evince ovviamente dai suoni che ci passano nelle orecchie; le parti di Funk forniscono la carica sessuale di cui parlavamo prima, con quel ritmo così meccanico e al tempo stesso ricolmo di passione, mentre le solide venature di Hard Rock anni 70, fanno la parte dei veterani che non vogliono accennare ad andarsene da qualsiasi brano (anche se a noi sta benissimo così), riempiono i vuoti che Bruno ha lasciato apposta per loro, ed una volta che il brano è finito, ci ritroviamo anche noi a camminare come il nostro Duckman, andando a zonzo per la città, godendoci ogni singolo attimo che la vita ci concede, assaporandone ogni secondo sulla punta della lingua. Jimi Hendrix sarebbe decisamente fiero del prossimo pezzo, perché esso non è altro che una veloce, imponente e controllata masturbazione operata su una meravigliosa Fender Stratocaster, e il brano, nome omen, non poteva che intitolarsi "Fallocaster"; il sound è decisamente a metà fra l’antico ed il moderno, la chitarra viene dolcemente deflorata dalle sagge mani di Bruno, che ormai si muovono sul suo manico anche ad occhi chiusi, ed il sound che ne viene fuori ha una carica di energia così grande, che è impossibile non volersela far iniettare direttamente per endovena nel braccio, o farsela incidere come un marchio nella propria testa. Qui lo stile “alla Satriani”, viene nettamente fuori, con quel suo piglio tanto anni 70, quanto 80 e seguenti, le scale che ne derivano sono un saliscendi continuo sulle note, inframezzate da stacchi cadenzati e dalla decisa carica blues; non è affatto facile descrivere ciò che si sente quando lo si ascolta, si è come sospesi in un limbo di energia positiva, mentre con la mente ci immaginiamo la Stratocaster che pian piano prende la forma di una bellissima donna, che con il suo sguardo ammaliatore si dichiara a noi, portandoci negli angoli più bui della nostra sordida mente. Prima di continuare ad eviscerare Mood Balance e l’intero lavoro di Bruno, è bene soffermarsi un attimo su chi ha contribuito, anche se in minor parte, alla riuscita del progetto, parlo ovviamente degli altri componenti della band: Domenico Ragone al basso conferisce all’intero sound quella vena Funk che abbiamo sentito in alcuni dei brani precedenti, e come un metronomo umano, egli da il ritmo all’intera produzione, rimanendo dietro le quinte, ma protagonista quanto gli altri della resa finale. Il basso però non è niente senza batteria, e li ci troviamo, come un antico guerriero, Pino Liberti ( famoso batterista che ha collaborato con artisti del calibro di Graham Oliver dei Saxon, e Marco Mendoza dei Thin Lizzy); il suono delle sue pelli è energico e risoluto, da all’intera produzione quel piglio di puro Rock genuino che mancava. Ci spostiamo verso lidi decisamente più Rock’n Roll 50’s style con la traccia successiva, "Rock’n Roll Serenade"; il pezzo è una dichiarazione d’amore, come quelle che si vedono nei film, ma riveduta e corretta in chiave Rock, niente sentimentalismi o momenti allo zucchero, qui conta solo la musica e la carica di passione che riesce a sprigionare, e la nostra amata li alla finestra, che ci osserva con la nostra chitarra in mano ed i nostri vestiti di pelle, si scioglie di piacere ad ogni nota che suoniamo, in pura estasi da Rock’n Roll. Ovviamente tutto questo non è solo sesso e passione, troviamo anche una calda dose di ironia per smorzare i toni, ironia divertente e dissacrante al tempo stesso; il feel che ci tramanda l’intera canzone è quello da Happy Days, quell’energia positiva che sentiamo quando guardiamo telefilm ambientati in quegli anni, o quando sentiamo la musica che veniva scritta all’epoca (con chiaro riferimento al Rock, ovviamente), essa era in grado di fornire energia quasi illimitata, ogni canzone entrava subito in testa e non se ne andava più, anzi, ogni nuovo giorno il tuo cervello ti obbligava quasi ad ascoltartela un’altra volta. Abbiamo cantato serenate Rock alla nostra amata, ci siamo masturbati il cervello sul sound di una Stratocaster, abbiamo vissuto momenti magici col Funk anni 70, è il momento di cercare un po’ di tranquillità e pace, di chiuderci per un momento dentro noi stessi e riflettere sul mondo, e la traccia giusta da ascoltare è la seguente, "Serenity". Il nostro Bruno ama molto le dicotomie, non perde occasione per inserirne all’intero del suo disco; troviamo infatti stacchi più Hard, accostati ad altri momenti di pura estasi , in alcuni momenti il pezzo sembra avvicinarsi a noi col fare di creatura mistica, in altri sembra volerci azzannare alla gola come un leone famelico che ci ha scambiato per la sua preda. Tutto questo porta a formarsi nella nostra mente un susseguirsi di immagini sempre diverse, da battaglie a colpi di note, a voli dello spirito degni di un’opera Shakesperiana; se all’inizio ho detto che Mood Balance va ascoltato con cura, credete alle mie parole; brani come Serenity infatti, ad un primo impatto possono sembrare il folle delirio di un pazzo, ma dopo svariate volte che la vostra testa ci tornerà sopra, capirete che il nostro musicista ha messo ogni tassello al posto giusto, ogni pezzo del puzzle è esattamente dove deve essere, e se il primo ascolto vi ha fatto pensare ad un miscuglio senza senso, quelli successivi vi faranno stare in pace con voi stessi, e porteranno la vostra mente ad aprirsi completamente al suono del mondo. Perché in fondo è proprio questo quel che Bruno vuole fare, creare un tipo di suono che sia genuino ed energico al tempo stesso, che le menti le faccia aprire e non chiudere ancora di più, un sound che raccolga la sua carriera ventennale quasi nella sua interezza, e che riesca a far avvicinare più gente possibile a questa musica che, nel nostro paese, sembra ormai essere un fantasma che solo pochi riescono a vedere. L’ingegneria musicale però non si ferma per nessuno, è in continuo sviluppo, e lo vediamo bene con il prossimo brano, "The New Swinging Truth": swinging in inglese letteralmente significa “oscillare”, ed ecco che il pezzo ci parla, senza dire una parola, dello sbaglio che l’uomo moderno fa costantemente, pretendendo di avere una visione dogmatica e ferrea della vita stessa, senza ammettere alcuna eccezione, oscillando appunto fra disillusione e certezza. Ogni aspetto della vita ha le sue sfumature ed i suoi angoli d’ombra, e così questo pezzo; troviamo forse un veloce sunto di tutto ciò che il nostro musicista ama suonare sul palco, trovano spazio infatti pesanti partiture di Rock anni 70, ma anche stacchi più moderni e pregni di sperimentazione pura, mischiando, mai a caso, i ritmi fra di loro , ed unendoli a parti di tastiera (suonata dallo stesso Bruno), che conferiscono all’intero sound quella vena al limite del Prog e dello Psych, che ci fa lo stesso effetto di un cristallo di Meth. Parlando della pura tecnica chitarrista presente nel brano, essa è il perfetto connubio fra le due metà di Bruno stesso, quelle metà che hanno dominato più o meno i brani precedenti; abbiamo una parte infatti più leggiadra e melodica, molto tranquilla e trascinante, rappresentata da quelle sessioni che abbiamo sentito anche nell’intro del primo pezzo, e poi abbiamo l’altra parte, il “nero” se vogliamo chiamarlo così, la parte energica e nettamente più Rock del suo sound, quella più cattiva e grezza, che conferisce all’intero disco la carica di cui ha bisogno; insomma, il nostro Cavicchini è un pendolo che oscilla costantemente fra luce e buio, fra bianco e nero, e fra psichedelia progressiva e Hard Rock forte e risoluto. Se un brano precedente era un omaggio a tratti ironico agli anni 50, il prossimo brano è invece un saggio tributo ad uno degli artisti più infuenti degli ultimi anni, egli, con la sua chitarra in mano, ha dato vita a tre formazioni completamente diverse fra loro, ognuna con una sua personalità e tiro particolari; le band rispondono ai nomi di Deep Purple, Rainbow e Blackmore’s Night, e lui, chiaramente, è sua maestà Ritchie Blackmore. "The Chase" è proprio di questo che parla, o meglio, che suona, è una lunga sessione di quattro minuti per omaggiare il maestro, per riprendere in mano (ed in parte modernizzare, ma non troppo) quel sound che egli ha contribuito a plasmare in tutti gli anni della sua carriera, passando dall’Hard Rock acido del Purple, al Rock/Blues dei Rainbow, al neoclassico/Folk dei Night (anche se quest’ultimo passaggio nella traccia è quasi inesistente), ed anche qui ritroviamo il dualismo interno di Bruno, quel tiro a metà fra il melodico e l’energico che, sembra incredibile, non stanca mai. Concludono l’intero disco due delle tracce più belle dell’intera produzione, due capisaldi della musica firmata da Bruno che certo non potevano mancare nel suo platter. La prima è "Hazy Days", l’unico brano dell’intero disco che, anche se ad accenni, parla; abbiamo infatti in questa traccia una backing vocal (data dall’ugola di Danilo Galgano, meteora presente solo in questo slot), che ci racconta una straziante storia d’amore e d’illusione, a metà fra una visione celestiale, ed un trip da acido. Di acido infatti si fa il protagonista della storia che, dopo essersi ingoiato l’ennesimo, questa volta ha la mirabolante visione di una donna, che riesce a rapire la sua anima e fargli perdere di vista il sottile confine fra realtà e finzione, l’uomo è in piena estasi, mentre vede questa magica fata danzare di fronte a lui sospesa a mezz’aria. Per tutta la durata del pezzo, l’uomo cerca disperatamente di capire chi, o cosa, questa donna misteriosa sia, e lei alla fine si rivela, in un impeto di sincerità, presentadosi come Maya, la dea di ciò che non si vede. E’ chiaro dunque l’intento del pezzo, farci capire cosa si provi quando la nostra mente perde pian piano contatto con la realtà terrena, ed inizia a piegarsi su sé stessa, fino a perdere il controllo e il senso di ciò che ci sta intorno, è un immenso e lungo viaggio a colori fluo, che il nostro Bruno omaggia con una , inizialmente lenta e progressivamente più sferzante, dose di Rock settantino coi fiocchi, facendo finire l’intero brano con un outro chiaro omaggio ai Pink Floyd, mostri sacri del Prog/Psych. Torna il tributo a Jeff Beck anche nel lascito conclusivo di Mood Balance; avevamo infatti iniziato la nostra avventura con le lune di Floating Moons, e adesso concludiamo il cammino con la venuta del sole di "Highways to The Sun". L’omaggio a Beck si sente abbastanza bene (anche se in Duckman era più presente), quelle partiture così morbide, tipiche di alcuni brani di Jeff, si inframezzano al tipico stile di Bruno, così melodico in questo passaggio del disco, quasi a voler sottolineare che, pur essendo malinconico pensando a tutto ciò che i suoi occhi vedono nel mondo, la speranza è sempre e comunque l’ultima a morire. Una ottima conclusione del disco, dopo averci fatto passare momenti più leggeri, ed altri invece in cui le nostre orecchie hanno rischiato l’esplosione per la potenza del suono, Bruno decide di regalarci quest’ultima perla, e a noi non resta che salire in macchina assieme a lui, e percorrere a tutta velocità la magica autostrada che ci porterà verso il sole.
Il disco, ne sono sicuro, non piacerà a tutti quanti (anche se ormai è prassi che sia così), alcuni forse lo giudicheranno troppo lento, altri ancora invece criticheranno le unioni musicali che il chitarrista ha deciso di inserire nei singoli brani, ed altri ancora semplicemente lo ascolteranno una volta e poi mai più. Personalmente parlando, ma credo che dalle mie parole si evinca abbastanza bene, il lavoro di Bruno Cavicchini mi ha a tratti emozionato, a tratti trascinato all’intero dell’abisso sonoro; è sempre bello infatti vedere un musicista che dedica anima e corpo alla propria creatura, ed in questo Mood Balance devo dire che i risultati si vedono tutti, si vede molto bene la fatica che c’è dietro alla realizzazione del progetto, l’ottimo lavoro di mixaggio ne è un’ulteriore conferma, ed in più, mentre si sentono i pezzi, pare quasi di viaggiare, oltre che con la nostra testa, anche con quella di Bruno stesso, sfidando noi stessi a capire se le sensazioni provate da lui nella stesura dei brani, sono le stesse provate da noi durante l’ascolto. Un disco dunque difficile e complesso da apprezzare nel suo insieme, ma se riuscirete a farvi aprire la mente da queste dieci tracce, sarà uno di quei lavori che letteralmente consumerete a forza di ascoltarlo.
1) Here and Beyond
2) Floating Moons
3) Duckman
4) Fallocaster
5) Rock'n Roll Serenade
6) Serenity
7) The New Swinging Truth
8) The Chase
9) Hazy Days
10) Highways To The Sun