BRUCE DICKINSON
Tatooed Millionaire
1990 - EMI Music
ANDREA CERASI
26/06/2014
Recensione
Il 1990 è un anno particolare per la band Heavy Metal per antonomasia, gli Iron Maiden: infatti, all'inizio della nuova decade, un po' tutti hanno il sentore che qualcosa stia cambiando, e in peggio. L'epoca dei capolavori è giunta al termine e voci di corridoio diffondono la notizia di continui litigi fra i componenti del gruppo. Tutto ciò porta all'uscita di un disco abbastanza anonimo, quel "No Prayer For The Dying" tanto odiato dai fans e mai rivalutato negli anni. Non un disastro, ma un lavoro chiaramente sottotono (così come il successivo "Fear Of The Dark") che delude una folta schiera di pubblico, abituata alla magnificenza degli anni 80. Dicevamo 1990, eh sì, perché in contemporanea col punto più basso toccato fino ad allora dalla "Vergine di Ferro", il poliedrico cantante della band inglese, Mr. Bruce Dickinson, si mette in proprio, cercando di avviare una carriera da solista. Non è un caso che negli album dei Maiden appena citati il singer sembri interpretare le tracce in modo svogliato, ed è uno dei difetti più palesi, forse troppo concentrato a creare una musica personale e sulla quale possa avere il pieno controllo senza l'ingombrante figura di Steve Harris, vero leader e Deus Ex Machina della band madre. Pochi mesi prima del rilascio dell'ottavo capitolo targato Iron Maiden, sugli scaffali dei negozi troviamo "Tattoed Millionaire", opera prima di una delle voci più importanti della musica pesante. Il genere proposto si discosta dal Metal tradizionale e sembra seguire la scia dell'Hard Rock radiofonico che all'epoca spara gli ultimi colpi prima di morire a causa dell'ondata Grunge proveniente da Seattle (U.S.A.) e capitanata da gruppi come Soundgarden, Nirvana e Pearl Jam. I suoni si ammorbidiscono e si prediligono la melodia e una struttura tipicamente anni 70 rispetto alle sfuriate metalliche e alle linee vocali altissime. Le coordinate sulle quali si muove "Tattoed Millionaire" appartengono proprio alla sfera dell'Hard Rock, puro e crudo, e per creare (o ricreare) quelle atmosfere tanto amate, e con le quali è cresciuto, Dickinson recluta gli sconosciuti Andy Carr al basso, Fabio Del Rio alla batteria e il veterano Janick Gers (co-autore di tutta la track-list) alle chitarre, quest'ultimo già spalla del frontman dei leggendari Deep Purple, Ian Gillian solista con il quale incide tre album ("Future Shock" - 1981, "Double Trouble" - 1981, "Magic", 1982), nonché ex membro di una band seminale, i White Spirit, fondati nel 1975 e tra i padri della N.W.O.B.H.M., che arrivano al debutto nel 1980 con l'ottimo omonimo album per poi sciogliersi l'anno seguente per gli scarsi riscontri di vendite.
Un arpeggio immaginifico di chitarra apre la traccia "Son Of A Gun", mid-tempo affascinante il cui titolo figurativo può anche essere tradotto come "Delinquente", possiede un testo profondo e molto interessante dimostrando che Bruce Dickinson, oltre ad essere un grande cantante, è anche un ottimo songwriter. Si narra di un uomo, un uomo potente, un predicatore con un popolo al seguito, il quale detta una legge primitiva ma allo stesso tempo poco etica: uccidere per uccidere, vivere o morire. Uccidere è l'unico modo per vivere bene, sottomettere e rendere schiavi altri popoli, è la legge del più forte. La traccia esprime tutta l'avversione nei confronti della violenza umana, una violenza che sfocia nella distruzione, nella menzogna di una falsa religione che seppellisce le sue vergogne e le sue ipocrisie sotto una croce di legno. Le parole sono come proiettili di fucili che mirano dritte al cuore delle persone e le uccidono. Tutto è nelle mani del predicatore sadico, un falso profeta, che illude il suo popolo promettendogli una cosa che non esiste, che brucia la terra, avvelena le acque e prosciuga i fiumi, portando soltanto odio e morte. Leggendo il testo mi si palesa in mente l'epoca del colonialismo più becero, quando gli uomini bianchi, conquistarono e sottomisero intere popolazioni di indigeni, massacrandoli nel nome di un Dio misantropo, malvagio e sanguinario, ma anche l'attuale situazione in Medioriente, ovvero una terra dilaniata dalla lotta tra Israeliani e Palestinesi, una battaglia religiosa e politica, continua e infinita. Dal punto di vista melodico ricorda inevitabilmente il sound degli Iron Maiden dei primi anni 90, grazie a chitarre ipermelodiche anche se di continuo stoppate e mai lasciate correre. Dickinson canta con voce rauca e graffiante, esprimendo il senso di disgusto nei confronti della guerra narrata e facendo, a mio avviso, un bellissima interpretazione. D'impatto il ritornello semplice, accompagnato dalla batteria di Del Rio, mentre le strofe sono rifinite da continui arpeggi provenienti dalla toccante chitarra di Gers, il quale si esibisce in un buon assolo, non troppo difficile ma sicuramente efficace. Probabilmente la migliore canzone dell'album. Con "Tattoed Millionaire" si cambia strada, i toni cupi e solenni della prima canzone sono abbandonati in favore di un brano più spensierato e meno impegnativo che colpisce grazie a un ritornello fresco e melodico in perfetto stile rock radiofonico, riprendendo la lezione dei migliori gruppi AOR di quegli anni. Buono l'assolo di chitarra centrale e cattiva la voce di Bruce nelle strofe, il quale decide di cantare con tonalità più sporche rispetto agli album con la band di Harris, ma sarà una costante del periodo, infatti sia "No Prayer For The Dying" che "Fear Of The Dark" saranno interpretati in modo meno pulito abbassando un po' la qualità delle tracce (O almeno è quello che ho sempre pensato io). Come detto in precedenza, la canzone in questione appare spensierata anche se, leggendo il testo, il significato non è poi così tanto leggero. Infatti l'artista si lancia in una critica nei confronti delle mode all'interno dello show-business, ossia un mondo falso dove a contare sono solo i soldi e gli "accessori" che una persona ricca e in vista si procura. In una società decadente, tutti sono lì a ricopiare il fenomeno di turno, cioè colui che vive in un mondo di peccati, che ha una moglie ex-reginetta di qualche concorso di bellezza e un figlio cretino, che è costantemente circondato da guardie del corpo, di giorno, e di pornostars, la notte, e che gira con la sua costosa Cadillac per le strade di L.A. facendo la spola da una festa all'altra solo per apparire. Una vita piena di vizi insomma, ma vuota di valori, basata più che altro sugli agi e sulle amicizie di convenienza che non portano a nulla. Dickinson si ribella a tutto ciò, decantando la sua ostilità nei confronti di questi "Milionari tatuati" e fatti con lo stampino. Un ammasso di fantocci prodotti in serie e privi di profondità. Il terzo brano è uno dei miei preferiti, "Born in '58", che mi ha sempre trasmesso un senso di maliconia, sin dai primi secondi, fatto di sospiri, che danno il via a strofe eleganti e solari le quali narrano della vita stessa del cantante, nato appunto il 7 agosto del 1958 in una piccola cittadina inglese (Worksop), quando la tv in bianco e nero andava di moda e le famiglie erano unite, e si battevano per la giustizia e la libertà. Dickinson parla di suo nonno, il quale gli insegnò il senso dell'onestà e del sacrificio, e a battersi contro un mondo sommerso dalla puzza putrida del vile denaro, dove ogni cosa può essere comprata, anche la libertà, ma mai la dignità di un vero uomo cresciuto con valori sani e nel rispetto delle proprie tradizioni. In realtà ciò che si decanta nel testo è proprio la ricerca di una vita semplice, pulita, lontana dalla profonda crisi morale e culturale che ha colpito "l'isola munita di scettro", ovvero l'Inghilterra (e non solo). Il ritornello possiede un sapore amaro ma è comunque trionfale, è esaltazione dello spirito umano e, allo stesso tempo, consapevolezza di un sogno infranto. È come se da quel tempo in poi gli uomini avessero dormito, e adesso che sono svegli, si guardano dietro, scoprendo che nulla è cambiato, perché poco hanno fatto. Traccia malinconica che lascia un segno nell'ascoltatore. "Hell On Wheels" è aperta da un riff sporco e subito esplodono le linee strumentali che riportano indietro nel tempo, all'Hard anni 70 in pieno stile AC/CD, la voce stridula di Dickinson sembra imitare quella di Bon Scott per una canzone energica che si perde però nella sua staticità, non basta l'assolo di chitarra o i coretti di contorno per recuperare un pezzo abbastanza anonimo e dalle ritmiche stoppate che saranno riprese anche per uno dei brani presenti in "Fear Of The Dark": "The Apparition", filler-song che lascia il sapore dell'insoddisfazione in bocca. Il testo è una metafora che si traduce in un patto col diavolo. Infatti è quest'ultimo che guida indemoniato la sua auto, che rappresenta la vita stessa, con i finestrini chiusi e sigillati e spingendo al massimo sul gas, andando incontro al nero della notte a velocità assurda e con i freni dell'automobile danneggiati. Sotto il motore e le ruote, vi è una palude incandescente tinta di rosso, il rosso è il colore del pericolo, dell'inferno. Bisogna decidere se scendere o salire, in una folle corsa contro il tempo, dove le ruote roventi che girano sull'asfalto rappresentano i minuti che scorrono. La vita è un tunnel oscuro che va percorso fino alla luce esterna, difficile scendere quando la vettura percorre veloce il sentiero dell'esistenza, bisogna lottare per riuscire a battere il diavolo per poi frenare, togliendo il piede dall'acceleratore, prima di giungere al traguardo, una linea immaginaria, dove non c'è nessuno ad aspettare il vincitore. Un arpeggio toccante introduce "Gypsy Road", ballata Glam Metal che sembra composta da una delle tante band Sleaze americane tanto in voga in quel periodo: Poison, Motley Crue, Cinderella, Slaughter e via dicendo. La parte strumentale è scandita da una vena che definirei "sognante", ascoltando la canzone si è proiettati, come un'ombra, lungo una strada soleggiata, in piena estate e in preda al caldo torrido della California, in una delle tante zone deserte circondate da sterminati campi che si perdono all'orizzonte. Dickinson esalta il suo spirito girovago, alla costante ricerca di una vita semplice, dove poter realizzare i propri sogni, lontano dalle leggi di una città claustrofobica, fredda e priva di sole e di vento, nella quale bere acqua infetta e morire di stenti. La vera libertà è lì fuori, lontano da tutti, lungo l'autostrada della speranza, dove vivere con regole proprie e grazie all'essenziale che si riesce a trovare, gettando via tutto l'inutile che una città accumula fino a soffocare. I sogni e la libertà sono oltre le valli, basta andare loro incontro. Intenso il senso della traccia, nonostante una struttura molto semplice che, come detto in precedenza, ripercorre i binari classici di un genere in voga negli anni 80. Nulla di eccezionale veramente, piacevole e che lascia una sorta di leggiadria che fa bene alla mente, dopo aver ascoltato questa ballata ci si sente più leggeri. Il giro di boa avviene con la seguente "Dive! Dive! Dive!", annunciata da una sirena e una voce all'altoparlante, poi dei cori esordiscono accompagnati dalla batteria e si alternano con i versi cattivi ricreati dalla voce del singer, il quale si lancia in un inno piratesco, descrivendo un'immaginaria battaglia navale nei mari del Pacifico dove i colpi di cannone rimbombano nell'aria e squarciano le pareti del galeone. L'ordine del comandante è quello di tuffarsi giù per non soccombere ("Dive" infatti significa "Tuffarsi"), non bisogna affondare assieme alla nave, perché nelle profondità degli abissi vi è Davy Jones, un essere immaginario presente nelle leggende piratesche, descritto come un demonio degli oceani che trattiene i marinai sottacqua per farli annegare e collezionare le loro ossa. Il tuffo equivale alla libertà. Interessanti i cori pirateschi che ogni tanto sovrastano le strofe, danno un senso di gioia, o di foga collettiva, tipici dei canti marinareschi del '700 e dell'800, quando gli uomini di mare usavano il canto proprio per raccontare le loro avventure o gli sfoghi alcolici. In realtà questa "Dive! Dive! Dive!" non è un brano memorabile, non possiede una grande melodia e non ha potenza sonora, insomma scorre via senza lasciare alcun segno nell'ascoltatore e l'impressione generale è che dopo un buon inizio il disco cali inesorabilmente di intensità e mordente. "All The Young Dudes" è la cover dei "Mott The Hoople", storico gruppo rock inglese, che la lancia nel 1972 come singolo per l'album omonimo, la canzone è scritta dal grande David Bowie e, sin da subito, rappresenta l'inno del Glam Rock anni 70, palesando la glorificazione delle nuove generazioni, più ribelli e meno inclini alla morale inglese del dopo guerra. La versione di Dickinson è identica nella struttura, anche se qualche parola viene modificata senza stravolgere il senso del tutto. Come appena accennato, è un omaggio alla generazione di ragazzi con la quale il nostro Bruce è cresciuto, tutti quei bellimbusti stanchi di una società conformista e chiusa e che, per la rima volta, si ribellano esprimendo le proprie opinioni e i propri pensieri. Il tema della canzone è un vero inno generazionale, uno sfogo che tratta di suicidio, di vite strappate a venticinque anni, di crimini giovanili, di masse affascinate dal lato oscuro della vita, dalla musica dei T. Rex (altra grandissima Glam Rock band di quegli anni) e dai dischi dei Beatles e da quelli dei Rolling Stones. In tv i giornalisti parlano di gioventù bruciata, di relitti abbandonati, di delinquenti squattrinati, ma quello che i ragazzi esigono è la libertà di espressione. E di amore. È si, perché anche loro sono in grado di amare, di reagire alle provocazioni dei benpensanti e di costruire un futuro meno impostato e sobrio ma altrettanto dignitoso. Ottima la cover di questa canzone immortale e dalla melodia sublime, il ritornello mantiene la stessa intrinseca magia della versione originale e la parte strumentale si mantiene sulle stesse linee del brano di Bowie. È sempre un piacere ascoltarla. Si prosegue con l'Hard scanzonato e quasi innocuo di "Lickin' The Gun", altra traccia costruita su chitarre taglienti ma che alla fine risulta poco trascinante e che si mantiene a galla, ancora una volta, grazie a un buon testo incentrato sulla corruzione e l'ipocrisia che c'è dietro la politica. Si fa riferimento ad un episodio particolare, quando nel 1969, il cantante fumava con gli amici e tutti si sentivano ribelli, mentre adesso i politici, cresciuti come loro, condannano certi atteggiamenti innocui da parte dei giovani e invece tollerano crimini e comportamenti ben peggiori di questi. In un senso più ampio si condanna la corruzione di una politica egoista, che si cela dietro una morale ipocrita, quando invece fa i fatti propri, concentrandosi solo sui potenti, sottomettendo i deboli e stringendo patti con i criminali, facendo uso della violenza stessa per imporre le leggi. Perciò ancora un brano di protesta per la voce dei Maiden, riuscito dal punto di vista lirico ma scarno dal punto di vista melodico e con un ritornello davvero scialbo. Ci troviamo di fronte a una canzone divertente e poco impegnativa per quanto riguarda il lato sonoro, a mio avviso il punto più basso di un album già di per sé poco esaltante. "Zulu Lulu" prosegue sulla stessa linea, la leggerezza strumentale avvolge anche questo brano dal titolo poco chiaro. In realtà "Zulu Lulu" si riferisce a una prostituta di colore, è inteso quindi in senso dispregiativo. Questa donna è pronta a sedurre e ad accoppiarsi con il cliente come un "latte e caffè" (è proprio in questa parte di testo che si capisce il colore della pelle della femme fatale), cercando di non sprecare il proprio tempo prezioso e facendo tutto di fretta. Insaziabile fino alla fine e, dopo che l'atto carnale, è giunto al termine, lei pretende i soldi per poi accasciarsi sulle ginocchia, a terra, e pregare, quasi fosse un rito magico. Il cliente cerca in qualche modo di parlarle, di indagare sul suo passato, scoprendo che vive con la madre e che a casa l'aspettano due figli piccoli, e addirittura cerca di convertirla a una vita più sana e tranquilla ma lei è in cerca di persone lussuriose (che sono descritte come "fedeli del male") e non di quelle "simpatiche". Poi la prostituta si alza dal pavimento dopo la preghiera, è di nuovo pronta a ricominciare a fare sesso e far vedere al cliente pagante, uno sprazzo di Paradiso. Mente tra le nuvole e cuore infranto per un amore impossibile. La voce di Dickinson abbassa il tiro, cercando di rendersi il più melodico possibile, seguendo una chitarra sommessa e una batteria protagonista di questo ennesimo mid-tempo, questa volta riuscito. Buono il ritornello e la traccia fila via in modo piacevole, trattando di un tema (quello della donna seducente che fa strage di cuori e poco incline ai valori tradizionali) molto diffuso in ambito Sleaze Metal, genere dissacrante e specializzato in liriche sporche e "stradaiole". Chiude il lavoro "No Lies" che parte con una batteria cadenzata e chitarre dal sapore oscuro, così come oscuro è il bellissimo ritornello, uno dei migliori dell'album. Brano Street che ricorda band quali Guns 'n' Roses e L.A. Guns ma che possiede uno spirito Punk in stile Hanoi Rocks, ottimi i cori ripetuti dopo il break centrale di batteria che terminano l'opera nello stesso modo di come è iniziata, ovvero attraverso sfumature cupe e dal retrogusto amaro. Infatti il tema è quello della droga e della prostituzione, ovvero tutto il piacere vietato dalla legge, che si può trovare negli angoli bui delle periferie, dove le insegne rosse al neon dei negozi illuminano fiocamente incroci frequentati da drogati e lussuriosi in cerca di una notte particolare, dove vivere almeno cinque minuti di follia. Anche qui vi è un attacco abbastanza esplicito alla religione, dottrina bugiarda che racconta di un mondo (quello oltre la vita) che non esiste. Niente menzogne, Niente Paradiso, niente angeli, urla Bruce dietro al microfono, narrando di uomini che vogliono perdersi nei meandri più remoti di una città senza legge, dove i portafogli dei papponi e degli spacciatori sono gonfi e dove persino gli uomini di chiesa vanno a scontare i propri peccati, gettando via il "Libro Guida" (la Bibbia) e in cerca di una salvezza immorale. Altro testo ben studiato per un lavoro che, in generale, presenta luci e ombre lungo tutta la sua durata.
"Tattooed Millionaire" di Bruce Dickinson è un album altalenante, propone tracce interessanti e dalla melodia azzeccata ad altre poco riuscite e inconsistenti. Tuttavia bisogna considerare che è il primo disco dell'artista, uscito in un periodo difficile (sia per lui che per gli Iron Maiden) e di transizione un po' per tutti. Infatti gli anni 90 hanno cambiato il modo di fare musica, molte band si sono adattate cambiando stile, alleggerendo il proprio sound oppure puntando su un altro tipo di pubblico. Poco prima di essere affondato dal Grunge, l'Hard Rock (e generi affini) vive proprio in quegli anni il suo apice, solo il 1990 ha visto l'uscita di decine di eccellenti, mi vengono in mente i Ratt di "Detonator", i FireHouse con il debut omonimo, gli Extreme di "Pornoggraffitti", i Killer Dwarfs di "Dirty Weapons", Cinderella di "Heartbreak Station", Winger con "In The Heart Of The Young", Bad Company con "Holy Water", Warrant con "Cherry Pie" e il primo degli Steelheart, e ce ne sono molti altri ancora. Va da sé che un lavoro come "Tattoed Millionaire", di fronte a cotanta grazia, viene spazzato via in un colpo solo, la voce dei Maiden si cimenta in un genere che non gli appartiene e viene sconfitto, e la situazione non cambia molto con i seguenti "Balls To Picasso" (1994) e "Skunkworks" (1996), opere discrete e nulla più, ma si migliora in futuro affilando gli artigli con i più tetri e potenti "Accident Of Birth" (1997) e "The Chemical Wedding" (1998), dove Bruce ritorna verso quei lidi sonori che gli appartengono e sui quali sembra trovarsi più a suo agio.
1) Son of a Gun
2) Tattooed Millionaire
3) Born in '58
4) Hell on Wheels
5) Gypsy Road
6) Dive! Dive! Dive!
7) All the Young Dudes
("Mott The Hoople" cover)
8) Lickin' the Gun
9) Zulu Lulu
10) No Lies